ateatro 125.2
30/01/2010 
BP2010 Identità, differenze, indipendenza
Per le Buone Pratiche del Teatro, 13 febbraio 2010
di Oliviero Ponte di Pino e Mimma Gallina
 

Che cos’è il teatro?

Per noi il teatro è anche un edificio, una casa, spesso di solida pietra. Nella sua essenza è però effimero, si consuma nel qui e ora dell’evento. Perché prima di tutto il teatro sono le opere, gli spettacoli. Sono anche le esperienze che facciamo in teatro, o intorno al teatro. In scena, in platea e non solo: laboratori, workshop, seminari, processi creativi, performance...
Tuttavia in questo magma effimero di incontri c’è qualcosa che dura: la personalità degli artisti e la loro identità creativa, e l’identità delle compagnie e dei festival che rendono possibili quelle opere, quelle esperienze, quegli incontri.
Queste identità permettono di ideare e condurre progetti che si sedimentano nel corso delle stagioni, spettacolo dopo spettacolo, incontro dopo incontro. Consentono di concepire, definire e sviluppare una poetica. Spingono a instaurare un rapporto non occasionale con gli spettatori.
Il teatro è il prodotto e il riflesso di queste identità mutevoli, fragili, in continua evoluzione e tuttavia presenti, percepibili. Identità individuali – gli artisti, le compagnie, i festival... Ma anche identità collettive, che nel loro insieme e nella loro dialettica – oltre che nell’interazione con la società, e in particolare con i poteri pubblici e con il mercato – costituiscono il sistema teatrale.


Il sistema teatrale italiano dagli anni Venti agli anni Novanta

Il sistema teatrale italiano si è evoluto nel corso dei decenni per stratificazioni successive di identità collettive.
In principio c’erano le compagnie private, le “ditte” con il nome dei primattori a caratteri cubitali su cartelloni e locandine. Fino al dopoguerra, il teatro italiano coincideva con le compagnie degli “scavalcamontagne”, lontane discendenti dei comici dell’arte. In questo alveo trovano spazio da sempre esperienze raffinate, nella migliore tradizione del grande attore all’italiana, a volte con una notevole consapevolezza culturale; ma anche produzioni ordinarie per un mercato di serie B; e ancora allestimenti ispirati a una evidente ma mai precisata vocazione commerciale.
Dalle speranze del dopoguerra, nacquero il Piccolo Teatro e sulla scia gli altri teatri stabili: la nuova parola d’ordine era “un teatro d’arte per tutti”. Dunque un teatro che non si rivolgesse solo all’élite del pubblico borghese ma potesse parlare all’intero popolo; che svolgesse le funzioni di un servizio pubblico; e che sul versante estetico abbandonasse le pratiche rozze del capocomicato per i più moderni e raffinati equilibri della regia.
Gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta videro l’emergere delle cooperative e dei gruppi di ricerca. Le prime nacquero con l’obiettivo di rilanciare gli ideali democratici dei teatri stabili, a livello sia di repertorio sia di rapporti all’interno delle compagnie, ma anche per portare il teatro nel territorio (e non solo nelle maggiori città, dove avevano sede gli stabili): fu un importante ampliamento del mercato (o meglio un suo riallargamento, con la riapertura di numerose piazze “abbandonate”). Dopo la metà degli anni Ottanta, ne beneficeranno soprattutto le compagnie private. La ricerca lavora invece, sulla scia delle avanguardie artistiche del Novecento, soprattutto sull’elaborazione e sulla pratica dei nuovi linguaggi, oltre che per intercettare le esigenze e i gusti di un pubblico che non è più “popolo” ma si è frammentato in base a gusti, curiosità, atteggiamenti, aspirazioni, generazioni...
Seguirà, negli anni successivi, l’affermazione – anche a livello di circolari ministeriali – di altre realtà, come le compagnie e i centri che operano nel settore del teatro ragazzi; e gli stabili privati e i centri di ricerca che, al di là dell’attività di produzione, riconoscono il valore della gestione e della programmazione di uno spazio teatrale e del servizio al territorio. Nel caso degli stabili privati, si sono privilegiati nuclei artistici e organizzativi indipendenti e strutturati, in grado di gestire una sala teatrale che interagisce con il territorio; nel secondo, l’obiettivo era quello di creare una rete produttiva e distributiva (insomma, gli spazi e un mercato) per i gruppi attivi nella ricerca.
In parallelo, nel corso dei decenni si è sviluppata anche la rete dei festival, ciascuno con la propria storia, la propria tradizione, la propria identità: le grandi manifestazioni, come la Biennale di Venezia; e quelle più piccole, come Santarcangelo.


Diverse motivazioni, diverse funzioni

Le realtà che costituiscono oggi il nostro teatro sono nate e si sono affermate in precise circostanze storiche e, fino agli anni Ottanta, sulla scia di forti motivazioni estetiche e ideali. La loro evoluzione si è intrecciata con i cambiamenti di ordine storico e politico che hanno investito l’intera società. L’invenzione degli stabili è resa possibile dal crollo del regime fascista e dalla nascita dell’Italia democratica. Cooperative e gruppi di ricerca nascono sull’onda dell’accelerata modernizzazione della società italiana e dei movimenti democratico-egualitari degli anni Sessanta. La maggiore attenzione al mercato e alla distribuzione, la necessità di razionalizzare un sistema cresciuto in maniera disorganica, con una costante prevalenza dell’offerta sulla domanda, ha ispirato la riorganizzazione degli anni Ottanta. Deve essere ricondotta nell’ambito del teatro pubblico anche una funzione chiave come la distribuzione e la programmazione dei teatri di proprietà degli enti locali (soprattutto i Comuni).
Queste diverse identità riflettono anche – almeno in origine – una diversità di funzioni, all’interno di un sistema che si è fatto via via più ricco e articolato, passando (almeno in teoria) dal puro intrattenimento per il pubblico borghese a un impegno civile che voleva coinvolgere l’intero corpo sociale, dalla vocazione pedagogica (sia nei confronti del pubblico sia per formare nuove generazoni di quadri artisti e tecnici) alla ricerca di nuovi linguaggi, dalla stabilità e dal radicamento nel territorio al decentramento e alla circuitazione, dalla salvaguardia della tradizione alla continua ridefinizione del canone... Per non parlare del diverso atteggiamento nel confronti dello spettatore: per rivolgersi ora al pubblico borghese, ora al “popolo”, ora ai bambini e ai ragazzi, ora a una audience para-televisiva, ora a uno dei mille target giovanili...
Anche il meccanismo delle sovvenzioni, inizialmente erogate soprattutto a livello centrale (Ministero o Presidenza del Consiglio), ha visto crescere l’apporto delle Regioni e degli enti locali. La tendenza, innescata agli inizi degli anni Settanta dalla nascita delle Regioni e dal protagonismo degli assessori alla cultura, ha in parte compensato la riduzione del FUS; ma competenze e funzioni dei diversi livelli non sono mai state definite e praticate con chiarezza e uniformità a livello nazionale (vedi le enormi disguaglianze tra Nord e Sud). Così come non ha contribuito alla chiarezza del sistema l’ETI, malgrado le successive riforme dell’ente.


Identità forti, identità deboli

Nel corso dei decenni, in assenza di una legge che inquadri il settore, il teatro italiano è stato retto prima da circolari e poi da decreti emanati annualmente dal ministero (fatta eccezione per un breve priodo di progettazine triennale, nell’era Veltroni-Melandri), in base anche alle contingenze politiche del momento. E’ una regolazione essenzialmente politico-burocratica e tuttavia flessibile, tanto è vero che – almeno fino all’inizio degli anni Novanta – ha saputo intercettare e regolamentare le successive ondate del teatro italiano, recependo forme organizzative e modi di produzione originali. Oggi gli ultimi decreti faticano a fotografare la realtà (vedi il caso delle residenze, dell’evoluzione dei festival, dello sviluppo dell’attività internazionale...) e tendono a uniformare le funzioni dei diversi soggetti. Ed è in costante crescita la quota di attività teatrali che non è riconosciuta e sostenuta dallo Stato e cerca le risorse necessarie da enti locali, fondazioni bancarie (uno dei rari elementi positivi dell’utimo decennio), sponsor, attività internazionali, oppure con forme più o meno creative di autofinanziamento. (Una ulteriore conseguenza della riduzione del sostegno pubblico allo spettacolo è l’aumento del prezzo medio del biglietto sueriore al tasso d’inflazione che si rileva in questi anni).
Tuttavia è anche vero che le identità “forti” dei diversi segmenti del sistema teatrale italiano, così come molte altre identità all’interno del corpo sociale, si sono progressivamente indebolite. Vedendo certi spettacoli, è diventato difficile capire se sono stati prodotti da uno stabile o da una compagnia privata, da uno stabile privato o da un gruppo di ricerca. Molti registi e attori nati e cresciuto nell’ambito della sperimentazione operano da tempo nel teatro privato e negli stabili; e a volte sono approdati a funzioni direttive, anche se tardivamente. Viceversa attori riconosciuti come star del teatro privato possono compiere escursioni nell’ambito della ricerca o si convertono al teatro pubblico.
Per certi aspetti questa può essere un’evoluzione positiva: rompe i ghetti rigidamente compartimentati in cui pareva strutturato il nostro teatro. Da un altro punto di vista questa indistinguibilità e interscambiabilità rischia però di appiattire lo scenario, di sospingere verso una medietà (o meglio mediocrità) politicamente corretta (o meglio inoffensiva). A volte, questa indifferenza alle tipicità porta addirittura ad accuse di concorrenza sleale: alcune compagnie private hanno sentito la necessità di rivolgersi all’antitrust, mettendo sotto accusa il teatro pubblico per i privilegi di cui godrebbe.
In direzione opposta, questa evoluzione ha spinto alcune realtà ad assumere funzioni di supplenza. Ecco uno stabile che pare invadere il terreno dell’intrattenimento, offrendo ricchi cachet alle star (o presunte tali) della nostra scena. Ecco un gruppo di ricerca che cerca di farsi carico della continuità della tradizione e del repertorio teatrale, spingendosi su quello che avrebbe dovuto essere il terreno privilegiato d’attività degli stabili. Ecco un festival che, nella scarsità di risorse, si propone come centro di produzione.
A partire dagli anni Ottanta, complice l’enfasi di molti (compresi alcuni ministri dello Spettacolo) sulle virtù del mercato, nel nostro sistema teatrale si è assistito a un crescente intreccio di pubblico e privato, in cui le specificità delle diverse funzioni si sono fatte sempre meno chiare. Per esempio, nell’area pubblica la distribuzione (compresa la programmazione di molti teatri comunali) favorisce sempre più spesso prodotti a forte vocazione commerciale, più funzionali alla creazione del consenso – ma inducendo notevoli equivoci sui criteri di utilizzazione delle risorse (agli incassi già alti degli spettacoli si sommano spesso contributi pubblici) e sulla formazione del pubblico.
In assenza di forti spinte interne al settore, l’impressione è quella di una navigazione a vista: il tentativo di gestire l’esistente – con le sue posizioni di rendita – all’interno di una generale scarsità di risorse, di periodici attacchi al servizio pubblico (che non riguardano ovviamente soltanto lo spettacolo) alternati a periodici tentativi di riaffermare il ruolo chiave della cultura (e dunque anche dell’istruzione, dell’informazione e dei mass media, della ricerca, delle reti di comunicazione) per lo sviluppo del paese.


Il sostegno pubblico al teatro: breve storia delle sovvenzioni

In questi processi ha inciso e sta incidendo anche l’evoluzione del quadro politico e istituzionale, che determina gli obiettivi e le modalità del sostegno pubblico allo spettacolo. In Italia, le prime sovvenzioni allo spettacolo – dopo diversi tentativi, nell’arco di un secolo, di creare un teatro nazionale sostenuto dalla Stato, inesorabilmente falliti – sono arrivate di fatto con il fascismo: da un lato si trattava di fronteggiare l’emergenza di un intero settore economico, messo sotto scacco dall’avvento del cinema; dall’altro il regime ha colto l’opportunità per iniziare a esercitare un controllo politico delle scene, articolandolo anche sul versante dell’accurata erogazione del sostegno pubblico, oltre che sul versante della censura (preventiva su copioni e poi attraverso la visione degli spettacoli).
Il sostegno pubblico alle compagnie private data dunque dai primi anni Venti del Novecento, a sostegno dell’“industria teatrale in crisi”. Nel nostro paese il teatro pubblico vero e proprio nasce invece nel secondo dopoguerra, con la fondazione del Piccolo Teatro, fortemente sostenuta dal primo sindaco di Milano dopo la Liberazione, Antonio Greppi. Con questa scelta, i poteri pubblici – non solo lo Stato – non si limitano più a sostenere l’esistente: assumono un ruolo progettuale e propulsivo; il teatro diventa una delle componenti necessarie dell’idea stessa di città; sul palcoscenico, e intorno al teatro e ai suoi spettacoli, la comunità mette in scena e fa emergere i conflitti e le contraddizioni che la attraversano, in termini politici ma anche più generalmente umani: esemplari in questo senso le polemiche intorno alla messinscena del Galileo di Brecht da parte di Strehler nel 1963.
Con lo stabilizzarsi della Prima Repubblica, gestita secondo i principi del proporzionale, il teatro italiano – a cominciare dagli stabili, governati da consigli di amministrazione di nomina politica e dunque soggetti alle regole della “lottizzazione” tra i diversi partiti e coerenti – si trova a dover cercare il sostegno pubblico destreggiandosi tra maggioranza e minoranza, e spesso anche tra le differenti maggioranze e minoranze di Comune, Provincia, Regione e governo centrale.
Si cercano forze politiche di riferimento (ma anche esponenti politici e funzionari “amici”, spesso animati da un autentico amore per il teatro e per la cultura), si stabiliscono – a volte – rapporti clientelari. Tuttavia l’obiettivo – più che una passiva affiliazione a questa o quella forza politica – è un equilibrio che permetta di conciliare la progettualità della compagnia con le esigenze dei diversi possibili referenti istituzionali e politici: insomma, chi può mettere a disposizione del teatro, della compagnia o del festival le risorse necessarie alla sua sopravvivenza economica.


Da una cultura proporzionale a una cultura maggioritaria?

All’inizio degli anni Novanta, con il tormentato passaggio verso un sistema di tipo maggioritario, ovvero con l’eterna transizione verso la Seconda Repubblica, lo scenario cambia: in un modello di questo genere, in linea di principio, “chi vince prende tutto”: alla lottizzazione tende a sostituirsi un radicale spoil system. E’ un meccanismo che può portare – in linea teorica –a una maggiore indipendenza e autonomia delle realtà artistiche, in un quadro di rispetto della reciproca autonomia; oppure, al contrario, a un totale asservimento della cultura alle logiche della politica e della propaganda (o magari della semplice ripicca politica, sulla base del principio che “gli amici dei miei nemici sono miei nemici”). Lo scenario è reso ancora più complesso dall’evoluzione in senso federalista dell’organizzazione dello Stato, con i suoi aspetti positivi (maggiore vicinanza dei cittadini alle istituzioni) e le sue contraddizioni (dagli squilibri territoriali nell’organizzazione e nei consumi culturali alla scarsa chiarezza nell’attribuzione delle competenze tra i vari enti). L’effetto più probabile è una diffusa e morbida autocensura, che evita di sollevare temi politicamente scomodi o potenzialmente irritanti per i politici - ma interessanti e stimolanti per il pubblico e per la polis.
Sono ambiguità inevitabili, anche perché sono sempre meno chiare le funzioni dei diversi segmenti del nostro sistema teatrale, e soprattutto le regole che devono governare il teatro pubblico. Ai vizi storici (lottizzazione, politicizzazione, sprechi, scambi, mancato ricambio generazionale...), se ne sono aggiunti o sostituiti altri.
Entra in gioco un ulteriore elemento: i mutati equilibri tra la direzione del teatro e il suo consiglio di amministrazione. Da un lato sempre più spesso i presidenti (e a volte anche gli altri membri del cda) travalicano il ruolo di indirizzo, corretta gestione e controllo dell’istituzione, per intervenire direttamente nella progettualità e nella programmazione del teatro, magari per sopperire alle carenze di una direzione che non riesce a esprimere un indirizzo culturale abbastanza forte e autonomo; intile aggiungere che l’interventismo del cda crea un’immediata confusione di ruoli tra controllori e controllati: ecco, tanto per fare un esempio, drammaturghi (o traduttori) approvare e finanziare la messinscena di un loro testo (o di una loro traduzione) da parte del teatro di cui sono amministratori.
In questi mutevoli scenari, per qualunque realtà, per qualunque creatore, mantenere la propria identità e indipendenza, perseguire il proprio progetto culturale e artistico, sviluppare la propria poetica, costruire un rapporto autentico con il pubblico, stabilire un rapporto corretto con i poteri pubblici nelle loro vari articolazioni, è un esercizio complesso e difficile, al centro di mille spinte, tensioni, conflitti...


Perché l’identità dei teatri non è solo un problema dei teatri

Perdendo la consapevolezza della propria identità – e dunque della propria diversità – il teatro rischia di perdere il proprio ruolo all’interno della città, della polis, perché finisce per restare indifferente alle sue tensioni, contraddizioni, conflitti.
Il teatro italiano ha uno straordinario patrimonio di identità, costruite a partire dalle proprie radici, dalle proprie esigenze, dalle proprie esperienze, ma anche arricchite dal confronto con altre identità: quelle degli altri artisti, e soprattutto quelle presenti e stratificate nel corpo sociale.
A volere osservare il teatro italiano come specchio – e spesso specchio anticipatore – dei vizi e delle virtù dell’intera società. questo appannamento delle identità, questa omologazione di fondo verso un “livello medio” accettabile da tutti pare sintomo, se non di un disagio, almeno di un stallo, di una situazione storica in cui, a dispetto di tensioni politiche in apparenza infiammate, le dinamiche sociale si sono inceppate – o sono diventate invisibili, sotterranee. Neppure il palcoscenico riesce a farle emergere.
Eppure in questi anni si sta combattendo in Italia una guerra culturale assai aspra, su vari fronti. Resa ancora più dura perché si tagliano i fondi a sostegno della cultura – o meglio, per sostenere la cultura “alta”, di cui il teatro è parte. In questa guerra, il teatro deve riuscire a difendere il proprio ruolo, deve far sentire la propria voce. Deve salvaguardare la propria identità rispetto ai mass media, senza ridursi a un ruolo ancillare. Al tempo stesso deve aprirsi alle possibilità di ibridazione con i nuovi media e le nuove forme di interazione sociale: rinserrarsi nel proprio specifico come se nulla stesse accadendo è sintomo di debolezza, non di forza.


Alcune domande, per cominciare

Negli scorsi anni pareva diventato evidente che non si potesse più parlare di un unico teatro, in grado di comprendere nel proprio ambito, all’interno di un’unica definizione, tutte le diverse pratiche teatrali.
Si parlava piuttosto di tanti teatri possibili, ciascuno orgoglioso della propria specificità e identità, ciascuno in grado di allargare e ridisegnare i confini di una definizione troppo rigida.
Oggi, in una fase in cui pare dominare un gusto conservatore e c’è spazio sempre più scarso per il rischio (tanto estetico quanto economico), lo scenario tende all’omologazione, all’uniformità di linguaggi e contenuti. O per lo meno al ricorso a generi e tipologie facilmente riconoscibili e identificabili – e dunque vendibili. Lo stesso quadro legislativo, almeno nelle ipotesi di legge finora ventilate, sembra andare in una direzione analoga: attutisce diversità e specificità di tradizione e di funzioni.
Ma allora che cosa è oggi l’identità per un teatro stabile, per una compagnia privata, per un gruppo di ricerca, per un festival? E’ solo la convergenza di un gruppo di professionisti dello spettacolo, raccolti per un periodo più o meno lungo intorno a un progetto comune? (e poi, dopo l’ultima replica, liberi tutti...)
In un’epoca dove non a caso trionfano il monologo e il talent show, l’unica identità da difendere – l’unica identità che è possibile difendere – è quella personale, che promette di coniugare coerenza e massima visibilità?

Forse è giunto il momento di fare il punto sull’identità e sulla funzione dei vari segmenti del nostro sistema teatrale. Il punto di partenza dovrebbe essere naturalmente il teatro pubblico, che ne è stato per mezzo secolo la spina dorsale – mentre ora l’espressione pare addirittura scomparso dal progetto di legge Carlucci.

# Ma in che senso possiamo continuare a parlare di teatro pubblico? E’ ancora necessario? E se sì, quali dovrebbero essere le sue funzioni? Il fatidico ma generico “teatro d’arte per tutti”? La semplice difesa e salvaguardia di una tradizione – come tendono a fare i teatri lirici italiani? Una vetrina di eccellenze, in un’arte fondamentale negli equilibri culturali e civili, ma ormai emarginata dai mass media egemoni? O forse il teatro publico può e deve farsi carico oggi di altri impegni, di altre funzioni?

# Nel campo della distribuzione, circuitazione e programmazione, che interessa circuiti, teatri, enti locali in genere, quale può e deve essere la funzione di un autentico servizio pubblico? Molti assessori e funzionari comunali si fanno ormai carico della programmazione del teatro o delle attività spettacolari del loro comune. Ma quanto l’attività culturale di un ente pubblico risponde ai criteri dell’audience e del facile consenso, ricorrendo alle star televisive e ai loro agenti? E quanto è frutto di un reale progetto culturale?

# Anche i festival e le sale teatrali, se non hanno una precisa identità, rischiano di ridursi a puri contenitori, simili ai mille “non luoghi” che punteggiano la nostra modernità (e la nostra vita quotidiana).

# Che ne è, sulle scene italiane, della funzione dell’intrattenimento, tipica dell’impresariato privato? Negli scorsi decenni il teatro privato è rimasto schiacciato dalle esigenze culturali riversate sul teatro e dal ricatto dell’impegno (ma anche dalle incursioni di alcuni stabili sul terreno dello spettacolo leggero). Così oggi il teatro commerciale rischia di rimanere terreno di caccia delle multinazionali dell’intrattenimento. Non è forse giunto il momento di chiarire la legittima funzione dello spettacolo commerciale, restituendo al teatro privato di qualità la funzione storica che ha sempre assolto e che assolve nelle grandi capitali internazionali?

# Quale può essere l’identità di quelle realtà – così numerose nel nostro paese – che hanno una struttura societaria privata (eventualmente anche in forma cooperativa) ma svolgono sostanzialmente una funzione pubblica (e dunque ricevono contributi pubblici a volte assai sostanziosi)? Quale deve essere il corretto rapporto tra l’autonomia progettuale, culturale e gestioniale di queste compagnie (e gruppi, teatri, centri...) e i controlli indispensabili a una corretta gestione del denaro dei contribuenti? Ovviamente a giustificare il sostegno pubblico non sono sufficienti i rapporti di fiducia con questa o quella amministrazione, con questo o quell’uomo politico, e neppure le rendite di posizione...

# Nel generale rimescolamento di linguaggi e tradizioni, nella progressiva frammentazione e riaggregazione del pubblico, nell’ampliamento di esperienze che ha segnato gli ultimi decenni di storia del teatro, ha ancora senso parlare di ricerca e sperimentazione?

# Per quanto riguarda le residenze (nelle innumerevoli modalità che questa forma ha recentemente assunto), quale può essere l’equilibrio tra la realtà che offre ospitalità (nelle sue diverse valenze territoriali, politiche, artistiche, progettuali) e la realtà “in residenza”? Qual è la logica e la necessità profonda di questo “patto tra identità”? Quali possono essere le consegenze di questa ibridazione?

# E, tornando alle funzioni “di base” dei diversi segmenti del nostro sistema teatrale, a chi tocca farsi carico dell’indispensabile ricambio generazionale, sulla scena e in platea?


Per un teatro indipendente

Forse vale la pena di riflettere, anche in Italia, sulla nozione di “teatro indipendente”. In altri paes è considerato un settore che si distingue sia dal teatro commerciale (che non riceve in genere alcun sostegno pubblico, ma vive esclusivamente dei proventi del botteghino) sia dal teatro pubblico (una rete solitamente definita e strutturata con criteri e mansionari più rigorosi rispetto all’Italia, e spesso dotata di un più adeguato sostegno finanziario).
Prima di tutto, un teatro indipendente persegue il proprio progetto culturale e artistico, a prescindere dai “poteri forti” (politici, economici, mediatici) ma anche senza cercare il consenso a tutti i costi (senza inseguire i gusti del pubblico a qualunque costo). Un teatro indipendente può sostenersi grazie agli incassi (e dunque non rinuncia al successo pur sapendo che il successo non esaurisce la sua missione). Ma un teatro indipendente non rifiuta necessariamente il rapporto con le istituzioni: anzi, spesso gode di finanziamenti pubblici – ma tendenzialmente legati a progetti precisi. Tuttavia per sopravvivere e lavorare non fa affidamento in maniera determinante al sostegno pubblico: è solo un dettaglio, ma evidenzia che sullo sfondo c’è il delicato problema del rapporto tra gli artisti e i poteri pubblici che li sostengono, e tra gli artisti e il mercato.
Più che una forma organizativa, dunque, l’indipendenza è un atteggiamento, una cornice nella quale si inserisce il rapporto del teatro o della compagnia con il potere politico da un lato e con il mercato (cioè il pubblico, e in parte anche i media) dall’altro. Questo rapporto può essere gestito in maniera più o meno rigida, e naturalmente prevede compromessi e mediazioni: a garantire la forza e la dignità di un percorso artistico può essere però solo una autonomia culturale, politica, estetica che affonda le sue radici in un’identità e in obiettivi consapevoli.

Chiaramente l’eccesso di identità – o la strenua difesa della propria specificità – può ispirare un atteggiamento di chiusura che porta in breve tempo alla sterilità. Il teatro è anche contaminazione e meticciato: e si nutre di questo, da sempre.
Tuttavia la genericità – soprattutto se trasparenza e controlli sono scarsi, e scatta la tendenza all’inciucio – implica una ampia discrezionalità: negli ultimi anni, solo per fare un paio di esempi, la gestione di Arcus spa e dei Fondi del Patto stato-regioni ha lasciato ampiamente a desiderare, per non citare ancora una volta gli ampi margini discrezionali delle scelte del Ministero.
Ma allora, su quali basi si può impostare un rapporto corretto fra il teatro e i poteri pubblici? Quali devono essere i patti (chiari), le regole certe che assicurino un mandato chiaro e risultati verificabili al potere pubblico, e libertà e autonomia agli artisti?
Naturalmente il sostegno pubblico al teatro (e in genere alla cultura) non è in contraddizione con l’indipendenza degli artisti. Anzi, in un sistema democratico dove vigono funzioni precise, regole chiare e trasparenti, controlli e verifiche da parte di autorità indipendenti, può e deve favorirla.
Perché l’indipendenza è una qualità che deve attraversare l’intero teatro – o, se si preferisce – tutti i diversi teatri possibili.
L’indipendenza non può essere assicurata dall’esterno – non può regalarcela nemmeno il regolatore meglio disposto e più democratico. L’indipendenza deve essere percepita come una qualità e un valore dalle singole realtà che operano all’interno del sistema, e di conseguenza dal sistema del suo complesso.
E’ un equilibrio difficile e fragile, e tuttavia nel teatro italiano numerose realtà sono riuscite a salvaguardarlo, e a lungo, come un bene prezioso e indispensabile. Per molti teatranti, la ricerca di questo equilbrio è stata occasione di riflessione e di crescita, e ha sedimento un ricco patrimonio di esperienze.
Proprio di queste “buone pratiche dell’identità e dell’indipendenza” vorremmo parlare nella prossima edizione delle Buone Pratiche del Teatro.


 
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