ateatro 55.1 L'editoriale La fine della cultura come servizio pubblico di Redazione ateatro
Siamo (quasi) tutti cresciuti in un’epoca in cui la cultura veniva considerata un bene pubblico, in base a quanto recita l’articolo 9 della Costituzione (tuttora in vigore, e adottato da "ateatro"). Dunque, si ragionava, se la cultura è un bene pubblico, essa deve anche essere un servizio pubblico, di cui l’intera collettività deve poter usufruire, indipendentemente dalle condizioni economiche e dalle situazioni geografiche. Questa convinzione animava, alla fine, anche una vocazione e una pratica pedagogiche. Intorno a questo sentire si sono strutturate alcune importanti istituzioni: dal sistema scolastico alla rete dei musei e delle biblioteche, dalle varie normative a sostegno del cinema alla Rai degli anni Cinquanta e Sessanta. E, in campo teatrale, nel dopoguerra, il Piccolo Teatro e gli altri stabili, e in generale il meccanismo delle sovvenzioni ai teatri lirici e di prosa, e poi i circuiti teatrali, nati all’insegna del decentramento.
Quello a cui stiamo assistendo in questi anni è l’erosione del concetto di cultura come bene collettivo e patrimonio comune e dunque come servizio pubblico. In questi decenni l’enfasi si è spostata dal collettivo, dalla società nelle sue varie articolazioni, all’individuo consumatore. Il "nazional-popolare" è stato soppiantato da un lato dal pubblico generalista, dall’altro da nicchie, da frammenti diversificati per interessi (e mercato). A ruoli sociali precisi e immediatamente identificabili si è sostituita un’identità frammentata e mobile, in cui la scelta individuale ha un ruolo significativo. Il benessere economico e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e della scolarizzazione hanno messo in secondo piano la necessità di facilitare l’accesso alla cultura delle fasce più disagiate.
L’enfasi sull’economia porta a considerare i beni culturali un patrimonio finanziario (vedi la recente impostazione del ministro Tremonti), una risorsa (in primo luogo turistica e di marketing), un’opportunità di consumo (in competizione con mille altre, ma in costante ascesa con l’allargarsi del tempo libero), uno strumento per costruire la propria personale identità (attraverso un meccanismo di scelta), un’opportunità occupazionale (con il proliferare di corsi di laurea, master e quant’altro). Insomma, anche la cultura sembra entrata a pieno titolo nel mercato. Anche se poi un’impresa culturale (se vogliamo adottare questa nomenclatura) non può ridursi a essere solo questo: senza una autonoma progettualità si autodistrugge.
In questo scenario non sorprende che le risorse pubbliche per la cultura e per il teatro tendano a diminuire drammaticamente (in valore reale) e a concentrarsi sulle istituzioni maggiori, le più note e costose (e progressivamente sempre più costose). Così la lotta per le scarse risorse si fa sempre più feroce, la spartizione tra gruppi di potere sempre più soffocante.
Per produrre uno spettacolo è ormai necessaria un’opera di faticosa raccolta di finanziatori. Accade ai livelli più vari: accade al Piccolo Teatro, che da solo (pare) non ha più le risorse per produrre gli spettacoli di Luca Ronconi e si affratella dunque a altre realtà ricche di mezzi finanziari; accade a giovani gruppi come Motus e Fanny & Alexander, che raccolgono co-produzioni dai festival di mezza Europa; accade ai "teatri della memoria" che si costruiscono attraverso percorsi laboratoriali radicati nel territorio e a contatto con le sue istituzioni (vedi i casi esemplari di Ascanio Celestini o di Armamaxa). Ovviamente sono percorsi produttivi che rischiano di imporre una serie di mediazioni e alla lunga di limitare l’autonomia del percorso artistico.
Insieme, diventa sempre più difficile difendere i pochi spazi ancora "aperti" (le poche isole felici, che poi tanto felici non sono, e si rivelano ogni giorno più precarie). E diventa un’impresa immaginare, sostenere e animare progetti di ampio respiro.
Non mancano, in questa penuria di denari e di idee, ripicche e piccole vendette, che possono avere conseguenze disastrose: perché se si rompono i fragili equilibri che sostengono l’economia e gli equilibri politici delle rare istituzioni aperte al nuovo, il risultato può essere solo quello di una deriva conservatrice.
Certo, lobby, combriccole e clientelismi sono sempre esistiti: ma quando si perde l’orizzonte del bene collettivo e restano solo i meccanismi di potere, quando si perde il senso delle battaglie culturali in corso a favore di una indistinta marmellata in cui tutto si equivale (o si riduce a livello di gusto personale), il sistema è destinato a degenerare rapidamente. Quello a cui stiamo assistendo è proprio questo: la degenerazione sempre più rapida del sistema teatrale, il suo saccheggio da parte di gruppi di potere sempre più affamati (in un quadro di risorse decrescenti) e dunque più feroci, e qualche irresponsabile regolamento di conti.
Di questa degenerazione è complice anche la sinistra, che spesso si arrocca su antichi privilegi e non è ancora riuscita a immaginare nuovi assetti di sistema.
Così si assiste a un progressivo spostamento dell’attenzione. Le stagioni invernali paiono sempre più asfittiche, non presentano quasi più alcun margine di rischio. Invece d’estate (testimone anche l’affollatissimo forum di "ateatro" dedicato ai Festival) proliferano festival, rassegne e manifestazioni. E’ un moltiplicarsi di iniziative molto spesso minime, disseminate sul territorio, complice qualche assessorato, che tendono a portare il teatro fuori dal teatro, a costruire l’evento - magari su scala «mini». Non a caso anche in questo settore però sono in crisi finanziaria e di identità le istituzioni maggiori, più consolidate e prestigiose, mentre pullulano le iniziative dal basso, speso con un ampio margine di rischio creativo). E’ uno spostamento dal tempo del lavoro e della polis (della politica) a quello dello svago, del nomadismo, della scelta. Dalla rappresentazione di sé (e dei conflitti nei quali siamo coinvolti) si passa alla costruzione di sé - attraverso affinità elettive ed esperienze che ci plasmano.
E’ in questo teatro in mutazione, attraversato da battaglie estetiche e politiche, che si muove questa webzine, cercando di gonfiare le vele a ogni refolo di vento, tenendo fissa la barra del timone. Così ateatro 55, che doveva essere uno svelto numero estivo, si è via via arricchito di materiali, interventi, suggestioni.
Per cominciare, un grazie di cuore a Concetta D’Angelis, alla quale dobbiamo uno «speciale Moscato» con un saggio sulla «poetica dell’ossimoro» e un’ampia intervista all’autore-attore napoletano.
Per chi ama il dibattito, c’è il verbale sull’incontro del 12 luglio a Santarcangelo, con un appuntamento a fine anno a Castiglioncello per un nuovo round Nuovo teatro vecchie istituzioni (ma intanto gustatevi anche i forum, dove si discute degli intermittens du spectacle che hanno fatto saltare la stagione dei festival in Francia e della crisi dell’ETI).
Alessandro Romano segue Rodrigo García mentre allestisce a Firenze per Intercity la Historia de Ronald el payaso de McDonald.
Anna Maria Monteverdi scatta una fotografia-intervista al Cada Die Teatro.
Siamo ovviamente andati a vedere alcuni degli spettacoli che animano questa estate dei festival: Cinema cielo di Danio Manfredini, In fondo a destra di Baldini-Tiezzi-Castiglioni, Braccianti di Armamaxa, Apparizioni ovvero il ciclo degli Atridi secondo Alfonso Santagata, Ada di Fanny & Alexander, Imparare è anche bruciare del Teatro della Valdoca (e altre recensioni seguiranno).
Sono molti i pezzi in cui si discute delle forme della rappresentazione, ma Flicker degli americani Big Art Group aiuta a mettere a fuoco alcuni interessanti snodi teorici.
Su tnm Tatiana Bazzichelli parla di net.art, Anna Maria Monteverdi dell’incontro delle telestreet e di teleracconto. Infine c’è la presentazione di una nuova soap teatrale...
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