ateatro 14.5 Perché gli Shakespeare di Nekrosius mi piacciono così tanto Note sulla regia di Oliviero Ponte di Pino
Questo testo è
stato scritto per Ravenna Festival, dove Nekrosius porterà il suo
Otello.
Per spiegarvelo però devo
prenderla alla lontana, e raccontare un po’ di storia del teatro del Novecento
(non preoccupatevi, sarà un riassunto molto schematico, di quelli
che i professori si mettono le mani nei capelli a causa delle semplificazioni
e delle scorciatoie da bigino).
Perché ci sono molti modi
per portare sulle scene un qualunque testo teatrale (altrimenti come potrei
decidere che un modo – uno spettacolo – mi piace più di un altro?).
E dunque esiste una storia dei diversi modi di farlo, che val la pena di
schematizzare.
Nell’Ottocento (e in tutta la prima
metà del Novecento), il teatro di tradizione, il glorioso teatro
all’italiana, ruotava intorno a una serie di ruoli codificati all’interno
della compagnia: primattore, primattrice, giovane amoroso, giovane amorosa,
eccetera. Portare in scena un testo significava in primo luogo assegnare
le parti del copione ai differenti ruoli. Era una scelta in qualche modo
«funzionale». Presupponeva testi adatti a quella distribuzione
di ruoli.
Nell’equilibrio della compagnia
il primattore-capocomico poteva avere un peso più o meno grande.
In ogni caso il «mattatore» poteva adattare in maniera radicale
il testo, in base alle esigenze e alle potenzialità della sua performance:
spesso il copione veniva usato come trampolino di lancio per i pezzi di
bravura, quelli che il pubblico apprezzava di più. La messinscena
dello spettacolo diventava così un corpo a corpo tra il primattore
e il suo personaggio (da scavare all’interno del testo, lasciando tutto
il resto in secondo piano), e poi un corpo a corpo tra il grande attore
e il suo pubblico: si innescava così un processo di proiezione e
identificazione tra lo spettatore e l’eroe-attore. Nel caso di Shakespeare,
tra parentesi, questo meccanismo poneva notevoli problemi. Perché
agli spettatori borghesi e benpensanti dell’epoca i protagonisti delle
sue tragedie apparivano personalità abnormi, le loro motivazioni,
e quelle azioni sanguinarie, risultavano «esagerate», addirittura
patologiche. Dunque alcuni attori facevano ricorso a una psicologia di
stampo positivista per interpretare e riprodurre le emozioni e la gestualità
«criminali» di un Otello o di un Macbeth.
Ai primi del Novecento l’atteggiamento
nei confronti dei testi – a cominciare da quelli di Shakespeare – e dello
spettacolo teatrale ha iniziato a cambiare. Da un lato si è affermata
la necessità «filologica» di una maggiore aderenza al
testo, contrapposta alla libertà d’approccio degli attori e alle
concessioni al gusto dell’epoca. Per secoli, prima che Shakespeare diventasse
indiscutibile, il Lear veniva rappresentato con un lieto fine, perché
la doppia morte del re e di Cordelia risultava insopportabile alla sensibilità
di interpreti e pubblico. Parallelamente, a contrastare l’egemonia dell’attore,
si è via via imposta la figura del regista (in Italia nel secondo
dopoguerra grazie soprattutto a Giorgio Strehler e Luchino Visconti), con
l’obiettivo di mantenere la fedeltà al testo e di armonizzare le
diverse componenti dello spettacolo (recitazione, costumi, scenografia,
musiche...), privilegiando rispetto alle convenzioni e ai codici ereditati
dalla tradizione la costruzione di un insieme armonico di elementi, in
un’ottica industriale di divisione del lavoro.
Questo atteggiamento ha un presupposto
implicito: un testo teatrale (qualunque testo, per la verità) è
dotato di un significato che una lettura attenta è in grado di cogliere
– utilizzando il buon senso e gli strumenti della filologia.
In base a questo «principio
d’autorità» (o di trascendenza), diventa possibile trasmettere
il significato del testo (l’unico) dall’autore al regista (il perno centrale,
fulcro e garante dell’autore e delle sue intenzioni). E poi, attraverso
lo spettacolo (e gli attori), trasmetterlo al pubblico. Insomma, colto
il senso complessivo dell’opera e la sua articolazione nei suoi diversi
snodi, il regista – che diventa insieme un «lettore ideale»
– deve farsi interprete e garante delle intenzioni dell’autore e di accordare
a esse tutti i diversi elementi che concorrono all’evento teatrale. In
quest’ottica, il regista elimina ogni rumore di fondo e ogni distrazione:
tutti gli elementi di cui è composto lo spettacolo (parole, suoni,
musica, gesti e colori) devono concorrere a trasmettere il significato
stabilito dal regista.
In altri termini, il compito di
quest’ultimo consiste nel trasformare l’interpretazione in visione (e in
ideologia). Nel tradurre il testo in un mondo coerente di segni. La scoperta
della possibilità di costruire un universo parallelo è inebriante:
perché può fare esplodere la gioia della scoperta delle potenzialità
del gioco teatrale e della macchina barocca dell’illusione: ecco esplodere
il piacere e il fasto del teatro nel teatro e l’insistenza sul teatro come
metafora del mondo.
Questo ottimismo è stato
però successivamente incrinato da altre e più complesse modalità
di lettura della realtà, della ricostruzione delle mentalità
e dell’interpretazione dei testi che la critica letteraria impara ben presto
a conoscere. Le radici di questa incrinatura e di questi approcci più
«sospettosi» si trovano in Marx (nel concetto di «falsa
coscienza» e nell’analisi dell’ideologia), in Nietzsche (e nella
sua critica del concetto di verità), in Freud (con la scoperta dell’inconscio),
nello strutturalismo (con la rivelazione che nel linguaggio e nei rapporti
sociali veniamo «agiti» da logiche e meccanismi di cui siamo
«soggettivamente» inconsapevoli). Nella superficie apparentemente
marmorea del testo (e del suo senso) iniziano a crearsi crepe e linee di
faglia, emergono discrepanze e incongruenze (lapsus) che aprono diverse
linee di interpretazione. Accanto al testo, a ciò che l’autore ha
effettivamente scritto, e anche quello che voleva e credeva di dire, emerge
un «sottotesto», tutto quello che il testo dice a insaputa
del suo autore. La lettura e l’interpretazione devono dunque portare alla
luce il sottotesto con gli strumenti offerti, appunto, dalle analisi marxista,
freudiana, strutturalista (in Italia, si possono ascrivere a questo clima
culturale le prime regie di Luca Ronconi e Massimo Castri), ma anche femminista
o terzomondista.
In quest’ottica il testo, e dunque
lo spettacolo che genera, non è più un insieme coerente di
segni, un mondo perfettamente autosufficiente e chiuso in se stesso, ma
si rivela sempre più spesso autocontraddittorio, incoerente, sottoposto
a spinte centrifughe. Allora non esiste più un’unica chiave di lettura,
ma si aprono diverse opzioni e possibilità, i conflitti vengono
alla luce. Per il regista-interprete si aprono enormi margini di libertà.
Anzi, la lettura e la messinscena possono diventare un percorso di consapevolezza
dei conflitii e delle contraddizioni, una possibilità di liberazione
dai condizionamenti che la società e la cultura ci hanno inculcato
e che inconsapevolmente subiamo. Tra queste regole implicite, vi sono anche
i codici della rappresentazione: non è dunque un caso che in questa
fase salga alla ribalta il metateatro, ovvero l’interrogazione sul teatro
e sulla sua natura all’interno del contesto dello spettacolo. Trasporre
un testo scritto in uno spettacolo, tra l’altro, allarga ed evidenzia ulteriori
fratture e discrepanze, e suscita altri interrogativi e giochi linguistici.
Tuttavia – scardinato il principio
di autorità che ammetteva un unico significato – emerge un problema
angosciante: fino a che punto l’interpretazione può essere libera?
La decostruzione di un testo ha dei limiti, oppure qualsiasi reazione-interpretazione
da parte del lettore è giustificata? In altre parole, questo tipo
di lettura – che procede per differenze e associazioni, per scivolamenti
metaforici e metonimici, e che per certi aspetti ha segnato il passaggio
dal moderno al postmoderno – finisce rapidamente per portare a una disgregazione
del testo e a una dissoluzione del senso.
Potrebbe anche essere interessante,
ma tutto questo che cosa c’entra con Eimuntas Nekrosius? Beh, è
una cornice che può aiutarci a comprendere e apprezzare il senso
del lavoro del regista lituano, e ci fa capire perché i suoi spettacoli
risultino così affascinanti: estremamente liberi – perché
molto di quello che si vede in scena nei testi di Shakespeare proprio non
c’è scritto, si tratta di vere e proprie invenzioni; e perché
molto di quello che Shakespeare ha scritto Nekrosius lo taglia, in edizioni
radicalmente sfrondate e ridotte all’essenziale – e al tempo stesso molto
fedeli all’ispirazione del testo, al suo senso profondo, alle sue emozioni
autentiche.
Ma, tanto per cominciare, quello
tra Nekrosius e Shakespeare non è un rapporto semplice. Le motivazioni
del suo interesse sono per certi aspetti contradittorie:
"Non lo so,
forse perché lo conoscono tutti, e tutti conoscono le sue opere.
Esistono persino degli alberghi che si chiamano "Shakespeare"! Ma mi interessa
anche il fatto che una sola testa abbia avuto la capacità di mettere
così tante cose dentro le sue opere, dal punto di vista psicologico
ma anche geografico, della quantità di informazioni. Mi stupisce
quante cose abbiano potuto trovare posto in un unico cervello. È
sovrumano, supera ogni immaginazione. È il segreto di Shakespeare.
Nessuno conosce il suo viso, e non sappiamo neppure se sia stato lui a
scrivere tutte le pièce che vanno sotto il suo nome. È come
se ci fosse solo una tenda, dalla quale esce una mano che sta scrivendo.
Si vede solo quella mano, del resto non sappiamo praticamente nulla".
Detto questo, l’atteggiamento nei
confronti del testo non può essere sacralmente filologico o museale
(«Sono le parole del massimo poeta, vanno rispettate anche le virgole»,
«Vi si legge la nascita dell’uomo moderno così come lo conosciamo,
è la fonte del moderno umanesimo, di quello che siamo noi»),
e neppure aprioristicamente irriverente e trasgressivo («Dissacriamo
i classici! Abbattiamo i monumenti della tradizione!»). Almeno così
come l’ha raccontato (con il senno di poi, qualche anno dopo) lo stesso
Nekrosius, il suo atteggiamento nei confronti di Shakespeare è sempre
stato aperto all’interrogazione, segnato da una certa perplessità.
Dopo un Romeo e Giulietta in versione di musical rock (sull’onda
di Jesus Christ Superstar e Hair), tocca a un Re Lear
che arriva solo al primo atto. Poi tocca a Amleto,
«conosciuto
fin dai tempi della Scuola di Regia di Mosca, (...) un testo obbligatorio
per chiunque voglia fare teatro. Ma non riuscivo a capirlo: lo trovavo
impegnativo, difficile. Non capivo bene neppure le regie che venivano fatte
di questo testo, i cui personaggi mi sembravano lontani, fiabeschi. Mi
chiedevo perché piacesse così tanto al pubblico mentre io
non riuscivo ad afferrare tutto. Ancora oggi, per me, l’Amleto è
un testo complesso, che mescola tanti temi come una polifonia. ‘Devo capirlo’,
mi sono detto. Così l’ho riletto e ho creduto di potere provare,
senza pretese, iniziando con degli schizzi, a realizzarlo. E’ stato quello
il momento in cui ho sentito qualcosa che mi spingeva a fare in modo che
tutto fosse chiaro, non solo per lo spettatore, ma anche per me. Lo dico
sempre ai giovani: Shakespeare bisogna leggerlo con attenzione, tutte le
risposte sono lì, nel testo. Bisogna evitare la prima impressione
emotiva e capire le parole».
A questo punto andrebbe inserita
una piccola avvertenza, magari copiando quello che spiega molto bene scrittore
spagnolo Xavier Marías, uno che per trovare i titoli ai suoi romanzi
va a caccia di versi shakespeariani:
«Una
delle ragioni principali della grandezza e della durata di Shakespeare
è che quasi mai si sa esattamente quello che dice o, se si preferisce,
si sa quello che dice, ma non ciò che significa. E’ così:
lo si coglie ma non sempre lo si comprende».
Questa opacità del testo
ha varie origini, al di là di quelle dovute alla traduzione: da
un lato c’è – è chiaro – la distanza che ci separa dall’originale,
dal contesto in cui venne scritto e rappresentato; ma soprattutto c’è
la difficoltà, spiega Marías, a «dire con altre parole»
quello che dice Shakespeare. Questo vale anche per i monologhi più
noti e frequentati. Che cosa vuol dire davvero Amleto quando si chiede
«Essere o non essere»? E a quale
domani si riferisce Macbeth quando attacca «Tomorrow,
tomorrow and tomorrow?». E ancora, quando Otello si prepara
a uccidere Desdemona e dice «It is the cause,
it is the cause, my soul, / Let me not name it to you, you chaste
stars», a quale causa si riferisce? Certo, gli strumenti della
filologia e la storia della critica possono precisare il senso e arricchirlo
di ulteriori stratificazioni – ma al tempo stesso, aumentando la densità
di implicazioni di ogni frase e parola, rischiano di renderlo ancora più
elusivo, inafferrabile.
Come altri registi che operano
nella stessa direzione, Nekrosius utilizza il testo come molla per inventare
(nel duplice senso di creare e di trovare) un gesto, un’azione.
«Siamo
abituati a un’idea letteraria del teatro: dove il teatro è una cosa
che si ascolta e non si mostra. Ma la natura del teatro è di essere
visto».
Sulla scena, le battute non devono
rimanere una sequenza di parole, ma generano nell’attore un gesto – non
foss’altro che quello di ripetere quelle frasi – dando loro la propria
voce, il proprio corpo, il proprio respiro.
(Due annotazioni marginali: primo,
malgrado la fortissima personalità del regista, e l’impronta del
suo mondo interiore che segna ogni frammento dello spettacolo, quello di
Nekrosius è essenzialmente un teatro d’attore, nel senso etimologico
del termine: «colui che agisce», e non «colui che dice»,
o che «racconta»; secondo, questa tecnica si può applicare
non solo ai testi drammatici: può ovviamente rivitalizzare anche
testi narrativi o lirici.)
Non si tratta però di azioni
di carattere introspettivo (la «riviviscenza» stanislavskiana,
che attraverso l’aggancio autobiografico permette di provare le emozioni
del personaggio e dunque ricrearne la gestualità). Sono sempre azioni
espressive, rivolte all’esterno. L’orizzonte di riferimento non è
il cinema, piuttosto la danza. Non a caso in ruoli chiave Nekrosius sceglie
dei «non-attori»: il suo Amleto – Andrius Mamontovas – è
una rock star dalla presenza carismatica, e la sua Desdemona – Egle Spokaite
– è una ballerina. Perché l’obiettivo non è mai una
verosimiglianza psicologica, i trasalimenti dell’interiorità, quanto
la cristallizzazione di situazioni espressive, che parlino in primo luogo
allo spettatore. Non si tratta di rendere credibile l’interiorità
dei personaggi, ma di oggettivare e comunicare i loro stati d’animo. La
credibilità può arrivare dall’azione precisa, dal movimento
rischioso, dalla fatica della ripetizione: se il gesto è quello
giusto, se porta in una «zona di pericolo», allora può
trasmettere una verità.
«Mi
piace un teatro rischioso, voglio dire anche fisicamente rischioso dove
il minimo sbaglio può costare caro all’attore. Questo costringe
alla precisione e colpisce lo spettatore. I testi non rischiano nulla,
sono quello che sono, restano lì, per sempre. Noi rischiamo, i testi
sono sempre al sicuro».
Questo metodo porta a condensare
e portare sulla scena oggetti di forte suggestione: non sono metafore poetiche
di suggestiva eloquenza, come accade in Shakespeare, ma metafore che si
materializzano in oggetti che nel testo non compaiono affatto. Ecco per
esempio nell’Hamletas quelle grandi bocce di vetro che campeggiano
nello spettacolo, prefigurazione della coppa avvelenata da cui berrà
Gertrude. Nel Makbetas ecco l’alberello che porta nello zaino il
protagonista alla prima apparizione, e che anticipa il bosco di Birnan
che si muoverà nel finale adempiendo la profezie delle streghe (che
tra l’altro, contrariamente alla tradizione, sono giovani, assai belle
e dispettose). Anche nella prima scena dell’Otellas Desdemona si
porta sulla schiena un oggetto rivelatore: la porta della casa paterna
che sta per abbandonare. Sono oggetti che a prima vista possono apparire
incongrui, e che tuttavia da un lato riecheggiano la verità del
testo, e che dall’altro, man mano che ci s’inoltra nella tragedia, si caricano
di senso e danno una tonalità emotiva all’interno spettacolo.
Il loro uso presuppone un atteggiamento
di grande libertà nei confronti del testo: al limite, potrebbe ancora
una volta sfociare in una deriva infinita del significato del testo, in
un gioco interminabile e in fondo gratuito di associazioni. Tuttavia la
materialità del teatro e la paradossale verità della scena
– la verità dei corpi e della materia nel mondo fittizio della scena
– costituiscono un limite a questa deriva, e rappresentano un’occasione
di verifica. Perché è in quel determinato gesto, in quella
precisa azione che è possibile trovare la verità e la necessità
di quelle parole, e avvertire quasi fisicamente la loro necessità
e autenticità.
Altri elementi concorrono a regolare
il processo di lavoro e a delineare la retorica della teatralizzazione
operata da Nekrosius. In primo luogo vige un principio di economia e di
coerenza, una delle leggi fondamentali di qualunque spazio teatrale (e
in genere di finzione): ogni elemento – ogni segno – dev’essere in qualche
modo necessario e coerente con tutti gli altri elementi dell’insieme.
«La
scena è una cornice è tutto quello che si trova lì
ha la sua importanza. Niente è fatto a caso. Se portiamo in scena
un oggetto, deve portare una certa informazione, avere un certo senso.
Dunque tra tutti gli oggetti che usiamo non c’è mai il caos».
Con questo, il principio compositivo
parrebbe assumere, per Nekrosius, una valenza quasi etica, filosofica:
la scena è il luogo dove è possibile arginare il caos dell’esistente.
Una conseguenza di questo «principio di economia» è
probabilmente anche la scelta di materiali elementari, primordiali, che
punteggiano come leitmotiv quasi musicale gli spettacoli.
Nell’Hamletas è il
fuoco che scioglie il ghiaccio «in tempo reale», con quel lampadario
incrostato di bianco che sgocciola al centro dello spettacolo, e lo Spettro
del Padre che mette il piede nudo del Figlio sul blocco gelido.
«La
scelta delle materie primarie che ho usato in questo spettacolo – il ghiaccio
e poi l’acqua e il fuoco – è molto semplice e logica. Da dove arriva
lo spettro del padre di Amleto che noi abbiamo considerato un vero e proprio
deus ex machina? Dal profondo, dal freddo. Questo ci ha suggerito il ghiaccio,
che poi si scioglierà a poco a poco al fuoco della vendetta e tornerà
ad essere acqua... Tutto molto semplice. L’arte non è una cosa complicata:
quando tu metti in fila le cose, come una catena, nascono le circostanze.
Le circostanze, a loro volta, creano l’ambiente, il clima. Quando sono
andato a Elsinore il clima era pessimo, l’atmosfera era quella: La mia
Danimarca dunque è diventata foschia, ghiaccio».
In Makbetas è una
cascata di pietre a rendere irreversibile lo sbocco tragico, scatenando
fragore e polvere sulle tavole del palcoscenico; ma è il legno a
punteggiare l’intero spettacolo, con quegli alberelli fragili e commoventi
nello zaino (ma che ritorneranno inquietanti nel rendiconto finale), ma
anche i tronchi pesanti che oscillano costantemente sullo sfondo, appesi
a lunghe funi.
«Macbeth
si rappresenta in un ambiente contadino (da lì l’uso delle pietre
come elemento scenico fondante): proprio per questo pensando a Banquo e
a Macbeth che tornano dalla guerra e che portano con sé qualcosa,
ho scelto un albero, un albero raro – non un regalo banale – che i due
portano legato sulle spalle. Questo tema percorre tutto lo spettacolo e
alla fine, quando si avvera la profezia della foresta che si mette in cammino,
ritorna. Sarebbe bello che si alzasse anche tutto il pubblico per creare
l’immagine di un bosco in movimento. Qualche volta, ma potrei contarle
sulle dita di una mano, è successo ed è stato stupendo».
Otellas (elaborato nel corso
di tre anni, con presentazioni pubbliche di «studi sullo spettacolo»
alla Biennale di Venezia, Schizzi da Otello nel 1999 e Progetto
Otello nel 2000, e debutto sempre a Venezia il 2 marzo 2001) è
posto invece sotto il segno dell’acqua: i bidoni che, mossi incessantemente
dai servi di scena sullo sfondo, punteggiano la tragedia – dalla laguna
veneta al viaggio attraverso il Mediterraneo a Cipro – con il suono della
risacca; e ancora l’acqua bevuta e sputata in un gesto insieme quotidiano
e rituale.
«Otello
è un testo ancora più pericoloso di Macbeth per
un regista e per gli attori, perché spesso appare come una fiaba,
difficile da condividere con persone come noi. L’elemento naturale che
avvolge come una ragnatela i protagonisti è l’acqua: Venezia vuol
dire acqua. Cipro vuol dire acqua, il castello di Otello sta vicino al
mare, le navi vanno per mare... non un’invasione esterna, ma già
contenuta nella storia».
Ma con tutto questo, probabilmente,
abbiamo soltanto sfiorato il metodo di lavoro di Nekrosius, i suoi rapporti
con gli straordinari attori del Teatro Meno Fortas di Vilnius e il suo
rapporto con i testi. Anche perché quando parla del proprio lavoro,
lo schivo regista lituano cerca di cancellare ogni filtro intellettualistico,
di evitare di offrire schemi interpretativi che possono presto diventare
cliché. Lo ribadisce con grande chiarezza quando parla del finale
«aperto» dell’Otellas.
«Il
finale di Otello è stato molto discusso; si è detto
che c’era meno violenza, meno forza che in quello dello studio precedente.
Sono gli attori che scelgono: a volte sono molto crudeli, a volte no. Gli
attori si abbandonano a questa scena e, talvolta, come nelle improvvisazioni
jazz, danno l’idea di non rendersi conto... io apprezzo tutto questo perché
mi piacciono le varianti, la freschezza, perché so che nel passaggio
da uno studio allo spettacolo definitivo si perde sempre qualcosa. Meglio
non finire, meglio fare meno che troppo, non ‘lucidare’ tutto. Preferisco
le cose semplici, non complesse, piene di calore. Evito le cose astratte,
le troppe parole. Molte cose non riesco neppure a spiegarle, non riesco
a dare di tutto una spiegazione. E poi se si parla troppo si crea un gran
caos nella testa degli attori. La semplicità non vuol dire banalità».
Chiaro. Tuttavia c’è ancora
una cosa da aggiungere, per accostarsi a questi spettacoli struggenti,
così carichi di emozioni. Per apprezzare appieno questi Shakespeare
così shakespeariani e così contemporanei, in cui troviamo
così tanto di Shakespeare e così tanto di noi. Bisogna aggiungere
che queste messinscene sono ricchissime di annotazioni insieme ironiche
e poetiche. E’ un’ironia che nasce forse dalla consapevolezza della frattura
che separa il testo dalla rappresentazione (e da questa rappresentazione
e dall’interpretazione che la innerva), dalle infinite possibilità
di gesti teatrali che un testo può suggerire, dalla distanza che
separa l’attore dal personaggio. Ma ancora di più, probabilmente,
dalla consapevolezza dell’impasto di tragedia e ridicolo di cui siamo fatti
noi, esseri umani. Lo stesso impasto di cui sono fatti i personaggi di
William Shakespeare
Le citazioni da Eimuntas
Nekrosius sono ricavate dai programmi di sala di Makbetas - Hamletas
(Festival «Teatro d’Europa 1999») e Otello, a cura
di Maria Grazia Gregori («Festival Teatro d’Europa 2000») e
da Un Amleto lituano, un ritratto di Eimuntas Nekrosius di Oliviero
Ponte di Pino, pubblicato su «Diario».
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