ateatro 127.11 Il teatro 2.0 al tempo di Facebook Un post da Santarcangelo 2010 di Oliviero Ponte di Pino
Se in un week end di luglio tu fossi passato dalle parti di Santarcangelo, avresti potuto ritrovarti in una situazione bizzarra.
Domini Pùblic in piazza Ganganelli (nella foto di Massimo Marino, Oliviero Ponte di Pino).
Per esempio, in piazza Ganganelli, ti avrebbero visto indossare una giubba colorata (nel caso specifico di colore blu, in quanto “nato a nord del Po”) e poi portare le mani a coppa davanti al viso (perché hai risposto positivamente alla domanda “Tu se mai fotografato nudo?”) o alzare il pugno verso il cielo (perché nella tua vita hai impugnato un’arma). Intorno a te, un centinaio di persone, alcune come te con le mani a coppa e il pugno alzato. Alcuni dei tuoi compagni d’avventura hanno indossato la stessa giacca blu, gli altri ostentano giubbini arancioni (in quanto nati in Emilia Romagna) o gialli (in quanto nati fuori dall’Italia): i tre gruppi sono chiamati a svolgere il ruolo rispettivamente di poliziotti, di prigionieri e di crocerossini, in uno scontro di piazza che evoca il G8 di Genova o magari Guantanamo. E naturalmente alla fine avresti visto il tuo nome scorrere sullo schermo nei titoli di coda, tra gli interpreti.
Domini Pùblic .
Oppure, dopo essere arrivato ai capannoni delle Corderie come spettatore, avesti potuto essere prescelto con altri nove fortunati. Saresti stato bendato, per sprofondare nella cecità più assoluta. Poi ti avrebbero messo in testa una maschera (se ti è va, è quella di Topolino, se sei stato meno fortunato quella di un sorcio o di un maiale) e avresti passato un’ora a farti manipolare come un burattino dai due autori-registi-servi di scena, che ti sussurrano all’orecchio, sorreggendoti, “Fai quattro passi in avanti”, oppure “Stenditi a terra come se fossi morto”, o ancora “Afferra questo pugnale, devi brandirlo su e giù”.
La maschera da porco (particolare).
Tutte operazioni da eseguire con obbedienza cieca e precisione assoluta, perché all’inizio dello spettacolo una voce minacciosa aveva avvertito che discostarsi dalle istruzioni avrebbe potuto essere pericoloso. Una mezz’ora dopo, finalmente libero, ti saresti visto nel filmato che è stato girato e montato durante lo show di cui sei stato protagonista, senza peraltro vedere né capire nulla di quel che accadeva sulla scena.
Super Night Shot.
Se anche tu non avessi avuto l’intenzione di assistere a uno spettacolo, e stavi semplicemente facendo un giretto per il paese con il fidanzato, avresti potuto essere avvicinata da un’invasata con un vistoso abito di lamé (e per di più armata di telecamera). Lei ti avrebbe chiesto, insistente e persuasiva: “Sei disposta a baciare l’eroe che sta salvando la città e il festival?” Impossibile rifiutarsi. Poco dopo, eccoti lì a baciare in mezzo alla folla un totale sconosciuto con il volto nascosto da un’assurda maschera da coniglio. A quel punto l’eroe-coniglio, inebriato dall’incontro e dal successivo giro di valzer, decide di donarti tutto quello che ha (la maschera da coniglio, l’abito bianco, il papillon, la camicia), finché non resta in mutande di fronte a te, in mezzo alla folla. Nel frattempo anche la pazza in lamé si è spogliata ed è rimasta in mutande e reggiseno. Per tua fortuna se ne scappano via correndo tutti e due, urlando di gioia. (Volendo - e naturalmente lo vorrai - potrai rivederti sullo schermo, nel filmato girato dai quattro attori-cameramen-ideatori dell’evento in giro per Santarcangelo, e goderti l’applauso del pubblico dopo il lieto fine.)
Magna Plaza.
O magari, se stavi celebrando il tranquillo shopping familiare del sabato pomeriggio nel mega-centro commerciale Atlante, appena dopo la Dogana di San Marino, saresti passato accanto a un enorme cartello scritto con lo spray rosso, Are You Ready for Love? , non lontano da un enorme coniglio viola di peluche, e avresti potuto soccorrere una ragazza dal nome giapponese che aveva tentato il suicidio (per amore, naturalmente...) e rantolava accanto alla scala mobile tra il primo e il secondo piano. Meglio portare via subito i bambini, succedono cose strane...
Domini Pùblic del catalano Roger Bernat, Enimirc del duo Andrea Fagarazzi e I-Chen Zuffellato, Super Night Shot del gruppo anglo-tedesco Gob Squad e Magna Plaza degli olandesi Wunderbaum (specializzati in interventi in “appartamenti vuoti, supermercati ed edifici industriali”) sono quattro degli spettacoli dell’edizione 2010 del Festival di Santarcangelo, affidato quest’anno alla direzione artistica di Enrico Casagrande, leader dei Motus.
Santarcangelo 40, all’insegna del rosso Pantone 186 C (“il colore della passione, il colore del sangue, il colore della rivolta”), lavora sui confini tra spazio pubblico e spazio privato, tra attore e spettatore, tra realtà e finzione, tra scena e piazza. Per dirci che qualcosa sta cambiando, e per cercare di capire come.
E’ un progetto di esibita coerenza, che riprende e rilancia l’antica etichetta di “Festival Internazionale del Teatro in Piazza”: anche se oggi, naturalmente, la piazza non è più quella di quarant’anni fa, quella che ospitava la festa di un popolo che ritrovava, riconoscendosi, in uno spazio pubblico, producendo e liberando energia. Oggi la piazza è un non-luogo postmoderno, svuotato di senso anche perché sovraccarico di segni e presenze difficilmente decifrabili, come la “gran piazza” della hall di un centro commerciale.
Questa è una prima differenza. Non si tratta più di creare - attraverso la spettacolarizzazione dello spazio pubblico - una comunità, magari solo provvisoria. Oggi si lavorare per differenze e alterità, segmentando. Le stratificazioni si sono fatte più complesse: non c’è più solo l’asimmetria tra attori e spettatori, tra chi sa e chi non sa, chi agisce e chi assiste passivamente. In questi lavori, per esempio, ci sono almeno tre polarità: ci sono gli autori-registi (che possono eventualmente comparire sulla scena) e gli attori; ci sono gli spettatori casuali: chi attraversa la piazza, chi vaga nel centro commerciale, oppure gli spettatori passivi, “all’antica”, se ci si trova in sala; ma c’è anche una terza categoria, ovvero quella porzione del pubblico a cui, in vari modi, viene chiesto di agire: sono quelli che potremmo definire gli “spettattori”. L’archetipo resta il folgorante Andy Warhol’s Last Love dello Squat Theatre, montato intorno al 1980 sistemando la platea all’interno della vetrina di un negozio e dunque trasformando il pubblico in spettacolo per chi passava sul marciapiede e sbirciava all’interno (la trasformazione di alcuni spettatori in “spettattori” l’ha operata anche Paolo Rossi nel suo Romeo e Giulietta per rianimare un pubblico assuefatto alla passività del telespettatore).
Alcuni di questi spettacoli ricorrono ampiamente a una forma elementare di drammaturgia, ovvero alla sequenza di domande rivolte allo spettatore. E’ un procedimento che ricorda da vicino il “metodo Bausch”, utilizzato dalla coreografa tedesca nelle improvvisazioni con gli attori-danzatori: un esercizio che ha segnato il passaggio dall’epoca del teatro politico, di gruppo, con il predominio della dimensione collettiva, all’età del narcisismo, con l’avvento dei mille io, così fragili e così esibizionisti. Sono domande spesso volutamente elementari e ingenue, a volte intime (e dunque imbarazzanti), il pubblico non dà una risposta udibile. Ma la loro sequenza crea una sorta di dialogo, innescando un meccanismo introspettivo che vorrebbe accendere piccole scintille di auto-consapevolezza.
Domini Pùblic in piazza Ganganelli (foto di Silvia Bottiroli).
A volte il meccanismo può trascendere la consapevolezza individuale. Gli spettatori di Domini Pùblic costituiscono di fatto un campione sociologico, che viene sezionato e ricomposto attraverso una serie di domande che ricordano quelle di un sondaggio o di un’indagine di mercato e che determinano una serie di movimenti e gesti (“Chi ha figli vada verso sinistra, chi non ne ha vada a destra”): il moto browniano dello sciame offre dunque agli spettatori (e al Grande Fratello che li governa) informazioni statistiche di cui loro stessi non erano consapevoli.
Perché in contesti così stratificati si delineano diversi livelli di consapevolezza. Per lo spettatore che, nello spazio pubblico, s’imbatte per caso in una di queste strane azioni, è difficile capire di che cosa si tratti, se di un fatto vero o di finzione – magari è una candid camera o un reality... Ma anche per gli “spettattori” è difficile indovinare come le loro azioni potranno essere interpretate da quel pubblico “innocente”: se l’intenzione del loro gesto corrisponderà all’interpretazione di chi li osserva, distratto oppure curioso.
Non c’è più la netta separazione tra attori e spettatori tipica del teatro all’italiana, insanabile ma in fondo rassicurante. Non c’è più nemmeno la auto-organizzazione spontanea e naturale, quasi biologica, delle feste di piazza, come nell’Orlando Furioso di Luca Ronconi o in 1789 di Ariane Mnouchkine, ma anche nelle parate del Terzo Teatro. Non c’è nemmeno più il coinvolgimento liberatorio, orgiastico, creativo, del Living Theatre: “Perché non mi posso spogliare nudo?”, chiedevano al pubblico gli attori in Paradise Now, e iniziavano a spogliarsi, almeno finché non iniziò a spogliarsi anche qualche spettatore, rendendo la provocazione inoffensiva. E non basta nemmeno la continua reinvenzione dello spazio e della prospettiva teatrale delle avanguardie degli anni Settanta e Ottanta.
Oggi il gioco si è fatto più sottile, complesso, non vuole farsi ingabbiare dall’abitudine e dalle convenzioni, e nemmeno seguire il percorso obbligato della provocazione, dell’aggressione. Richiede una partecipazione ironica –in fondo è teatro, e lo spettacolo che prima o poi finisce – che però mette in causa il corpo e l’immagine pubblica dello “spettattore” (ovviamente nel contesto di un festival, la complicità esibizionistica del pubblico è assai elevata; e sarebbe interessante soppesare il livello di buona educazione richiesto al pubblico, il galateo che deve essere interiorizzato collettivamente perché interazioni di questo genere non vengano destabilizzate, dall’interno o dall’esterno – magari da un intervento delle forze dell’ordine).
Le istruzioni per l'uso di Domini Pùblic sul selciato di Santarcangelo.
Per gestire l’interazione, per definire ogni volta nuove cornici, sono dunque necessarie regole più articolate, ogni volta diverse, e spesso anche un supporto tecnologico. Lo spettacolo vero e proprio è spesso preceduto da un prologo, che dettaglia alcune “istruzioni per l’uso” e prepara i partecipanti. In Super Night Shot, agli spettatori che si accalcano ancora fuori dal teatro viene chiesto di salutare l’arrivo degli attori con un euforico lancio di petardi, urla e applausi (salvo poi scoprire, al culmine della serata, che questa prima scena, girata con la loro partecipazione, è in realtà “The End”, la fine di una missione videoteatrale). Gli “spettattori” di Domini Pùblic e Magna Plaza sono invece dotati di cuffie: nel primo caso per ricevere le necessarie istruzioni (nella forma “se... allora...”, in genere lunghe più o meno come un post di Twitter); nel secondo per seguire i dialoghi tra gli attori nell’ampio e rumoroso spazio del centro commerciale (il modello è anche quello dei silence parties, dove i danzatori si muovono al ritmo di una musica che sentono solo loro, in cuffia: il sabato notte, nella silenziosa piazza Ganganelli, avresti potuto vedere un gruppo di ragazzi che ballavano, con una cuffia in testa, al suono di una musica che sentivano solo loro).
I sistemi di regole di questi show interattivi possono ricordare quelli di un gioco, di uno sport. Ma anche quelle attualmente in vigore nei social networks, dove peraltro sono in voga da sempre quiz e pseudo-quiz come quelli impartiti in alcuni di questi spettacoli e allestimenti. Anche i social networks sono gestiti da registi-drammaturghi (gli sviluppatori), che decidono le regole dell’interazione e costruiscono la piattaforma tecnologica che può supportarla. Gli “spettattori” iscritti al network interagiscono all’interno di queste regole: alcune esplicite, altre implicite perché imposte dai vincoli “tecnici” della struttura. Eventualmente la partecipazione di questi “spettattori” può essere regolata e vincolata da ulteriori meccanismi e regole. I normali internauti, l’equivalente dei passanti, hanno un accesso solo parziale al sistema; e non conoscono le regole, che possono solo intuire (o meglio, dedurre), curiosando nella porzione “pubblica” e aperta del social network.
Un altro elemento spesso ricorrente in questi lavori (e presente già in Andy Warhol’s Last Love, dove una telecamera seguiva il percorso di avvicinamento alla scena-vetrina del fantasma di Ulrike Meinhof) è l’uso “forte” del video, che dà forma alle dialettiche piccolo-grande, interno-esterno, passato-presente. Il teatro, si sa, è da sempre preparazione e attesa: ovvero la drammaturgia e le prove degli attori, in previsione di quello che poi accadrà nella compresenza con gli spettatori. E’ anche uno spazio-tempo in vario modo separato, distinto dallo spazio-tempo della quotidianità. Il video permette di rendere fluido questo confine, di rimetterlo in discussione. La registrazione trasforma l’evento, irripetibile e inafferrabile, in testo e in opera. Nel caso di Enimirc e Super Night Shot, costituisce la seconda parte, dell’evento live che si è appena compiuto, registrato e montato in diretta. In Enimirc il video ritrova liveness nell’interazione con il pubblico che ha appena assistito alle riprese.
E’ una drammaturgia che non costruisce un unico testo (lo spettacolo preparato nel corso delle prove dalla compagnia, al quale assisterà il pubblico); e nemmeno una serie di microeventi liberamente ricomponibili. Costruisce piuttosto una serie di testi paralleli e sovrapposti: un primo livello, la sequenza di istruzioni impartite dagli autori-registi-attori (di fatto, un algoritmo); un secondo livello, le azioni eseguite e vissute dagli “spettattori”, in base alla partitura; infine, lo spettacolo costituito dalle azioni degli “spettattori” così come lo possono vedere testimoni di queste azioni, con la spettacolarità teatrale che irrompe all’interno della vita quotidiana che invitano alla deduzione: “Ma cosa sta succedendo? Che stanno facendo? E quelli che guardano? E’ vero o finto?”
Todos los grandes gobiernos han evitado el teatro intimo.
Spesso a questi testi se ne intreccia un altro, una sorta di palinsesto che offre un filo conduttore dell’evento. Nella trama e nei personaggi, Magna Plaza ricalca esplicitamente Dolls di Takeshi Kitano. Uno spettacolo dalla struttura apparentemente tradizionale come Todos los grandes gobiernos han evitado el teatro intimo del drammaturgo argentino Daniel Veronese rivisita in chiave moderna Hedda Gabler, salvo obbligare i suoi personaggi a vivere (o rivivere un po’ freneticamente) tutta la loro vicenda in un teatro, abitanti precari di una scenografia labirintica e claustrofobica, in un beffardo ribaltamento del rapporto scena-realtà.
La crossmedialità e la intertestualità (che hanno incuriosito i Motus, da sempre al lavoro su queste grammatiche) possono operare anche su altri livelli. Gli interpreti del testo di Veronese recitano con lo “straniamento naturale” e la frettolosa sprezzatura tipica delle telenovelas. Enimirc si appoggia agli stilemi dell’horror e alla cronaca nera (con una strizzata d’occhio al famigerato episodio del cavallo a Santarcangelo ’85). Super Night Shot rimanda al fumetto e al filone catastrofico, come le proiezioni video di Cosmesi per NEROep, una sequenza di crolli catastrofici e rumore di fondo.
Nel loro insieme, questi spettacoli – per certi aspetti ingenui e giocosi, ma costruiti con intelligenza – paiono delineare una specie di teatro 2.0, non più basato sulla fruizione passiva, ma sulla partecipazione attiva dello spettatore, anche se all’interno di precisi sistemi di regole. L’obiettivo è di inventare e ridefinire ogni volta le diverse funzioni dei partecipanti all’evento teatrale.
E’ spesso un teatro “aumentato”, che alla comunicazione teatrale sovrappone un filtro tecnologico che lo arricchisce di significati, come le cuffie o il video. E’ anche un teatro che si concentra inevitabilmente sulle funzioni e su rapporti reciproci tra le diverse figure: non a caso usa spesso la maschera, un po’ per segnalare il proprio disinteresse all’interiorità, ai sentimenti e alla psicologia individuale, un po’ per differenziare gli attori dalla “gente”.
Anche l’interiorità – quella degli spettatori, quella del pubblico, quella della gente – pare diventata impossibile da penetrare o da decifrare: perché troppo complessa, perché troppo poco strutturata. Sembriamo tante scatole nere, in grado come i computer di fornire una risposta solo se ci viene dato uno stimolo: “se... allora...”.
Ma allora, come rimettere in circolo, come condividere e scambiare, almeno in arte, il contenuto della scatola nera dell’interiorità? Su questo crinale lavora Babilonia Teatri, guidato da Enrico Castellani e Valeria Raimondi, che presenta a Santarcangelo 40 i risultati di un laboratorio con dieci “allievi” (scelti dopo che avevano risposto a un bando che chiedeva di postare un video su Youtube).
Babilonia Teatri alle Corderie.
This Is the End My Only Friend the End riprende il metodo di lavoro del gruppo veronese, e anche l’atteggiamento psicologico e la postura comunicativa: cogliere le storture del mondo e di collezionarle in forma di elenco, attraverso procedimenti di accumulazione e ironia; definire i propri sentimenti ed emozioni, a partire dalla rabbia e dall’indignazione, ma anche dall’insoddisfazione nei confronti prima di tutto di sé stessi, per poi oggettivarli – svuotati di ogni emotività e trasformati in invettiva, in proclama.
Voglio il mio boia
voglio affittarlo
prenotarlo
comprarlo ora
voglio che viaggi con me
sempre
fedele al mio fianco
voglio sia scritto nero su bianco
sono il tuo boia
sono il tuo boia
voglio il sigillo del notaio
poche parole chiare
non voglio una morte lenta
voglio un colpo di pistola
uno solo
qui
in testa
in mezzo agli occhi
la chiamate vita
non la voglio
non voglio viverla
non voglio vederla
non voglio soffrirla
non mi interessa
poche parole chiare
non voglio una morte lenta
non pensate di fottermi
di aggirami
di incularmi
lo dico adesso
lo scrivo
pago
dovrete farlo
basta schiacciare il grilletto
voglio un'assicurazione sulla morte
sulla mia morte
un'assicurazione contro la morte lenta
voglio il mio boia
In This Is the End My Only Friend the End, a rendere apparentemente più dura la provocazione ma in realtà appiattendola, è la carcassa di una scrofa che piomba dal soffitto, sezionato a metà, e campeggia sulla scena durante tutta la seconda parte dello spettacolo. Ma la rabbia e l’ironia, e anche il rifiuto, quelli restano. E continua a sorprendere la capacità di prendere materiali dalla “vita vera” per trasformarli in spettacolo.
Per il teatro 2.0, il procedimento per mettere il relazione l’intimità e la socialità ricorda a volte quello dei social networks. “Che cosa stai pensando?”, la domanda numero uno di Facebook, spinge a condividere la propria interiorità, il contenuto della “scatola nera”, proietandolo nello spazio condiviso della rete. Il teatro 2.0 può mettere in gioco anche l’immagine pubblica dello spettatore (“Mettete la giacca arancione che distribuiscono a sinistra”) e soprattutto il corpo, attraverso il movimento e gesto (“Andate a sinistra”, “Alza il pugno”). Può lavorare su meccanismi di identificazione (la protagonista casuale di Super Night Shot, “una di noi”, esce dall’anonimato e diventa protagonista per una sera). Affiora spesso una prospettiva critica nei confronti della società dello spettacolo, di cui vengono messi a nudo e demistificati alcuni meccanismi. Ma sempre con una evidente venatura ironica, e autoironica.
Il teatro 2.0 pare offrire alle nostre identità autoreferenziali, pulviscolari, una cornice in cui sperimentare la possibilità di un agire collettivo. A volte dalle risposte individuali emerge una consapevolezza collettiva, “statistica” (così come Google estrae dai comportamenti di massa sul web un sapere – misurabile – di cui i singoli utenti della rete non sono consapevoli).
E spesso questi lavori s’interrogano sulla possibilità di una pratica politica o sfiorano tematiche civili, tenendo presente che l’esibizionismo di massa, nella società dello spettacolo, è un problema politico, così come lo è la membrana tra pubblico e privato e a gestione dello spazio comune. Ai dieci spettatori ciechi e ammassati in un gruppo cinto dal nastro adesivo, viene ironicamente chiesto: “Pensate ci sia libertà d’espressione in questo spettacolo?”
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