ateatro 125.58
BP2010 Pubblico, privato, indipendente?
Siamo davvero sicuri che oggi possiamo attribuire loro ruoli, funzioni, identità, progetti differenziati?
di Roberto Toni
 

Nella domanda che pongo c’è, se non una risposta certa, un interrogativo che merita una riflessione. Sono infatti convinto che laddove, almeno fino a 15 anni fa, all’interno del sistema teatro si potevano cogliere intenzioni e progetti abbastanza evidenti, le pratiche oggi sono assai confuse.
Il passaggio da un sistema all’altro è così frequente che è difficile stabilire quali siano le identità in campo. E’ il risultato questo di anni confusi, in cui la progressiva erosione dei fondi statali a disposizione è stato soltanto l’ultimo degli accadimenti negativi; non è il sostegno pubblico che manca al teatro, o perlomeno esso è soltanto l’aspetto terminale del problema, dove causa ed effetto si confondono. Basti pensare infatti che Comuni, Province e Regioni mettono nel sistema spettacolo quattro volte quello che dà lo Stato attraverso il FUS!
La realtà è che c’è una caduta verticale delle “vocazioni”, un confuso approccio della bassa politica a tutti i percorsi teatrali, uno scollamento tra la professione e la pratica del teatro, del buon teatro, e quella che una volta era la tensione culturale e politica. Un sostanziale ristagno del ricambio generazionale che ha essenzialmente “recintato” le aree dell’innovazione, facendole diventare un genere autoreferenziale.
Quale teatro può dirsi indipendente o autogestito, come si sarebbe detto fino alla fine degli anni ’80? Mi è difficile individuarlo, se non in zone molto sommerse, non finanziate dal danaro pubblico, a cui l’intero sistema offre una visibilità assolutamente minoritaria e residuale.
La proliferazione, non necessaria, delle stabilità pubbliche e private, che fino agli anni ’80 compiuti, venivano edificati su un progetto culturale e identitario a cui la politica dava ascolto non strumentale ma partecipato e convinto; il numero di imprese produttive il cui esercizio è molto spesso quello di raggiungere gli standard quantitativi per mantenere un contributo, sono i segnali di un sistema complessivamente malato che non offre garanzie adeguate di sviluppo e di mantenimento neppure sotto il profilo occupazionale.
Una recente indagine condotta dall’Enpals ha evidenziato che la giornata media di artisti e maestranze è di 96,99 giornate in un anno lavorativo, che si riduce a 19,6 giornate per gli attori. Sono numeri impressionanti soprattutto se messi a confronto con i circa 16 milioni di biglietti venduti per il solo teatro di prosa (cos’ almeno risulta dai dati SIAE del 2007), circa 350 i soggetti che ricevono un contributo dal FUS.
Sicuramente c’è una penetrazione selvaggia di iniziative casuali, che introducono nel mercato episodi che sfuggono alle regole della buona gestione imprenditoriale e del corretto rapporto tra impresa e lavoro. E’ una piaga del sistema a cui un certo atteggiamento sufficiente e liquidatorio della politica, al limite di un generico moralismo, offre una sponda di sostegno non indifferente.
E allora quali pratiche auspicare?
Sicuramente fine dell’assistenzialismo e delle rendite di posizione.
Introduzione di standard qualitativi che consentano alla professione, e a chi la esercita con serietà, competenza, passione e rigore di rigenerarsi e approdare a certezze maggiori.
E’ un percorso questo che ha bisogno della politica ma soprattutto di noi e di un rinnovato senso di responsabilità.
Senza di ciò, senza cioè l’intreccio tra buona politica e consapevolezza dell’impresa che siamo su un pericoloso crinale dove è facile sprofondare nel dominio selvaggio di un mercato senza contenuti e senza regole, decreti e leggi serviranno a poco.
Firenze, 10 febbraio 2010
Roberto Toni
Direttore Artistico e Organizzativo Teatro Stabile di Firenze
Impresa di produzione


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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