ateatro 125.54
BP2010 Indipendenza da cosa?
Una mail alle Buone Pratiche
di Laura Barbiani
 

In primo luogo grazie dell’invito a Bologna dove ho sperato fino ad ora di poter venire; per seguire i vostri lavori, ovviamente, ma anche per raccontare qualcosa d’una nostra “buona pratica” e cioè di quel progetto di valorizzazione del teatro veneto del Novecento condiviso fin dall’inizio (era il 2006) con Pierluca Donin di Arteven e con la Teatri spa di Treviso. Poiché ora so che non mi riuscirà d’essere con voi a Bologna, vi mando qualche considerazione (interrogativa) nata dai vostri stimoli di riflessione sul “teatro pubblico” e in particolare sulla sua indipendenza.
Ma indipendenza da cosa? – mi sono subito chiesta. Cos’è che, oggi, più minaccia la libera espressione del teatro pubblico, il suo sviluppo, e la sua creatività? Le ingerenze della politica o il sostanziale disinteresse della politica per un settore poco rilevante in termini elettorali e perciò considerato solo in termini di piccole clientele personali di questo o quel ministro, sindaco, o assessore (nessuno escluso)? La difesa strenua dei privilegi di casta di chi lo dirige o la rassicurante scelta identitaria d’essere “comunque contro” di tutti gli altri? La continua sottrazione di fondi pubblici o i diktat del mercato che premia l’intrattenimento puro, meglio se comico e preferibilmente di stampo televisivo? L’ottusità dei Consigli di Amministrazione di nomina politica, corretta o aggravata che sia dall’invadenza di eventuali presidenti-direttore, o i buchi di bilancio sempre assolti in nome dell’arte (purché propria)? La mancanza di ricambio generazionale ai suoi vertici o l’imbarazzante provincialismo ombelicale che vediamo diffuso in ogni ambito generazionale? Una società poco sensibile al valore strategico del proprio sviluppo culturale o la perniciosa autoreferenzialità dei teatranti? Una deprimente faziosità-superficialità di giudizio (pollice sempre su per gli amici e giù per tutti gli altri) o la mancanza di idee, curiosità, autocritica e coraggio? La paura di mettersi in gioco chiamato amore per le eccellenze della tradizione o quell’ignoranza fecondissima di presunzione che porta a convincersi di non doversi misurare con alcuna tradizione? La rincorsa al pubblico pagante (l’inchino a titoli e nomi di richiamo) o il fastidio di doversi confrontare con il pubblico in genere (“se non apprezza il mio lavoro è segno che deve essere educato”)? La tendenza a somigliare a una grande compagnia di giro col “giro” protetto dalla rete nazionale degli scambi o quella bandiera del “territorio” agitata con livore da chi pensa che il territorio si identifichi col proprio gruppo, lavoro o dialetto? E naturalmente si potrebbe continuare ancora e ancora, per esempio chiedendosi cosa sia peggio tra i nostri teatri che chiamano “lavoro nella scuola” la deportazione degli studenti in sala o le scuole che corrono se proponi Pirandello o Shakespeare e scappano di fronte a tutto ciò che i professori non conoscono. Insomma a me pare che si sia di fronte a un problema compesso, e perciò destinato a sfuggire completamente a chiunque pensi d’averne già la soluzione in tasca. Magari buona in sé, per tutti e per sempre, con buona pace d’ogni diversità d’esperienza e libertà di pensiero.
Detto questo, immagino vi risulterà ovvio ciò che mi spinge a vedere nelle Buone Pratiche” – e nel suo principio ispiratore “esperienze versus ricette” – un’iniziativa felice e lungimirante, e tanto più quanto più si dimostri capace di contrastare quell’inesauribile proliferare di barriere precostituite che fanno del teatro italiano uno dei più fulgidi esempi di spietatezza alla homo homini lupus... A proposito, sarà un caso che a inventarselo pare sia stato un grande commediografo?
Chiudo augurandomi che non ci si riduca a dover aspettare la prossima sessione delle Buone Pratiche per incontrarci.
Cordialmente,
Laura Barbiani


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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