ateatro 115.12 La nascita del tecnoattore? Alcune note su I racconti del Mandala di Oliviero Ponte di Pino
Il rapporto tra testo e spettacolo è da sempre uno degli elementi più complessi della pratica teatrale, (e dunque anche della storia del teatro). A renderlo ancora più ricco di implicazioni è l’uso della maschera, il primo accessorio dell’attore. Come prevedibile, l’impatto delle tecnologie digitali può aprire a nuovi ordini di complessità, e arricchire il termine stesso di maschera con ulteriori significati. Per un drammaturgo, per un attore, per un regista, sono sfide affascinanti, che obbligano a muoversi in terreni inesplorati. In questa prospettiva il percorso che va dalle Storie mandaliche ai Racconti del Mandala può suggerire alcune riflessioni.
In primo luogo è significativo che lo stesso testo – o meglio, lo stesso nucleo narrativo e drammaturgico – possa sostenere incarnazioni spettacolari così diverse (e sarebbe possibile immaginarsene altre) attraverso l’intersezione del testo e del lavoro dell’attore con una serie sempre più ampia di strumenti scenotecnici.
Nella prima versione di Storie mandaliche (protagonista il cybernarratore Giacomo Verde), il testo di Andrea Balzola era in effetti un ipertesto, con una serie di trame intrecciate, parallele, biforcate; lo spettacolo era costruito in forma di narrazione proprio partendo da questa caratteristica: ai successivi bivi drammaturgici, il narratore poteva scegliere di imboccare uno dei diversi cammini possibili; a scegliere la strada poteva essere a volte anche il pubblico, opportunamente interpellato.
In questa seconda versione, I racconti del Mandala, il testo si riduce invece alla sua essenza di favola iniziatica, ricca di risonanze mitiche che attingono la loro energia archetipica dalla psicologia del profondo. L’andamento della fabula (una tra le infinite possibili storie dell’ipertesto originario) è questa volta assai più lineare, con la più classica delle storie d’amore. Tuttavia l’interattività – anche se in una diversa declinazione – resta al centro degli interessi del gruppo di lavoro di cui fanno parte anche il musicista Mauro Lupone, che cura l’intero progetto, lo stesso Andrea Balzola, il videoartista Theo Eshetu (in collaborazione con Samuele Malfatti) e Anna Maria Monteverdi (che coordina & documenta).
L’interattività questa volta non è più tanto nel rapporto tra l’interprete e il pubblico, ma nel rapporto tra l’interprete (la “virtuosa” Francesca Della Monica), il suo corpo e i suoi gesti con la sua maschera fonica e scenica (anche nella prima versione il cyberattore Verde poteva peraltro interagire con gli apparati scenici, anche se in misura minore e tecnologie meno sofisticate). Grazie a un “data suit”, ovvero un esoscheletro che le ingabbia braccia e mani innervato da una serie di sensori, l’attrice può infatti gestire con i suoi gesti sia il mixer audio sia il mixer video: per la precisione interagisce sia con gli effetti che distorcono e manipolano la propria voce e con la texture sonora di Lupone, sia con le immagini proiettate sullo schermo che campeggia dietro di lei. Va subito precisato che l’interazione è parziale, e assai discreta, senza la ricerca di effetti di “maraviglia”, tanto che spesso può passare inosservato; d’altro canto il musicista e il videoartista continuano a controllare in prima persona gran parte del suono e delle immagini, lasciando tuttavia spazi e routine che vengono gestiti dall’interprete.
Questo è già un risultato esteticamente apprezzabile: la tecnologia, per quanto complessa e sperimentale, non è mai invasiva, non è un effetto speciale che monopolizza l’attenzione del pubblico, in uno spettacolo multimediale dalla tessitura peraltro complessa e raffinata.
Il movimento delle dita, della mano e del braccio gestisce per esempio, in alcuni momenti, le manipolazioni elettroniche della voce, lo zoom dell’immagine (il coccodrillo sullo schermo che s’avvicina e s’allontana) o il movimento del personaggio (lo schermo ci porta nelle complessità di un labirinto da videogame: in quella scena lo spettatore assume il punto di vista del personaggio). Non si tratta di un comando on-off (che fa comparire e scomparire un effetto un’immagine, un suono), ma di un meccanismo in grado di gestire anche dissolvenze e assolvenze incrociate.
Grazie a questi comandi, l’intera scena diventa una sorta di maschera per l’attrice: inutile ricordare che uno dei primi effetti della maschera è una diversa sonorità della voce, e dunque permette di gestire lo spazio attraverso il suono; inoltre, limitando alcune possibilità espressive dell’attore, ne amplifica inevitabilmente altre. La scena nel suo insieme spaziale e sonoro diventa dunque una sorta di prolungamento del corpo, e lo spettacolo un’opera d’arte totale dove gesto, suono e spazio-tempo vengono gestiti unitariamente dall’attore.
Ovviamente una soluzione tecnica di questi genere cambia il senso profondo del segno attoriale. Basti pensare a uno dei momenti chiave dello spettacolo, il dialogo tra il protagonista maschile e quello femminile (tra l’uomo bianco e la principessa nera, tra il principio maschile e quello femminile). Il movimento del braccio dell’attrice gestisce i primi piani dei due personaggi sullo schermo: quando stende il braccio in avanti compare lei, quando lo riavvicina a sé compare lui; ed esiste un punto intermedio in cui, tra assolvenza e dissolvenza, diventano visibili entrambi. Quel gesto dell’avambraccio assume così diverse funzioni e significati: è naturalmente il movimento fisico di un corpo nello spazio; ma assume anche un valore espressivo, emotivamente connotato (la mano sul cuore piuttosto che il bracco teso in avanti; e a sua volta questa gestualità e postura influiscono per esempio sulla fonazione). Fin qui saremmo nel tradizionale ambito d’azione dell’attore; ma al tempo stesso quel gesto attraverso il mixer video o audio invia un comando all’apparato scenico (o eventualmente audio) e cambia dunque la struttura dello spazio fisico e sonoro, e al tempo stesso inserisce nuovi segni e icone con cui l’attore interagisce (peraltro lo spettacolo conosce da sempre “effetti speciali” di questo genere: si pensi per esempio al classico fiore che spruzza acqua utilizzato dai clown); dunque, si può aggiungere, il gesto diventa anche una sorta di codice, una didascalia, che indica all’interno del monologo quale tra i due personaggi sta prendendo la parola (tecniche di questo genere le usava per esempio Dario Fo nei suoi monologhi, quando si trattava di dare la parola ai vari personaggi: si pensi alla resurrezione di Lazzaro di Mistero buffo); più precisamente, questo codice può ricordare quello dei teatri orientali (per esempio nel kathakhali indiano), nei quali l’attore, con una determinata posizione delle dita o delle pupille, indica uno stato d’animo del suo personaggio.
Il gesto attoriale assume dunque al tempo stesso un valore fisico (la danza del corpo nello spazio); un valore psicologico (l’espressione di un sentimento); un valore di didascalia; un valore registico, con effetto immediato e “reale” (la gestione dello spazio e dei segni visivi e sonori che lo abitano); un valore di segno (il codice che si crea mentre l’attore gestisce l’apparato).
Dal punto di vista pratico, artifici di questo genere hanno l’effetto di dare maggiore liveness a materiali visivi e sonori preregistrati: se il teatro è il “qui e ora”, questo porta a una maggiore teatralizzazione di materiali tecnicamente mediati. Si attenua così l’ormai classica discrasia tra i due tempi, quello flessibile e interattivo dell’evento spettacolare dal vivo, e quello rigidamente predeterminato del materiale audio e video preregistrato.
E’ anche ovvio che questo apparato richiede una superiore abilità (e un gigantesco sforzo d’attenzione) da parte dell’interprete, e al tempo stesso gli affida responsabilità ancora maggiori: non gestisce più solo e soltanto il proprio corpo e la propria voce (e i pochi oggetti con cui entra in contatto), ma l’intero spazio fisico e sonoro. Forse non è un caso se in questa fase il gruppo ha rinunciato alla supervisione (o alla mediazione) registica, per privilegiare da un lato l’aspetto della programmazione e della preparazione dei materiali, e dall’altro quello del tecno-recitar-cantando di Francesca Della Monica, che non è solo virtuosa del canto e della voce, ma deve padroneggiare un’attrezzatura sofisticata, per poi costruire su di essa una partitura gestuale altrettanto precisa, lavorando in loop (oltre che con il ritorno audio delle casse) anche con il ritorno video di un monitor, sul quale può vedere le immagini che le stanno scorrendo alle spalle.
La favola raccontata da Andrea Balzola porta alla fine alla nascita di un figlio alchemicamente perfetto, l’ermafrodito che unisce in sé il principio maschile e quello femminile. Qui l’ambizione è quella di coniugare la liveness dell’evento teatrale alle potenzialità dei media digitali, la corporeità del teatro e l’immaterialità del digitale. La sfida riesce, grazie anche all’abilità e alla generosità della protagonista, aprendo nuove possibilità al lavoro attoriale: non solo e non tanto tecniche, in una punta avanzata della sperimentazione internazionale, quanto piuttosto aprendo la strada verso un linguaggio poeticamente evocativo e teatralmente necessario.
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© copyright ateatro 2001, 2010
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