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NUOVO TEATRO |
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Conversazione con Ermanna Montanari
a cura di Oliviero Ponte di Pino
Il tuo percorso teatrale non parte da una realtà metropolitana, ma da un mondo contadino. Come sei arrivata al teatro?
A vent’anni io e Marco ci siamo innamorati e abbiamo abbandonato le nostre famiglie per sposarci e fare teatri. La sua famiglia si è trasferita, per questo abbandono. Ci hanno detto: "Voi non vi sposate" e sono andati a vivere a Genova. Allora Marco è scappato. Ha detto: "Torno a Ravenna e mi sposo". E anch’io sono scappata dalla mia famiglia contadina. Noi eravamo i figli promettenti, quelli bravi a scuola, dovevamo laurearci e fare i professori: queste erano le intenzioni dei nostri genitori. All’università ci siamo innamorati di Beckett. Marco aveva già un amore per il teatro, da quando era più giovane, aveva già scritto delle piccole cose, e io le avevo registrate. Però io il teatro l’avevo solo visto all’Alighieri, non volevo fare l’attrice, non sapevo bene cosa volevo fare. Quello che m’importava era andarmene da un villaggio di mille persone dove ero la figlia dei Montanari, che erano una famiglia facoltosa, anche se contadina, e in quel luogo dovevo comunque sottostare a regole che non potevo salvaguardare. C’è stata un’urgenza etica, non saprei come descriverla. Per me sposarmi, con il rito religioso, significava cominciare a fare una scelta. Questo era il nostro progetto: sposarci e fare una scelta di povertà e vivere di niente, e quindi fare teatro. Ma non m’interessava fare l’attrice. Ho sempre dipinto – mentre ero all’università facevo anche una scuola di pittura – così ho detto: "Magari posso fare le scene". Ci siamo sposati il 3 settembre e il 7 eravamo in scena con Aspettando Godot di Beckett, che avevamo studiato all’università.
E tu hai fatto le scene?
Ho fatto le scene e facevo la suggeritrice.
Com’era la scenografia di quel primo spettacolo?
Non c’era quasi nulla. Non c’era neanche l’alberello della didascalia iniziale... Era un perimetro, un tappeto misurabile. E c’erano delle bombette fatte da noi, avevamo comprato delle bombette di carnevale che io avevo ricoperto con della stoffa, e dei vestiti tagliati e ricuciti.
Quindi eri scenografa, costumista e suggeritrice...
Perché non c’era il piacere della scena, non sapevo che cosa voleva dire. I nostri due corsi monografici erano su Beckett e Pinter, così dopo venti giorni abbiamo messo in scena Il compleanno. Marco mi ha detto: "Ermanna, guarda che potresti fare questo personaggio", anche perché il personaggio, Meg, aveva una battuta che è anche una frase-chiave nella mia vita: si chiedeva "Sono bella? Sono bella?". Io ho una sorella molto bella, e c’era questa Meg, una donna un po’ nevrotica e insicura, a cui capitano delle cose che non comprende, è anche un po’ sciocca... Meg aveva una certa età, e allora mi sono messa il mio abito da sposa, che era un abitino normalissimo, e mi tingevo i capelli di grigio con una bomboletta. La cosa bella non era tanto il fatto di essere così vecchia in scena, il bello era fuori, quando la mattina, dopo aver recitato la sera precedente, andavo all’università. Non mi lavavo i capelli, e questa maschera creava una distanza e tutto un altro rapporto con le persone. Portare la maschera fuori dal teatro: forse è stata questa la prima esperienza significativa, una costruzione in cui vita e scena erano legate insieme. Subito dopo abbiamo fatto Finale di partita...
E lì recitavi?
Recitavo, e ho fatto anche le scene, c’erano i due bidoni. Invece le scene del Compleanno di Pinter ogni volta cambiavano, perché all’inizio, siccome Marco era molto legato ai Cristiani per il Socialismo e a quel tipo di realtà, facevamo il giro delle parrocchie. All’epoca nelle parrocchie erano in funzione molti teatri; per Il compleanno di Pinter ci voleva un salottino e tutte le parrocchie avevano un piccolo salottino, e noi lo usavamo.
Un salottino da teatro...
Un salottino da teatro, e ogni volta cambiava: una volta era anni Sessanta, quella dopo un arredamento dell’Ottocento...
E questo influiva sul tuo modo di recitare o ti era indifferente?
Non ho molti ricordi. Ricordo una certa incoscienza e la libertà di essere lì. Questo mi portava la libertà di non dover rendere conto a nessuno di quello che stavo facendo. E "a nessuno" vuol dire alla mia famiglia…
Che avevi abbandonato…
Per cui è accaduto il teatro. Ma allora, in quel momento, non era chiaro che quella fosse veramente una strada. Non è stata una scelta - e per fortuna, dico adesso, perché comunque è accaduta quella cosa e ora mi cavalca lei. È una cosa che posso dire solo ora, all’inizio non era così chiaro. Per Marco invece era molto chiaro.
Con quali strumenti tecnici hai iniziato a fare l’attrice?
Senza niente. Ho sempre avuto un’ossessione, quella della lingua, della dizione. Mi piaceva molto leggere il greco e il latino, anche se non sapevo tradurre bene. La lettura, anche in italiano. Leggere le parole al mondo giusto: quando ero a scuola ero molto brava, mi facevano leggere perché scandivo... Questa è stata una cosa che poi ho usato quando sono salita in scena. Ma non avevo assolutamente una preparazione specifica, nessuno di noi l’aveva e non l’abbiamo neanche cercata, per un certo tempo.
Quindi tutto quello che ti arrivava erano le indicazioni del regista?
Sì, ma le indicazioni le davamo insieme, perché io e Marco avevamo dato gli stessi esami e costruivamo gli spettacoli sugli esami che stavamo facendo. Andando avanti le cose diventavano più complesse, e si è delineata una visione del teatro che era anche una visione della vita. Le due cose non erano per niente slegate, non si possono leggere slegate. Era una visione di come essere nel mondo: una scelta cristiana e una scelta di povertà. Ci trovavamo due volte la settimana a leggere le Scritture, san Francesco era il nostro Vangelo. Vivevamo di espedienti. Marco ha fatto il fruttivendolo per un certo periodo, io e Lella – perché erano scappati in due, Marco e sua sorella – facevamo delle collanine e dei lavori a cottimo…
Facevate collanine da fricchettoni?
No, non c’entravamo niente con gli hippy… Eravamo slegati proprio da tutto. E la cosa dalla quale eravamo più slegati era il teatro, non conoscevamo assolutamente nulla. All’inizio c’era il giro di queste parrocchie, a Ravenna. Abbiamo fatto molte azioni di strada, facevamo la rappresentazione del Venerdì Santo, facevamo Banche…
Che cosa vuol dire "Facevamo Banche"?
Banche era un’azione di strada. Raccoglievamo nelle parrocchie gli abiti per i poveri, li stiravamo e li risistemavamo, e ce li mettevamo addosso, come i bancari. Eravamo in sette, ci mettevamo tutti questi vestiti, le donne in completo e gli uomini pure. Avevamo chiesto in prestito a dei nostri amici delle valigette, tipo ventiquattr’ore, e andavamo di fronte a una banca. A noi sembrava di essere vestiti come i bancari, e comunque eravamo abbastanza a posto, e pian piano crollavamo a terra, di fronte alla banca, uno dopo l’altro. Abbiamo avuto problemi con la questura…
E come vi era venuta l’idea di questa azione?
Era venuta a Marco. Erano tutte cose che scriveva Marco, poi faceva la regia e recitava. Tutte le indicazioni venivano da lui. Per me una cosa fu chiarissima: io non parlai più dialetto, difficilmente andavo a trovare la mia famiglia, solo mio nonno veniva a trovarmi e ci sponsorizzava, nel senso che ci dava dei soldi sottobanco.
In quegli spettacoli parlavi solo italiano, e c’era un rifiuto totale del dialetto?
Era un rifiuto totale di quel mondo Se mi chiedevano dov’ero nata, rispondevo: "A Ravenna". La mia città era Ravenna, non dicevo mai che ero figlia di contadini, anche perché per me era talmente visibile che lo ero…
…che era inutile ripeterlo.
Però mi camuffavo, per esempio quando andavo in giro con i capelli grigi… Spostava l’immagine, e io cercavo di spostare le immagini. La povertà era una scelta, ma era anche una cosa che accadeva da sola, e quindi non sono mai stata sana come aspetto. Ma in quell’epoca lo ero ancora meno, e questo mi piaceva…
In che senso non sei mai stata sana come aspetto?
È un retaggio contadino…
Ma che cosa vuol dire "sana"?
Sana come una bella ragazza romagnola… Mia nonna era molto turbata dal fatto che non fossi una bella ragazza romagnola.
Perché sei pallida?
Perché sono pallida, perché sono piccola, perché per portare lo scaletto ci vogliono le braccia e per fare io figli ci vuole una certa struttura fisica. Mia nonna era molto turbata per questo. A me il fatto di essere così mi piaceva, ma si vedeva lo stesso che ero figlia di contadini. Non so da che cosa si vedesse, ma tutti gli altri erano cittadini. Mia nonna diceva: "Cosa ce ne faremo di questa zivilina?", che vuol dire "cittadina". Quindi c’era una contraddizione tra questi due mondi.
Ma a un certo punto quel mondo contadino è ritornato nel tuo orizzonte.
È ritornato grazie a Marco, che è uno sradicato, un immigrato che non ha un dialetto. È ritornato perché quando Marco si è laureato la mia famiglia l’ha accolto, e a quel punto si è innamorato di quel mondo, di quelle persone, dei loro riti, di quello che erano. Ha scritto su di loro nei Refrattari (1992), ha scritto su di me, e mi ha detto: "Ermanna, tu farai Daura", che è la mia nonna paterna. "Ma guarda, Marco, io non somiglio per niente a Daura". E invece forse le somiglio. Anzi, oggi ne sono sicura, le somiglio. Adesso c’è in me un orgoglio di venire da quella parte, ma è arrivato in un periodo preciso, quando Marco ha scritto questi testi, dopo che avevamo trovato gli africani. Sono passati dieci anni prima che questo mondo si riversasse nel nostro lavoro.
Prima di questo recupero c’è stata dunque una serie di acquisizioni culturali, diverse da quelle della scuola o dell’università.
C’è stato Grotowski, c’è stato Flaszen… Abbiamo fatto Banche e Beckett, e poi Woyzeck… Eravamo il Teatro dell’Arte Maranathà… "Maranathà" è l’ultimo versetto dell’Apocalisse, "Il signore viene", quindi eravamo molto connotati. Poi ci fu un colpo di fortuna: ci vide un prete di Cesena, che procurò un circuito in Emilia-Romagna a noi e al Teatro Explò, che poi sarebbe diventata la Raffaello Sanzio. Così giravamo in questi teatrini parrocchiali, e poi non solo parrocchiali. A un certo punto ci furono dei problemi nella compagnia, perché alcuni di noi subivano pressioni molto forti dalle famiglie: "Se non guadagnate, come farete ad andare avanti?". Avevamo vent’anni, ventuno, alcuni dovettero andare via, altri non avevano più la passione iniziale. Ma intanto a Ravenna erano nati altri piccoli gruppi, e allora facemmo un gruppo grandissimo, che ebbe vita molto breve, Linea Maginot. Con Linea Maginot io non feci assolutamente nulla in scena, e Marco faceva l’organizzatore. Ci trovavamo all’interno dell’Istituto di Igiene Mentale di Ravenna, dove avevamo un luogo per lavorare.
Avevate rapporti con i ricoverati dell’ospedale psichiatrico?
Con loro facevamo delle feste, delle prove e delle azioni per strada. Facemmo anche uno spettacolo comico. Eravamo in tanti, dodici-quindici. C’erano alcuni spostati della città, altri che volevano far teatro sul serio, altri che volevano solo fare delle prove. Poi la regione Emilia Romagna diede ai gruppi i soldi per un progetto pedagogico e di ospitalità. Chiedemmo uno spazio al comune di Ravenna, che ci disse che per noi non c’era spazio, noi non eravamo nessuno. A quel punto lo chiedemmo a Bagnacavallo, dove c’è un teatrino molto bello, all’italiana. Il sindaco ci disse: "Sono quarant’anni che non si apre. Se lo volete…". Così questo progetto "Maestri e Margherite" lo facemmo a Bagnacavallo. A quel punto ci fu la scissione di Linea Maginot, perché alcuni, tra i quali la sorella di Marco, dissero che non erano interessati ad avere un luogo fisso e un rapporto con l’istituzione, e decisero di fare compagnia da soli. Invece a noi interessava un radicamento.
A quel punto avevate già realizzato diversi spettacoli.
Anche diversi testi scritti da noi. Lavoravamo anche nelle chiese. Fu molto importante una Via Crucis fatta proprio nelle chiese. Non eravamo amati dai cattolici, perché eravamo eretici e facevamo spettacoli senza speranza, i comunisti non ci potevano vedere perché eravamo cattolici, e gli altri non li consideravamo neanche. Avevamo uno spirito anarchico, ci venivano in mente i giullari medioevali. Eravamo nomadi, non eravamo connotabili né come gruppo né soprattutto come persone. Ma quando abbiamo deciso di tenere il teatro di Bagnacavallo e avere un rapporto con questo luogo e un radicamento nella città, è cambiato tutto.
Le Albe c’erano già?
Nacquero proprio da questa scissione. Fu lì che raggiungemmo un’idea precisa della nostra visione: sicuramente la strada era quella. Non che fino a quel momento avessimo giocato, però prima la cosa che ci spingeva era il fatto etico, un modo di un porsi nel mondo eticamente e religiosamente. Il teatro era un mezzo. Questo vale più per me che non per Marco, lui aveva già un rapporto diverso con il teatro. Ma per me si è chiarito tutto quando sono nate le Albe. Ho capito che cosa significava essere un gruppo, avere dei maestri, rintracciare una strada, eccetera. E sono andata a cercarmi dei maestri.
In base a quale criterio li hai scelti?
Attraverso le letture, non attraverso la conoscenza degli spettacoli, perché in realtà non ne vedevamo tanti.
Chi hai scelto per cominciare?
Ho scelto Grotowski, Flaszen e Kaya del Roy Hart Theatre, perché mi interessava lavorare soprattutto sulla voce. Ho sempre avuto un gran desiderio: essere una cantante lirica, anche se non mi sono mai educata per questo. Poi ci fu il progetto che Pontedera fece con Grotowski sui gruppi mediterranei. Dopo il lavoro con Flaszen e Kaya, sentii il desiderio di fare uno spettacolo tutto mio, Confine. Siamo già nell’86, Marco aveva già scritto i testi, che però non riguardavano la Romagna: erano i testi di un "Cantiere Dick", erano in relazione con la fantascienza, con una visionarietà di quel tipo, con i mondi impossibili e con la fine del mondo, erano testi apocalittici. Da allora ho sempre fatto l’attrice, perché a un certo punto è diventato molto chiaro che io ero quello.
Come ti è diventato chiaro?
Attraverso la lettura di Kantor, Grotowski, Artaud, Bataille... E Jung. È difficile spiegarlo, ma riguarda la mia relazione con i sogni: una relazione veritiera, giornaliera, quotidiana. Sono delle visioni che poi si avverano o meno. È una linea che la mia famiglia ha dalla parte femminile, la mia nonna era una guaritrice stregona. Leggendo Grotowski, Kantor o Jung, avendo a che fare con un mondo che non è così delineato da contorni, ma fluido, nel passaggio tra una visione, un sogno, e ciò che poi accadrà, mi sono slegata dal modo di fare del Cantiere Dick e dalla fantascienza, per fare una cosa tutta mia che avesse a che fare con queste visioni. L’inizio è la lotta con un invisibile, che però per l’attrice che è in scena è tattile.
Dunque il lavoro dell’attrice consiste nel dare una forma e una visibilità a questo mondo.
Sì. Grotowski era il maestro che mi era più vicino, perché ha a che fare con Jung, e con una sostanza, o un gesto, o una voce, insomma qualcosa che tutti abbiamo e che fa parte di quello che chiamo "fondo", cioè una sostanza che accomuna tutti gli esseri, e l’attore in particolare. Per me quel laboratorio, che durò solo una settimana, fu fondamentale: mi permise di avere un rapporto con Grotowski e anche una relazione precisa con il mio spettacolo. Confine è il mio spettacolo sui circhi e sull’impossibilità di non avere un corpo.
In questo momento nella tua storia s’intrecciano moltissimi temi. Da un lato l’esigenza di avere una maggior consapevolezza, anche culturale, del rapporto con quello che chiami "fondo"; dall’altro c’è la necessità di appropriarsi delle tecniche per fare questa operazione. Perché non si tratta solo di prenderne coscienza personalmente, ma anche di trovare il modo per comunicarle agli altri.
Marco era la figura pubblica, il regista, il leader che dava l’impostazione e la visione del gruppo. Mentre a un certo punto io ho smesso di fare una cosa precisa. All’università seguivo un indirizzo archeologico.
Anche a livello simbolico il rapporto con quello che dicevi è molto forte.
Ma a un certo punto la docente con la quale avevo preso la tesi mi disse: "Ermanna, tu devi scegliere. Qui cominciamo ad andare veramente avanti, io voglio che tu cominci a fare le lezioni, Vorrei che tu ti laureassi su queste cose. Andiamo a fare una lezione ad Aquileia: la terrai tu". Per me era un’occasione molto importante. Ma contemporaneamente facevo teatro e per me le due cose erano molto legate. Sul treno per Aquileia mi sono capitate alcune cose, di cui una fulminante, anche se uno può intenderla come vuole. Eravamo in uno scompartimento di sei persone, con i vetri che danno sul corridoio. Passa un vecchio, io lo vedo, lui torna indietro, entra e chiede a quello seduto accanto a me: "Mi faccia posto". Mi prende le mani e dice: "Tu mi hai chiamato". Io non mi sono spaventata più di tanto. Questa persona comincia proprio dal mio nome, dalla radice del mio nome, dal luogo dove sono nata, e poi dice: "Che cosa ci stai a fare qui, che la tua strada è un’altra?". E mi ha detto quale sarebbe stata la mia strada. A quel punto sono andata ad Aquileia a far la lezione
Ma la tua professoressa ha assistito all’episodio del treno?
C’era. E quando sono tornata, ho abbandonato l’università per due anni. Poi mi sono laureata in drammaturgia con una tesi sui dialoghi filosofici di Giordano Bruno, e ho fatto Confine. Anche se Marco si occupò della regia, l’ideazione fu mia. Volevo assolutamente lavorare sull’impossibilità di assottigliarsi e di annullarsi del corpo in scena, sull’impossibilità di restare una voce. Si lotta sempre con un invisibile che a volte ti accarezza, a volte ti ripugna, a volte ti fa cadere. E questo invisibile aveva a che fare con il mio teatro, erano i fantasmi contadini.
In questo rapporto con l’invisibile avevi trovato degli antecedenti in Beckett, ma anche nella consapevolezza di quel tuo corpo piccolo e "malato" rispetto a quello della "bella romagnola". Ma c’è forse un’ambiguità nel progetto da un lato di dare forma al questo invisibile, e dall’altro nel tuo desiderio di scomparire, di diventare invisibile.
A un certo punto mi è diventato chiaro che il fatto di essere in scena era comunque una costruzione, un artificio. La scena è il luogo della massima libertà, lucidità e disciplina. Finché non ho fatto quello spettacolo, finché non l’ho portato a Grotowski, non mi era così chiaro. Lavorando in questo seminario con i suoi assistenti, la cosa mi è diventata estremamente chiara: lo spostamento di un mignolo, di una vocale o di una mezza nota erano fondamentali. Il teatro è l’assoluta costruzione. Il teatro ha a che fare con la vita ma solo dopo una... – non vorrei a chiamarla "tecnica" – ma solo dopo il lavoro dello stare in quel luogo, e quel luogo diventa la tua costruzione, la tua visione. Questo mi è diventato chiaro abbastanza tardi, ma è un punto cruciale. Da quel momento sono mutate tantissime cose: per me non era sufficiente essere solo un’attrice, mi era necessaria una visione del teatro a trecentosessanta gradi. Quindi si poteva organizzare, si poteva ospitare, ci si poteva relazionare, si potevano avere visioni registiche e scenografiche, si poteva scrivere: non per diventare uno scrittore, ma scrivere per la scena, sulla scena, portare avanti una teoria, trasformarla. Siamo entrati in un flusso, mentre prima c’era una certa rigidità. Anche essere attrice era una rigidità, perché la scena era un luogo separato. Dopo quell’esperienza non è più stato così, mi è nata come un’esuberanza del teatro che ha fatto sì che io potessi accettare anche di essere una contadina e di fare spettacoli in dialetto, che potessi accettare di essere Daura, cioè tutto quello che fino a quel momento avevo allontanato, e anche odiato. Per me quella di Daura era proprio puzza, mi sentivo puzzolente. Adesso la puzza c’è lo stesso, ma c’è anche l’orgoglio di appartenere a quel mondo contadino. C’è una relazione con la mia famiglia anarchica, dove la mamma, la nonna, le nonne, i parenti erano animisti, proprio come quelli che ho conosciuto nei villaggi africani. Per esempio, quando c’erano la tempesta e la grandine, si bruciava l’ulivo. Prima mi sembravano superstizioni, in realtà erano veri e propri riti, anche se non voglio certo idealizzare queste cose.
Questo mondo contadino viene fuori per la prima volta in Confine?
Viene fuori perché sono andata a saccheggiare Campiano. A un certo punto facevo un fachiro e prendevo un ferro da stiro copiato da Man Ray, con un chiodino sul quale sacrificavo delle sardine. Quello era un oggetto di Campiano. Poi facevo un domatore di leoni che doveva mostrare la propria forza, e usavo una catena da buoi. La casa si puliva sempre con la segatura, buttata sulle pietre, sulle tavelle di cotto, e quindi il pavimento della scena era ricoperto di segatura. Poi c’era la terra: quando il babbo e il nonno tornavano dal lavoro, avevano sempre questo colore marrone, e quindi volevo diventare di questo colore. Quello che misi non era terra, era un colore, per cui io diventavo un colore. Il gesto più importante fu la prima volta che presi uno dei teloni dei pagliai, quei teloni che coprivano i carri armati – le nostre campagne ne sono piene. Usai come fondale proprio questo telo militare. In Confine c’era Campiano: negli oggetti, nelle immagini. Era un mio mondo, è stato come essere catapultati via, perché in quel momento era molto chiaro che ero un’attrice…
Che non eri tu, Ermanna Montanari, ma un’attrice che recitava una serie di ruoli…
…non ero io. Era chiaro che ero un’attrice. Dicevo "Benvenuti", facevo l’imbonitore, vendevo i cuscini, mi facevo dare i soldi e poi facevo tutti i personaggi. C’era una mutevolezza, ero tante e tante cose, non avevo un’immagine fissa. E questo era l’assottigliarsi, lo scomparire. Non c’era Ermanna…
Però è uno scomparire paradossale, perché poi ti moltiplicavi in diecimila altre forme.
Per un certo periodo non ho saputo dov’era Ermanna, e questo poteva essere molto comodo. A volte è diventato difficoltoso anche tra me e Marco: "Chi sei?". Era come portarsi a casa una voce dalla scena, per non essere Ermanna. Mi stava accadendo qualcosa di molto importante, e lo stavo accettando. Stavo accettando quel mondo e la sua cultura. Infatti per la prima volta in Confine c’era un pezzo in dialetto.
Questo recupero della cultura contadina, dicevi, è arrivato dopo l’incontro con i ragazzi africani.
Sì, come un fuoco d’artificio hanno portato la loro lingua, un dialetto assolutamente sconosciuto in Europa, il wolof. In Ruh. Romagna più Africa uguale, loro recitano in wolof…
È accaduto prima di Confine?
No, dopo. Confine è uno dei primi input. Ma passare dal rifiuto di tutta la puzza della campagna a un’assunzione di questa puzza, che diventa orgoglio e fatto culturale, e portarla in scena, e quindi non un recupero ma proprio un mostrarsi così, è avvenuto con gli africani. Sono stati loro a insegnarmi questo, insieme a Marco che ha cominciato a scrivere cose precise in dialetto. In Ruh inizio in dialetto, un dialetto infernale, una cantilena…
Con Ruh siamo nell’87…
Confine è stato pensato nell’85 ma ha debuttato nel gennaio dell’86. Ma Ruh è stata la prima grande apertura, un portone che si apre con rumore… Anche se sono mussulmani, nei ragazzi l’animismo è potentissimo: andavano in giro con tutti loro oggetti, facevano certi racconti, era la stessa identica cosa, anche quel modo di comportarsi relativistico… "Come? Quel faro non funziona? Ma qual è il problema? Ne prendiamo un altro… Questa cosa non c’è? Ma che problema c’è? Ah, non ho i calzini rossi? Perché dovevo avere i calzini rossi?". Tutto per loro diventava relativo. E però avevano un’energia tale che mi dicevo: "Ma è vero, se non hai il calzino rosso mi cambia mica tanto. È vero, se quel faro lì a lui dà fastidio e ogni volta ci sbatte dentro, spostiamolo". Prima, grotowskianamente, se il calzino era rosso doveva essere assolutamente rosso, se il faro doveva esser lì, lì doveva restare. C’era una stitichezza nell’ordinare, nello schema della mia testa. Dopo è diventato relativo ma esuberante, vitale. In Ruh ci sono i due dialetti, romagnolo e wolof. Ma non è un confronto, i due dialetti sono come un canto. Stavamo facendo davvero un rito magico ambientato all’inferno, perché l’inizio dello spettacolo è proprio un inferno. Per me è stato un grande chiarimento, c’è stata l’assunzione della dialettalità. Ho cominciato a scrivere, e a pensare in modo diverso. La libertà era quasi completa. È tornato il telo che c’era in Confine, tutto dipinto con il solfato. Ruh era ambientato in piazzale Adriatico a Ravenna, tra le brutte e non ovvie facce ravennati. Poi c’è stato Siamo asini e pedanti?, e di nuovo c’era il dialetto. Tutti i testi che Marco ha scritto da allora sono in dialetto e in italiano.
È stato un percorso di recupero abbastanza tortuoso e lungo. Un altro versante che emerge con molta evidenza è il lavoro sul femminile, che esplode con forza in Rosvita [1991]. Come ci sei arrivata? Sono reminiscenze scolastiche?
No, no. Fu una malattia. Tornando dall’Africa ero stata invitata come attrice in un laboratorio che si teneva in Portogallo, ma non ci potei andare. Secondo i medici non potevo più muovermi e né fare teatro. Ero combattuta: la donna Ermanna, fuori dalla scena, aveva detto: "Marco, vai pure". Però avrei voluto che rimanesse. Marco è andato, chiaramente, giustamente. Una parte di me era una donnina delicata, che voleva essere protetta, e c’era il fatto che non avrei più potuto fare l’attrice, e quindi mi chiedevo: "Che cosa faccio, visto che non so fare altro?". Erano già gli anni Novanta, avevo fatto solo quello, e d’altra parte non avevo modelli, non potevo essere come Marco. Mi chiedevo: "Ma l’Ermanna, dov’è?". Non avevo niente. Così in quel letto di ospedale ho cominciato a trascrivere queste visioni. Erano visioni molto tattili, erano già uno spettacolo. Per me fu una reazione di donna, nel senso che mi sentivo diversa dalle mie nonne, che comunque stiravano, lavoravano e facevano da mangiare. E non ero neanche uguale agli uomini della mia famiglia, però ero potente come loro. Quindi mi venne addosso una potenza…
Dici che le donne non erano potenti?
Adesso direi di sì, però allora non le vedevo potenti, ma in second’ordine. Non ho mai voluto essere come loro... Di sera gli uomini tornavano dal lavoro e andavano al circolo a giocare a carte, mentre le donne stiravano e mettevano a letto i bambini. Per me era un modello inaccettabile. Mi sentivo potente anche perché potevo stare da sola: Marco non c’era, io non potevo fare niente e gli altri lavoravano su altre cose, e quindi avevo un sentimento di potenza nella solitudine e nella malattia. E mi sono detta: "Se questo spettacolo non posso farlo, posso almeno scriverlo". Poi per fortuna guarii, e mi fu data l’indicazione di Rosvita, che non conoscevo.
Che te la diede?
Ne ho parlato con Antonio Attisani. Gli portai tutte le cose che avevo scritto e lui disse: "Ma guarda che tutte queste cose le ha scritte Rosvita mille anni fa". Conoscevo Laura Mariani, Lea Melandri e alcune femministe di Ravenna, leggevo una rivista come "Diotima". C’era qualcosa nell’aria, molte attrici nate all’interno dei gruppi stavano facendo spettacoli per conto loro, o letture. Mariangela Gualtieri aveva cominciato a scrivere i suoi testi in modo molto più evidente; anche Chiara Guidi si era per un attimo allontanata dal gruppo e forse aveva altre idee. Allora cominciai a pensare di spostare un attimo il quadro, per capire quello che significa un atteggiamento femminile, che comunque in me dovrebbe essere naturale, essendo una donna. Cominciando a ragionare su questo, feci i primi inviti: Laura Mariani, Cristina Valenti, Judith Malina cui feci mandare degli scritti, Mariangela Gualtieri, a parlare di quello che facevano o a fare spettacoli. E lo spettacolo che io avevo in quel momento era Rosvita.
Ma tu hai chiamato queste persone quando avevi già fatto una parte del lavoro...
Lo stavo pensando, poi lo feci. Organizzai una serie di incontri e di ospitalità a Bagnacavallo, che intitolai "Il linguaggio della dea" perché avevo letto il libro di questa archeologa lituana, Maria Gimbutas, che parlava di una società gilanica, un mondo dove uomini e donne vivono pacificamente. Mi era tanto piaciuto, adesso non sono più in quest’onda, ma allora mi pacificava, mi aiutava: soprattutto fuori dalla scena, perché quando ero in scena non mi sfiorava minimamente l’idea di avere un sesso. Non ho mai pensato che la mia voce avesse un sesso, la mia voce non ha un sesso, è la voce di quello spirito... Non so come dire… La lotta ha sempre a che fare con questo invisibile, con la moltiplicazione delle persone e delle cose. Io amo soprattutto fare gli animali, amo soprattutto costruirmi: la mia voce non è la voce di Ermanna, non è importante. In scena non è importante Ermanna, anzi. Mi è sempre piaciuta una frase di Mademoiselle Clairon: "Quanto studio per cessare di essere se stessi". Questo per me è sempre stato un vangelo. Quindi il fatto che la riflessione sul femminile andasse a intaccare il fatto scenico, il luogo della rappresentazione, non mi tornava. A quel punto sono andata in crisi, anche se ho portato avanti questo tipo di riflessione, ogni anno di più, sempre relazionandomi a persone come Lea Melandri o a una rivista molto bella come "Lapis", dove vengono espresse contraddizioni potenti. In queste riflessioni siamo arrivate a un punto dove per le donne nel teatro l’intreccio vita-scena, biografia-scena è importantissimo: molte donne hanno messo in scena un loro sentire biografico, la loro vita. A me questo non piace. È molto problematica, questa riflessione sul femminile, forse perché è molto giovane, e anche perché c’è un giocare a giustificarsi. Con Rosvita sono andata in tanti convegni e rassegne che erano "il teatro delle donne". Non è giusto, non è vero: il teatro è il teatro, che ci siano delle donne o degli uomini... È il teatro, non è il teatro delle donne. Che si tratta di fare? Un movimento? Delle richieste? Qualcosa che a che fare con il sociale? Nella società posso comprendere che cosa significa per una donna avere dei diritti e delle rivendicazioni, ma sulla scena tutto questo mi cade…
Però si vede con molta chiarezza che Rosvita è un lavoro sul ruolo femminile, e che questo lavoro è talmente stratificato che puoi giocare anche con l’ironia…
In Rosvita ci sono alcune cose molto importanti: per cominciare l’assoluta femminilità. E la femminilità è poter giocare ed esporre il proprio corpo anche come oggetto d’amore. Questo ad alcune femministe non è andato bene, abbiamo avuto grandi discussioni, come se il corpo di una femminista non dovesse essere esposto e non deve essere mai oggetto d’amore. Ma non c’è niente di più bello che essere un oggetto d’amore, sulla scena, ma anche nella vita…
Si capisce da dove possa venire una posizione di questo genere, vista la mercificazione del corpo femminile nella società. Anche se nel momento in cui neghi questa possibilità, rischi di negare anche tutto il piacere della vita…
Non essendo nata come femminista, non avendo gli strumenti e una cultura di quel tipo, perché ero troppo giovane quando è nato il movimento femminista e non ne ho mai fatto parte, questo rifiuto non mi si è scatenato. Comunque ho difeso una femminilità che in Rosvita voleva dire l’esposizione del proprio corpo - in quel caso il corpo di Rosvita era il mio - e di un sesso e di una sessualità. È una sessualità forse ambigua, una donna può anche masturbarsi, e infatti nello spettacolo c’è anche una masturbazione: facevo un uomo, Dulcizio, che aveva un fallo, però io mi masturbavo una tetta. Non ho visto questo gesto come qualcosa di peccaminoso rispetto a un’ideologia di tipo femminista, anzi, c’era una grande libertà nel poter fare questo in scena e nell’essere contemporaneamente uomo e donna: nel corpo, nella voce e nel modo di essere in scena. Questa è sempre stata una mia caratteristica, però da Confine in poi questo essere senza contorni è diventata una cosa fondamentale. Non è un’ideologia, piuttosto un’esperienza che in ogni spettacolo viene portata avanti. Potrebbe avere a che fare con la magia e l’invisibile. In Lus sono strega, quindi una maga. È chiaro che le streghe sono donne, ma il carisma che usano per essere ascoltate è sempre un camuffamento, una maschera: indossano un copricapo oppure muovono le mani in un certo modo. In Africa è chiarissimo: quando vai dalla maga quasi non la vedi, in genere il volto è coperto o è al buio, e quindi il rapporto è magico, ambiguo... Viene da chiedersi se è un animale, un uomo o una donna. In genere è una donna con voce da uomo. È quello che faccio in scena, e mi appartiene fin da piccola: dicevano che avevo dei problemi psicologici, ma era semplicemente che potevo avere visioni. Visioni che appartengono a qualsiasi essere, se le coltiva.
Avere la forza e la possibilità di evocare queste visioni, dal punto di vista teatrale può essere un modo per entrare nel personaggio. Usi questo meccanismo per costruire il tuo personaggio?
A parte Rosvita, mi è sempre stato detto che sono molto più credibile quando lavoro con Marco. Ippolito e I Cenci, i due spettacoli che ho fatto io, non hanno avuto la stessa fortuna. Forse perché, mi sono detta, hanno troppo a che fare con me. Parto da una cosa che conosco bene e voglio che gli altri entrino in contatto con questo mondo magico, di visione, e allora voglio assomigliare a una voce che ho pensato, a una voce che ho sognato, e che quindi voglio ricreare... Questa estrema vicinanza con la vita mi porta a fare spettacoli forse vicini alla performance, dove la costruzione teatrale non è così chiara. A un certo punto c’è un essere dentro e fuori scena, sono Ermanna ma anche Fedra, Ermanna e anche Beatrice. Forse c’è la semplificazione di un’idea, ma una semplificazione nel senso non bello del termine.
Perché questi spettacoli sono troppo legati non alla tua biografia ma al modo in cui sei, e quindi impoveriscono la ricchezza e la struttura dello spettacolo.
Sì, in qualche modo impoverisco Fedra e I Cenci, perché li costringo all’interno di qualcosa che ha tanto a che fare con Ermanna. È come un voglio fare questo, non è un posso, non è una potenzialità ma una volontà. Quando Marco propone una visione e dice: "Ti vedrei a fare Daura o a fare Spinetta [I 22 infortuni di Mor Arlecchino, 1993] o l’asina Farì [All’inferno, 1997]", ho una libertà estrema, anche perché lui dirige, mi guarda e lì viene fuori qualcosa. Sicuramente le sue strutture sono più complesse, più pensate ed elaborate, e non ha il problema di far venire fuori qualcosa che ha a che fare con Ermanna, ma solo quello di far venir fuori l’asina Farì. Quindi è anche molto chiaro, come lo sarebbe, credo, per qualsiasi altro attore, che deve far venir fuori quella cosa lì e non un’altra.
Questo significa che nel momento in cui tu lo incontri, il lavoro di Marco ha già una struttura e un’oggettività tali che ti danno degli spazi di libertà…
Tante volte la costruiamo insieme, perché l’asina Farì l’abbiamo costruita insieme anche drammaturgicamente. Ma la libertà è maggiore: per me quella è l’asina Farì, non è Ermanna.
Ci sono, dal tuo punto di vista, una distanza e un’oggettività. Invece nei tuoi spettacoli, per esempio nell’Ippolito, la mediazione con il tuo io, e con tutto quello che comporta, interviene pesantemente.
È come un avvoltoio. Credo di avere avuto buone intuizioni, ma manca l’elaborazione. Per me Ippolito doveva essere l’intuizione che il rapporto tra Fedra e Ippolito fosse una mistica del corpo, un erotismo della mente. Questo mi riguarda nel profondo, perché credo di avere un corpo santo. In base a quest’intuizione c’erano tutte queste diagonali, perché tutto era spostato, in disequilibrio. Ma mi appesantiva quello che io ero, il fatto di aver comunque a che fare con Euripide, che è una stella brillantissima.
Anche la santità e la mistica sono esperienze difficili…
Sì, e però in Rosvita ci ho tanto giocato.
Lì c’era l’ironia, e attraverso l’ironia puoi alludere a queste esperienze. Se non c’è ironia questa esperienza trascendente lo spettatore si aspetta che gliela dia tu.
In Rosvita succedeva una cosa molto interessante, che invece non succedeva né nei Cenci né in Ippolito. In Rosvita ero proprio questo flusso: potevo essere Taide, e quindi la puttana, potevo essere Pafnuzio il masturbatore...
E poi c’era anche Ermanna che li guardava tutti.
Invece nei Cenci io ero Beatrice, e nell’Ippolito Fedra, e lì non c’è più scampo. Ogni volta, finito lo spettacolo, ero di una cattiveria tale, perché il meccanismo mi aveva preso. Quando faccio All’inferno, I refrattari o Bonifica, potrei fare altre cento repliche, mi sento potente, l’energia è lì. E questo mi accadeva anche in Rosvita. Non è proprio che avessi lo sguardo di Fedra, ma c’era la cattiveria di questa cosa e quindi non andava bene. Non era una cosa veritiera. Era veritiera nel sentimento, ma questo non vuol dire assolutamente nulla.
Vuoi dire che era vera per te e non necessariamente per chi ti vedeva?
Sì, non per quel luogo. Nei Cenci e nell’Ippolito non era solo teatro. In questi anni ho fatto anche molte performance e mi sono molto divertita: ma la performance è un unicum, uno happening. Penso una cosa, ho una visione, e la faccio. Ottimo, basta. Ma questo non è teatro. L’elemento che accomuna tutte le cose che ho fatto, compresa l’ultima, Lus, che però non è un mio testo, è l’evocazione, porsi come un medium.
Mi sembrava che fosse già chiaro nel momento in cui parlavi di visione…
Questi spettacoli iniziano tutti con un’evocazione. Rosvita inizia chiamando proprio Rosvita. Fedra è bendata e chiede: "Dov’è? Dov’è", chiamando l’oggetto d’amore. Cenci dice: "Sì, l’ho ammazzato".
E parti da questa evocazione per costruire il personaggio, per trovare le caratteristiche, i toni di voce e forse alla fine per dargli una psicologia?
Non so mai se do una psicologia ai personaggi. Non credo, non me ne preoccupo mai. Lavoro per molto tempo da sola, sia se faccio una cosa mia sia se lavoro con Marco. Mi chiudo al buio in una stanza e lì in genere comincio col mettermi addosso delle cose, un paio di pantaloni, un maglione o una camicia. Insomma, quello che importa è la qualità della stoffa. Poi ho bisogno di parole. Tante volte sono parole che conosco molto bene, per cui possono essere parole della Bibbia…
Quindi non cominci con le parole di quel personaggio.
No. Quando Marco le ha, e questo accade soprattutto se fa lavori suoi, posso usare anche quelle, ma difficilmente uso parole nuove. Però ho bisogno di un testo. Per fare un esempio, nei Cenci Beatrice uccide il padre con un chiodo e un martello; mi sono detta che Beatrice ha un chiodo in gola, perché uccidere un altro con un chiodo è avere un chiodo in gola, è sapere che cosa vuol dire avere un chiodo in gola; allora ho provato per giorni e giorni a pensarmi con un chiodo in gola, e quindi a trovare la posizione per avere un chiodo in gola. Procedo per tentativi. Quello è stato il punto di partenza. Alla fine Beatrice fa un monologo iniziale con una voce sottilissima, e quelli che l’hanno visto mi hanno chiesto: "Ma che cosa avevi in gola?". Non avevo assolutamente nulla in gola, però per me lì c’era quel chiodo. Quando ho fatto per la prima volta un asino, mi sono chiesta che cosa può essere un asino, e sono andata a vedere come cagavano gli asini, perché per me la voce aveva a che fare con quest’apertura. In realtà gli asini non cagano in modo diverso dalle mucche, però ho visto quest’apertura, questa grande esplosione, come un boato, e poi questo culo che si chiudeva e aveva questo colore livido: quindi per me la voce dell’asina doveva essere fatta come di boati, aveva a che fare con una voce da soprano. Procedendo per tentativi sono andata a prendere dei canti, per alzare il più possibile la voce e trovare una posizione bassa per alzarla. Il punto di partenza è sempre molto tattile o visivo…
Però nel costruire il personaggio inizi sempre dalla voce, dal tipo di voce che userai.
Sempre. Ora mi dà sicurezza. All’inizio era un tentativo. Mi ha fatto molto bene lavorare con Kaya, Flaszen e Grotowski, perché mi sono state date indicazioni e anche assicurazioni su quel che poteva fare la mia voce. Per me la voce è comunque un punto di espressione, un punto di potenza, carismatico.
E da dove viene questo carisma?
Quando provo, a tratti c’è una coscienza del luogo da cui proviene, e quindi posso intervenire. Ho delle corde vocali robuste e solide, da vera ragazza romagnola: mia nonna sarebbe contenta, ma purtroppo non si vedono. I romagnoli sono nati nella palude, sono dei ranocchi e usano una voce gutturale. A un attore fa molto male usare la gola, ma io l’ho sempre usata, perciò è robusta e non me la rovino, non mi brucia. Sicuramente un altro punto da dove la voce viene molto potente è quella che per me non è solo la pancia o il plesso solare, ma il punto da dove si caga. È un punto chiave. Come cantante lirica sarei un contralto, e si racconta che alcuni cantanti lirici quando sono al massimo e sono liberi cagano mentre cantano. Un altro punto molto importante è la testa dietro l’orecchio, perché di lì viene la voce molto alta, che non è l’urlo ma proprio una voce di testa, quella assoluta e diamantina della lucidità: ce l’ho e mi piace usarla, in All’inferno la uso un’unica volta, quando c’è Strepsiade, solo in due frasi quasi cantate, ma mi piace tantissimo usarla. È una voce che non fa mai comprendere il significato della parola. In Rosvita la usavo, era quasi cantata. Per me questa voce è il canto disperato dell’estrema lucidità, che è poi la lucidità che ho in scena.
E perché la lucidità dev’essere disperata?
La lucidità per me è sempre disperata…
Perché? È la vecchia Apocalisse che ritorna?
Una delle cose più belle, che non accade sempre in scena, è quando sei completamente privo di pensiero, quando sei completamente un asino. Mi vengono in mente le vecchiette in chiesa, che recitano la preghiera e non sanno che cosa dicono e però la preghiera gli viene così. E comunque sono in adorazione perché l’adorazione è quello: uno stare in un sentimento che tu non provochi ma ti è dato, e questo stare è un modo totale di essere in scena, dove la lucidità è qualcosa che ti arriva, che ti accade. Sei vuoto come in certi esercizi yoga. In scena ci sono entrambe le cose: sei perso ma contemporaneamente sei lucidissimo, e questa lucidità è terrifica, è una morte. Vedere è comunque una morte, sempre, perché vedere ti provoca la morte. Ogni volta devi ripomparti per vivere.
E da questa voce si costruisce il corpo, il modo con cui è in scena o si muove o i gesti che fa.
Il corpo viene dopo, perché il mio corpo in genere non è mai adatto. Ho sempre pensato di non avere un corpo adatto, a priori. Me lo dicevano sempre, in famiglia: "Non sei adatta". Insomma, era chiaro. Per me un’attrice dev’essere bella, e anche se quando vedevo teatro non era necessario avere una bellezza vistosa, comunque era necessario avere il fisico per farlo. E mi sono immaginata che il corpo è secondario, e poi che è manipolabile, per cui se io ho una voce d’asino posso mettergli due orecchie e lo posso vestire di verde o di rosso, mettere un abito lungo o corto, e quello è un asino. Quindi il mio corpo è secondario. Io non ho una visione del mio corpo. Se mi vedo a volte mi impaurisco.
Della voce hai un a coscienza precisa, del corpo meno.
La mia voce mi piace, la curo, la tengo bene, e mi piace anche rovinarla, portarla al limite. Ci gioco. Quando sono malata, soprattutto quando ho l’influenza che fa andar via la voce, è faticosissimo. Il mio corpo invece a volte mi abbandona, poi si ammala, ha diversi problemi: come il fatto di non comprenderlo, di non vederlo tutto ma di vederne solo dei pezzi. Non è che gli chiedo delle cose particolari, al mio corpo… Sono convinta che potrei scalare una montagna e non avrei nessun timore di farlo. Così come sono convinta che il mio corpo possa stare fermo per ore: lui lo può fare. Ma sono tutti, come si dice, tu devi, il corpo devo metterlo in moto con la volontà, come un soldatino. Il corpo è un soldatino. La mia voce non è un soldatino, è lei che mi guida.
Milano, 7 febbraio 1997
copyright Oliviero Ponte di Pino 1997, 2000.
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