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Gli indescrivibili spettacoli
di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa
descritti (sul "manifesto") nel corso del tempo
da Oliviero Ponte di Pino
 

Una giostra: l’Agamennone (1988)
Palcoscenico ed Inno (1991)
Musica per una Fedra moderna (1992)
Spettacolo (1993)
Il cielo in una stanza (1994)
Happy Days in Marcido’s Field (1997)
Una canzone d'amore (Prometeo) (1998)
A tutto tondo (Suzie Wong) (2000)
 
 

Una giostra: l’Agamennone (1988)

Creato sei anni fa, Una giostra: l’Agamennone di Marcido Marcidorjs mantiene intatta la sua forza comunicativa: e già questa è una prima dimostrazione dell’efficacia del linguaggio del gruppo torinese, e della solidità di un’idea di teatro precisa e tagliente.

Teatro come macchina, in primo luogo: una macchina che tende ad assimilare nell’indimenticabile scena di Daniela Dal Cin attori e spettatori. Dopo un breve prologo da avanspettacolo, il pubblico entra infatti in una arena-placenta, sistemandosi sul lato esterno dell’ovale, su una panca sopraelevata, e osserva l’azione che si svolge sia nella trincea lì sotto e al centro della pista, sia aldisopra di questa ragnatela di legno, ferro e corda. È una macchina celibe in cui la scena trova una forma rigida e ineluttabile, che è insieme la sua quintessenza e la sua definitiva prigione: ma ad alleggerire questa sensazione, come s’è già notato, interviene spesso un esibizionismo consapevolmente guittesco, che cita una spettacolarità "bassa".

Poi, un’idea di teatro come sconfinamento dell’umano. I corpi, nelle composizioni e nei groppi tra coreografia e scultura, nelle esibizioni e nelle acrobazie circensi, sono già al confine tra l’uomo e la macchina, tra il corpo e la materia. I costumi, sempre firmati da Daniela Dal Cin, rimandano a un intreccio dell’umano con il minerale, il vegetale, l’animale: le scaglie di rame del manto di Clittennestra-rettile, le lance di legno che si dipartono da Agamennone-istrice, l’abito interamente ricamato di anelli d’ottone e la raggera d’alluminio al cui centro campeggia Cassandra-ragno. Allo stesso modo, la vocalità violentemente antipsicologica e antinaturalistica fa esplodere tutta la materialità del suono, la sua concretezza musicale.

Con questa ritualità stridente, rocciosa, enfatica, Marcido Marcidorjs aspira a una "opera d’arte totale" ossessiva e claustrofobica, in cui l’elemento umano resta angosciosamente sospeso tra la dannazione e la redenzione, tra l’annullamento nella materia e la sublimazione nello spirituale. Forse in questa ambiguità irrisolta risiedono insieme il fascino dell’operazione e il suo limite: perché se questo dissidio e sovrapposizione è il tema di fondo dello spettacolo, il testo di Eschilo rischia di rimanere più che altro un deposito di suggestioni, lo spunto per concretizzare, attraverso il testo e i suoi personaggi, fantasmi che hanno una diversa origine e destino.

Tuttavia, se l’Agamennone si riduce quasi a pretesto per una giostra archetipica, l’esperienza dello spettatore rimane "forte". I segni continuano a graffiare e la tensione (grazie anche alla generosità fisica degli interpreti) resta sempre alta: una poesia acuminata, a tratti quasi sgradevole, martella beffardamente, sofisticata e barbarica.
 
 

Palscoscenico ed Inno (1991)

Musica per una Fedra moderna (1992)

Il boccascena è interamente occupato da un gigantesco televisore. All’alzarsi del sipario-monoscopio con l’insegna del gruppo – "Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa" – si svela un’immagine di forte impatto, costruita con maniacale artigianalità: i punti luminosi del tubo catodico sono stati sostituiti da centinaia di bottoni colorati, che come in un quadro di Seurat compongono un’immagine. Dal fluttuare di punti, curve, sinuosità, emerge una figura femminile, quasi crocifissa sullo schermo – un rimando alla Sirenetta che ispira lo spettacolo, pura immagine alla ricerca di un’anima, sospesa tra il fantastico mondo sottomarino e la realtà.

I precendenti lavori del gruppo torinese guidato da Marco Isidori consistevano nella costruzione di macchine teatrali complesse e crudeli, chiuse su se stesse, a malapena concesse allo sguardo d’un pubblico voyeur: di quelle sculture in movimento, gli attori erano insieme gli operai e il prodotto, il sacerdote e la vittima sacrificale. Questa volta, la scultura scenica (firmata come i costumi dalla bravissima Daniela Dal Cin) si offre fin dall’inizio con tutta la sua forza di provocazione. Palcoscenico ed Inno, costruito "intorno alla" Sirenetta di Andersen, si gioca interamente nello spazio lasciato libero quando quella visione indietreggia, oltre lo schermo immaginario. Quello spazio di confine, quasi a riscattare la forzata immobilità del fantasma televisivo della Narratrice (Lauretta Dal Cin) con l’agilità scimmiesca d’un acrobata, viene occupato da due personaggi da circo onirico (Maria Luisa Abate e Ferdinando D’Agata) e dalla "protagonista titolare", una Sirenetta con le regolamentari squame (Costanza D’Agata).

L’interpretazione è resa impossibile, per affidarsi unicamente alla nuda forza dell’archetipo (in passato Genet e Eschilo, ora la favola crudele di Andersen), con il suo tasso di violenza e di dolore. La Parola e la Scena si scontrano frontalmente, secondo una concezione decisamente agonistica del teatro: con il risultato che la soluzione scenica, anche se di forte impatto, di volta in volta diverge, divaga, si scontra con il testo. O gli imprime una forzatura, come nel caso della folgorante apparizione dell’Uomo Palla (Marco Isidori) che attraversa il proscenio, rubato a un fumetto di Little Nemo o a qualche Paese delle Meraviglie.

In Musica per una Fedra moderna il corredo scenografico è ridotto al minimo, pur rimanendo estremamente costrittivo per i quattro attori, praticamente imbozzolati al centro di altrettante cornici metalliche da una sistema di fasce. Se non fosse per il candore degli abiti, quei volti dipinti di rosso (partendo forse da una suggestione del testo – "il muso dei cani è tutto rosso di sangue") e quelle strutture patibolari potrebbero rimandare a un rituale sadico e impotente – che non riesce a trovare la liberazione: né in un impossibile orgasmo, né in un delitto solo narrato. Più che alla truculenta vicenda mitologica rievocata da Seneca, nella sua Fedra il regista Marco Isidori è evidentemente interessato alla sperimentazione sull’aspetto sonoro-vocale. Nei precedenti lavori del gruppo, la declamazione tendeva ad essere volutamente enfatica, melodrammatica, sostenuta da un’oratoria ora tronfiamente ridondante ora marcatamente grottesca, come deformata da un ricercato eccesso di pathos. In questo caso, il processo è condotto all’estremo: la frantumazione delle frasi, il dispersivo esibizionismo delle passioni, la sottolineatura isterica di ritmi e accenti, la sovrapposizione di tonalità e rumori trasformano il testo in una sorta di partitura futurista. Non a caso lo stesso regista, in veste di direttore d’orchestra, è in proscenio a governare questo magma vocale, accovacciato in una posizione quasi fetale. Sotto la spinta centrifuga di questo miraggio musicale, il testo finisce per svuotarsi di senso ed espressività, per ridursi a pura vocalità, per irrigidirsi in moduli un po’ datati e seguiti con eccessivo rigore. Più che avvicinarsi alle sfumature di una trascrizione musicale, lo spettacolo scivola verso la retorica dell’eccesso o – nei casi migliori – approda a un virtuosismo alla lunga monotono. Manichini immobili e dissennati, gli attori si riducono a macchine celibi, portavoci di un delirio autistico e gridato, di un’angoscia a tratti quasi compiaciuta, che neppure la retorica grandguignolesca di Seneca riesce a oggettivare.

Ma anche in questa Fedra, come sempre nel lavori di Marcido Marcidorjs, si avverte un’idea forte e eccentrica di teatro – anche se non sempre si realizza. Da un lato, si manifesta l’aspirazione a una struttura implacabile e perfetta, una ricerca di simmetrie senza ambiguità, la coerenza inderogabile a un principio, che si riflette in una staticità ora solenne ora ossessiva. A equilibrarla – o meglio, a squilibrarla – c’è una attenzione generosa ma altrettanto ossessiva per il particolare: l’ingenua e faticosa utopia che ogni istante, ogni immagine possa e debba trasformarsi in una rivelazione. Proprio attraverso il particolare – sempre ipercompresso dal rigore della struttura, dall’implacabilità della macchina – fanno breccia il caos, un irresistibile bisogno eversivo, il gorgo delle ossessioni. La sensazione di violenza trasmessa dagli spettacoli del gruppo torinese sembra nascere dall’impossibilità: l’impossibilità di abbandonarsi al flusso del caso e delle pulsioni, e l’impossibilità di costringere questo caos in uno schema. Non è un caso, forse, che i momenti più emozionanti degli spettacoli della Marcido siano proprio quelli in cui la cristallizzazione intellettualistica s’incrina, ed emergono incontrollabili l’errore, la dissonanza, il lapsus, l’invenzione fantastica.
 
 

Spettacolo (1993)

Battezzare il proprio spettacolo, per l’appunto, Spettacolo, tradisce certo una semplificazione e un eccesso di confidenza; ma per un gruppo come Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, impegnato da anni nella messa a punto di una propria idea di teatro, può anche essere una dichiarazione di raggiunta maturità. Dopo lavori che erano innanzitutto macchine teatrali che spesso intrappolavano in un unico marchingegno pubblico e attori, l’etichetta di Spettacolo può anche indicare un consapevole recupero della dimensione frontale per l’interfaccia tra palco e platea.

In pratica, lo Spettacolo dei Marcido è un allestimento della Fedra di Seneca, che utilizza le diverse tecniche teatrali messe a punto in questi anni dal regista Marco Isidori, dalla scenografa Daniela Dal Cin e dai loro collaboratori. In primo luogo, un rifiuto assoluto della psicologia e dell’interpretazione, nella vocalità e gestualità degli attori e nelle geometrie sceniche. Fin dal monologo iniziale di Ippolito, trasformato in coro e svuotato di senso da frantumazioni, echi, riverberi, inciampi, balbuzie: pura materia sonora che esplode, si avvita su se stessa e si ricompone secondo ritmi musicali, a metà tra le antipoesie futuriste e l’analisi fonetica alla Jacobson.

Da questo coro di ambigui fantasisti da varietà, identici e unisex, cappello a cilindro e scarpe con i tacchi, in abiti chiari con vistosi fiocchi ai polsi e alle caviglie, si staccheranno via via la Nutrice (Maria Luisa Abate), Ippolito (Ferdinando D’Agata) e Teseo (Corrado Parodi). Estranea e diversa, fin dal suo primo apparire, è soltanto Fedra. In lei la ritualità sacrale della tragedia si ribalta in un esibizionismo vagamente sadomaso, con la belva-protagonista ingabbiata in costumi scultorei, issata su alte pedane, esposta seminuda a mezz’aria con l’unico sostegno di un palo, intrappolata da costumi e da macchinari che la trasformano in un’icona in bilico tra ieraticità e feticismo. La sua declamazione è sempre enfatica, ricca di sottolineature ed eccessi, a volte strozzata, singhiozzante e gutturale, a volte melodrammaticamente intensa, ripiena e arrotondata.

"È finita l’epoca dei mostri" si lascia sfuggire la Nutrice. Ma Fedra rimane l’ultimo mostro che può infrangere le leggi dell’umanità, ancora in grado di farsi travolgere dalla sua animalità e già pronta come un mostro cyberpunk alla contaminazione con la macchina: dunque creatura intrinsecamente teatrale, attraente e repellente, irrimediabilmente diversa, ultimo residuo e insieme anticipazione di una spettacolarità inquietante e scandalosa.

Spettacolo evita ogni compromissione con il presente, scegliendo di concentrarsi su se stesso, sulle dinamiche interne della materia sonora, sul montaggio delle figurazioni. L’obiettivo finale del percorso della Marcido potrebbe essere una sorta di "opera vocale", basata sulla pura musicalità e su un montaggio d’attrazioni sontuoso e perturbante. Rifiutando l’introspezione, Marcido codifica una minuziosa retorica dell’espressione e dell’ostentazione, in un’estetica di imbizzarrito rigore, che proietta l’evento teatrale verso il pubblico, ma dopo averne preventivamente polverizzato il senso, castrando ogni tentativo d’identificazione e proiezione dello spettatore, per lunsingarne piuttosto una curiosità fredda e perversa. Montaggio d’attrazioni e d’alterità, Spettacolo costruisce intorno alla Fedra di Seneca un guscio dalle forme affascinanti come una conchiglia. Fino a occultare quasi del tutto emozioni e sentimenti dietro una corazza di spigolosa astrazione, spesso sconcertante, imprigionando questo rosario di eccessi nei ceppi della geometria.
 
 

Il cielo in una stanza (1994)

Per quasi un’ora ho cavalcato una tigre, così come la leggenda vuole sia accaduto a Gengis Khan. Non nella steppa, ma in un appartamento, all’ammezzato del numero 68 di una via non troppo lontana dalla stazione di Porta Susa, a Torino. Unico spettatore – e "unico" vuol dire certo privilegiato, ma forse anche "ultimo" della specie – di uno spettacolo estremo, che nella sua radicalità sana e ingenua si interroga sull’efficacia della comunicazione teatrale.

In quest’occasione, la compagnia torinese Marcido Marcidorjs ha chiamato lo Spettatore fuori dalla sua tana per attirarlo nella propria, separandolo dalla massa del pubblico, per irretirlo in un meccanismo di comunicazione intenso, aggressivo e seduttivo, a metà tra l’attrazione da luna park e un masochismo appena evocato. Ma con un’inconfondibile sensazione di vero e insieme con un vago retrogusto d’osceno, come accade quando una forma di comunicazione codificata affonda una qualche intimità.

Manifesto del "Teatro Ulteriore" teorizzato e praticato da Marcido Marcdorjs e Famosa Mimosa, Il cielo in una stanza è uno "spettacolo d’appartamento", come se ne sono già visti, per un unico spettatore a replica ("dieci contro uno", annuncia l’ironico sottotitolo). Varcata la soglia e accolto l’invito di Sabino, "il portiere più cretino del mondo", di salire in groppa alla tigre Ma (animata da due attori-portatori), la prima sensazione è di superare un’altra soglia: quella che separa l’attore dallo spettatore. I due ruoli finiscono quasi per coincidere, realizzando in forma individuale, da laboratorio, una delle utopie dell’avanguardia. Quello del Cielo in una stanza si propone allora come teatro "riflessivo", nel molteplice significato del termine: non a caso una delle immagini più forti, per lo spettatore-attore, è la propria, intravista in uno specchio, a cavallo della tigre Ma, il destriero e l’amico immaginario dell’"invasore universale" Gengis Khan.

Il linguaggio di Marco Isidori (oltre che regista e interprete, anche autore del testo Gengis Kahn, di cui questo Cielo in una stanza è una sorta di prova) risulta fiammeggiante, enigmatico, a tratti oscuro. Percorso da brividi apocalittici ("l’attuale generazione è l’ultima, siamo gli ultimi segni scomposti della smania vitale; siamo sterili definitivamente"). Ispirato dal rifiuto e da un’ansia del rinnovamento. Edificato su una ribelle nostalgia della carne. Nell’epoca dell’elettronica e della smaterializzazione, Il cielo in una stanza sembra infatti invocare (come il Jarry del Supermaschio) un ritorno all’energia biologica, alla fatica animale del corpo, di cui la tigre Ma rappresenta la materializzazione. Si intuisce un rifiuto della macchina eccessivo e volutamente grottesco (e magari provocatorio, in una Torino che la Fiat ha ormai svuotato delle sue fabbriche e dei suoi operai per spostare la produzione in fabbriche robotizzate, de-umanizzate).

Teatro di corpi, dunque: corpi come materia, come elemento scenografico, come massa in cui l’identità può dissolversi (le cinque identiche, interscambiabili figure che fungono da motore e da coro). Eppure paradossalmente anche teatro come macchina che assale, manipola e trasforma lo spettatore.

Allora, al di là della cornice anticonvenzionale e più dei garbugli di metafore, delle perorazioni fiammeggianti e delle enigmatiche teorizzazioni a favore di un recupero della parola e della comunicazione, nel Cielo in una stanza a colpire, incuriosire, spiazzare sono piuttosto le invenzioni visuali (scene e costumi sono firmati al solito da Daniela Dal Cin): l’acconciatura con "palloncini sapienti" del custode Sabino, il quintetto di chorus girls con i loro costumi tra il pop e lo scimmiesco, le occhiaie del consigliere Boltraffini che emergono dal retro della bestia, la violenza e lo sfregio che traspaiono dal travestimento al femminile (tunichetta rosa, collier, piedi scalzi), i ventagli giganti decorati in turchino e arancione con intrecci di coppie da kamasutra.

E soprattutto la tigre Ma, colorata e naif, all’apparenza giocherellona eppure potenzialmente devastante. Nel suo nome, il "Ma" – l’avversativa, il dubbio, l’opposizione, il distinguo, la dilazione – sembra una chiave per aprire le porte della pratica artistica. Nell’occasione questo Ma sostiene letteralmente lo spettatore, con fatica fisica, muscolare, piroettandolo qua e là nell’appartamento, risucchiandolo in una realtà virtuale, allucinata e onirica, incastonata nel ritmo quotidiano della città.
 
 

Happy Days in Marcido’s Field (1997)

Una ventina d’anni fa, lavorando su Giorni felici di Samuel Beckett con Gabriella Bartolomei, Pier’Alli aveva realizzato uno spettacolo di assoluto fascino intellettuale, tutto costruito sull’intreccio degli sguardi. Affrontando lo stesso testo in chiave di "teatro d’appartamento" (e con il titolo Happy Days in Marcido’s Field) la regia Marco Isidori punta invece sull’impatto del corpo e della pelle, in una messinscena che coniuga raffinato rigore e forza di provocazione.

La prima immagine è volutamente aggressiva. È un fitto sipario di corpi nudi e appesi al soffitto quello che separa il pubblico dalla struttura di legno piramidale che occupa l’intera stanza-palcoscenico. Bloccata, quasi infilizata sulla cima di queste travi appare una donna, la pelle arrossata e annerita dal fuoco, come scorticata e sanguinolenta, in un sacrificio erotico alla Bataille. Sotto un’enorme ma ingrigita parrucca anni Sessanta, inguainata in un bustino decorato di rose, questa Winnie sferza con il suo stravolto monologo il monte di nudità che nel frattempo si sono avvinghiate allo scheletro ligneo, come in un affresco dell’Inferno; e sferza gli spettatori, nei loro abiti "civili". Come se per avere il "teatro" e catturare lo spettatore (e non solo il suo sguardo) fosse necessario prima questo denudamento, e poi andare ancora oltre, fino alla carne viva.

La Winnie di Maria Luisa Abate costruisce la sua recitazione a partire da un demoniaco surplus di energia, quasi a compensare la sua immobilità. A tratti questa forza eversiva, trascinante, può raddoppiarsi nell’ironia (magari grazie ai commenti stranianti del coro) oppure esplodere in una ribellione tanto violenta quanto inefficace, nelle varie sfaccettature dell’orgoglio e della disperazione.

Nel frattempo la stratificazione dei corpi (i generosissimi allievi della Marcido) ha dato forma a una ritualità sadomasochistica e guardona, dove s’intricano sessualità, violenza e potere, azione e passività, dominio e sottomissione. La scultura scenica di Daniela Dal Cin, intrappolando Winnie, la riduce a oggetto. E tuttavia è lei, truce e sarcastica, a esercitare, con l’energia dell’incessante monologo, un implacabile dominio sul marito Willie – quello che la regia ha trasformato in coro, in terra e suolo. È lei a vittimizzare questo amante impossibile, che la sommerge e la divora, per tutto l’arco dello spettacolo. È lei a sedurlo con un’attrazione erotica che non sarà mai soddisfatta, e che si raddoppia sul pubblico, il vero destinatario di questa messinscena del desiderio frustrato, irrigidito nel suo ruolo di voyeur così come la delirante Winnie in quello di seduttrice.

La macchina del teatro, compressa fino a esplodere in questo spazio domestico, mette a nudo i rapporti tra l’attore, il coro e gli spettatori, materializza le catene che formalizzano il desiderio e rendono possibile la comunicazione, in un rito che vieta ogni un reale contatto. Quasi alla fine di questo cerimoniale osceno, esaurita la sua parabola, la solitaria eroina beckettiana che sta per sprofondare nell’abisso e nel silenzio rifiuta la sua catena: si libera per un istante dall’immobilità, quasi a vanificare questa codificazione dei rapporti, come pronta a balzare sul pubblico. Ma più di questa immagine, uscendo da quelle strette stanze l’ultima sensazione è l’odore caldo dei corpi, labile traccia di una prossimità prima quasi oscena e infine intima, forse di una comunità.
 
 

Una canzone d’amore (1998)

(…)

Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa costruiscono macchine teatrali che aspirano a una totale, implacabile coerenza. La scena stessa del nuovo spettacolo del gruppo torinese, Una canzone d’amore (ovvero il Prometeo eschileo riscritto, diretto e incarnato da Marco Isidori, replicato nel teatrino di Longiano), è già un mondo. Forse è il mondo. Di più, è un mondo in cui sono incastrati altri mondi: Prometeo, colui che si è ribellato alle imposizioni degli dei e ha liberato per gli uomini le forze della natura – il fuoco – è incatenato al centro di una gigantesca sfera di ferro, quasi a parodia del celeberrimo uomo vitruviano disegnato da Leonardo, dell’essere inchiodato alla propria individualità. Intorno a questa gabbia-prigione, in forma di cornice, un’arco sempre di ferro indica un ulteriore orizzonte, quello del boccascena. Lo spettacolo, nella fusione di architettura, teatro, musica, danza, aspira all’opera d’arte totale, o totalizzante. I versi martellati e ridotti a cantilena, i gesti ricondotti all’uniformità della coreografia, le scene e i costumi, i lacci che costringono gli attori e li apparentano alla materia inanimata, tutto sembra aspirare a una perfezione granitica, che non tollera scarti e imperfezioni (anche se l’unità del coro non è ancora del tutto a punto). Ma poi qualcosa sfugge sempre. È l’irruzione mitica e quasi carnevalesce di Io, l’eterna fuggiasca cui dà voce Maria Luisa Abate. È simbolicamente lo stesso Prometeo che alla fine di questa tragedia cantata si libera dai suoi vincoli.
 
 

A tutto tondo (2000)

Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa (ovvero Marco Isidori, drammaturgo e regista, e Daniela Dal Cin, creatrice di complesse e affascinanti macchine sceniche) inseguono da anni, con una coerenza che sfiora l’autolesionismo, la loro visione teatrale. Questa volta a ospitare la nuova tappa del percorso dei Marcido è il Teatrino San Domenico, ovvero un appartamento in cima a uno stupendo palazzo della Torino vecchia, cui si accede per appuntamento e tra premurose cure. Vi si replica A tutto tondo, ovvero Nuova certificazione del mondo di Suzie Wong, un testo (di Isidori) volutamente oscuro, oltre il limite dell’insensatezza, costruito intorno a un metodico smantellamento del significato attraverso la disarticolazione sintattica e l’addensamento di metafore oscure: "codesta Seratina solo una Festa è dell’empietà autorale Sua: flusso sturato, deficiente al massimo, del tutto incontinente e cieco veramente è questo tale male". È quasi un’ansia di rendere impossibile ogni interpretazione, in un delirante parossismo verbale e metaforico. Martellante parodia dell’ineffabile caro alla lirica, questo rap barocco s’avvita come uno sfogo provocato dal gas esilarante. La forma è quella di un "teatro canzonetta" che – addensando banalità e discontinuità logiche, finte vertigini e sfuggenti ironie – obbliga lo spettatore a un faticoso esercizio di decifrazione destinato all’insuccesso e alla frustrazione, per spingerlo a de-pensare per trovare diversi livelli di percezione.

È chiusa in una gabbia, questa vertigine di parole: come in un fumetto d’avventura, in cima alle sbarre ci sono le repellenti teste mozze di chi si è avvicinato al mistero e non ha superato la prova. All’inizio dello spettacolo, la grata cala verso il pubblico, a segnalare una zona di pericolo. In primo piano, c’è la sagoma di un mansueto gorilla che verrà smembrato per consentire l’apparizione della protagonista della serata: la sensuale e terribile Suzie Wong (l’energetica e controllatissima Maria Luisa Abate, con i suoi potenti virtuosismi vocali). È una memoria vagamente anni Cinquanta, che funge da puro pretesto per l’invenzione di un feticcio di soubrette: Daniela Dal Cin l’ha trasformata in una farfalla con zoccoli da equino, ibrido inquietante di una seduzione grottesca e narcisista.

Rinchiuso e compresso con Suzie in questa gabbia-bomboniera rosa e vezzosa, a riversare questo flusso verbale sul pubblico, c’è anche il coro di sei "cinesini", ovvero la corte che ruota intorno al corpo seducente e terribile (ma con qualche pizzico d’esasperata auto-parodia) di Suzie: calzamaglia nera unisex e pesante trucco nero, i cinesini hanno funzione di prologo, commento e contrappunto vocale e gestuale, ma non costituiscono mai un antagonista.

Ma questa declamazione che tende al canto, per quanto ricca di micro-dinamiche interne, resta dal punto di vista drammaturgico sostanzialmente statica, ossessivamente ripiegata su se stessa. Così l’azione poggia per intero sulle invenzioni scenografiche: l’improvviso sollevarsi del pavimento, l’aprirsi delle botole, il tripudio masochistico di corde e fettucce con cui Suzie viene alla fine imbozzolata – mentre la spossata attrice-feticcio continua a esibire l’oscena spaccatura del linguaggio, il baratro che inghiotte il senso, una ferita sempre uguale a se stessa.
 

copyright Oliviero Ponte di Pino 2000


 
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