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Teatri 90 Festival |
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Dipartimento dello Spettacolo | olivieropdp |
Maratona di Milano
Matteo Curtoni
La febbre
Regia di Serena Sinigaglia
copyright 2000 Matteo Curtoni & Maratona di Milano
Un respiro di falene e aria d’estate, cicatrici di polvere e neon sulle mani
e la febbre è già lì ad aspettarmi, ancora prima che i miei occhi provino ad
aprirsi -
Non mi alzo subito, respiro la terra bagnata e l’odore dell’ultima caccia
già sbriciolata sotto i denti e sulla lingua e digerita per far posto al
resto, a quello che verrà -
Non mi alzo subito, lascio decidere alla febbre quando e come e perché; è
sempre così e per ora non ha importanza -
Richiudo gli occhi, per un attimo, e resto ad aspettare, cullato dai rumori
del traffico, della città che si prepara per la notte, dal sibilo
incandescente della fame che cresce...
E il blackout mi accompagna nel disordine sistematico di Ticinese. Non
chiedo di meglio. Non chiedo niente. Non chiedo.
Mi aggiro tra i fari e la rassegnazione delle auto incolonnate tra un lembo
di locali e l’altro. Mani che tremano accendendo una sigaretta: le mie.
Bevo senza quasi accorgermene e appiccico soldi a un bancone umido di
condensa e impronte di mani affrettate, ne chiedo un altro, in un mondo
perfetto sarebbe un white lady - in questo non si può dire - e fisso lo
sguardo laccato di nero della barista, capelli rossi, corti, qualche
tatuaggio disseminato sulle braccia, un angelo triste appollaiato su una
spalla che intravedo appena, sotto la rete semitrasparente della t-shirt -
I suoi occhi ricambiano, la lingua come un punto esclamativo stanco che
accarezza le labbra senza accorgersene quando - veloce ma non così veloce -
mi faccio scivolare in bocca qualche capsula sottratta alla rinfusa alle mie
tasche.
Sto per dire qualcosa, sa dio cosa, ma i sudori da amfetamine di un ragazzo
che sostiene di conoscermi e che parla come una mitragliatrice mi occupano
la visuale.
«Che fai stasera non scrivi, non prendi appunti, niente di niente che cazzo
ti ho fatto, ce l’hai con me ammettilo, ma allora che ci sto a fare a
raccontarti i cazzi miei se nemmeno pigli un appunto, un mezzo appunto, me
lo spieghi?»: torcendosi le mani, guardandosi attorno, nervosamente.
Le pupille dilatate all’inverosimile in procinto di svanire nel bianco
dell’occhio, cappellino da baseball troppo largo per la sua testa, la
visiera girata all’indietro che gli solletica la nuca - uno strano rottame
agitato artificialmente che resto a fissare per un attimo.
Mi perquisisco la mente cercando qualcosa che assomigli a un ricordo e - sì
- il ragazzo che mastica parole e compresse dalla composizione sospetta
appartiene al cimitero in cui ho sepolto le notti prima della febbre - tutte
- fino all’ultima.
Prima della febbre ho riempito blocchi interi di storie, vaneggiamenti
raccolti per strada, frammenti - qualsiasi cosa - tempi in cui ancora ero
convinto che tra i sogni di zucchero rappreso e i racconti tristi di suicidi
tentati e falliti con lamette mai abbastanza taglienti e sonniferi mai
abbastanza forti, tra i resoconti di acrobazie sessuali di avanzi di
discoteca e le farneticazioni di tossici malinconici potesse nascondersi
qualcosa, parte di un affresco; la lezione lurida della vita, forse.
Ma le cose sono diverse adesso e l’anfetaminico è un cadavere testardo che
mi segue da un marciapiede all’altro, da un locale all’altro, investendomi
con le sue raffiche di lamentele: «Dicevi che ci avresti scritto un libro
con quello che ti raccontavo io e allora si può sapere che cazzo aspetti a
scriverlo, gesùmmaria che cazzo ci vorrà mai a scrivere un libro mi dico,
guarda tutta la gente che scrive libri mica ci metterà tanto quanto te, no?
Perché se tutti ci mettessero tanto quanto te col cazzo che ci sarebbero le
librerie, no? Ma secondo me il fatto è che sei tu che sei stronzo e non ha
più voglia di scriverlo e guarda quasi quasi me lo scrivo da me e
vaffanculo...»
Smetto di ascoltare, la pelle rovinata del ragazzo si scioglie tra i corpi e
il rumore, cera scadente e sostanze chimiche a sigillare per sempre i suoi
racconti che non saprei ricordare comunque, neanche volendo.
Era un’altra vita, che non mi interessa dissotterrare.
Riprendo a camminare, ancora corpi e ancora rumore e da un certo punto di
vista non potrei chiedere di meglio - un preludio alla febbre, un modo come
un altro per far crescere l’attesa -
Lasciarsi trasportare dalla fame: senza chiedere spiegazioni.
Poi, una voce: «Capo, scusa ce l’hai una sigaretta?»
Il punkabbestia mi osserva dal basso all’alto, semisdraiato sul marciapiedi,
con un’espressione un po’ più che vagamente divertita, un sorrisetto
spaccato in due da un anello nel labbro inferiore.
La persona più lucida che incontro da settimane...
«Certo», rispondo e mi pesco il pacchetto in una tasca -
Accanto al ragazzo una cesta piena di cuccioli appena nati o quasi - uno dei
piccoli dorme in una posa buffa, le minuscole zampe anteriori premute sugli
occhi chiusi e quando provo ad accarezzarlo, la madre - una femmina di
pastore tedesco dal colore imprecisato - ringhia un avvertimento dal fondo
della gola.
«Hanno appena tre giorni», mi informa il punk. «Siouxsie non è contenta che
li tocchiamo nemmeno noi. Oggi un ragazzo e una ragazza si volevano portare
a casa quello lì, quello nero. Ti giuro, non c’è stato verso. Siouxsie s’è
incazzata...» Faccio scattare l’accendino, lui sbuffa una boccata di fumo e:
«Grazie.»
Mentre mi rialzo Siouxsie ringhia un’ultima volta, tanto per mettere le cose
in chiaro - il punk ringrazia di nuovo con un cenno e io mi allontano e
perdo il conto delle strade lasciandomi ferire le pupille dai fari delle
auto per un po’ -
Un pub finto-irlandese che trasuda allegria forzata - provo a farmi
avvolgere dall’odore di birra versata, dalle voci degli inglesi ubriachi che
cantano in fondo al locale - una giostra fatta di boccali di scura riempiti
e svuotati a ritmi vertiginosi, facce sorridenti e ancora corpi e ancora
rumore -
Bevo, mastico smania e febbre e deglutisco gli ultimi sorsi di birra e
faccio giusto in tempo a vedere la mia mano che porge i soldi al barista -
giusto in tempo prima della febbre che è lì ad aspettare, sotto la
superficie delle cose -
Chiudo gli occhi e li riapro altrove e dovrei esserci abituato ormai ma
forse col tempo, forse -
Un taxi.
Speriamo di avere i soldi.
Il tassista sta dicendo qualcosa e io rispondo come un automa, non so dove
ho imparato o quando ma cerco di dire frasi sensate per non perdere tempo,
fissandogli la giugulare che tanto non mi interessa, contandogli le
pulsazioni - un’informazione inutile che vedrò di dimenticare alla prima
occasione -
Lei cosa fa, studia?
Studiavo.
Cosa?
Scienze politiche.
E ha smesso?
Ho smesso.
Perché?
Non lo so, non faceva per me.
Ma lo sa che mio figlio mi ha detto che...
Istantanee che sfilano veloci al posto della strada mentre il pavé sotto i
pneumatici lisi del taxi che mi fa tintinnare il morso nella tela dei
pantaloni - sembrano monetine e poco ci manca che non scoppi a ridere
all’idea - Ventiquattro Maggio che sparisce come un fotogramma sgranato,
tagliato senza ragione in sala di montaggio; i lampioni schierati
ordinatamente lungo Viale Sabotino come soldati denutriti a presidiare le
case e le griglie metalliche che ornano di ruggine le bocche dei negozi;
l’asfalto di Ventidue Marzo ricorda certe cose molto meglio di me e la corsa
finisce qui -
Chiedo quant’è, interrompendo un discorso che non ho nemmeno tentato di
seguire.
Sono - un’occhiata al tassametro - quindici e otto.
Gli allungo venti e scendo.
E’ sicuro di star bene?
Certo, grazie.
Mi lascio guidare dal rumore dei miei passi e dalla brace di un’altra
sigaretta - odore di ferro e di cemento bagnato - mentre gli alberi neri di
smog sospirano e sussurrano alle mie spalle.
Mi mordo l’interno della bocca senza pensare, diluisco altre capsule insieme
al mio sangue in attesa di qualcosa di meglio.
Sullo spazio del mio polso che una volta era occupato dall’orologio adesso
ci sono solo cicatrici nuove, un tracciato di linee nella pelle ancora da
definire che potrebbe anche svelarmi qualcosa prima o poi - chissà - e così
mi ritrovo a fiutare l’aria per capire se e quanto possa essere tardi.
Abbastanza tardi.
Ma non molto.
Ma ancora una volta lascio fare alla febbre - alle sue dita senza carne,
alla sua lingua che ha il sapore di tutte le cose che non osiamo nemmeno
pensare e alle sue unghie che mi si conficcano dietro agli occhi e mi
costringono a chiuderli sapendo che li riaprirò sulla prossima strada, sul
prossimo quartiere, non importa dove... E’ la febbre a decidere -
Porta Volta, i fuochi del Monumentale in lontananza, a consumarsi insieme ai
petali delle corone funebri e al tempo che dimostra una strana forma di
pietà cancellando a poco a poco i nomi e le date e le frasi di rito sulle
lapidi.
Se mi spostassi di qualche strada (basterebbe percorrere una traversa) mi
troverei tra i vapori di neon e di alcool dei locali di Garibaldi: gente che
ride con le labbra appese a un bicchiere, carne scoperta per attirare altra
carne come in un gioco di scatole cinesi dall’esito incerto, occhi che
guardano il cielo e cercano di interpretare lo sguardo cupo di questa estate
strana che trabocca pioggia e odore di caldo ma che sa essere gelida come il
filo di una lama -
E quasi i miei passi mi portano lì, tra le auto e i marciapiedi affollati
che potrebbero anche riservare qualche sorpresa, qualcosa di nascosto, ma il
sussurro di una deviazione mi porta nella direzione opposta, ad aggirare un
palazzo enorme e decrepito che forse è un liceo e forse è qualcos’altro.
In cerca di qualche strada secondaria, e di nuovo mi accorgo che i denti -
di loro iniziativa - mi hanno riaperto lo squarcio dentro la bocca, il
sangue che mi tinge pigramente la lingua e così per non farla sentire sola
le regalo altre capsule, smania e febbre rinchiuse in un involucro colorato
pronto a spalancarsi appena avvisterà il mio stomaco...
Provo a correre e le mie gambe mi sorprendono - sembrano d’accordo - e nel
giro di poche pulsazioni perdo le mie stesse tracce, corro dentro qualcosa
di nero e mi lascio inghiottire, come se la febbre sotto forma di capsule e
compresse fossi io adesso e Milano fosse una bocca di dimensioni
incalcolabili, che assaggia il mio corpo e la mia pelle in cerca di
adrenalina e pensieri smarriti -
Mordo qualcuno, di questo sono relativamente certo, ma è solo un intervallo,
una folata di vento, un singhiozzo in mezzo alla mia corsa e sulla cornea mi
restano solo i fantasmi di un portone scuro, del morso che luccica
sbucandomi di tasca e di una faccia sorridente che si sta preparando per la
notte e invece ha incontrato me e la febbre, le zanne e gli aculei e non ha
avuto fortuna...
Il campo visivo ancora virato al nero, sosto in mezzo alla gente che in una
traversa che resta sveglia a fatica fissando l’insegna luminosa di un locale
- discoteca per fashion victims, una delle mie idee di inferno - mi lascio
scivolare deliberatamente in mezzo alla folla che si accalca e si affida
alle lune di un buttadentro con la faccia e il collo scorticati dal lettino
solare e muscoli gonfi come camere d’aria del tutto privi di un utilizzo
pratico.
Non ho sangue addosso: devo essermi fermato da qualche parte a sciacquarmi
la bocca e a cancellarmi il risultato della febbre dai denti ma il nero era
troppo fitto, volute di fumo tatuate sugli occhi, l’ago che preme a fondo e
mi fa sanguinare le iridi e non ricordo - comunque non potrei essere più
fuori posto di così in mezzo a questa gente, in mezzo a questi corpi tirati
a lucido che sembrano esistere solo per mettersi in posa nella penombra
isterica di una discoteca -
Il motivo per cui la ragazza attacchi a parlare con me mi è oscuro e di
Scarso, scarsissimo interesse: perché non ha senso che io sia lì, per il sospetto che i miei abiti neri, logori, impolverati, siano il riflesso dell’ultimo trend che – cazzo – non si sa come ma le è sfuggito – lo sa dio e a me non importa nemmeno di dio –
Non ci siamo già visti a storia delle dottrine politiche?
Ne dubito – una pausa, la squadro anche se so che mi dimenticherò anche di lei – come ti chiami?
Lucrezia.
Nome impegnativo – mi sposto ai margini della folla e chissà perché la nostra Lucrezia decide di seguirmi.
Insomma. E tu come ti chiami?
Daniele. Non è un nome molto impegnativo.
Ah. Ma sei proprio sicuro che non ci siamo già visti da qualche parte? -
Lucrezia tira su col naso, si sistema una spallina del vestito che proprio
non ne vuole sapere di restarsene buona buona sulla sua spalla abbronzata -
Non sono mai sicuro di niente - e intanto mi stropiccio gli occhi, pensando
per un secondo a mattine fredde di scuola e a sveglie puntate a orari
inverosimili
Cerco di guardarla meglio.
Lucrezia non ha ancora deciso cosa farne di me: provare a sedurmi, provare a
farsi sedurre, fingere il nulla, restare qui - ma la mente le gira a vuoto
intorno al dubbio di avermi già visto da qualche parte - non riesce a
farsene una ragione -
Lucrezia che ha un nome impegnativo e non lo sa odora di case in Costa
Azzurra e vestiti costosi, coca tirata per noia e nottate a ridere
forzatamente nel privé di qualche discoteca -
Lucrezia è convinta di non avere altra scelta e per quanto la riguarda la
vita al di fuori della desolazione che conosce non può esistere ed è
probabile che le vada benissimo così.
Ma forse non così bene - mi ha notato e non riesce - proprio non riesce - a
collocarmi.
Per un secondo sfilacciato nella memoria mi riaffiora la scena di un film
che ormai non ricordo più - solo una scheggia, poche battute -
E’ vero quello che dicono?
Cosa?
Che è una specie di vampiro.
Non c’è un nome per quello che è...
Non c’è un nome per quello che sono e forse la nostra Lucrezia l’ha fiutato
e si chiede come e perché - tira su col naso e il cervello le gira a vuoto
attorno alla coca e non ci sono risposte e quando la invito a bere qualcosa
dopo un’esitazione non troppo convinta annuisce e rinuncia alla coda per
entrare nel locale dove forse i suoi amici che odorano di case in Costa
Azzurra e vestiti costosi, coca tirata per noia e nottate a ridere
forzatamente nel privé di qualche discoteca la stanno già aspettando -
rinuncia a sottoporsi allo sguardo di implacabile esperto di look del
buttadentro agli steroidi - e mi segue e forse sente il rumore del morso che
aspetta acciambellato in una tasca di questi pantaloni non miei e lo scambia
per tintinnio di una manciata di spiccioli -
Per riempire di cose inutili il silenzio che lascio calare deliberatamente
Lucrezia attacca a parlare di cazzate: il suo ragazzo che studia economia e
commercio alla Bocconi, le discoteche di Ibiza che sono ormai
infrequentabili, i suoi genitori che - beata ingenuità - credono di poterla
trascinare con loro a passare una settimana in Kenya ma stiamo scherzando? -
e così via -
Squilla il cellulare - è la sua amica Rossella, informazione che Lucrezia si
sente in dovere di girarmi come se me ne fregasse qualcosa. Ascolta, si
acciglia, storce la bocca. Nooo, Rossella ha litigato col ragazzo e stasera
non può venire. Lucrezia tira su col naso, sinceramente affranta.
Io scrollo le spalle e mi lascio sfuggire: «Domani è un altro giorno.»
E Lucrezia: «Come?»
«Non importa.»
Finita la telefonata e Lucrezia sembra a corto di cazzate con cui riempire
il silenzio, poi, quando mi faccio scivolare tra i denti un paio di capsule
colorate: me ne fai provare una?
E succede alla svelta: Lucrezia comincia a sudare, perde l’equilibrio, si
aggrappa a me, ridacchia e chiede che cazzo era quella roba, chiude gli
occhi e respira affannosamente -
Che cazzo era quella roba - mentre deviamo in un vicolo gremito di ombre
Non ci crederai - la spingo contro un muro scarno, il morso tra le mani
pronto a scivolarmi in bocca - ma non ne ho la più pallida idea...
Ah no? Ma sai che una volta e io e Rossella siamo state in un posto dove...
Troppo veloce, anche per i miei stessi occhi - una mano premuta sulla sua
bocca, la carotide aperta con un unico morso, il rosso che mi riempie lo
spazio dietro gli occhi e io mordo e lacero finché le grida della fame che
mi rimbalzano tra le tempie non si affievoliscono -
Solo questo, perché non smettono mai veramente - mai...
Mi ripulisco la faccia e il collo e le mani nella t-shirt che comunque è
nera e nessuno noterà la differenza e quando mi guardo attorno la nostra
Lucrezia che aveva un nome impegnativo e che ora non ha più niente è solo un
fagotto addormentato contro le lamiere di un cassonetto -
La fisso, cominciando già a dimenticarla e l’abbandono in un sospiro che
sfuma in un urlo ma la strada è solo mia e gli occhi che abitano dietro
queste finestre buie sono chiusi, come sempre e non capirebbero comunque -
Bacio la terra su cui cammino per ripulirmi le labbra e finisco per farle
sanguinare, ancora - è una congiura di febbre e catrame e polvere di neon
nella mia testa a illuminare carne che incontro quando ha ancora un nome e
una faccia e una vita e che è solo carne e nient’altro quando mi
allontano...
Inghiotto altre pillole, le lascio danzare tra i denti e la lingua, le
gengive e le lacerazioni con cui mi ritrovo a giocare quando aspetto e cerco
- e senza quasi accorgermene riprendo a correre, pensando dove adesso, dove?
- come se avessi bisogno di una destinazione ed è quasi divertente fingere
che sia così.
Ma non c’è una destinazione, non c’è niente e restano la fame e le stelle
scure di smog sopra di me - forse mi fermo, forse immagino di fermarmi ma
comunque tra un battito e l’altro della cosa acuminata che ho sempre avuto
al posto del cuore un altro blackout spalanca gli occhi e mi fissa e per un
po’ mi specchio e mi rannicchio nel velluto soffocante del suo nero e ho il
tempo di pensare che sarebbe bello fermarsi qui, una sagoma scarabocchiata a
inchiostro sulla tela di una strada che non conosco e niente di più -
fermarmi qui e sbarazzarmi delle domande, delle immagini che danzano dietro
gli occhi come scheletri dipinti dei colori della fame e delle cose che fai
quando sei libero, finalmente, spogliato di venticinque anni di scorie e di
cazzate e di ricordi altrui e dei troppi dolori che raccogli lungo la strada
senza neanche accorgertene, di quando hai lo stomaco vuoto di tutto quello
che inghiotti e sopporti e delle gabbie dentro cui ti muri vivo in attesa di
un qualche momento dorato per aprire la bocca e riprendere fiato -
Sono vestiti smessi che ti cadono dal corpo rivelando le cicatrici che non
saranno chiuse ma che almeno ora puoi mostrare alla luna e lasciar urlare
col loro fiato crudo e rosso, libere da bende orrende e inutili perché sono
gli strappi ricuciti e i dolori tollerati e rammendati che a poco a poco
formano i sudari dei vivi...
Inciampo e vado a sbattere contro la balaustra che separa le corsie dei tram
e i fari che tagliano l’oscurità, là, non lontano, forse stanno venendo
verso di me - scoppio a ridere quando mi accorgo che scavalcare questo pezzo
di metallo del cazzo è più di quanto possa chiedere a me stesso e arranco
verso quella che mi sembra la direzione giusta e rotolo in mezzo alla
strada, con la gola piena di polvere e altre ferite, nuove, ornarmi il corpo
e le mani: scaglie conficcate nelle dita e sotto le unghie, uno squarcio
lungo una gamba, ma dopo tutto è meglio questo, meglio questo dolore che è
qui ora ed è mio -
Forse ho il tempo di pensare tutte queste cose, forse sono solo suggerimenti
della febbre durante il nero che ancora una volta mi accompagna altrove e lo
sguardo triste su cui mi risveglio è qualcosa di più grande di me e resto
senza fiato malgrado tutto - per un momento.
Diciannove o vent’anni - non uno di più - la bellezza fragile e antiquata di
un altro secolo che qualche volta riappare tra gli zigomi di qualcuno, sotto
la pelle e attorno agli occhi -
Gli abiti neri le cadono dal corpo come folate di vento troppo stanche per
soffiare, le braccia e le gambe sono un museo di cicatrici di dolori
cancellati con il filo tagliente di un rasoio, uno dopo l’altro,
sistematicamente come se non ci fosse altra scelta o forse perché davvero
non c’è altra scelta; ha rinunciato - impossibile dire da quanto - a
nascondere i suoi segni, i lividi, gli occhi senza palpebre delle bruciature
di sigaretta e forse nemmeno si accorge di me.
Riprendo fiato e mi inginocchio davanti a lei mentre i lampioni singhiozzano
attorno a noi scandendo un ritmo incostante di ombra e chiarori
artificiali...
Alza gli occhi su di me per un secondo, non più di un secondo, e le sue dita
non perdono la presa sulla lametta già sporca di sangue che le sta aprendo a
poco a poco l’avambraccio - e sappiamo entrambi che non c’è bisogno di dire
niente, neanche una parola...
La lascio finire e lei chiude gli occhi sulle mie labbra rotte e forse è per
la stanchezza, forse perché ha fiutato qualcosa nell’aria che ci circonda -
l’intuizione della febbre, la via d’uscita della fame - ma è arrendevole e
docile quando la prendo tra le braccia e la sollevo...
Si abbandona e sanguina contro di me sigillando i suoi vestiti ai miei.
Il giardino inaridito della casa abbandonata che troviamo chissà come
cataloga il rumore dei miei passi, lo mette da parte per altre notti
probabilmente e resta ad ascoltare il pianto soffice della ragazza,
ipnotizzato -
L’adagio su una distesa di foglie morte, rami secchi che le graffiano le
gambe pallide e riaprono tagli che hanno provato a richiudersi troppe volte
e adesso sono stanchi e lei - ancora gli occhi chiusi, le labbra bianche che
si mimetizzano con la pelle del viso - sussurra un nome che non mi sforzo
nemmeno di ricordare.
Appoggio le labbra allo squarcio rosso sull’avambraccio non precisamente per
bere ma per ricordarle la mia presenza -
Non prendo il morso: con lei non serve. Le accarezzo la fronte sudata, le
palpebre che restituiscono alle mie dita avanzi di trucco svogliato, il
collo - no, non serve il morso davvero...
La lametta che mi fa scivolare tra le dita forse è la stessa di prima, forse
un’altra ma non ha importanza e basta una pressione leggera, come se la sua
giugulare non stesse aspettando altro -
Il suo sangue malinconico mi riempie la gola e cala come un sipario davanti
ai miei occhi e restiamo solo io e la ferita, i suoi respiri difficili, il
suo corpo esile appesantito dalle cicatrici e per un attimo l’idea che mi
stesse aspettando sembra quasi inevitabile - per un attimo -
Ma alla fine anche i pensieri mi evaporano sulla lingua e si perdono tra una
pulsazione e l’altra, sempre più deboli - alla fine restiamo, davvero, solo
io e la ferita - solo io e la ferita -
Più tardi la ragazza smette di respirare, e per un po’ la tengo comunque tra
le braccia, fingo di cullarla, le sussurro all’orecchio una ninnananna
triste di cui ho smarrito le parole lungo la strada - stanotte o un’altra
notte non ha importanza - e mi lavo via il sangue dalla bocca con i suoi
capelli e richiudo il suo ultimo taglio con la mia bocca come per dirle mi
stavi aspettando e alla fine sono arrivato - alla fine, alla fine...
Cancello le sue parole presunte con un’altra manciata di pillole - l’ultima
- e aspetto che la febbre mi sussurri qualcosa...
Esco in strada e provo a correre.
Le mie gambe sono d’accordo, anche questa volta.
Porta Venezia, i resti della notte che arrancano stancamente come ubriachi
lungo una strada deserta e il morso che mi tintinna in tasca -
Il loft non è lontano.
Resto immobile, ad ascoltare.
E la fame, da qualche parte, sta ancora urlando.
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