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Ministero per i Beni
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Associazione
Teatri 90 Festival |
con la collaborazione
organizzativa del |
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Settore Cultura e Musei |
Dipartimento dello Spettacolo | olivieropdp |
Maratona di Milano
Paola Capriolo
La bela
Madunina
Regia di
Filippo Crivelli
con Rosalina
Neri
Musica: la canzone "Oh mia bela Madunina", eseguita dalle trombe, come da una di quelle piccole bande che girano per i cortili. E siamo appunto in un cortile, di notte. Sulla parete che chiude la scena, la luce disegna i rettangoli delle finestre che si spengono ad uno ad uno. Alla ribalta un riflettore illumina la figura di una donna un po’ avanti negli anni, vestita poveramente, in tenuta da casa, ma con una certa pretesa di eleganza e persino di civetteria. La donna sta disponendo alcune ciotole per terra, intorno a sé.
Ecco, miei cari, scusate il ritardo. Lo so, avete fame, ma cercate di capirmi, dovevo pur aspettare che i vicini fossero andati a dormire: nel vostro stesso interesse, oltre che nel mio. Già mi guardano storto, quando mi incontrano, e se trovano in giro una ciotola si affrettano a buttarla via per farmi dispetto. Troppo disordine, dicono, si compromette il decoro dello stabile… Figuriamoci, il decoro dello stabile! Secondo loro sarebbe tanto più decoroso lasciarvi morire di fame, e andrebbe proprio a finire così se non ci fossi io, "la mamma dei gatti", come mi chiamano, e dovreste sentire con che tono lo dicono, di scherno, quasi di disprezzo. Che dicano pure: io sono orgogliosa di essere la vostra mammina, e quanto alle ciotole, ormai mi sono fatta furba, le porto via con me tutte le sere, appena le avete vuotate.
(Fa qualche passo indietro andando a sedersi su un muretto e con un gesto invita i gatti ad avvicinarsi alle ciotole.)
Servitevi liberamente, non vi disturberò. Me ne starò qui buona buona, in attesa che abbiate finito di mangiare.
(Uno sbadiglio)
E’ strano, sembra che i miei occhi non vogliano saperne di rimanere aperti. Eppure sono abituata a far tardi, anzi, si può dire che una volta le mie giornate cominciassero solo dopo il tramonto, quando finalmente veniva l’ora di andare in teatro. Allora sì, mi svegliavo; prima, era tutto un ciondolare per casa avvolta nel mio kimono di seta e bere caffè su caffè, senza peraltro ottenere risultati apprezzabili. Voi mi capite, anche voi siete animali notturni. L’altro giorno al supermercato ho visto quelle strane lampadine che si accendono da sole appena fa buio, diavolerie moderne, non so se le avete presenti: ecco, proprio così ero io in gioventù, come una di quelle lampadine, e il paragone, miei cari, è ancora più appropriato di quanto potreste supporre, perché davvero sulla scena io sfolgoravo, mandavo luce. Non è poi così difficile a vent’anni, direte voi, eppure sotto questo aspetto nessun’altra poteva starmi alla pari, era il mio speciale talento, la mia dote ineguagliabile. Una gran voce non l’avevo di certo, non ero una gran ballerina, anche se naturalmente me la cavavo sia nel canto che nella danza, ma nel risplendere ero davvero senza rivali. Stavo là in cima, sapete, con la mia veste d’oro, e tutte le sere immancabilmente veniva giù il teatro. Non per niente il capocomico, che non era uno sprovveduto, aveva scelto proprio quello come quadro finale della rivista, o meglio, di quasi tutte le riviste che la compagnia metteva in scena: sempre quello, Oh, mia bela Madunina: con quello si andava sul sicuro, era un numero che strappava gli applausi anche al pubblico più tiepido e trasformava i fiaschi in trionfi, come per magia.
Ma cercate, vi prego, di immaginarvi la scena: i boy e le girl e tutta la compagnia, tutti radunati sul palcoscenico a cantare in coro Oh, mia bela Madunina, e all’improvviso il fondale si solleva e io appaio lassù, sorridente, con in testa l’aureola d’oro. A questo punto veniva giù il teatro, ogni sera, ogni santa sera, e la musica quasi non si sentiva più, sommersa com’era dal fragore degli applausi. E non vi dico i fiori che mi mandavano in camerino, gli inviti a cena nei migliori ristoranti, i billet doux, le attenzioni degli ammiratori… Signori distintissimi, ve lo garantisco, pezzi grossi, addirittura commendatori, che dopo lo spettacolo si mettevano in coda davanti al mio camerino per avere il privilegio di congratularsi…
Sì, piccoli miei, a quei tempi la vostra mamma era davvero qualcuno, godeva di una considerazione straordinaria nell’intera città. Non ci credete? Già, è naturale, voi siete abituati a vedermi qui ogni santa sera, come se fossi una qualunque, e si sa, "troppa confidensa fa perd la riverensa", alla fine si dimentica con chi si ha veramente a che fare. E poi ne è passata di acqua sotto i ponti, innumerevoli generazioni feline, e io sono cambiata, e anche il mondo, miei cari, voi non avete idea di quanto sia cambiato da allora. Non c’è bisogno di andare troppo in giro per accorgersene, basta guardarsi intorno anche qui, in questo nostro angolino.
(Per qualche istante rimane come soprappensiero, poi si riscuote: sembra che abbia trovato finalmente un punto fermo al quale aggrapparsi.)
Una cosa sola non è cambiata: di gatti, qui in cortile, ce n’è stati sempre, e già allora io davo da mangiare a quei vostri remoti progenitori. Certi bocconcini che voi non ve li sognate nemmeno: povere bestie, siete nati troppo tardi. Ma allora, quando il commendatore di turno mi portava a cena in uno di quei ristoranti di lusso, al Savini per esempio, o se non era il Savini poco ci mancava, io chiedevo al cameriere di prepararmi un pacchettino con gli avanzi, per i miei gatti, dicevo, e il cameriere accennava un inchino compito oppure, se era più audace, rispondeva: "Per lei, signorina, questo e altro", perché anche i camerieri facevano i galanti con me appena ne avevano l’occasione. Comunque sia, il pacchettino me lo preparavano, e avreste dovuto vedere che eleganza, tutt’altra cosa rispetto a quell’orribile carta d’alluminio che vendono adesso al supermercato. Era una bella carta, ripiegata con cura e legata con un nastro in modo da formare un oggettino grazioso, che una signora poteva portarsi appresso senza il minimo imbarazzo. E dentro, miei cari, ogni ben di Dio: una sera filetto alla Voronoff, un’altra sera faraona, e a volte persino qualche chela d’aragosta con un bel po’ di polpa attaccata, che volete, allora ero schizzinosa, e le parti meno che perfette le lasciavo immancabilmente nel piatto. Eh sì, allora potevo permettermi di viziarli, i miei gattini. Ero qualcuno, godevo di grandissima considerazione, se non nell’intera città, almeno presso gli habitué di quel teatro, che certo non era il Lirico, però trecento persone le teneva e quasi ogni sera faceva il tutto esaurito. Il mio, sapete, era il primo nome in cartellone, e scorrendo le pagine milanesi dei più importanti giornali...
(Una finestra si illumina e la donna corre a rifugiarsi in un angolo del cortile, per non farsi vedere. Poi la luce si spegne e lei, cautamente, torna al suo posto.)
Il decoro dello stabile… Potete spiegarmi cosa c’è di indecoroso in un gatto? Voi poi siete animali splendidi, non meno splendidi di quelli che nutrivo a filetto e chele d’aragosta. Fortunatamente però siete di bocca buona e anch’io sono come voi, ho imparato ad accontentarmi di poco, eppure a volte mi si stringe il cuore quando ripenso a quei tempi. Allora nel quartiere non c’era nessuno che non fosse al corrente dei miei trionfi. "Sapete, la tale, la famosa soubrette, abita proprio in questa via, al numero cinque", dicevano per vantarsi alla gente che veniva da fuori, e quelli magari non ci credevano, non si capacitavano che qualcuno potesse avere come vicina una simile celebrità. E mi salutavano tutti, quando passavo per strada: i fornitori, da dietro le loro vetrine, mi rivolgevano cenni d’ossequio (un ossequio più che giustificato, se si considera che ero la loro migliore cliente), le donne mi guardavano con una punta d’invidia e gli uomini si toglievano il cappello, un po’ curiosi, un po’ intimiditi. I ragazzi invece non mostravano ombra di timidezza, appena mi vedevano cominciavano a gridarsi l’un l’altro: "Tela lì, la bela Madunina!", e non la finivano più, e spesso quel grido festoso mi seguiva ancora oltre il portone di casa.
Eh già, la bela Madunina: era quello il mio soprannome, ma badate, me l’avevano affibbiato gli altri, io non avrei mai avuto l’ardire di attribuirmelo da sola. Che ci potevo fare se gli altri mi chiamavano così, tutti quanti, dai monelli del quartiere fino ai più distinti commendatori? Veniva spontaneo chiamarmi così, per chiunque avesse assistito al finale della rivista o ne avesse anche solo sentito parlare. La canzone, e l’aureola, e il costume dorato… Era stata un’idea del capocomico, la più felice della sua carriera, piazzarmi lassù in cima a sbarluccicare in quel costume, contro un fondale di un bel blu carta da zucchero, tutto punteggiato di stelle, che a me ricordava irresistibilmente il cielo del presepe di quand’ero bambina. Sì, era proprio tale e quale, mancava soltanto la cometa, ma al posto della cometa c’ero io, appollaiata in cima alla scala, sola come possono esserlo unicamente le stelle, e i miei compagni giù ad ammirarmi al posto dei re magi e dei pastori… Nel presepe però non ci sono le guglie del Duomo, che qui invece spuntavano da ogni parte, aguzze e traforate come quelle vere, e forse erano persino più numerose di quelle vere o almeno, così mi pareva allora, quando chinavo su tutto quello splendore uno sguardo abbagliato.
Le guglie del Duomo… Voi non le avete mai viste, miei cari, e anch’io, se devo essere sincera, non le vedo più da parecchi anni. Ricordo ancora la notte in cui hanno smontato la scena per l’ultima volta e io sono rimasta lì, seduta nella platea deserta, a guardarle mentre le portavano via ad una ad una, e guardandole sentivo una stretta al cuore come la sento adesso, ma più violenta e insieme più lieve: più violenta, perché era la prima, più lieve perché non sapevo ancora quanto a lungo mi avrebbe accompagnata. E sono sparite così, ad una ad una, per finire in chissà quale magazzino dove forse si trovano ancora, impolverate, dimenticate da tutti. Poi sono tornata a casa, da sola, come ormai mi accadeva da tempo: sembrava che agli occhi del pubblico lo spettacolo fosse invecchiato di colpo, come certe donne sfortunate il cui fascino svanisce dall’oggi al domani, persino l’apparizione della bela Madunina non suscitava più lo stesso entusiasmo, e avevo già perso di vista anche l’ultimo dei miei commendatori. Perciò sono tornata da sola, sempre con quella stretta al cuore, e mi sono seduta qui a guardare i gatti, esattamente dove sono adesso. Non credo di aver pianto, non piangevo quasi mai (per via del trucco, sapete, e da allora ho mantenuto questa buona abitudine), ma allegra non ero di certo, ripensavo alle mie guglie, al mio cielo da presepe, e cominciavo a sospettare che se i commendatori si erano defilati anche trovare nuove scritture sarebbe stato sempre più difficile.
Sì, non le rivedo da un pezzo, le guglie del Duomo. E dire che ho sempre abitato a Milano, non mi sono mai mossa, in centro però non ci vado, da parecchi anni a questa parte. A quanto vedo alla televisione non è più quello di una volta, benché il Savini ci sia ancora, con altri ristoranti appena meno lussuosi: forse non sono più gli stessi dove mi facevo incartare gli avanzi nella mia età dorata, le mode cambiano, lo so bene, non è facile mantenersi a lungo sulla cresta dell’onda, ma per chi se lo può permettere deve esistere ancora qualche locale elegante dove sanno cucinare l’aragosta a regola d’arte. In un certo senso, è un conforto pensare che esistano. Io però temo di aver chiuso per sempre con le aragoste, "passò quel tempo, Enea", come si diceva un tempo, e quindi in centro non ci vado più, non ho nessuna ragione di andarci. Tutto quel che mi serve lo trovo qui, senza bisogno di uscire dal quartiere.
E’ vero che anche qui il paesaggio è mutato intorno a me, nemmeno le facce sono più le stesse. E’ come un velo di grigiore che si è andato addensando a poco a poco su ogni cosa, sugli uomini, sulle strade, sugli edifici, e li ha resi più cupi, ma forse sembra così soltanto a me, forse soltanto il mio sguardo è mutato con il trascorrere degli anni. Voi che ne dite, miei cari? Qual è la vostra impressione? Comunque, non potete negare che da allora molte botteghe hanno chiuso i battenti e le altre hanno cambiato padrone, gente nuova, straniera, del tutto ignara dei miei passati trionfi e incline a servirmi sbrigativamente, senza quell’occhio di riguardo che allora mi sembrava tanto naturale. I ragazzi sono più alti, se non sbaglio, e non mi chiamano "la bela Madunina" ma, in vostro onore, "la mamma dei gatti", e quanto agli uomini adulti che incontro per strada, nessuno di loro si toglierebbe il cappello per me nemmeno se lo portasse. Già il fatto che non lo portino, del resto, la dice lunga sullo spirito dei tempi: si vuole evitare di dover prendersi il disturbo di levarlo di fronte alle signore, si va di fretta, si hanno faccende importanti da sbrigare, non si è disposti a perdere neppure un istante per coltivare le desuete sottigliezze del galateo. Era così bello, però, quel gesto d’omaggio, quel lieve tributo di deferenza che si pagava allo stesso modo avvicinando una donna o entrando in chiesa, come se fossimo accomunate in un’identica venerazione.
D’altronde non mi lamento. I tempi sono quello che sono, ma sarei potuta capitare molto peggio, basta ascoltare un telegiornale per farsene un’idea. Questo, grazie al cielo, è ancora un quartiere tranquillo, più rumoroso che all’epoca della mia giovinezza, ma quasi immune da quella che i giornalisti amano definire "la piaga della criminalità". E poi è comodo, comodissimo: tutto ciò che mi occorre lo trovo al supermercato, ben sciorinato sui banchi, in un assortimento così vasto da lasciare soltanto l’imbarazzo della scelta, trovo il prosciutto di Parma per me e le scatolette per voi, in cinque gusti diversi, e figuratevi che se raccolgo un certo numero di punti me ne danno persino una confezione in omaggio. Perciò ditemi voi, in centro che ci andrei a fare. Forse per rivedere le guglie del Duomo? Dal basso, confusa in mezzo a una folla di turisti giapponesi, venditori di cianfrusaglie, uomini senza cappello che vanno e vengono dai loro uffici con quell’aria trafelata? No, grazie, non mi interessa affatto: le guglie del Duomo per me sono un’altra cosa.
A quest’ora, semmai, mi piacerebbe vederle, quando gli uffici sono chiusi e gli ambulanti hanno ritirato i loro banchetti, o forse ancora più tardi, nel cuore della notte, purché beninteso il cielo fosse davvero di un bel blu carta da zucchero e punteggiato di stelle come quello di un presepe. Si, credo che mi piacerebbe, ma solo a queste condizioni, e dovrei essere lassù, in cima in cima, a contemplare ogni cosa dall’alto vestita del mio abito d’oro.
Là sopra con me non ci vorrei nessuno, tranne voi, naturalmente: voi vi ci porterei, cari amici, se aveste la curiosità di venire. Temo però che dovreste fermarvi un po’ più in basso, perché i gatti, per quanto agili, dubito che possano arrampicarsi fin sulla cima di una guglia, rischiereste di precipitare e io non esporrei mai i miei protégé a un simile pericolo. Senza contare che là sopra c’è poco spazio, talmente poco che durante le prove, quando accennavo appena appena a sgranchirmi le gambe, il capocomico mi gridava se ero per caso ammattita e mi ordinava di muovermi soltanto dalla vita in su. Ma questo avveniva nei primissimi tempi, poi non c’è stato più bisogno di ammonimenti. L’ho imparata subito, la lezione: lassù bisogna muoversi il meno possibile, ed è giusto che sia così, il movimento non si addice affatto a una statua tutta d’oro. L’ho capito subito, e da allora so sostenere la mia parte senza incertezze, con una perfezione ineguagliabile. State a vedere, ditemi se non ho ragione.
(Si alza, si mette in piedi sul muretto in posa da madonnina.)
Ecco, guardate…
(Mentre parla si sentono di nuovo le note della canzone, ora trionfali, a piena orchestra, proprio come nel finale di una rivista, e la parete di fondo si apre svelando un cielo stellato riprodotto con una certa ingenuità, in modo da far pensare, più che al cielo vero, al fondale di un teatro. Si vedono anche le sagome delle guglie, naturalmente di cartapesta, e una luce dorata avvolge a poco a poco la figura della donna dando l’illusione che abbia addosso quel vecchio costume di scena.)
Guardate come so rimanere immobile se voglio, immobile e maestosa, immobile e solenne. Non per niente sono la bela Madunina e ogni volta che appaio sulla mia guglia viene giù il teatro, e i commendatori si affollano, e non c’è milanese che non si senta sfiorare da un’ombra di orgoglio patriottico quando leva gli occhi su di me dal brulichio della piazza. E io chino verso di loro uno sguardo benigno, ogni sera lo stesso sguardo, da sempre e per sempre uno sguardo immutabile che abbraccia la platea e poi si spinge ancora oltre, sull’immensa distesa dei tetti, si insinua scivolando tra una casa e l’altra, si insinua in tutte le strade, in tutti i giardini, in tutti i cortili dove vivono i gatti, e si posa su di voi come una carezza, o forse come una benedizione. Gatti, commendatori, venditori ambulanti, non c’è nessuno che non allunghi il collo, che non rovesci indietro la testa per riuscire a scorgere la bela Madunina. Persino i giapponesi sono soggiogati dal mio fascino: li vedete anche voi, laggiù in fondo, puntare verso di me le macchine fotografiche nel tentativo di catturare almeno un’immagine, nella speranza di poter tornare alle loro remote isole di levante portando con sé il più milanese dei souvenir. Mi spiace, ma è uno sforzo inutile, io sono troppo lontana; non credo che abbiate obiettivi così potenti da arrampicarsi fin qui, in questo mio cielo, in questa mia solitudine.
(Sulla parola "solitudine" la voce cambia, velandosi all’improvviso di tristezza. Anche la luce comincia a calare, lo splendore dorato a spegnersi.)
Se però volete battere le mani, tendendo l’orecchio potrò sentire lo scroscio dei vostri applausi, e ne sarò confortata. Già, confortata: perché fa freddo a quest’ora, quassù tra le guglie, il gelo penetra nelle ossa, e persino se si è una statua tutta d’oro si avverte a volte il bisogno di qualcosa che riscaldi.
copyright 2000 Paola Capriolo & Maratona di Milano
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