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NUOVO TEATRO |
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Conversazione con Danio Manfredini
a cura di Oliviero Ponte di Pino
Volevo partire dai tuoi inizi teatrali.
Possiamo forse partire anche dalla mia situazione attuale, perché questa domanda ha un nesso con le mie riflessioni sulla crisi che sto attraversando. Vengo da tre anni molto difficili. Ho lavorato alle Crocifissioni fino al ’92, e poi ho continuato a lavorarci. La versione definitiva l’ho messa a punto nelle ultime due repliche che ho fatto a maggio, quando ho addirittura cambiato l’ordine dei pezzi. Il lavoro è sempre un processo, ma adesso credo che terrò lo spettacolo così com’è.
Quindi sono stati tre anni in cui lo spettacolo ha continuato a cambiare.
Sì, non so se in meglio o in peggio, ma finché sentivo la necessità di lavorarci l’ho fatto. Il primo pezzo è rimasto più o meno com’era, con piccole varianti su alcune battute e piccole aggiunte; il secondo pezzo, quello tratto da Koltès, è diventato il terzo ed è molto cambiato. Ho lavorato molto anche sulla possibilità di registrare la voce. Sono i rimaneggiamenti che come sempre mi trascino dopo che ho iniziato un lavoro, e anche dopo che l’ho presentato.
Prima di presentarlo al pubblico, quanto tempo ci avevi lavorato?
Almeno dieci mesi, perché per me lavorarci vuol dire capire che cosa scegliere, che cosa fare, che cosa domandarmi. Una volta arrivato a capire su che cosa stavo lavorando, si è trattato di dividere il trittico. Prima era tutto un casino, poi mi sono reso conto che stavo facendo un trittico. A quel punto ho cominciato a lavorare sull’interpretazione di ogni pezzo, e ho cominciato a capire qual era l’equilibrio tra un pezzo e l’altro, perché ci lavoravo in contemporanea. A quel punto è diventato necessario considerare l’attenzione del pubblico, perché magari arrivi alla fine del secondo pezzo e la gente è già stanca. La scelta di invertire l’ordine dei pezzi l’ho fatta anche con il pubblico. E’ un continuo rimaneggiamento, fino a che sento che il lavoro ha un suo respiro sia per me sia per il pubblico.
Mentre mettevi a punto lo spettacolo, lavoravi in parallelo anche ad altre cose o eri concentrato solo su quello?
Dal punto di vista del lavoro teatrale mi sono concentrato su quello. Però in quel momento sentivo che stavo portando a termine un ciclo di lavoro, che a quel punto azzeravo tutto. Per cui è iniziata una sorta di crisi: non una crisi disperante, ma legata al bisogno di dire, di domandarmi che cosa mi interessasse veramente. Anche perché ho capito che non sono neanche un attore, perché un attore è uno che ha certe qualità, che lavora in un ambito particolare, che è disponibile a fare l’attore...
...e deve lavorare con un regista, entrare in un certo meccanismo produttivo, in certi rapporti di lavoro e personali. Mentre tu invece tendi a lavorare da solo...
...da solo o con persone amiche o su determinati progetti. Quindi ogni tanto partecipo a qualche spettacolo, anche se soprattutto per amici. Ma per me la questione attorale è stata un mezzo per approfondire il fatto che lavoravo su una scena invece di lavorare sulla tela o su un pezzo di terra o di cera per il bronzo.
Dunque il tuo punto di riferimento sono le arti visive...
Per me il punto di partenza è stata la pittura. Non sono mai stato né un pittore né uno scultore, però di fatto arrivo da lì.
Hai studiato al liceo artistico o all’Accademia?
No, sono sempre stato un autodidatta, ma ho studiato disegno, pittura e scultura, le prime cose che ho fatto erano comunque in quell’ambito. Adesso disegno molto poco: disegno un po’ nell’ospedale psichiatrico dove insegno pittura, e un po’ in relazione alle cose teatrali...
Mi ricordo che per La crociata dei bambini avevi fatto una serie di disegni, un programma di sala con degli acquerelli.
Sì, erano illustrazioni di alcune scene. Da lì mi sono avvicinato alla questione teatrale, anche se in fondo non si è mai veramente staccata da me l’idea della visività, non tanto per lavorare sulla scenografia. Forse posso parlare più di "visioni interne": in questi anni mi sono reso conto che tutti i miei lavori erano accompagnati come da film interiori, come se per sostenere le situazioni sceniche mi fosse necessario lavorare sulla vivificazione di una serie di impulsi interni che possono dare ritmo o forza o comunque scansione del tempo nell’azione, e che però sono legati anche a una visività interna. D’altro canto mi ero avvicinato anche alla questione dell’attore, al fatto di resuscitare l’esperienza interiore, l’esperienza della vita o gli stati d’animo - la mia conoscenza della vita - per dar sangue alle linee che si sviluppano sulla scena. Così mi sono ritrovato sempre più sulla quella strada, e ho approfondito gli aspetti che un attore cerca di studiare: la possibilità di avere una consapevolezza sempre maggiore del corpo, della voce, dell’interiorità, dell’immaginario, delle proprie esperienze; e poi le questioni spaziali, la relazione tra la figura e lo spazio.
Che differenze vedi allora tra il lavoro dell’attore e quello del pittore o dello scultore?
Più che altro nel pittore il processo avviene in solitudine e quindi lo spettatore pensa di trovarsi davanti alla traccia di un processo fatto dal pittore; di lì lo spettatore risale a una serie di spinte, di impulsi motori, quelli che hanno spinto il pittore a generare quell’immagine, che agisce sul piano della sensazione. Il quadro ti dà delle sensazioni, e il pittore ha probabilmente agito in base a quelle sensazioni.
Invece il teatro...
Per me non è molto differente, almeno dal punto di vista del lavoro sulla sensazione. Invece è differente perché questo percorso tenti di ricrearlo anche davanti al pubblico. Questa è la cosa che più mi spaventa nel mio lavoro, perché devo cercare di superare la vergogna di trovarmi davanti a un pubblico, una sorta di pudore, o comunque cercare di non farmi condizionare dal giudizio del pubblico. Oppure posso sentire che il pubblico potrebbe giudicare il lavoro in una maniera negativa... Ma è necessario cercare ugualmente di essere fedele al modo in cui si percepiscono certe cose. Questa è la grande difficoltà: far sì che l’evento possa succedere in una maniera interessante. Questo dipende anche dal pubblico: perché se ti viene dietro - e quindi dà - anche tu dai e allora l’evento teatrale diventa la somma di questa duplice disponibilità. A volte invece ci sono delle resistenze, delle chiusure, e si crea un’altra dinamica - di conflitto - tra te e il pubblico; è una dinamica di collisione, dove tu diventi un po’ carne da macello perché comunque tenti di mantenere aperte le porte, altrimenti non ha senso, e nello stesso tempo sai che puoi trovare commenti e giudizi utili anche in una situazione di questo genere.
Forse c’è una cosa peggiore di un pubblico ostile: un pubblico indifferente, che non reagisce né accompagnandoti né rifiutandoti...
Mi è capitato per esempio a Salerno, a maggio: una replica con un pubblico raggelato. Era una bella sala del Settecento, il Teatro Verdi, con i palchi e un pubblico di abbonati. Ho fatto i Tre studi e non c’è stata né una risata né un sospiro né un colpo di tosse: silenzio assoluto. Pietrificati. E alla fine l’applauso era, come dire, "Se proprio dobbiamo applaudire, applaudiamo...". E’ venuto perfino qualcuno a scusarsi "per l’accoglienza del pubblico", e io rispondevo: "Ma no, guardi che va bene, non è che io mi aspetti sempre che la gente mi accolga bene, oppure ovazioni... A volte metti lì degli argomenti difficili, e anche la forma in cui tu metti le cose, a volte può generare incomprensioni o diffidenze...".
Dal tuo punto di vista trovarti di fronte a un pubblico così freddo ha delle conseguenze sullo spettacolo o riesci a mantenere la fedeltà all’ispirazione originaria?
Certo, ha delle conseguenze, ma non mi allontana dall’ispirazione originaria. Porta a uno stato di maggiore solitudine, però questa è anche la condizione nella quale lavoro quando sono in prova. A volte invece il pubblico interagisce, allora ti viene un po’ da aprire, e magari esageri, nel senso che parli fin troppo, e quando te ne accorgi torni indietro, perché ti sembra che il gioco non sia quello, perché non è che devi star lì a dare il divertissement, devi lavorare a un livello dove ogni tanto si può sbavare su qualcosa, sul pianto o sul riso, in maniera eccessiva, però non è quello l’interessante...
E poi bisogna riprendere il controllo...
...perché comunque l’interessante è viaggiare su un filo di rasoio dove né io né gli altri sappiamo dove stiamo andando, attraversiamo un’esperienza.
Tornando ai tuoi inizi, come si è verificato questo slittamento dalle arti visive al teatro? Quali sono stati gli incontri che ti hanno spinto verso il teatro?
Al Centro Sociale Isola, al quartiere Garibaldi di Milano, gli incontri con Cesar Brie, Dolly, Albertina, che mi hanno aperto l’abici del teatro, alcuni elementi che appartengono allo studio del teatro...
Per esempio?
Ho frequentato questo laboratorio all’Isola dal ’75 all’80. Il lavoro con Cesar inizialmente era molto fisico: acrobatica, tecnica del clown, stralci presi dagli allenamenti grotowskiani e poi odiniani; quindi molto lavoro sul corpo e sulla voce, non tanto nel senso della recitazione ma di approfondimento dello strumento vocale.
Perché eri finito in questo laboratorio teatrale?
In maniera assolutamente casuale. Perché nel giorno del mio diciottesimo compleanno Cesar Brie ha bussato alla mia porta.
Abitavi all’Isola?
No, a Rho. Una mia amica, che abitava a Milano, doveva venire da me per festeggiare il mio compleanno. Cesar era andato a trovarla, hanno chiacchierato, dopo di che lei gli ha detto: "Guarda, devo andare al compleanno di un amico, se vuoi venire...". E l’ha portato a Rho. Così mi sono trovato Cesar in casa, con altri amici. C’era anche Vincenza Fioroni, che poi diventò una terrorista. Cesar ha cominciato a raccontarmi della sua storia, del teatro, e quando ha iniziato questo laboratorio mi ha invitato a frequentarlo. E’ stato uno stimolo per approfondire gli aspetti visivi del lavoro, perché mi interessavano sempre di più anche la pittura e la scultura, e nello stesso tempo approfondivo il linguaggio teatrale. Sono lentamente scivolato in quella direzione perché la forma che poteva prendere il lavoro era molto più immediata rispetto all’uso di mezzi come la carta o la tela. Il corpo ha la possibilità, come una specie di elettroencefalogramma, di scandire momento per momento il passaggio delle sensazioni, dei livelli e degli stati d’animo. Ha la possibilità di rendere visibile in maniera molto scandita un percorso legato alla sensazione, agli stati d’animo, alla percezione. E momento per momento è dentro un processo in divenire. E’ questo che mi ha spinto: la possibilità di fare un’esperienza diretta, fisica, emotiva, sensoriale; e il fatto che facendola pubblicamente si caricava di forze maggiori, date dalla relazione tra l’attuazione di quell’esperienza e il pubblico.
Insieme a questo laboratorio, ci sono state anche delle rappresentazioni pubbliche?
Dopo un anno e mezzo o due di lavoro prettamente di sala, abbiamo cominciato a fare delle piccole azioni nel quartiere: teatro di strada, clownerie, parate, insomma le cose tipiche che si facevano in quegli anni. Lentamente si è cominciata a prospettare l’ipotesi di un piccolo lavoro teatrale con Cesar, Dolly, me e alcune altre persone. Poi abbiamo cominciato a fare degli incontri, chiamiamoli corsi, dove trasmettevamo quello che veniva studiato all’interno del laboratorio: serate aperte, dove veniva altra gente e insegnavamo quello facevamo in sala.
Quindi trasmettevate a un gruppo più ampio l’esperienza che stavate facendo all’interno di questo gruppo più chiuso. I tuoi approfondimenti successivi, sul terreno teatrale, sono avvenuti in solitudine, o hai trovato altri maestri?
Un altro momento importante è stato il lavoro con Iben Nagel Rasmussen: ho studiato per un certo periodo con lei sul training che facevano allora all’Odin Teatret, sia fisico sia vocale. A quel punto l’esperienza con il gruppo di Cesar Brie era già finita.
Così come più o meno era finita anche l’Isola...
Con lo sgombero del Centro Sociale.
In pratica la fine di quell’esperienza teatrale è stata determinata dallo sgombero….
Sì, è stata comunque molto pressata da quella situazione. Il Centro Sociale era continuamente minacciato da una serie di agenti esterni: ragazzini che spaccavano i vetri, drogati che venivano incendiarti la moquette e a farsi le pere nel giardino... C’era anche una minaccia da parte del Partito Comunista, che riteneva che noi stessimo usurpando un terreno del quartiere e che quindi avremmo dovuto sgomberare perché lì dovevano fare un asilo. Il Centro fu chiuso e murato. Ci cacciarono, non avevamo neanche più la forza di lottare, perché ognuno di noi era più interessato ad approfondire la propria arte che a creare un movimento politico: l’attività politica nel quartiere era una necessità che avevamo per sopravvivere, però ciascuno di noi era interessato a lavorare sul suo specifico. Quindi ce ne andammo e dopo un po’ sgomberarono. Il Centro rimase così, murato, per dieci anni, abbandonato. E’ stato buttato giù, forse nel ’90, e adesso non so cosa ci sia dentro. Ma certo per dieci anni non fu fatta una scuola materna né nient’altro.
Per te quindi si chiude il gruppo di lavoro con Cesar Brie e c’è l’incontro con Iben...
Con lei è iniziata un’altra apertura. Ho cominciato ad approfondire con maggior rigore un percorso che definirei di conoscenza tra forma e sensazione. Gli esercizi che facevamo erano fondamentalmente azioni nello spazio, azioni dentro lo spazio; però quel modo di agire si legava intimamente alla sensazione che riuscivi a leggere nel presente. L’alfabeto sul quale ci allenavamo era fisico: dei modi di cambiare direzione, di cadere, di salire, di saltare, di perdere l’equilibrio e ritrovarlo... Insomma, erano dei codici. Però dentro quei codici l’importante era la transizione, il passaggio da una posizione all’altra. L’allenamento consisteva nell’esecuzione di questo codice, ma anche nell’ascolto di un ritmo, di uno stato d’animo, di una sensazione di peso o di leggerezza, di forza o di caduta, di debolezza, di fragilità, di acutezza... Tutte queste "letture del presente" avevano dunque un codice in cui esprimersi. Per esempio, posso restare seduto su una sedia, immobile, e attraversare tutti quegli stati d’animo senza però compiere un’azione li rende visibili; oppure posso disporre di un codice che permette di rendere visibili questi impulsi nello spazio. A quel punto c’è un avvicinamento a quello che succede sulla scena, dove vivi momento per momento e in qualche maniera dovresti cercare di riflettere momento per momento quello che è la tua percezione.
Parli di sensazioni o di stati d’animo che mettono in moto un’azione fisica o che le danno energia. Non capita anche il contrario, cioè che un’azione fisica metta in moto l’interiorità?
Sì, spessissimo. Quando parlo di sensazione, non parlo necessariamente di consapevolezza immaginativa; per me la sensazione viene ancora prima della consapevolezza immaginativa, che emerge quando riesci a ricreare la sensazione perché hai capito a che cosa attingi per provare quella sensazione. Inizialmente hai una sensazione, che come tale esiste e ti dà un ritmo, ti offre una possibilità di azione, di densità fisica nello spazio, di presenza. Però non sai necessariamente come ricrearla, quella cosa; ma puoi attingere a un immaginario che è un deposito di esperienza personale. E quando suoni un certo tasto, si genera una determinata sensazione: a quel punto hai attinto a una consapevolezza di tipo immaginativo-esperienziale per ricreare quella sensazione, che magari originariamente era una pura sensazione, data dal corpo. E’ come se il corpo facesse un movimento e quel movimento ti procurasse una sensazione, e tu avverti che quella è la sensazione sulla quale dovresti lavorare. Cioè ti accorgi che quel movimento sta toccando in te qualcosa che ti interessa, ma non sai come sostenere quella sensazione, finché mentalmente non riesci a capire qual è - dentro di te - il deposito di immaginario che ti genera quella sensazione. Ma è sempre un lavoro dove non c’è necessariamente un prima o un dopo, c’è sempre un passaggio, un’osmosi...
A questo punto possiamo riprendere il filo cronologico della tua vicenda. Dopo l’Isola, hai iniziato a lavorare al Leoncavallo, quando ancora stava - appunto - in via Leoncavallo. Lì avete trovato una sede, lì hai iniziato a lavorare.
Sì, ci sono rimasto dall’81 all’89, quando ci fu il primo sgombero.
Come funzionava il lavoro all’interno del Centro Sociale?
Eravamo dei tagliati fuori anche dentro il Leoncavallo. Lo spazio era già stato occupato, ed emerse l’ipotesi di rendere disponibile per il lavoro teatrale una palazzina. Il Comitato Politico sostenne che era inutile farci qualcosa, perché era inagibile, ma alla fine disse: "Comunque affari vostri". Allora noi (c’erano anche Luisella del Tico Teatro e Paola Manfredi) abbiamo consultato un architetto che ci ha detto: "Secondo me non è vero che la palazzina è pericolante, bisogna sicuramente fare dei lavori, ma non è pericolosa". Bisognava fare un gran lavoro: si trattava di togliere dei macchinari chimici incementati al pavimento, sgombrare le macerie. Quando, dopo due o tre mesi di lavoro piuttosto tesi, riuscimmo a insediarci lì dentro, iniziarono i problemi: a quel punto quelli del Comitato ritenevano che noi dovessimo dare la disponibilità della palazzina, mentre noi non volevamo. Dicevamo: "Questa è una sala prove. Non possiamo allacciare i fari, metterci le nostre cose e la moquette, se poi la gente viene e ci pesta i mozziconi, ci sbatte la birra come di costume si fa al Leoncavallo"... Quella è stata la prima difficoltà, perché per noi quello non era un passatempo: si trattava invece di utilizzare quel luogo - siccome eravamo poveri - senza dover pagare un affitto alle stelle. Questo nostro atteggiamento è stato mal sopportato fino alla fine, finché nell’89 ci fu il primo sgombero e la nostra palazzina venne devastata come le altre. Eravamo disposti a rimetterla in piedi, ma ci fu impedito perché, secondo il Comitato, noi avremmo dovuto essere lì a difendere la palazzina il giorno dello sgombero - era il 16 agosto ed eravamo in vacanza, e comunque mi domando che cosa fu difeso, perché il Leoncavallo quel giorno venne completamente distrutto... In ogni caso si ricominciò a ricostruire, ma noi no perché - sempre secondo il Comitato - eravamo andati in Comune a chiedere uno spazio. Sono ancora inviperito per questa faccenda, che fu una questione di pura demagogia, un’ipocrisia pazzesca: fummo accusati in maniera assolutamente ingiusta di essere andati a chiedere al Comune spazi per noi che facevamo teatro. Qualcuno l’aveva fatto - ma non noi, né io né il Tico Teatro. Lo fecero altri gruppi che lavoravano lì...
In pratica quelli del Leoncavallo vi accusavano perché invece di continuare a difendere a oltranza quello spazio eravate andati a cercare un accordo con le istituzioni.
Sì, e in affetti qualcuno dei gruppo presenti cercò questo contatto.
Chi c’era oltre a voi?
C’erano gruppi musicali, poi il Gruppone, Raul Manso, e altre realtà che lavoravano in spazi diversi dal nostro. Là dove lavoravo io c’era solo il Tico Teatro. Noi, che avevamo lavorato in quella palazzina, non abbiamo mai chiesto niente, volevamo solo rimettere in piedi i muri che avevano buttato giù e riprendere il lavoro. Ma ci abbiamo rinunciato immediatamente, perché non avevamo più voglia di lottare anche lì dentro e ci siamo detti: "Va be’, andiamocene da un’altra parte. Non vale più la pena di star qua...".
Anche se quello era il posto in cui sono nati i tuoi primi spettacoli.
Sì, è vero. E io sono assolutamente grato del fatto che sia esistito il Leoncavallo e che ci fossero queste possibilità, e che all’interno ci fossero anche delle conflittualità. Ma tutto questo lo considero parte del processo di lavoro, perché non essendoci un padrone, non essendoci un vero capo, è ovvio che ci siano tante teste e che spesso si lavori in situazioni di conflitto. Anche se ho il dente avvelenato sulla questione del rapporto con le istituzionio, perché comunque il Leoncavallo, da allora, ha fatto molti di più che contrattare con l’istituzione, fino a ottenere uno spazio enorme. Uno spazio che io non ho, e non mi interessa comunque andare a contrattarlo con il Comune...
E’ chiaro che il Leoncavallo si è garantito la sopravvivenza anche attraverso contatti e mediazioni con le istituzioni.
Ma poi, alla kermesse che è stata fatta nel ’93 in difesa del Leonka, ci sono andato. Del resto è lì che erano nati i miei primi spettacoli, in particolare La crociata dei bambini.
Che rapporto c’era tra il vostro lavoro teatrale, la ricerca di una disciplina di lavoro, e un ambiente come il Leoncavallo, dove si trattava di rompere costantemente le regole?
Eravamo considerati un po’ degli estranei. Nei primi anni cercavamo di partecipare alle riunioni del Comitato di Occupazione, ma poi abbiamo smesso perché ci venivano sempre fatte delle richieste che non combaciavano con i nostri desideri, le nostre posizioni. Dal loro punto di vista, il nostro fare teatro doveva comunque, in qualche maniera, essere funzione del centro sociale, del quartiere, dell’attività politica, dell’ordine politico. Ora, io sono assolutamente contrario a questo genere di concezione. Non mi interessa. Trovo che per fare politica sia bene fare politica e che per far teatro sia bene far teatro, per far musica sia bene fare musica. Quando uno pensa di fare politica attraverso il teatro o attraverso la musica, non m’interessa. Non dico che sia giusto o sbagliato, ma non mi interessa.
Quindi c’è stata da parte vostra una difesa dell’autonomia dell’attività artistica.
Una difesa della poetica e della possibilità di inventare qualcosa. Qualcosa che non dico fosse estraneo alla società, assolutamente, ma che non fosse sempre una conseguenza dell’azione del potere. In qualche maniera il potere ti determina anche sul piano artistico, in quanto agisci sempre in reazione alla sua azione. A un certo punto mi rifiuto di essere una reazione all’azione del potere, così come a volte mi rifiuto di leggere il giornale. Per carità, lo leggo, però a volte non ho voglia neanche di leggerlo, se mi deve condizionare troppo l’esistenza, perché ci sono informazioni che ti condizionano - ma quella non è la realtà delle cose. E’ come se il potere volesse tenere la tua mente su certe cose. E io mi ribello alla possibilità che la mia mente venga messa là dove vuole il potere, anche a costo di essere segnato e di trovare una serie di intoppi: le tasse che non hai pagato piuttosto che una serie di guai sociali. Non sto parlando di un’estraneazione politica, ma della possibilità di tenere aperta una zona che non sia solo una zona di reazione ma di creazione. Questo tipo di reazione è quella che viveva lo stesso Centro Sociale quando si verificavano grosse minacce da parte del potere: la minaccia di sgombero oppure la guerra in Iraq. Allora si resuscitava immediatamente il fervore politico: piazza, manifestazioni, eccetera. Per il resto, restava tutto uguale: un piatto di pasta, birra, canne, musica, concerti, anche un po’ di casino, comunque situazioni abbastanza stagnanti...
...senza una loro forza propulsiva...
...dove a un certo punto ti viene da dire: "Sei contro tutto, va bene. Ma cosa proponi? Allora, con la pittura a che punto siamo? Vuoi dipingere? Cosa? Fai ancora i graffiti che si facevano nel 1970?". No. A un certo punto anche tu devi metter lì la tua cosa, perché altrimenti non andiamo più da nessuna parte. Il nostro tentativo consisteva nel dire: "Noi comunque portiamo avanti qualcosa che non sia solamente essere contro. Noi mettiamo lì questa cosa; che sia contro o che sia pro, non lo sappiamo, però vogliamo mettere lì qualcosa su cui anche tu possa confrontarti". Perché la gente che va in parlamento, che si sbatte nel potere politico, è lì, dietro la sua scrivania, e butta via la sua vita - otto ore al giorno - davanti a qualcosa, propone un progetto politico che è frutto di pensiero, di azione, di studi eccetera. Dopo di che può essere contro di te, puoi non condividerlo, però anche tu devi metterci qualcosa, perché altrimenti resti sempre lì a dire: "No, come fate voi no. Come fate voi no", ma non ti diverti.
E quello che hai messo lì, in quegli anni al Leoncavallo, è stata La crociata dei bambini.
Da un lato fu il tentativo di seguire delle sensazioni legate al mio vissuto, sia politico sia personale sia sociale. La crociata dei bambini era una storia di guerra, in fondo parlava dell’essere orfani e di una serie di tematiche che non erano estranee alla mia condizione sociale e umana di allora e probabilmente di ora. Per me la domanda era sempre sul linguaggio: qual è il linguaggio che utilizzo? qual è la forma?
Le altre persone che frequentavano il Leoncavallo hanno colto il senso dello spettacolo, il messaggio che hai attribuito alla Crociata dei bambini, questa sensazione di guerra, di orfanità?
Direi che non ci fu attenzione...
Quindi i frequentatori del Leoncavallo non sono stati interessati a decodificare un lavoro come il tuo, con quel tipo di messaggio?
No, perché a un primo impatto non coglievi l’aspetto politico o di denuncia.
Però sarebbe stato possibile cogliere e riconoscere l’aspetto esistenziale che emergeva dalla vicenda.
Credo che il senso dell’essere orfani non fosse così chiaro neanche allora. Parlavo di orfani, ma è una sensazione o comunque una condizione che ho sentito molto di più successivamente, forse anche nella Crocifissione.
Il punto fondamentale consisteva nel costruire attraverso questo assolo un tuo personale linguaggio teatrale.
Un linguaggio del momento. Poi, lentamente, forse con l’intervento del lavoro sull’Actor Studio…
Quando parli di Actor Studio, a cosa ti riferisci? Ti sei messo a leggere libri, hai seguito corsi?
Ho fatto dei seminari con Dominic De Fazio e altre persone venute dall’America per tenere degli stage. Ho anche letto diversi testi di Strasberg e ho cominciato a capire quell’esperienza, senza però mai arrivare alla pratica del cosiddetto Metodo vero e proprio. Ma ero interessato a quel modo di attingere all’esperienza che si deposita nella memoria.
Sei arrivato anche a Stanislavskij?
Ovviamente, ma sempre in maniera già elaborata dalle scuole successive. Ho fatto anche dei laboratori sul personaggio e sul lavoro dell’attore, le cose che fanno un po’ tutti quelli che fanno questo lavoro. Per me erano interessanti anche le elaborazioni successive, da Grotowski a Barba allo stesso Brook... In tutti loro, comunque, era presente il Maestro. Da lì, lentamente, è iniziato un avvicinamento alla recitazione: io venivo infatti da un teatro cosiddetto di corpo, che non era basato sulla recitazione vera e propria, e avevo il timore di non conoscere quel tipo di percorso. Un po’ come dire: "Sì, è un pittore, ma magari non sa neanche fare un ritratto o disegnare un cavallo". Allora, forse per una sensazione di inferiorità, mi sono messo a studiare recitazione. E’ stato molto interessante, perché ho capito che la recitazione non significa tanto studiare i toni, imparare a parlare, ma che anche lì si tratta sempre della stessa cosa, cioè di agire. E allora capisci che non è tanto diverso dal lavoro che hai fatto sul corpo. Ti rendi conto che anche nella comunicazione quotidiana stai sempre facendo un’azione. Per esempio, in questo momento sto spiegando qualcosa, o sto cercando di chiarire un concetto; e mentre lo faccio mi vengono in aiuto delle parole, dei ritmi, dei suoni, e questo fa sì che io parli con una certa naturalezza. Sulla scena, il fatto di sapere qual è l’azione che stai facendo attraverso il testo ti aiuta: non devi star lì ad ascoltare parola per parola... Insomma, è importante capire che comunque c’è dentro l’azione. Da questo punto di vista mi è servito per vedere come l’azione rimane al centro del lavoro sia per quanto riguarda la presenza fisica sia per quanto riguarda il testo.
Oltre agli assoli, in cui entravano fortissimi elementi gestuali, quasi di danza, hai fatto anche degli spettacoli con il Tico Teatro come regista.
Notturno, nell’86. E’ stato il lavoro successivo alla Crociata dei bambini, l’abbiamo fatto nel corso di quell’anno in situazioni di "sottobosco". Era un lavoro senza testo, di azioni, per certi aspetti vicino alla danza, con musiche. Ognuno di noi arrivava con del materiale precedente. Io avevo portato alcuni numeri di base della Crociata dei bambini, il personaggio era un po’ quello. Anche il Tico Teatro veniva con dei puntelli precedenti. Da questo impasto sono nate nuove cose e lo spettacolo è diventato un’altra cosa, anche se consisteva semplicemente nel prendere personaggi di diverse pièce e sbatterli nello stesso luogo e vedere cosa succedeva. L’ispirazione fondamentale era il mare, il molo, la partenza e l’attesa del viaggio. Ripensandoci, mi accorgo che da lì ognuno di noi è partito per la sua strada. Ci siamo rincontrati, perché dopo aver fatto da solo Il miracolo della rosa ho fatto La vergogna ancora con Luisella e Paola: ci siamo incontrati su livelli di lavoro differenti, eravamo anche cresciuti…
Nel passaggio dalla Crociata dei bambini al Miracolo della rosa che cosa è cambiato nel tuo modo di lavorare?
Forse il fatto che nella Crociata dei bambini ho costruito la partitura attraverso un processo quasi tecnico: erano tutti movimenti codificati, come se fossero dei fotogrammi; sentivo molto l’influenza del rigore, del training su cui avevo lavorato. Dall’altro lato provavo interesse, attaccamento e attrazione per il lavoro di Kantor, che avevo visto in quel periodo, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Avevo seguito il suo lavoro, andavo sempre a vederlo ed ero molto influenzato dalla sua poetica. Perciò la costruzione avveniva un po’ per quadri, sezioni di movimento che alla fine costituivano una sequenza, ma era tutto molto sezionato.
…ed era costruito sempre per improvvisazioni successive. Come costruisci le sequenze a partire dai questi fotogrammi?
Nella Crociata dei bambini avevo un tema o un testo di riferimento, dal quale intuivo una forma fisica che potevo abbinare al testo.
In effetti, anche se il teatro che fai è molto gestuale e danzato, parti sempre da suggestioni poetico-letterarie molto forti, da Brecht e Schwob per La crociata dei bambini a Genet, Koltès e Fassbinder…
Sì, finora ho fatto così, non so in futuro…In questo momento sto azzerando tutto, è come se avessi azzerato anche l’interesse per queste cose… Non è che io rinneghi tutto quello che ho fatto, anzi, lo faccio e mi fa ancora piacere farlo, ma forse allora volevo dire qualcosa, avevo qualcosa da dire, sentivo di dover dire qualcosa e avevo delle forme per dirlo. In questo momento non ho niente da dire e quindi non ho niente da dire neanche su quello che leggo. In realtà ho letto tantissimo in questi tre anni, sono stato una porta aperta, mi è passato dentro di tutto e forse lentamente adesso qualcosa ricomincia a stringere…
Torniamo al Miracolo della rosa: dicevi che partendo da un testo letterario trai l’energia da concretizzare nel lavoro, nelle azioni teatrali.
Per La crociata dei bambini il processo seguiva un’intuizione generica rispetto a una fisicità che poteva legarsi a un testo, a una situazione, a un tema, e quindi mi veniva da creare una danza, che era come una musica… C’era una danza con le nacchere che facevo tutta saltellata, poi una specie di danza con un pupazzino, legato a un filo, sempre come una musica… Erano delle successioni musicali che per me c’entravano con quel tema…
…nella situazione data dal testo letterario…
Sì, da una suggestione del genere. Un testo narrativo che veniva scandito mi spingeva a cercare una forma fisica che potesse accompagnarlo, o comunque la forma fisica che sceglievo di avere mentre lo stavo recitando. Per Il miracolo della rosa invece il processo era per certi aspetti un po’ meno costruito: nasceva quasi sempre prima una sensazione che generava un’azione, ma l’azione generata non era necessariamente l’azione che poi si sarebbe vista nello spettacolo. Per esempio, le musiche di Joe Cocker le abbinavo a quel testo, e nello stesso tempo in sala lavoravo su quelle musiche, e interiormente mi rendevo conto che mi scattava un immaginario legato a quello che stavo leggendo ma su un’azione che invece era un lavoro con un bastone. Quindi era un training codificato fatto con un bastone in movimento nello spazio, e percepivo che mentre lavoravo su quella spazialità innestavo delle suggestioni che venivano dal testo. Poi c’è stato un lento percorso per cui mi rendevo conto che l’azione immaginativa mi tornava mentre lavoravo con il bastone, quando io vedevo gente correre o io che correvo. Allora mi sono detto: "Boh, provo a correre", però correre mi sembrava da stupido, e allora ho corso sul posto, e questo correre sul posto mentre andava quella musica mi permetteva di scegliere un’azione fondamentale che mi viaggiava nell’immaginario, e allo stesso tempo mi permetteva, dentro l’azione fondamentale, di seguire tutta una serie di immaginazioni che mi investivano durante quel percorso. Hai una musica che abbini a quel testo, hai un’azione ma non vuoi proporti nell’azione "training con il bastone", allora salvi l’immaginario cambiando l’azione e arrivi a quella cosa. Questo è un po’ il percorso. Avevo anche un suono di fondo, una specie di suono grave, e ogni volta che facevo quel testo mi risuonava dentro. Era un po’ il suono-guida che mi faceva scegliere di fare un’azione piuttosto che un’altra. Però quello è stato molto più un lavoro di improvvisazione, sbattevo lì delle cose e poi lentamente le catturavo e quindi riuscivo a riprodurle, a ricrearle.
Per La crociata dei bambini parlavi di uno stato di guerra e di una sensazione di orfanità. Nel Miracolo della rosa quali sono i toni dominanti?
Sempre la solitudine e l’isolamento, però con più presenza carnale degli altri personaggi e con un canto più lirico, meno stracciato. Nella Crociata dei bambini c’era un campo desolato, la sensazione interiore era una specie di campo sterminato. Nel Miracolo della rosa c’era una situazione di solitudine e di isolamento, ma c’era anche un calore determinato da questo innamoramento rispetto al mondo del carcere, o comunque rispetto al mondo dei criminali, di questi uomini, di questa possibilità di osare, rispetto al coraggio, al rischio, all’essere contro la morale comune. Insomma, una serie di contenuti riguardanti la collocazione di un uomo che comunque si identifica con altri uomini – pur non essendo uguale a loro, ma avendo tuttavia un ideale in quelle cose, e provando dunque una certa sensazione di appartenenza. Forse nel Miracolo della rosa, più che di essere orfani - nonostante Genet fosse orfano e quindi la sua condizione di isolamento fosse molto simile - si trattava di una sensazione di appartenenza con altre persone.
Così siamo arrivati al 1988. Mentre replicavi Il miracolo della rosa continuavi anche La crociata dei bambini o avevi smesso?
La crociata dei bambini l’ho fatta dall’83 all’87…
Dunque non l’hai tenuta più in repertorio?
No, era proprio finita.
E adesso riusciresti a rifarla?
Non credo. Forse ho un video di una prima versione orribile che feci a Berlino.
Nel momento in cui sei passato al lavoro successivo, non hai più sentito la necessità di fare quello spettacolo?
In realtà l’ho fatto poche volte, circa sessanta, ma l’avrò consumato nella sala prove quattrocento volte, l’ho ripetuto per mesi. Probabilmente gli spettacoli, quando ci passi dentro così tante volte, li consumi, non ne hai più bisogno. Poi io non sono uno che documenta il suo lavoro in maniera particolare, e quindi ho proprio la sensazione di avere soffiato nel vento. Riprendere quel lavoro, non so cosa ne verrebbe, ma sarebbe un gran lavoro.
Dopo Il miracolo della rosa che cosa è successo?
Ho continuato... Anche quel lavoro dopo il debutto ha avuto una gestazione successiva di un paio d’anni prima di arrivare alla sua definizione. Lentamente prendeva una forma più chiara. All’inizio magari il lavoro ti sembra molto chiaro, ma poi ti perdi e prendi delle strade che non riconosci più, poi ritrovi la strada, capisci la sua nota fondamentale e tenti di ripulire, di togliere gli orpelli che magari sono rimasti, di lasciare l’ossatura fondamentale del lavoro, quella che ti porta dall’inizio alla fine senza che neanche te ne accorgi.
Diciamo che nella prima fase è un lavoro di accumulazione, di taglio-cucito-montaggio. Dal momento in cui tu inizi a fare lo spettacolo con il pubblico si tratta soprattutto di togliere, di ripulirlo…
Un’aggiunta capita solo se hai avuto un’intuizione particolarmente felice. Generalmente si tratta di asciugare e di trovare l’ordine, perché a volte c’è qualche problema di disordine…
E dopo Il miracolo della rosa?
C’è stato l’insegnamento alla Scuola d’Arte Drammatica per un anno, dove ho conosciuto gli allievi del primo corso, tra cui Antonio Albanese, Fabio Modesti e Nicola Legnanese. Contemporaneamente erano un paio d’anni che studiavo con il mio amico dei pezzi musicali e così a un certo punto ho deciso di cantare questi pezzi, in un assemblaggio che è stato proprio buttato lì, all’Out Off solo per dieci repliche, perché tenere in piedi la cosa era un pasticcio: c’erano dieci attori, più io e il musicista. E’ stato quel lampo dove l’unione era tra canto e azione scenica. Quindi io cantavo solamente o recitavo, c’era un musicista e gli attori invece in qualche maniera agivano delle cose che io avevo suggerito che poi ognuno ha preso una strada come attore, però che erano anche lì un po’ il rapporto tra la visione e la sonorità in quanto quando io cantavo quei pezzi avevo come delle immagini oppure mi ritornavano delle visioni oppure mi davano delle situazioni che avevo visto o vissuto in una maniera assolutamente imprevedibile e quindi avevo fatto lavorare gli attori su queste situazioni. Allora mentre il canto andava c’erano contemporaneamente queste persone che comparivano e scomparivano: erano sempre presenti in scena ma compariva e scompariva la loro azione.
Credo che al di là delle difficoltà di ordine pratico e organizzativo avrebbe potuto essere una strada su cui lavorare anche in futuro: una compagnia di attori con cui lavorare, a cui fare da regista e autore…
Su questo punto sono molto in contraddizione, perché da un lato mi piace lavorare con altre persone e dall’altro mi imbarazza, soprattutto perché non sono mai molto sicuro del mio lavoro, non ho mai delle direzioni così precise. In secondo luogo, anche economicamente queste persone richiederebbero garanzie che io non riesco a dare. E qua se vuoi arriviamo alla Vergogna, il lavoro fatto con Luisella e Paola ma con questo problema di fondo. In quel periodo ho lavorato parecchio, perché stavo lavorando in contemporanea al Miracolo. E’ stato molto sofferto perché per più di un anno abbiamo studiato insieme, abbiamo letto tutto Pasolini, tutto Genet, le poesie, le sceneggiature, i romanzi sia dell’uno che dell’altro, visto i film. E facevamo approcci in sala, non necessariamente prove vere e proprie. Poi abbiamo cominciato un anno di prove, dopo aver mandato giù parecchia roba. Quando sono arrivato alla fine di quel secondo anno, quindi dopo un anno di prove in sala, io non ero assolutamente in grado di capire su cosa stavo lavorando, come mettere insieme quella roba, qual era il disegno drammaturgico che mi interessava. Insomma, era un disastro, al punto che ho detto alle ragazze: "Scusatemi, non sono più in grado di portare avanti il lavoro, vi risarcirò in qualche maniera appena posso per il tempo che mi avete dedicato". Loro invece sono state molto invece disponibili e pazienti, perché mi hanno detto: "Guarda, in fondo ci ha interessato quello che abbiamo fatto, non abbiamo avuto la sensazione di aver perso tempo, abbiamo fatto un’esperienza interessante senza riuscire a chiuderla". Allora mi sono tranquillizzato, perché ho visto che non era un problema di soldi, che si trattava piuttosto di ricavare i tempi di lavoro e di incontro. Non è stato facile, perché non avevamo più neanche la sala del Leoncavallo, quindi lavoravamo un po’ qua e un po’ là, in cantina, in casa, in un appartamento vuoto, alla Scuola d’Arte Drammatica dove, dopo che mi sono licenziato, ho occupato una sala, in un cinema a Settimo Milanese in affitto, finché siamo riusciti a combinare questa cosa. Allora la possibilità di lavorare con loro è nata dal fatto che innanzi tutto c’era una grande disponibilità e non c’era una richiesta di soldi, non c’era una urgenza, c’era il fatto di trovarsi di fronte a delle cose senza sapere dove andare. Ci siamo dati il tempo e la lotta necessari per arrivarci, perché è stato sempre un lavoro basato sulla lotta: ho lottato tantissimo con Paola, e anche con Luisella. E’ stato proprio un lavoro di continua lotta, quella ormai era la pratica e alla fine non avevo mai ragione né io né loro, era sempre una terza cosa … Litigavamo ma senza che rimanessero assolutamente strascichi, capivamo che quello era il lavoro…
Nei tuoi lavori c’è sempre una forte attenzione alla diversità, alla marginalità. Questo, se si vuole, è il filo rosso, il basso continuo del tuo lavoro. Qual è il motivo di questa scelta?
Innanzitutto anch’io appartengo a una categoria sociale considerata diversa dentro la società, e quindi non posso ignorare questo fatto. E’ difficile staccarsi da te stesso, dagli argomenti che ti toccano. Ci sono queste categorie "diverse" ma poi ognuno, anche gli "uguali", ha delle esperienze della diversità sociale. Forse per me c’era anche il bisogno di scoprire, dietro a tanti svantaggi, qualche vantaggio: cogliere comunque una qualità assolutamente pazza della vita, che la tua diversità spesso ti porta a scoprire. E far in modo che questa condizione un po’ pazza di esistenza, di incontri, di status, di modo di vivere gli incontri o la sessualità, non diventi solamente un segno di disperazione ma dia anche un senso di qualità della vita, o possa far nascere una poetica cruda, comunque non una cosa da cancellare ma qualcosa che comunque ti permetta di fare un’esperienza che altri magari non fanno. Inoltre nella mia vita ho conosciuto persone che devono vivere nella società come diversi e che mi hanno molto colpito: perché questa possibilità di poter esistere è una lotta; e può anche essere interessante vedere come una persona cerchi di trovarsi uno spazio vivibile e una forma per vivere, anche se non è considerato uguale agli altri.
Un altro aspetto della tua vita che interagisce con il tuo lavoro teatrale è la tua professione di operatore nel campo psichiatrico.
Il testo del primo dei tre Studi per una Crocifissione è nato da situazioni vissute lì, la base del testo è interamente tratta dall’incontro con queste persone. Alla base del lavoro c’era proprio la raccolta di questi materiali che negli anni avevo annotato un po’ qua e là, e che mi sembravano comunque interessanti o sorprendenti: allora mi sono deciso a metterli in scena, a vedere cosa si generava, e anche chi diventavo per potere dare vita a queste parole. Nel contesto psichiatrico nel quale lavoro ho la possibilità di osservare alcuni comportamenti che ne rendono molto evidente la dinamica, perché è sempre tutto molto esagerato. La cosiddetta pazzia nei casi migliori ha delle espressioni assolutamente originali, altre volte non ha espressioni particolarmente originali se non la deformazione o l’esagerazione di dinamiche che avvengono quotidianamente tra tutti gli esseri umani...
E’ una forma un po’ estremistica di normalità.
Sì, e quindi in quella situazione se devono dire a qualcuno "Stronzo!" glielo dicono, non hanno nessun problema a insultarsi o a reagire direttamente o a rendere visibile la dinamica.
Parli di rapporti interpersonali o di dinamica individuale personale?
Sia dei rapporti tra di loro, sia dei rapporti tra te e loro, sia della loro condizione personale, vissuta in solitudine... Però la loro condizione è visibile nella postura fisica, nello sguardo, nel modo di parlare, nel ritmo, nel tono della voce. Sono tutti veramente personaggi, potresti dire. Nella vita anche noi siamo dei personaggi, però molto più difficilmente definibili, in quanto abbiamo una possibilità di accesso a più campi e soprattutto siamo in grado di trasformarci un po’, di essere un po’ camaleonti a seconda delle situazioni.
Abbiamo una maggior flessibilità...
E quindi siamo meno facilmente definibili. Invece un paziente strutturato dentro il suo comportamento, come lo vedi lì seduto in un corridoio o in un atelier di pittura, spesso è anche nella sua stanza, o se viene a casa mia, o al bar. E’ sempre lui, con la sua tematica che lo investe e lo determina. Non c’è quell’attenzione all’esterno, che crea subito un effetto di osmosi con l’ambiente e fa sì che tu cambi in rapporto con l’esterno. Invece quel tipo di paziente è proprio quella roba lì e tutti se ne accorgono immediatamente. In questo senso c’è più il cosiddetto personaggio, e questo ti permette di osservare anche una qualità specifica di te stesso. E’ come se tu vedessi una parte di te che prende forma come una scultura e diventa qualcosa di preciso: con una qualità precisa della voce, del portamento, dello sguardo, del tono.
Questo è quello che arriva da questo mondo al tuo teatro. Invece che cosi porti dal mondo del teatro a loro?
Pochissimo. Ogni tanto gli racconto qualcosa, loro sono interessati a sapere in che città vado, che cosa ho visto. Li ho anche invitati a vedere un mio spettacolo, e a volte esprimono il desiderio loro stessi. Però quando si tratta effettivamente di venire preferiscono trovare delle scuse: a volte mi rispondono: "Eh, il teatro è pesante"...
E tu non hai mai fatto un tuo spettacolo all’interno dell’ospedale psichiatrico?
Ho sempre avuto una certa resistenza a porre loro la questione teatrale. La pittura da noi ha sempre un andamento abbastanza rilassante, spesso faccio fare copie da altri pittori, oppure ognuno fa il suo disegno, c’è il colore che comunque è anche vivacità, vita. Anche il teatro è vita, però è anche emozione: e lì dentro il livello di emotività è sempre talmente alto che sbordi subito dal bicchiere. Allora io tendo spesso a contenere lo stato emotivo, perché vedo che loro stessi sono molto spinti sullo stato emotivo. Anche il teatro tende un po’ a spingerti in sempre in quella direzione: il loro livello di sopportazione è come quello di chi si è grattato una piaga tutta la vita e non ne può più di sentire questa piaga che viene grattata; allora, piuttosto che grattarla, ti viene piuttosto da medicarla, non ti viene da...
...ulcerarla ulteriormente.
Questa è stata la ragione per cui non ho mai portato loro il mio teatro, anche se qualche volta ho invitato magari Bustric, perché è un genere godibile...
...nel quale non viene messa in gioco un’emotività particolarmente sconvolgente.
No, e comunque è un’emotività giocosa, poetica, anche gentile, simpatica. Però una volta ho portato un danzatore di flamenco: si trattava solo di ballare, e tuttavia nel flamenco c’è una grande energia. Così ogni volta che finiva una pezzo, qualcuno mi chiedeva di accendere la luce, di prendere un po’ d’aria, o di fare due chiacchiere, e qualcuno andava a toccare il ballerino. Solo dopo questa pausa il danzatore poteva ricominciare a ballare: nel flamenco c’è questa energia più sanguigna, c’è un battere, c’è un rapporto di peso con la terra, c’è qualcosa di emotivo che traspare anche nella danza: per loro era sopportabile per tre minuti, non di più...
Che rapporto c’è tra il tuo lavoro d’attore e la danza?
Non so esattamente, però negli ultimi anni, in questi ultimi due anni soprattutto, ho studiato parecchio la danza. Prima ero più vicino al lavoro sul movimento, che veniva più da una pratica di lavoro teatrale, più vicina all’azione e a certi training più grotowskiani, barbiani. E a un certo punto mi sono avvicinato al codice della danza contemporanea, non danza classica. In questi ultimi tempi ho lavorato molto con Raffaella Giordano.
E che qualità diversa trovi nella danza rispetto al teatro?
Raffaella è una danzatrice, ha un codice e dentro quel codice ha delle invenzioni. Quello che porta in scena è comunque danza, è frutto di una serie di alfabeti che a un certo punto diventano una scrittura. La danza è visibile, e attraverso questa danza visibile rende visibile qualcos’altro. Io non mi sento un danzatore, in quanto non ho la tecnica e né la capacità, però sono interessato a studiare tutte le dinamiche di relazione tra peso, spazio, spinte nel godimento, spostamenti di pesi…
Prima ancora che si costruisca l’alfabeto, a livello di forze e non di segni…
Non utilizzo i segni ma studio le spinte, in modo che il movimento non sia frutto di una figurazione…
…come accadeva invece nelle tue esperienze teatrali…
ma che sia invece consapevole della relazione con l’esterno, in particolare il pavimento che ti dà la spinta. Quello che mi ha interessato sono leggi fisiche molto precise. Ora se qualche segno mi appare, il mio lavoro tiene conto di quell’insegnamento, come pure del flamenco, che ho studiato per tre anni, dove comunque hanno un ruolo il peso e il rapporto con la terra. Anche se non mi viene da riprodurre quei passi, perché c’è sempre un filtro che porta da un’altra parte. C’è una figura che si muove, ma non necessariamente danza. Che cioè probabilmente attinge ad alcune strutture della danza, in quanto gli spostamenti sono determinati dal rapporto tra lo spazio e le spinte eccetera, ma non mi viene da rendere leggibile la danza, torno comunque alla figura che si muove.
A parte gli assoli, a volte hai lavorato con compagnie diverse dal Tico Teatro. Che tipo di esperienza è stata?
Non l’ho fatto spesso. Ho lavorato nel Muro con Pippo Delbono e Pepe Robledo, che comunque sono amici. E’ stata un’esperienza interessante, ma non facile, perché i tempi erano troppo stretti, due mesi, e probabilmente per entrare in relazione con Pippo, il regista che promuoveva il processo, ci voleva più tempo. E dopo un mese in cui non arrivi a nessun risultato a un certo punto è lo stesso regista a dirti: "Correte un po’ ai ripari e attingete ai vostri materiali". A quel punto Raffaella si è inventata una danza, io sono andato a recuperare dei materiali che avevo messo via, e Pippo ha fatto un lavoro di assemblaggio.
Con artisti persone che partono da linguaggi ed esperienze molto diversi…
Ma è stata un’esperienza interessante, perché mi ha fatto conoscere persone con le quali poi ho tenuto dei contatti per lavori successivi. Poi ho fatto il Santagata e Morganti, l’anno scorso. Anche se probabilmente ho affrontato il cinema in maniera assolutamente sbagliata. Tendevo magari a rifugiarmi magari sulle mie conoscenze teatrali, ma nel cinema è diverso: quando leggo Tarkowskij, per esempio, mi sembra che proceda in maniera totalmente diversa rispetto agli attori; cioè non chiede agli attori di prepararsi in modo particolare alla recitazione, chiede loro di essere presenti in quel momento e li aiuta a creare la situazione che vuole, e l’attore deve tentare di essere emotivamente sensibile alla situazione che lentamente si genera intorno a lui, in maniera veritiera. Questo come processo mi sembra interessante. Nel teatro invece devi sempre costruire molto, ed è giusto perché è un processo più artificiale per arrivare alla verità, alla realtà delle cose. Nel cinema comunque la tua azione è quella, cioè se devi bere devi bere, in teatro bere comunque ha sempre un salto da qualche parte, non è solamente bere.
copyright Oliviero Ponte di Pino 1995, 2000.
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