NOVITA' | IL MIO SANREMO | oliviero | ponte di pino | HOMEPAGE |
CERCA NEL SITO | MATERIALI
NUOVO TEATRO |
TEATRO
LINKS
aggiornati |
ENCICLOPEDIA PERSONALE | TRAX |
intrecci |
|
|
. | . |
Saggio di linguistica ipotetica e applicata
con una Breve antologia
della fantalingua
di Oliviero Ponte di Pino
Questo testo è stato originariamente pubblicato sul Patalogo otto, Annuario 1985 dello spettacolo, Ubulibri, Milano, 1985.
Mentre lo scrivevo non avevo
letto After Babel di George Steiner (pubblicato originariamente
nel 1975, tr. it. Dopo Babele, Sansoni, Firenze, 1984, nuova edizione
Garzanti, Milano, 1994). E non potevo ovviamente aver letto Maurice Olender,
Les Langues du Paradis (1989, tr. it. Le lingue del paradiso,
Il Mulino, Bologna, 1990) e Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta,
Bompiani, Milano, 1993 – che peraltro non fa cenno di molte di queste lingue
teatrali.
Friedrich Hölderlin, Voce del popolo, VV. 1-2 | Voce di Dio, io ti credetti un tempo In sacra giovinezza, e io dico ancora! |
|
|
Se restringiamo però
l’ambito dell’indagine al campo artistico e scientifico (l’accostamento
non deve sorprendere: sono due domini nei quali la lingua è il mezzo
e la precisione coincide con la perfezione) sembrano essere sostanzialmente
tre gli ordini di motivi che possono spingere a questa folle impresa. Si
tratta, nei tre casi, di costruire un ponte sopra un baratro: una voragine
che sembra isolare inevitabilmente il linguaggio, che lo rende inutile
e approssimativo.
Questo abisso (potrebbe essere una quasi impercettibile scollatura, l’effetto non cambia) può distaccare il linguaggio dal pensiero. Oppure può allontanarlo dalle cose. O infine, e a questo fa riferimento il terzo ordine di motivi, può rendere impossibile la comunicazione con altri individui (che parlano eventualmente lo stesso linguaggio). |
|
In queste tre situazioni
così presentate, il linguaggio tende ad apparire come elemento passivo;
uno specchio la cui immagine non combacia più con un suo "doppio"
- pensiero, mondo, Altro. Ma pure considerando il linguaggio come elemento
attivo, causa di possibili mutazioni - come spesso avviene sulla scena
- si troverà la sua antitesi in uno di questi elementi.
Restringendo ulteriormente l’analisi al teatro, l’ultimo aspetto, quello relativo al perfezionamento della comunicazione, potrebbe apparire prioritario. Eppure è proprio questo il versante che l’invenzione delle lingue teatrali sembra trascurare. Sulla scena Sono infatti numerosi gli esempi di rinuncia a una comunicazione trasparente e prefabbricata, a favore di un mezzo dichiaratamente oscuro, incomprensibile allo spettatore. Uno dei casi più noti è quello del greco antico resuscitato da Andrei Serban. |
|
Ugualmente conosciuta è l’esperienza di Peter Brook che in collaborazione con Ted Hughes ha addirittura inventato una lingua, l’Orghast, idioma ufficiale dello spettacolo omonimo (che raccoglieva peraltro anche frammenti greco antico, del latino di Seneca e di avestico - l’antica lingua sapienzale dello zoroastrismo) presentato a Shiraz nel 1970, le cui radici erano peraltro già abbozzate nel Teatro e il suo spazio: | |
Peter Brook, Il teatro e il suo spazio, Feltrinelli, Milano, 1968, p. 61. | C’è un altro linguaggio tanto impegnativo per l’autore quanto un linguaggio di parole? C’è un linguaggio di azioni, un linguaggio di suoni, un linguaggio di parole come parte del movimento, di parole conte menzogna, di parole come parodia, di parole come rottami, di parole come tradizione, di parole-shock, di parole-grido? |
Si trattava, forse,
di cercare il "plusvalore" di cui la scena incrementa la semplice parola
scritta: proprio da questa esigenza, ampliata dalla necessità pratica
di gestire un gruppo internazionale, sarebbe nato l’Orghast.
|
|
Paradossalmente, il
rifiuto di una coincidenza razionalmente intelligibile può essere
il frutto della stessa necessità di razionalizzare la comunicazione.
La lingua perfetta, da questo punto di vista, è infatti quella che
tutti, indistintamente, capiscono. Se a questo requisito astratto e inverificabile
se ne sostituisce un altro, più "democratico", quello delle equicomprensibilità,
è immediato trovare una soluzione minima. Basta concepire una lingua
assolutamente inintelligibile, fatti di puri suoni, significante refrattario
per chiunque a ogni senso.
La storia del teatro è ricca di soluzioni di questo tipo, spesso curiose e imprevedibili (vedi gli aneddoti raccolti da Alexander Tairov). |
|
La pratica di queste
"lingue impossibili" può d’altro canto apportare una correzione
alla filosofia della Biblioteca di Babele. Nell’incubo borgesiano,
in base al calcolo combinatorio, i libri che possono popolare la Biblioteca
- salvo improbabili e inutili doppioni - sono numerosissimi, ma sempre
in numero finito, dato che finiti sono l’insieme di lettere e il numero
di caratteri di cui sono composti.
Tuttavia non è detto che le lingue che organizzano e interpretano queste serie finite di segni siano a loro volta finite. Anzi, a rigore, di uno stesso e unico libro, di una stessa pagina, di una stessa riga, si potranno avere infiniti sensi, a seconda della lingua utilizzata per decifrarli. |
|
La stessa cosa avviene,
con le debite proporzioni, quando una "lingua impossibile" obbliga lo spettatore
a decifrarla: quanto minori saranno gli appigli che offrirà a una
lettura cosciente, tanto più diverse saranno le interpretazioni,
a seconda dei diversi vissuti di ogni spettatore.
A questo punto si rivela la paradossale affinità di queste lingue impossibili con la lingua della comunicazione totale, comprensibile a tutti, in cui ciascuno trova la possibilità di rispecchiarsi, totalmente e incondizionatamente. E’ l’aspirazione di ogni comunicazione "trasparente": un miraggio peraltro estremamente pericoloso, come già avvertivano con i compilatori del medievale Liber mostruorum, descrivendo "quelli che parlano tutte le lingue": |
|
Liber mostruorum de diversis generibus, a cura di Corrado Bologna, Bompiani, Milano, 1977, p. 63. | Testimoni riportano di una razza variamente versatile, in un’isola del Mar Rosso. Costoro parlano tutte le lingue del mondo, e perciò lasciano di stucco gli stranieri che capitano lì venendo da lontano, chiamando per nome i loro conoscenti, nella loro lingua: così li acchiappano e se li mangiano subito, senza neppur cuocerli. |
Affascinante metafora
di un certo tipo di spettacolo anche qui ideale, pronto a catturare nella
vertigine del suo mondo l’incauto e avventuroso spettatore, con tutto il
suo vissuto, per farne l’ostaggio cannibalico della parola.
Affine alla lingua totale di questi cannibali isolani è il discorso che sembra garantire la massima apertura e disponibilità per costruire in realtà la più soffocante delle ragnatele, il discorso onnivoro della società della comunicazione diffusa. E’ quello che Roland Barthes definisce "discorso del potere". |
|
Roland Barthes, Le bruissement de la langue, Seuil, Paris, 1984. | Discorso pieno: in esso non c’è spazio per l’altro: di qui la sensazione di soffocamento, di avvelenamento che può provocare in chi non vi partecipa (...) E’ un discorso diffuso e se è possibile dirlo, osmotico, che impregna gli scambi, i riti sociali, i divertimenti, il campo socio-simbolico (soprattutto, è evidente, nelle società a comunicazione di massa). (...) Jakobson ha efficacemente sottolineato che una lingua non si definisce per quello che permette di dire, ma perché obbliga a dire. |
Ecco immediatamente emergere la necessità di un discorso antagonista, che trovi nella sua stessa oscurità, nei suoi vuoti e nei suoi slittamenti, il suo punto di forza, l’apertura di provvisorie linee di fuga, la costruzione di possibili sacche di resistenza. | |
Proprio sulla linea d’equilibrio tra queste due tendenze (da una parte la forza del vuoto e del silenzio, la libertà totale del caso, dall’altra l’invadenza di un discorso che tende ad annullare ogni differenza) è possibile tracciare l’evoluzione dì una propria lingua, trovando spesso un appiglio nel dialetto o nel gergo, oppure nell’affascinante e arbitraria costruzione di una "lingua franca": al di fuori, in ogni caso, di un codice imposto e dominante. In questo ambito, non si può dimenticare l’esempio forse più radicale, quello dell’ultimo incompreso spettacolo di Victor García, un Gilgamesh polemicamente affidato in Francia a una compagnia tutta di attori arabi, appartenenti alle più diverse nazionalità nordafricane e mediorientali, unificate da un "panarabo" letterario, modellato su quello del Corano; così questi immigrati denunciavano la propria diversità, l’esclusione - anche linguistica - dal mondo in cui erano stati catapultati. | |
Sulla strada della costruzione di una lingua che è al tempo stesso costruzione della propria diversità e denuncia della propria irriducibilità all’ambiente circostante, si è mosso invece Eugenio Barba, a partire dal programmatico multilinguismo di Ferai: il risultato è una vera e propria "lingua franca" carica di significati ideali, un mosaico di frammenti in cui è possibile, per ciascuno, trovare una piccola parte di sé. Nello spettacolo infatti gli attori, provenienti da paesi diversi, mantenevano la loro lingua d’origine o d’adozione: tedesco, norvegese, svedese, naturalmente danese, ma anche un inserto latino, per rivivere quest’altra storia di morte e resurrezione. Una scorciatoia, forse, per riconoscersi in una totalità che trascende il mondo di ciascun linguaggio: conservando zone franche per esplorazioni più direttamente personali e trovando insieme l’ennesima metafora di una pratica teatrale: | |
Eugenio
Barba, Aldilà delle isole galleggianti, Ubulibri, Milano,
1985, p. 93.
E’ lo stesso Barba, d’altro canto, a focalizzare il punto di vista dello spettatore di fronte a una lingua (o più in generale a un codice di comunicazione) a lui ignota. Quando per esempio parla delle sue reazioni di fronte a un attore-danzatore "orientale": Di fronte a uno spettacolo il cui significato non può comprendere appieno e la cui esecuzione non può apprezzare completamente, si trova improvvisamente nell’oscurità. (...) Quando lo spettatore si trova di fronte il "suo" teatro, a tutto ciò che già conosce, i problemi che riconosce e che gli dicono dove o conte cercare le risposte, creano un velo che nasconde l’esistenza del potere elementare della "seduzione" (da The Dilated Body, Zeami Libri, Roma 1985, p. 13). |
E’
il contesto che decide del significato delle parole. Una parola può
solo essere precisa. L’origine di questo termine indica qualcosa di ben
distinto, così ben tagliato da non poter essere sostituito da nient’altro.
Si potrebbe dire che il significato di essere attore è affrancarsi. Sono molti gli esempi storici in cui è possibile constatare che, tramite la sua professione, l’attore si affrancava, in un senso molto concreto, sociale e economico. Un affrancamento non in senso vagamente psicologico, ma nel senso di: zone franche, en franchise de port, e forse anche nel senso di langue franche. Forse un filosofo potrebbe dire che gli attori (o certi attori) significano in maniera fisica, attraverso un lavoro quotidiano, il disagio e persino la ripugnanza a accettare la realtà della propria epoca: la loro scelta, prima dei loro spettacoli, dice la loro incapacità a soddisfare i propri bisogni nella "vita reale"; o il loro desiderio di non immettersi nelle "utilità del proprio tempo". Soltanto in futuro qualcuno potrà decifrare quale era il significato, quali tracce ha lasciato la zone franche dell’attore, che ha scelto l’esercizio di un lavoro che scompare con lui. |
Con il miraggio, aldilà dei risultati effettivamente realizzabili, di una serie infinita di linguaggi "universali", sempre diversi, sempre più versatili (ma il rischio è, oltrepassato il limite, quello di ricadere nel cannibalismo), in un’inesauribile serie di combinazioni: potenziale "Meta-lingua", in continua creazione e autodistruzione, dai codici cangianti come sabbie mobili, prefigurata in parte da alcune teorizzazioni sulla Saperlingua creata da Gildas Bourdet per il Théâtre de la Salamandre. | |
La stratificazione di una lingua franca avviene di norma attraverso l’accostamento di elementi di diverse aree geografiche. Il teatro offre però, rispetto alla realtà, un’ulteriore possibilità: quella di condensare, in un unico momento, le diverse stratificazioni storiche di una lingua. O addirittura, di lingue diverse, alcune attuali, altre scomparse da secoli, altre ancora proiettate nel futuro. A seconda della chiave dell’operazione, lo spettacolo può diventare il terreno su cui misurare lo scorrere del tempo, le distanze tra universi fatti di parole lontanissime: o al contrario offrire, attraverso le differenti trame linguistiche, la costanza di qualche dato naturale e irriducibile al divenire, l’affiorare di un mito che attraversa tutta la storia. | |
E’ questo il caso, per esempio, del recente Le piante di Padiglione Italia, in cui unificati dal mito botanico affiorano frammenti di greco antico e di latino, per proiettarsi, nell’ultima parte dello spettacolo, nel Basic, il linguaggio principe dei personal computer. | |
Tornando, aldilà
dei paradossi e dei circoli viziosi, alla pratica scenica di una lingua
svuotata di significato, sale in primo piano il tessuto che sorregge, al
di là della parola, ogni forma di comunicazione verbale: inflessione,
espressività, intonazione, atteggiamento. Aspetti peraltro esplorati
da molti recenti studi di semiologia, prossemica, eccetera, i cui risultati
vengono spesso applicati sulla scena in una specie di verifica sperimentale.
E’ il cammino verso una lingua che non vive più del classico dualismo significato-significante, ma solo di intensità, di scariche di energia, di affettività emozionale liberata dall’incontro e dalla comunicazione. Parallela e contrapposta a questa enfatizzazione del "tessuto significante", ma sempre trascendendo la strettoia del significato, è la tendenza al canto, lo slittamento verso il puro suono. La lingua non si pone più al servizio di un discorso: trova piuttosto il suo punto di riferimento e il suo significato profondo nel corpo. Il canto diventa in questo caso l’espressione di una fisicità che rifiuta ogni mediazione per farsi direttamente soffio e respiro, grido e affanno, battito ritmico e ipnotico, alla ricerca di una trasparenza immediata, di una riconoscibilità che passa attraverso l’identificazione con l’altro: un’identificazione puntuale, a cercare una corrispondenza tra organo e organo, sensazione e sensazione, quali la consegna di uno stato d’animo che trascenda la semplice testimonianza dello spettatore. |
|
È a una comunicazione di questo tipo che pensava Antonin Artaud, tracciando la genesi di un suo profetico linguaggio del corpo: | |
Antonin Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, Adelphi, Milano, 1966, p. 147. | Quel che usciva fuori dalla mia milza o dal mio fegato aveva la forma delle lettere d’un antichissimo e misterioso alfabeto masticato da un’enorme bocca, ma spaventosamente repressa, orgogliosa, illeggibile, gelosa della sua invisibilità. |
Lingua organica e
primordiale, in grado di scatenare e cogliere la potenza dell’inconscio,
di dare voce e segno alla fisicità muta dell’essere, in grado di
ritrovare col geroglifico di un soffio... un’idea del teatro sacro.
Come suggerisce Eugenio Barba, il corpo dell’attore come la stele di Rosetta, e lo spettatore nel ruolo di Champollion. Queste due strade, quella che tende al puro contorno e quella che punta al nocciolo corporeo dell’espressione, rischiano però di crollare, nella pratica teatrale, in un vuoto che confina con la totale trasparenza: da una parte verso un formalismo "mimico" che ha perso ogni sostanza; dall’altra, quando non scatta il meccanismo dell’identificazione, in un’esercitazione solipsistica senza altro sbocco se non il virtuosismo. |
|
Una via d’uscita, la più semplice e immediata, è quella di trascendersi nella musica. Volendo però insistere sulla strada dell’invenzione linguistica, resta aperta una possibilità, suggerita dalla carica di immediatezza di un linguaggio fatto di pura emozionalità: la ricerca di una lingua in cui tutti i suoni siano "giusti": appropriati cioè a quel che intendono significare, superando l’arbitrarietà di ogni sistema di segni sufficientemente complesso. E’ un filo che percorre tutta la riflessione filosofica occidentale, a partire dal Cratilo platonico, con la sua ricerca, ora ironica ora più convinta, di un’esattezza "fonetica" delle parole. Perché | |
Platone, Cratilo, Laterza, Bari, 1982, p. 43. | chi aggiunge lettere o ne toglie, altera fortemente il senso delle parole; cosicché con mutamenti pur minimi, fa che tal volta esse significano proprio il contrario. |
Questa ricerca è
ovviamente appannaggio della poesia, e infatti al teatro di poesia faranno
tendenzialmente riferimento i tentativi in questa direzione.
Ma suggerisce contemporaneamente un passo ulteriore: l’evocazione di una lingua originaria e primordiale. L’obiettivo divenuta allora la lingua, quella parlata dagli uomini prima del disastro di Babele, quella che gli uomini parleranno ai tempi della Fratellanza Universale. Il sogno di questo idioma adamitico affiora
spesso anche in teatro: ma generalmente senza la presunzione di arrivarvi
effettivamente, accontentandosi di proiettarsi in un passato meno lontano
ma forse ugualmente mitico.
|
|
In una direzione analoga
si muove in parte anche il celeberrimo Grammelot di Dario
Fo che, oltre gli ascendenti colti - Molière e Commedia
dell’Arte in testa - ritrova le cadenze e gli accenti di un dialetto padano
ormai dissolto, di un universo contadino e materno tanto dimenticato da
dover esser reinventato. Anche se è ovviamente impossibile negare
al Grammelot un chiaro segno politico: una politica che è prima
di tutto pedagogia, alla scoperta (o meglio, riscoperta) della propria
alterità.
La lingua santa avantidiluviana di Vico trova così una sua precisa collocazione storica e sociale, una forza potenzialmente rivoluzionaria, il mezzo di una possibile presa di coscienza di classe, ritagliandosi uno spazio autonomo dal "discorso del potere" barthesiano. |
|
All’estremo opposto
della lingua primordiale, affini fin quasi a chiudere il cerchio, troviamo
invece i possibili e ambiziosi esperanti della Consapevolezza Totale. Ma
il tempo dell’Eden Futuro sembra oggi estremamente lontano: e alla Lingua
Universale non si chiede tanto di sancire un auspicabile stato di fatto,
quanto di promuoverne l’avvicinamento. La lingua diventa quindi un elemento
attivo, in grado di modificare la stessa realtà. E’ quanto vorrebbe
fare, con i suoi quattro livelli di marca neoplatonica, la nuova Generalissima
della Società Raffaello Sanzio.
La perfezione della Generalissima ha un presupposto implicito, rintracciabile ancora una volta, nella sua formulazione più sintetica, nel Cratilo: I primi nomi gli dei li posero e perciò sono giusti. In altri termini, l’esattezza della lingua dipenderebbe dall’esattezza dei nomi assegnati alle cose. Teoricamente è possibile ribaltare la prospettiva: invece di una lingua che assegna i nomi alle cose, è possibile immaginare una lingua che attraverso il nome chiama le cose all’essere. Una lingua che crea essa stessa il mondo di cui parla (in cui le cose senza nome semplicemente non esistono) ha sedotto molti antropologi e semiologi, ribaltando la visione della lingua come semplice specchio della realtà; ma che prima di loro, attraverso le parole dei poeti, ha chiamato alla vita affascinanti e infiniti universi paralleli, isole incantate cui la scena è riuscita, a volte, a dare consistenza. |
|
D’altro canto l’esattezza
dei nomi non è sufficiente a garantire la perfezione di una lingua:
l’esattezza delle parti non garantisce l’esattezza del Tutto. Da questo
punto di vista, sarebbe necessario concepire una lingua in cui siano possibili
unicamente affermazioni vere: un linguaggio in cui (Wittgenstein
insegna) le frasi senza senso sono impossibili: semplicemente impronunciabili.
Questa lingua però per sua stessa natura, come ogni lingua "perfetta" sembra refrattaria a un uso puramente teatrale: il teatro può portare in scena il suo condensarsi o il suo dissolversi, ma se si esaurisce in essa rischia di perdere ogni tensione e carica evocativa, pietrificandosi in una forma refrattaria a ogni sviluppo. |
|
Franz Kafka, Descrizione di una battaglia, in Parabole, schizzi, a cura di Giuliano Baioni, Dall’Oglio, Milano 1982. | Non è quella febbre, quel mal di mare di terraferma, conte una sorta di lebbra? Non avete la sensazione come di non potervi più accontentare, per l’ardore che vi sentite addosso, dei veri nomi delle cose, non ne avete mai abbastanza e, nella fretta, rovesciate su di esse dei nomi a casaccio? Purché sia in fretta, in fretta! Ma non appena siete fuggiti via da loro, ecco che ne avete già di nuovo scordati i nomi. Il pioppo dei campi, che avete chiamato ‘Torre di Babele’ perché non sapevate o non volevate saper che era un pioppo, ondeggia di nuovo senza nome, e voi dovete chiamarlo ‘Noè quand’era ubriaco’. |
Il libro, la parola,
non sono più, in questo caso, la metafora del mondo. E’ piuttosto
il mondo a diventare metafora del Libro, dando una forma ai suoi momenti
forti, trovando un’esistenza ai suoi passi canonici: puro simbolo, fissato
per l’eternità e destinato a fluttuare eternamente alla ricerca
di un impossibile legame con una realtà evanescente, inafferrabile.
In questo passaggio della parola al mondo è possibile trovare una
lontana affinità con la genesi di un segno teatrale - costituito
di cose e immagini, e quindi materia - a partire da un testo letterario
preesistente: rapporto sempre labile, destinato ogni volta alla dissoluzione,
fonte di eterna insoddisfazione.
Altre direzioni possono invece essere segnalate da due passi di Wittgenstein. Il primo riporta al celeberrimo linguaggio dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, frutto di una totale regressione del segno nell’oggetto: |
|
Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, 1974. | Il linguaggio delle parole permette combinazioni insensate di parole, ma il linguaggio delle rappresentazioni non permette combinazioni insensate di rappresentazioni. |
Pare quasi una giustificazione
a priori di ogni spettacolo fatto di pure immagini, del semplice succedersi
di avvenimenti. Di uno spettacolo cioè fatto di cose e non
di parole (sempre che non si pretenda che esista qualcosa di simile a una
"lingua teatrale" fatta di immagini: la cui organizzazione, però,
potrebbe trascendere la coscienza del regista).
La seconda citazione può invece fornire un tramite tra la "febbre" di Kafka e le sofferte riflessioni del primo Artaud. E’ uno dei passi in cui Wittgenstein abbozza l’invenzione della sua "lingua personale": non destinata quindi alla comunicazione o alla descrizione di oggetti o eventi, ma alla pura e semplice maneggiabilità del proprio mondo, interiore e esteriore. |
|
Ivi, p. 118. Sul "linguaggio privato" di Wittgenstein, vedi anche Saul Kripke Wittgenstein, Boringhieri, Torino, 1985. | Sarebbe anche possibile un linguaggio in cui uno potesse esprimere per iscritto ed oralmente le sue esperienze vissute o interiori - i suoi sentimenti, umori, eccetera - per uso proprio? - Perché queste cose non possiamo già farle nel linguaggio ordinario? - Ma io non l’intendevo così. Le parole di questo linguaggio dovrebbero riferirsi a ciò di cui chi parla può avere conoscenza; alle sue sensazioni immediate, private. Dunque un altro non potrebbe comprendere questo linguaggio. |
Ennesima lingua ipotetica, probabilmente inesistente, in cui la massima libertà coincide con la completa solitudine, quella immaginata da Wittgenstein finisce per chiudersi su se stessa. Trova la sua perfezione proprio perché non può essere sottoposta a alcuna verifica: diventa uno strumento muto che, nella totale adesione al pensiero, finisce per perdere il contatto con il mondo e con gli altri. Ma proprio la difficoltà a fissare il pensiero nel linguaggio (che Wittgenstein qui cancella totalmente, superandola di slancio), è il punto di partenza del a parabola artaudiana, testimoniato dalla giovanile corrispondenza con Jacques Rivière: | |
Antonin Artaud, Lettera a Jacques Rivière del 5 giugno 1923, in Al paese dei Tarahuniara e altri scritti, cit., p. 6. | Soffro d’una spaventevole malattia dello spirito. Il mio pensiero mi abbandona a tutti i gradi. Dal fatto semplice del pensiero al fatto esterno della sua materializzazione in parole. Parole, forme di frasi, direzioni interne del pensiero, reazioni semplici dello spirito, io sono alla ricerca costante del mio essere intellettuale. E dunque quando posso cogliere una forma, per quanto imperfetta, la fisso, nel timore di perdere tutto il pensiero. Sono al di sotto di me, lo so, ne soffro, ma vi acconsento per paura di morire completamente. |
Il problema non è più, chiaramente, quello della comunicazione: non è in gioco il rapporto interpersonale attraverso cui può essere fondata la realtà (o l’esistenza) di un mondo. E’ in gioco, solo e unicamente, un Io che si sta dissolvendo e vuole disperatamente resistere, fissarsi in qualche modo nell’Essere. E questo è possibile solo attraverso la parola. Attraverso quella che Artaud stesso definisce lingua pura: | |
Antonin Artaud, Il paese del Tarahumara, cit., p. 167. | Si può inventare la propria lingua e far parlare la lingua pura con senso extra grammaticale, ma bisogna che questo senso sia valido in sé, cioè provenga da orrore. |
Solo la sensazione dell’orrore (la crudeltà) può trascinare l’Io al di fuori del vuoto del suo ebete e ignaro sopravvivere, fuori dall’impossibilità di essere, oltre lo stupore, fino alla sensazione del mistero della vita e della morte. E’ questa l’unica possibilità di ricomporre la frattura. Ma, d’altro canto, l’orrore che è nelle cose - nascosto, dimenticato, rimosso - può nascere solo dalle cose. E quando il mondo è diventato opaco, soltanto un mondo di secondo grado, una realtà distillata, di livello superiore, condensato e sublime, può riscattare il nostro sguardo e il nostro essere. | |
Affine - nell’affermazione della necessità della pratica del Teatro - è il processo che porta Artaud all’invenzione delle sue glossolalie, frammenti di una vera e propria lingua che vivono della necessità di essere effettivamente pronunciate: rese quindi segni teatrali, attivi e "magici", e non semplici graffiti poetici. Dal momento che sono anch’essi cose perché solo al loro livello possono diventare efficaci sulle cose stesse. Finché restano muti grafismi, sono inutili in un mondo come quello dipinto da Van Gogh, che non dipingeva linee o forme, ma cose della natura inerte come in piena convulsione. | |
Antonin Artaud, Van Gogh, il suicida della società (Van Gogh le suicidé de la societé, in Oeuvres complètes, vol. XIII Gallimard, Paris, 1974, p. 42. | Non descriverò dunque un quadro di van Gogh secondo van Gogh, ma dirò che van Gogh è pittore perché ha ricollegato la natura, perché l’ha come dire ritraspirata e fatta sudare, perché l’ha raccolta in fascine sulle sue tele, in monumenti di colori, l’incastro secolare di elementi, la pressione spaventosa e elementare di apostrofi, di strisce, di virgole, di barre di cui non si può credere, dopo di lui, che non siano composti gli aspetti della natura. |
Qui, in questa natura fatta segno, in questo mondo-libro di straordinaria potenza, il soffio e il respiro trovano efficacia sovrumana: | |
Ivi, p. 49. | Roltan
tarer tensur purtan. |
Perché anche un soffio può essere sufficiente in un mondo come quello in cui vive Artaud, in cui | |
Antonin Artaud. | le cose non sono venute da uno spirito infinitesimale che partito dal nulla si sia ispessito e coagulato fino all’essere. Sono venute da un corpo esistente, che ha tratto dalle sue molecole, dal niente stesso, col suo soffio corpi, oggetti, cose che ha fabbricato con le proprie mani. |
Alla scena tocca quindi il compito di raggiungere, con l’ultimo respiro, la terribile perfezione. Al teatro tocca la responsabilità di realizzare questo stacco, questo salto nella trascendenza della perfezione assoluta e immutabile. In questo modo, il teatro si rivela regno del mistero, luogo in cui è possibile sperimentare l’inconoscibile, riscattare forze sovrumane e ignote ai più. E a farsi carico di questo compito atroce, non può essere che l’attore, con l’orrore sacro che ispira la sua maschera, lo scheletro animato che s’intravede oltre la marionetta, il morto, il non-esistente in grado di metterci in contatto con il mondo infero. Appare così più comprensibile il fascino esercitato in scena dalle cosiddette "lingue morte", quelle forse in cui l’attore può più intimamente identificarsi, dal greco antico al tartesso, dall’ebraico all’avestico, o più di recente dall’antico copto dei papiri gnostici (con inserti di yiddish e di greco ellenistico) recuperato da Eugenio Barba per il suo Oxyhincus Evangeliet, il "quinto Vangelo" portato in scena dall’Odin Teatret. | |
Affrontando il problema nella maniera più diretta, i Magazzini Criminali hanno preteso addirittura di far parlare, nei loro spettacoli, la lingua dei morti, traendo ispirazione da antiche iscrizioni tombali, da segni ritrovati sui ruderi di città distrutte dal fuoco e sepolte dai millenni. Ancora una volta, più che nei normali processi di comunicazione, sono in gioco le associazioni inconsce, l’evocazione di mondi sotterranei e lontanissimi. | |
Come atto creativo, l’invenzione delle lingue teatrali si presenta dunque come esplorazione delle diverse possibilità della comunicazione: sia che si tratti di esplorarne alcuni aspetti, sia che ci si impegni nella verifica di ipotesi teoriche sulla natura della comunicazione, sia che ci si avventuri alla ricerca di una "lingua perfetta" (e come abbiamo visto una lingua può essere perfetta da molti punti di vista), la scena offre l’occasione di una immediata verifica pratica, legata alla materialità di ogni processo comunicativo, e non alla sua natura astratta di insieme di segni. | |
Questo è l’aspetto sperimentale, quasi scientifico della linguistica ipotetica e della sua messinscena: ci parla dello slittamento del linguaggio al di fuori dei canoni abituali e spesso inconsapevoli cui veniamo sottoposti dal linguaggio stesso, disegnando nel contempo le sue patologie e i possibili rimedi; ci racconta l’affievolirsi della capacità di comunicazione interpersonale, cui corrisponde inevitabilmente la crisi della lingua come espressione del mondo e dell’io, l’impossibilità di delimitare un’area di comunicazione autentica. | |
Ma aldilà di questo, c’è la scommessa su un messaggio destinato forse a perdersi nel nulla, a chiudersi totalmente su se stesso. Un messaggio cui l’attore si affida però totalmente, ogni volta: un messaggio che probabilmente lo trascende. Perché l’attore sa, malgrado tutto, di restare uomo: un uomo che può giocare con il mistero, ma che resta tale. Ma chi può negare la possibilità che chi lo ascolta non oda, in qualche istante segreto, il canto segreto delle sirene? | |
L’ineffabile, per sua natura, non può essere pronunciato. Ma può, forse, essere udito. Questo è uno dei molti paradossi della comunicazione teatrale: e la sua chiave sta, in parte, anche nell’invenzione e nella pratica delle "lingue immaginarie". | |
Breve
antologia della fantalingua
copyright Oliviero Ponte di Pino 1985, 2000
NOVITA' | IL MIO SANREMO | oliviero | ponte di pino | HOMEPAGE |
CERCA NEL SITO | MATERIALI
NUOVO TEATRO |
TEATRO
LINKS
aggiornati |
ENCICLOPEDIA PERSONALE | TRAX |
intrecci |
|
|
. | . |