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Lingue teatrali

Saggio di linguistica ipotetica e applicata
con una Breve antologia della fantalingua

di Oliviero Ponte di Pino



Questo testo è stato originariamente pubblicato sul Patalogo otto, Annuario 1985 dello spettacolo, Ubulibri, Milano, 1985.

Mentre lo scrivevo non avevo letto After Babel di George Steiner (pubblicato originariamente nel 1975, tr. it. Dopo Babele, Sansoni, Firenze, 1984, nuova edizione Garzanti, Milano, 1994). E non potevo ovviamente aver letto Maurice Olender, Les Langues du Paradis (1989, tr. it. Le lingue del paradiso, Il Mulino, Bologna, 1990) e Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta, Bompiani, Milano, 1993 – che peraltro non fa cenno di molte di queste lingue teatrali.
 
 
 
Friedrich Hölderlin, 
Voce del popolo, 
VV. 1-2 
Voce di Dio, io ti credetti un tempo 
In sacra giovinezza, e io dico ancora! 
 
Infinite sono le ragioni per inventare una lingua: si va dalla terribile punizione dell’orgoglio umano adottata dal dio degli eserciti al tempo di Babele, ai gerghi chiusi e incomprensibili agli estranei costruiti dalle società segrete e criminali; dai linguaggi perfetti e autosufficienti sognati dagli scienziati per spurgare le loro discipline da ogni equivoco e per parlare con le macchine, alle lingue franche nate - spesso con la muta complicità del mare - dall’incontro di diverse comunità, di schiavi e di uomini liberi.
  Se restringiamo però l’ambito dell’indagine al campo artistico e scientifico (l’accostamento non deve sorprendere: sono due domini nei quali la lingua è il mezzo e la precisione coincide con la perfezione) sembrano essere sostanzialmente tre gli ordini di motivi che possono spingere a questa folle impresa. Si tratta, nei tre casi, di costruire un ponte sopra un baratro: una voragine che sembra isolare inevitabilmente il linguaggio, che lo rende inutile e approssimativo.

Questo abisso (potrebbe essere una quasi impercettibile scollatura, l’effetto non cambia) può distaccare il linguaggio dal pensiero. Oppure può allontanarlo dalle cose. O infine, e a questo fa riferimento il terzo ordine di motivi, può rendere impossibile la comunicazione con altri individui (che parlano eventualmente lo stesso linguaggio).

  In queste tre situazioni così presentate, il linguaggio tende ad apparire come elemento passivo; uno specchio la cui immagine non combacia più con un suo "doppio" - pensiero, mondo, Altro. Ma pure considerando il linguaggio come elemento attivo, causa di possibili mutazioni - come spesso avviene sulla scena - si troverà la sua antitesi in uno di questi elementi.

Restringendo ulteriormente l’analisi al teatro, l’ultimo aspetto, quello relativo al perfezionamento della comunicazione, potrebbe apparire prioritario. Eppure è proprio questo il versante che l’invenzione delle lingue teatrali sembra trascurare. Sulla scena Sono infatti numerosi gli esempi di rinuncia a una comunicazione trasparente e prefabbricata, a favore di un mezzo dichiaratamente oscuro, incomprensibile allo spettatore.

Uno dei casi più noti è quello del greco antico resuscitato da Andrei Serban.

  Ugualmente conosciuta è l’esperienza di Peter Brook che in collaborazione con Ted Hughes ha addirittura inventato una lingua, l’Orghast, idioma ufficiale dello spettacolo omonimo (che raccoglieva peraltro anche frammenti greco antico, del latino di Seneca e di avestico - l’antica lingua sapienzale dello zoroastrismo) presentato a Shiraz nel 1970, le cui radici erano peraltro già abbozzate nel Teatro e il suo spazio:
Peter Brook, Il teatro e il suo spazio, Feltrinelli, Milano, 1968, p. 61. C’è un altro linguaggio tanto impegnativo per l’autore quanto un linguaggio di parole? C’è un linguaggio di azioni, un linguaggio di suoni, un linguaggio di parole come parte del movimento, di parole conte menzogna, di parole come parodia, di parole come rottami, di parole come tradizione, di parole-shock, di parole-grido?
  Si trattava, forse, di cercare il "plusvalore" di cui la scena incrementa la semplice parola scritta: proprio da questa esigenza, ampliata dalla necessità pratica di gestire un gruppo internazionale, sarebbe nato l’Orghast.
 
I dati comuni a tutti gli esperimenti di questo genere sono lo slittamento del significato in un regno inesplorato e inesplorabile e la frustrazione dell’ansia di senso che anima lo spettatore: ma di fronte a un linguaggio che si offre come uno specchio vuoto, come superficie indecifrabile e variegata, ecco l’immagine riempirsi dei possibili significati rimossi evocati dall’accavallarsi di suoni di articolati ma incomprensibili.
  Paradossalmente, il rifiuto di una coincidenza razionalmente intelligibile può essere il frutto della stessa necessità di razionalizzare la comunicazione. La lingua perfetta, da questo punto di vista, è infatti quella che tutti, indistintamente, capiscono. Se a questo requisito astratto e inverificabile se ne sostituisce un altro, più "democratico", quello delle equicomprensibilità, è immediato trovare una soluzione minima. Basta concepire una lingua assolutamente inintelligibile, fatti di puri suoni, significante refrattario per chiunque a ogni senso.

La storia del teatro è ricca di soluzioni di questo tipo, spesso curiose e imprevedibili (vedi gli aneddoti raccolti da Alexander Tairov).

  La pratica di queste "lingue impossibili" può d’altro canto apportare una correzione alla filosofia della Biblioteca di Babele. Nell’incubo borgesiano, in base al calcolo combinatorio, i libri che possono popolare la Biblioteca - salvo improbabili e inutili doppioni - sono numerosissimi, ma sempre in numero finito, dato che finiti sono l’insieme di lettere e il numero di caratteri di cui sono composti.

Tuttavia non è detto che le lingue che organizzano e interpretano queste serie finite di segni siano a loro volta finite. Anzi, a rigore, di uno stesso e unico libro, di una stessa pagina, di una stessa riga, si potranno avere infiniti sensi, a seconda della lingua utilizzata per decifrarli.

  La stessa cosa avviene, con le debite proporzioni, quando una "lingua impossibile" obbliga lo spettatore a decifrarla: quanto minori saranno gli appigli che offrirà a una lettura cosciente, tanto più diverse saranno le interpretazioni, a seconda dei diversi vissuti di ogni spettatore. 

A questo punto si rivela la paradossale affinità di queste lingue impossibili con la lingua della comunicazione totale, comprensibile a tutti, in cui ciascuno trova la possibilità di rispecchiarsi, totalmente e incondizionatamente. E’ l’aspirazione di ogni comunicazione "trasparente": un miraggio peraltro estremamente pericoloso, come già avvertivano con i compilatori del medievale Liber mostruorum, descrivendo "quelli che parlano tutte le lingue":

Liber mostruorum de diversis generibus, a cura di Corrado Bologna, Bompiani, Milano, 1977, p. 63. Testimoni riportano di una razza variamente versatile, in un’isola del Mar Rosso. Costoro parlano tutte le lingue del mondo, e perciò lasciano di stucco gli stranieri che capitano lì venendo da lontano, chiamando per nome i loro conoscenti, nella loro lingua: così li acchiappano e se li mangiano subito, senza neppur cuocerli.
  Affascinante metafora di un certo tipo di spettacolo anche qui ideale, pronto a catturare nella vertigine del suo mondo l’incauto e avventuroso spettatore, con tutto il suo vissuto, per farne l’ostaggio cannibalico della parola.
Affine alla lingua totale di questi cannibali isolani è il discorso che sembra garantire la massima apertura e disponibilità per costruire in realtà la più soffocante delle ragnatele, il discorso onnivoro della società della comunicazione diffusa. E’ quello che Roland Barthes definisce "discorso del potere".
Roland Barthes, Le bruissement de la langue, Seuil, Paris, 1984. Discorso pieno: in esso non c’è spazio per l’altro: di qui la sensazione di soffocamento, di avvelenamento che può provocare in chi non vi partecipa (...) E’ un discorso diffuso e se è possibile dirlo, osmotico, che impregna gli scambi, i riti sociali, i divertimenti, il campo socio-simbolico (soprattutto, è evidente, nelle società a comunicazione di massa). (...) Jakobson ha efficacemente sottolineato che una lingua non si definisce per quello che permette di dire, ma perché obbliga a dire.
  Ecco immediatamente emergere la necessità di un discorso antagonista, che trovi nella sua stessa oscurità, nei suoi vuoti e nei suoi slittamenti, il suo punto di forza, l’apertura di provvisorie linee di fuga, la costruzione di possibili sacche di resistenza.
  Proprio sulla linea d’equilibrio tra queste due tendenze (da una parte la forza del vuoto e del silenzio, la libertà totale del caso, dall’altra l’invadenza di un discorso che tende ad annullare ogni differenza) è possibile tracciare l’evoluzione dì una propria lingua, trovando spesso un appiglio nel dialetto o nel gergo, oppure nell’affascinante e arbitraria costruzione di una "lingua franca": al di fuori, in ogni caso, di un codice imposto e dominante. In questo ambito, non si può dimenticare l’esempio forse più radicale, quello dell’ultimo incompreso spettacolo di Victor García, un Gilgamesh polemicamente affidato in Francia a una compagnia tutta di attori arabi, appartenenti alle più diverse nazionalità nordafricane e mediorientali, unificate da un "panarabo" letterario, modellato su quello del Corano; così questi immigrati denunciavano la propria diversità, l’esclusione - anche linguistica - dal mondo in cui erano stati catapultati.
  Sulla strada della costruzione di una lingua che è al tempo stesso costruzione della propria diversità e denuncia della propria irriducibilità all’ambiente circostante, si è mosso invece Eugenio Barba, a partire dal programmatico multilinguismo di Ferai: il risultato è una vera e propria "lingua franca" carica di significati ideali, un mosaico di frammenti in cui è possibile, per ciascuno, trovare una piccola parte di sé. Nello spettacolo infatti gli attori, provenienti da paesi diversi, mantenevano la loro lingua d’origine o d’adozione: tedesco, norvegese, svedese, naturalmente danese, ma anche un inserto latino, per rivivere quest’altra storia di morte e resurrezione. Una scorciatoia, forse, per riconoscersi in una totalità che trascende il mondo di ciascun linguaggio: conservando zone franche per esplorazioni più direttamente personali e trovando insieme l’ennesima metafora di una pratica teatrale:
Eugenio Barba, Aldilà delle isole galleggianti, Ubulibri, Milano, 1985, p. 93.

E’ lo stesso Barba, d’altro canto, a focalizzare il punto di vista dello spettatore di fronte a una lingua (o più in generale a un codice di comunicazione) a lui ignota. Quando per esempio parla delle sue reazioni di fronte a un attore-danzatore "orientale": Di fronte a uno spettacolo il cui significato non può comprendere appieno e la cui esecuzione non può apprezzare completamente, si trova improvvisamente nell’oscurità. (...) Quando lo spettatore si trova di fronte il "suo" teatro, a tutto ciò che già conosce, i problemi che riconosce e che gli dicono dove o conte cercare le risposte, creano un velo che nasconde l’esistenza del potere elementare della "seduzione" (da The Dilated Body, Zeami Libri, Roma 1985, p. 13).

E’ il contesto che decide del significato delle parole. Una parola può solo essere precisa. L’origine di questo termine indica qualcosa di ben distinto, così ben tagliato da non poter essere sostituito da nient’altro.

Si potrebbe dire che il significato di essere attore è affrancarsi. Sono molti gli esempi storici in cui è possibile constatare che, tramite la sua professione, l’attore si affrancava, in un senso molto concreto, sociale e economico. Un affrancamento non in senso vagamente psicologico, ma nel senso di: zone franche, en franchise de port, e forse anche nel senso di langue franche.

Forse un filosofo potrebbe dire che gli attori (o certi attori) significano in maniera fisica, attraverso un lavoro quotidiano, il disagio e persino la ripugnanza a accettare la realtà della propria epoca: la loro scelta, prima dei loro spettacoli, dice la loro incapacità a soddisfare i propri bisogni nella "vita reale"; o il loro desiderio di non immettersi nelle "utilità del proprio tempo". Soltanto in futuro qualcuno potrà decifrare quale era il significato, quali tracce ha lasciato la zone franche dell’attore, che ha scelto l’esercizio di un lavoro che scompare con lui.

  Con il miraggio, aldilà dei risultati effettivamente realizzabili, di una serie infinita di linguaggi "universali", sempre diversi, sempre più versatili (ma il rischio è, oltrepassato il limite, quello di ricadere nel cannibalismo), in un’inesauribile serie di combinazioni: potenziale "Meta-lingua", in continua creazione e autodistruzione, dai codici cangianti come sabbie mobili, prefigurata in parte da alcune teorizzazioni sulla Saperlingua creata da Gildas Bourdet per il Théâtre de la Salamandre.
  La stratificazione di una lingua franca avviene di norma attraverso l’accostamento di elementi di diverse aree geografiche. Il teatro offre però, rispetto alla realtà, un’ulteriore possibilità: quella di condensare, in un unico momento, le diverse stratificazioni storiche di una lingua. O addirittura, di lingue diverse, alcune attuali, altre scomparse da secoli, altre ancora proiettate nel futuro. A seconda della chiave dell’operazione, lo spettacolo può diventare il terreno su cui misurare lo scorrere del tempo, le distanze tra universi fatti di parole lontanissime: o al contrario offrire, attraverso le differenti trame linguistiche, la costanza di qualche dato naturale e irriducibile al divenire, l’affiorare di un mito che attraversa tutta la storia.
  E’ questo il caso, per esempio, del recente Le piante di Padiglione Italia, in cui unificati dal mito botanico affiorano frammenti di greco antico e di latino, per proiettarsi, nell’ultima parte dello spettacolo, nel Basic, il linguaggio principe dei personal computer.
  Tornando, aldilà dei paradossi e dei circoli viziosi, alla pratica scenica di una lingua svuotata di significato, sale in primo piano il tessuto che sorregge, al di là della parola, ogni forma di comunicazione verbale: inflessione, espressività, intonazione, atteggiamento. Aspetti peraltro esplorati da molti recenti studi di semiologia, prossemica, eccetera, i cui risultati vengono spesso applicati sulla scena in una specie di verifica sperimentale.

E’ il cammino verso una lingua che non vive più del classico dualismo significato-significante, ma solo di intensità, di scariche di energia, di affettività emozionale liberata dall’incontro e dalla comunicazione. Parallela e contrapposta a questa enfatizzazione del "tessuto significante", ma sempre trascendendo la strettoia del significato, è la tendenza al canto, lo slittamento verso il puro suono. La lingua non si pone più al servizio di un discorso: trova piuttosto il suo punto di riferimento e il suo significato profondo nel corpo. Il canto diventa in questo caso l’espressione di una fisicità che rifiuta ogni mediazione per farsi direttamente soffio e respiro, grido e affanno, battito ritmico e ipnotico, alla ricerca di una trasparenza immediata, di una riconoscibilità che passa attraverso l’identificazione con l’altro: un’identificazione puntuale, a cercare una corrispondenza tra organo e organo, sensazione e sensazione, quali la consegna di uno stato d’animo che trascenda la semplice testimonianza dello spettatore.

 
È a una comunicazione di questo tipo che pensava Antonin Artaud, tracciando la genesi di un suo profetico linguaggio del corpo: 
Antonin Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, Adelphi, Milano, 1966, p. 147. Quel che usciva fuori dalla mia milza o dal mio fegato aveva la forma delle lettere d’un antichissimo e misterioso alfabeto masticato da un’enorme bocca, ma spaventosamente repressa, orgogliosa, illeggibile, gelosa della sua invisibilità.
  Lingua organica e primordiale, in grado di scatenare e cogliere la potenza dell’inconscio, di dare voce e segno alla fisicità muta dell’essere, in grado di ritrovare col geroglifico di un soffio... un’idea del teatro sacro.

Come suggerisce Eugenio Barba, il corpo dell’attore come la stele di Rosetta, e lo spettatore nel ruolo di Champollion.

Queste due strade, quella che tende al puro contorno e quella che punta al nocciolo corporeo dell’espressione, rischiano però di crollare, nella pratica teatrale, in un vuoto che confina con la totale trasparenza: da una parte verso un formalismo "mimico" che ha perso ogni sostanza; dall’altra, quando non scatta il meccanismo dell’identificazione, in un’esercitazione solipsistica senza altro sbocco se non il virtuosismo.

  Una via d’uscita, la più semplice e immediata, è quella di trascendersi nella musica. Volendo però insistere sulla strada dell’invenzione linguistica, resta aperta una possibilità, suggerita dalla carica di immediatezza di un linguaggio fatto di pura emozionalità: la ricerca di una lingua in cui tutti i suoni siano "giusti": appropriati cioè a quel che intendono significare, superando l’arbitrarietà di ogni sistema di segni sufficientemente complesso. E’ un filo che percorre tutta la riflessione filosofica occidentale, a partire dal Cratilo platonico, con la sua ricerca, ora ironica ora più convinta, di un’esattezza "fonetica" delle parole. Perché 
Platone, Cratilo, Laterza, Bari, 1982, p. 43. chi aggiunge lettere o ne toglie, altera fortemente il senso delle parole; cosicché con mutamenti pur minimi, fa che tal volta esse significano proprio il contrario.
  Questa ricerca è ovviamente appannaggio della poesia, e infatti al teatro di poesia faranno tendenzialmente riferimento i tentativi in questa direzione.

Ma suggerisce contemporaneamente un passo ulteriore: l’evocazione di una lingua originaria e primordiale. L’obiettivo divenuta allora la lingua, quella parlata dagli uomini prima del disastro di Babele, quella che gli uomini parleranno ai tempi della Fratellanza Universale.

Il sogno di questo idioma adamitico affiora spesso anche in teatro: ma generalmente senza la presunzione di arrivarvi effettivamente, accontentandosi di proiettarsi in un passato meno lontano ma forse ugualmente mitico.
E’ il caso per esempio di Tartessos, in cui lo spagnolo Miguel Romero Esteo resuscita con la sua lingua la civiltà mediterranea precedente le invasioni fenicie e ariane, in una maniacale ricostruzione di questa età dell’oro dimenticata da secoli. L’intero dramma - ammesso che così possa definirsi un testo dichiaratamente irrappresentabile, per la sua mole e la struttura grandiosa ed ermetica - vive della stratificazione e dello scontro di culture diverse. Parallelamente nella scrittura di Romero Esteo s’incontrano e s’intrecciano le lingue più diverse: lo spagnolo, che costituisce l’ossatura dell’azione, o piuttosto il commento didascalico essenziale alla sua comprensione; numerosi frammenti di "tartesso", la lingua originaria della città, ricostruita e reinventata dallo scrittore in ritmi e sonorità che richiamano quelle della lingua basca; e poi il greco antico (del resto uno dei personaggi, Eulakios, è un greco) e i vari linguaggi africani di alleati, sudditi e ambasciatori: bororo, etiopi, eccetera.
Questo vertiginoso polilinguismo risponde alla necessità di un’accuratezza filologica nella ricostruzione della civiltà di Tartessos: si ispira infatti ai pochi documenti originali in lingua tartessa, traslitterati in caratteri latini. Ma si lega contemporaneamente alle precedenti opere di Romero Esteo, vicine allo sperimentalismo linguistico praticato dalle avanguardie storiche. Questi due aspetti apparentemente contradditori - la trasgressione delle normali regole morfologiche e sintattiche e la ricerca di una lingua "originaria" - trovano il punto di tangenza nella esasperata musicalità della scrittura. Romero Esteo, con la sua formazione di musicista, ha infatti composto per Tartessos anche una serie di musiche, canti e cori rituali, in un contrappunto liturgico dell’azione che proprio nell’uso di idiomi silenziosi trova il suo ermetico fascino.

  In una direzione analoga si muove in parte anche il celeberrimo Grammelot di Dario Fo che, oltre gli ascendenti colti - Molière e Commedia dell’Arte in testa - ritrova le cadenze e gli accenti di un dialetto padano ormai dissolto, di un universo contadino e materno tanto dimenticato da dover esser reinventato. Anche se è ovviamente impossibile negare al Grammelot un chiaro segno politico: una politica che è prima di tutto pedagogia, alla scoperta (o meglio, riscoperta) della propria alterità.

La lingua santa avantidiluviana di Vico trova così una sua precisa collocazione storica e sociale, una forza potenzialmente rivoluzionaria, il mezzo di una possibile presa di coscienza di classe, ritagliandosi uno spazio autonomo dal "discorso del potere" barthesiano.

  All’estremo opposto della lingua primordiale, affini fin quasi a chiudere il cerchio, troviamo invece i possibili e ambiziosi esperanti della Consapevolezza Totale. Ma il tempo dell’Eden Futuro sembra oggi estremamente lontano: e alla Lingua Universale non si chiede tanto di sancire un auspicabile stato di fatto, quanto di promuoverne l’avvicinamento. La lingua diventa quindi un elemento attivo, in grado di modificare la stessa realtà. E’ quanto vorrebbe fare, con i suoi quattro livelli di marca neoplatonica, la nuova Generalissima della Società Raffaello Sanzio.

La perfezione della Generalissima ha un presupposto implicito, rintracciabile ancora una volta, nella sua formulazione più sintetica, nel Cratilo: I primi nomi gli dei li posero e perciò sono giusti. In altri termini, l’esattezza della lingua dipenderebbe dall’esattezza dei nomi assegnati alle cose. 

Teoricamente è possibile ribaltare la prospettiva: invece di una lingua che assegna i nomi alle cose, è possibile immaginare una lingua che attraverso il nome chiama le cose all’essere. Una lingua che crea essa stessa il mondo di cui parla (in cui le cose senza nome semplicemente non esistono) ha sedotto molti antropologi e semiologi, ribaltando la visione della lingua come semplice specchio della realtà; ma che prima di loro, attraverso le parole dei poeti, ha chiamato alla vita affascinanti e infiniti universi paralleli, isole incantate cui la scena è riuscita, a volte, a dare consistenza.

  D’altro canto l’esattezza dei nomi non è sufficiente a garantire la perfezione di una lingua: l’esattezza delle parti non garantisce l’esattezza del Tutto. Da questo punto di vista, sarebbe necessario concepire una lingua in cui siano possibili unicamente affermazioni vere: un linguaggio in cui (Wittgenstein insegna) le frasi senza senso sono impossibili: semplicemente impronunciabili.

Questa lingua però per sua stessa natura, come ogni lingua "perfetta" sembra refrattaria a un uso puramente teatrale: il teatro può portare in scena il suo condensarsi o il suo dissolversi, ma se si esaurisce in essa rischia di perdere ogni tensione e carica evocativa, pietrificandosi in una forma refrattaria a ogni sviluppo.

Franz Kafka, Descrizione di una battaglia, in Parabole, schizzi, a cura di Giuliano Baioni, Dall’Oglio, Milano 1982. Non è quella febbre, quel mal di mare di terraferma, conte una sorta di lebbra? Non avete la sensazione come di non potervi più accontentare, per l’ardore che vi sentite addosso, dei veri nomi delle cose, non ne avete mai abbastanza e, nella fretta, rovesciate su di esse dei nomi a casaccio? Purché sia in fretta, in fretta! Ma non appena siete fuggiti via da loro, ecco che ne avete già di nuovo scordati i nomi. Il pioppo dei campi, che avete chiamato ‘Torre di Babele’ perché non sapevate o non volevate saper che era un pioppo, ondeggia di nuovo senza nome, e voi dovete chiamarlo ‘Noè quand’era ubriaco’.
  Il libro, la parola, non sono più, in questo caso, la metafora del mondo. E’ piuttosto il mondo a diventare metafora del Libro, dando una forma ai suoi momenti forti, trovando un’esistenza ai suoi passi canonici: puro simbolo, fissato per l’eternità e destinato a fluttuare eternamente alla ricerca di un impossibile legame con una realtà evanescente, inafferrabile. In questo passaggio della parola al mondo è possibile trovare una lontana affinità con la genesi di un segno teatrale - costituito di cose e immagini, e quindi materia - a partire da un testo letterario preesistente: rapporto sempre labile, destinato ogni volta alla dissoluzione, fonte di eterna insoddisfazione.

Altre direzioni possono invece essere segnalate da due passi di Wittgenstein. Il primo riporta al celeberrimo linguaggio dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, frutto di una totale regressione del segno nell’oggetto:

Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, 1974. Il linguaggio delle parole permette combinazioni insensate di parole, ma il linguaggio delle rappresentazioni non permette combinazioni insensate di rappresentazioni.
  Pare quasi una giustificazione a priori di ogni spettacolo fatto di pure immagini, del semplice succedersi di avvenimenti. Di uno spettacolo cioè fatto di cose e non di parole (sempre che non si pretenda che esista qualcosa di simile a una "lingua teatrale" fatta di immagini: la cui organizzazione, però, potrebbe trascendere la coscienza del regista).

La seconda citazione può invece fornire un tramite tra la "febbre" di Kafka e le sofferte riflessioni del primo Artaud. E’ uno dei passi in cui Wittgenstein abbozza l’invenzione della sua "lingua personale": non destinata quindi alla comunicazione o alla descrizione di oggetti o eventi, ma alla pura e semplice maneggiabilità del proprio mondo, interiore e esteriore.

Ivi, p. 118. Sul "linguaggio privato" di Wittgenstein, vedi anche Saul Kripke Wittgenstein, Boringhieri, Torino, 1985. Sarebbe anche possibile un linguaggio in cui uno potesse esprimere per iscritto ed oralmente le sue esperienze vissute o interiori - i suoi sentimenti, umori, eccetera - per uso proprio? - Perché queste cose non possiamo già farle nel linguaggio ordinario? - Ma io non l’intendevo così. Le parole di questo linguaggio dovrebbero riferirsi a ciò di cui chi parla può avere conoscenza; alle sue sensazioni immediate, private. Dunque un altro non potrebbe comprendere questo linguaggio.
  Ennesima lingua ipotetica, probabilmente inesistente, in cui la massima libertà coincide con la completa solitudine, quella immaginata da Wittgenstein finisce per chiudersi su se stessa. Trova la sua perfezione proprio perché non può essere sottoposta a alcuna verifica: diventa uno strumento muto che, nella totale adesione al pensiero, finisce per perdere il contatto con il mondo e con gli altri. Ma proprio la difficoltà a fissare il pensiero nel linguaggio (che Wittgenstein qui cancella totalmente, superandola di slancio), è il punto di partenza del a parabola artaudiana, testimoniato dalla giovanile corrispondenza con Jacques Rivière:
Antonin Artaud, Lettera a Jacques Rivière del 5 giugno 1923, in Al paese dei Tarahuniara e altri scritti, cit., p. 6. Soffro d’una spaventevole malattia dello spirito. Il mio pensiero mi abbandona a tutti i gradi. Dal fatto semplice del pensiero al fatto esterno della sua materializzazione in parole. Parole, forme di frasi, direzioni interne del pensiero, reazioni semplici dello spirito, io sono alla ricerca costante del mio essere intellettuale. E dunque quando posso cogliere una forma, per quanto imperfetta, la fisso, nel timore di perdere tutto il pensiero. Sono al di sotto di me, lo so, ne soffro, ma vi acconsento per paura di morire completamente.
  Il problema non è più, chiaramente, quello della comunicazione: non è in gioco il rapporto interpersonale attraverso cui può essere fondata la realtà (o l’esistenza) di un mondo. E’ in gioco, solo e unicamente, un Io che si sta dissolvendo e vuole disperatamente resistere, fissarsi in qualche modo nell’Essere. E questo è possibile solo attraverso la parola. Attraverso quella che Artaud stesso definisce lingua pura:
Antonin Artaud, Il paese del Tarahumara, cit., p. 167. Si può inventare la propria lingua e far parlare la lingua pura con senso extra grammaticale, ma bisogna che questo senso sia valido in sé, cioè provenga da orrore.
  Solo la sensazione dell’orrore (la crudeltà) può trascinare l’Io al di fuori del vuoto del suo ebete e ignaro sopravvivere, fuori dall’impossibilità di essere, oltre lo stupore, fino alla sensazione del mistero della vita e della morte. E’ questa l’unica possibilità di ricomporre la frattura. Ma, d’altro canto, l’orrore che è nelle cose - nascosto, dimenticato, rimosso - può nascere solo dalle cose. E quando il mondo è diventato opaco, soltanto un mondo di secondo grado, una realtà distillata, di livello superiore, condensato e sublime, può riscattare il nostro sguardo e il nostro essere.
  Affine - nell’affermazione della necessità della pratica del Teatro - è il processo che porta Artaud all’invenzione delle sue glossolalie, frammenti di una vera e propria lingua che vivono della necessità di essere effettivamente pronunciate: rese quindi segni teatrali, attivi e "magici", e non semplici graffiti poetici. Dal momento che sono anch’essi cose perché solo al loro livello possono diventare efficaci sulle cose stesse. Finché restano muti grafismi, sono inutili in un mondo come quello dipinto da Van Gogh, che non dipingeva linee o forme, ma cose della natura inerte come in piena convulsione.
Antonin Artaud, Van Gogh, il suicida della società (Van Gogh le suicidé de la societé, in Oeuvres complètes, vol. XIII Gallimard, Paris, 1974, p. 42. Non descriverò dunque un quadro di van Gogh secondo van Gogh, ma dirò che van Gogh è pittore perché ha ricollegato la natura, perché l’ha come dire ritraspirata e fatta sudare, perché l’ha raccolta in fascine sulle sue tele, in monumenti di colori, l’incastro secolare di elementi, la pressione spaventosa e elementare di apostrofi, di strisce, di virgole, di barre di cui non si può credere, dopo di lui, che non siano composti gli aspetti della natura.
  Qui, in questa natura fatta segno, in questo mondo-libro di straordinaria potenza, il soffio e il respiro trovano efficacia sovrumana:
Ivi, p. 49.  Roltan
tarer
tensur
purtan.
  Perché anche un soffio può essere sufficiente in un mondo come quello in cui vive Artaud, in cui
Antonin Artaud. le cose non sono venute da uno spirito infinitesimale che partito dal nulla si sia ispessito e coagulato fino all’essere. Sono venute da un corpo esistente, che ha tratto dalle sue molecole, dal niente stesso, col suo soffio corpi, oggetti, cose che ha fabbricato con le proprie mani.
  Alla scena tocca quindi il compito di raggiungere, con l’ultimo respiro, la terribile perfezione. Al teatro tocca la responsabilità di realizzare questo stacco, questo salto nella trascendenza della perfezione assoluta e immutabile. In questo modo, il teatro si rivela regno del mistero, luogo in cui è possibile sperimentare l’inconoscibile, riscattare forze sovrumane e ignote ai più. E a farsi carico di questo compito atroce, non può essere che l’attore, con l’orrore sacro che ispira la sua maschera, lo scheletro animato che s’intravede oltre la marionetta, il morto, il non-esistente in grado di metterci in contatto con il mondo infero. Appare così più comprensibile il fascino esercitato in scena dalle cosiddette "lingue morte", quelle forse in cui l’attore può più intimamente identificarsi, dal greco antico al tartesso, dall’ebraico all’avestico, o più di recente dall’antico copto dei papiri gnostici (con inserti di yiddish e di greco ellenistico) recuperato da Eugenio Barba per il suo Oxyhincus Evangeliet, il "quinto Vangelo" portato in scena dall’Odin Teatret.
  Affrontando il problema nella maniera più diretta, i Magazzini Criminali hanno preteso addirittura di far parlare, nei loro spettacoli, la lingua dei morti, traendo ispirazione da antiche iscrizioni tombali, da segni ritrovati sui ruderi di città distrutte dal fuoco e sepolte dai millenni. Ancora una volta, più che nei normali processi di comunicazione, sono in gioco le associazioni inconsce, l’evocazione di mondi sotterranei e lontanissimi.
  Come atto creativo, l’invenzione delle lingue teatrali si presenta dunque come esplorazione delle diverse possibilità della comunicazione: sia che si tratti di esplorarne alcuni aspetti, sia che ci si impegni nella verifica di ipotesi teoriche sulla natura della comunicazione, sia che ci si avventuri alla ricerca di una "lingua perfetta" (e come abbiamo visto una lingua può essere perfetta da molti punti di vista), la scena offre l’occasione di una immediata verifica pratica, legata alla materialità di ogni processo comunicativo, e non alla sua natura astratta di insieme di segni.
  Questo è l’aspetto sperimentale, quasi scientifico della linguistica ipotetica e della sua messinscena: ci parla dello slittamento del linguaggio al di fuori dei canoni abituali e spesso inconsapevoli cui veniamo sottoposti dal linguaggio stesso, disegnando nel contempo le sue patologie e i possibili rimedi; ci racconta l’affievolirsi della capacità di comunicazione interpersonale, cui corrisponde inevitabilmente la crisi della lingua come espressione del mondo e dell’io, l’impossibilità di delimitare un’area di comunicazione autentica.
   Ma aldilà di questo, c’è la scommessa su un messaggio destinato forse a perdersi nel nulla, a chiudersi totalmente su se stesso. Un messaggio cui l’attore si affida però totalmente, ogni volta: un messaggio che probabilmente lo trascende. Perché l’attore sa, malgrado tutto, di restare uomo: un uomo che può giocare con il mistero, ma che resta tale. Ma chi può negare la possibilità che chi lo ascolta non oda, in qualche istante segreto, il canto segreto delle sirene?
  L’ineffabile, per sua natura, non può essere pronunciato. Ma può, forse, essere udito. Questo è uno dei molti paradossi della comunicazione teatrale: e la sua chiave sta, in parte, anche nell’invenzione e nella pratica delle "lingue immaginarie".
   


Breve antologia della fantalingua
 

Il greco antico 

(Frammenti per una trilogia
di Andrei Serban
(dal programma di sala dei Frammenti per una trilogia, presentato alla Biennale di Venezia nel 1972).
Ci si accorge che nel teatro che si serve di un linguaggio comprensibile la parola è utilizzata per trasmettere qualcosa a livello dell’informazione o della psicologia. Non ci si interessa molto ad essa. Avvicinando una lingua antica, è impossibile discernere un senso diretto, ma in tale apparente mancanza di senso, si ritrova forse una possibilità più larga di espressione. In una relazione immediata, concreta con il suono, la parola, si può scoprire una superficie infinita per creare ritmi, energie, impulsi di un ordine diverso.

Il greco antico è forse per gli attori il materiale più generoso che sia mai stato scritto. A quell’epoca si è sentito il bisogno di inventare un linguaggio poetico per assolvere un compito immenso: quello di inviare con le parole messaggi a grande distanza, in uno spazio aperto non solo al coro dei cittadini, ma anche al mare, all’aria ed agli astri. Ci si può immaginare allora come queste parole dovessero portare in sé una forza ed un’energia sicure per rendere possibile e sostenere tale contatto. (...) Tutta la ricerca consiste nel ritrovare questo suono, questa parola, nel servirla, nel vedere cosa ha potuto essere anticamente. 

Ci si concentra sulla possibilità di produrre un suono mai fatto prima.

Pronunciando il verso antico non è solo il ritmo a vivere ma l’immaginazione intera che comincia a muoversi in direzioni molteplici. Si tenta di vedere immagini nel suono. Si crede di diventare chi, per primo, ha pronunciato le parole. Vibrazioni nascoste si lasciano intravedere e si comincia a capire la "partitura" del testo in un modo più vero di qualsiasi analisi logica. A vivere attraverso le parole non è solo la nostra immaginazione ma tutto l’essere. Si tratta di svelare il paradosso secondo il quale testa, cuore e voce non sono separati ma legati l’uno all’altro. Tutto il corpo è strumento complesso e sensibile che deve essere accordato se si vuole servirsene. Perché il suono esca in modo giusto è necessario cercare e prendere coscienza di una sorgente, trovare in sé un appoggio che le permetta di crescere.

Sviluppare una possibilità di affermazione completa. Un impegno. Il movimento e la voce si ritrovano in uno sforzo comune. Il gesto e il respiro esistono indispensabili l’uno all’altro come espressione di un tutto.

L’Orghast

di Peter Brook
(da Peter Brook o il teatro necessario, a cura di Franco Quadri, Edizioni della Biennale di Venezia, Venezia 1976)
Per un gruppo internazionale non può porsi il problema della parola. Quando delle persone che giungono da diverse parti del mondo si riuniscono, bisogna trovare un modo di relazione. Non si può lavorare veramente nel campo verbale senza dare la preferenza a una lingua piuttosto che a un’altra, e se si usa in prevalenza una certa lingua, si nota che alcune persone non possono aprirsi con una lingua straniera. La forma del teatro fondata su una lingua è stata quindi completamente eliminata. (...) Cerchiamo ciò che anima una cultura. Piuttosto che prendere la forma cultura in sé, cerchiamo di scoprire ciò che la anima. E necessario che l’attore cerchi di uscire dalla sua cultura e, più in là, dai suoi stereotipi. (...) Spogliandosi dei suoi tic etnici, il giapponese diventa più giapponese e l’africano più africano, e si raggiunge uno stadio in cui le forme sono più fissate: appare una situazione nuova che permette a persone di origine differente un nuovo atto di creazione. (...) Il fenomeno somiglia al fenomeno musicale, dove tutti i suoni mantengono la loro identità ma si congiungono per suscitare un nuovo evento.
Dal Racine di Coquelin 

al persiano di Kamenski

di Alexandr Tairov 


(da Le Théâtre liberé, L’Age d’Homme-La Cité, Losanna 1974, pp. 67-68)

Citerò ancora una volta Coquelin: "Prévost raccontava ridendo che una certa sera, quando stava per terminare una delle tirate di Ippolito, mentre il pubblico lo seguiva senza fiato, la memoria gli mancò completamente, proprio nel momento in cui stava per pronunciare gli ultimi due versi. Impossibile rallentare il movimento per attendere il suggeritore. Decide in un lampo e con grande slancio, senza riprender fiato, lancia due alessandrini raffazzonati da chissà quale gergo, che il pubblico non riuscì ovviamente a sentire, ma che vennero applauditi con furore, tanto il gesto, l’accento, il movimento, in una parola, rendevano chiara, eloquente e vigorosa quella lingua improvvisata". (…) Nel 1919 si rappresentava a Mosca Stenka Razin, una pièce di Vassilij Kamenskij. La parte della principessa persiana Meîgran era affidata alla Koonen. La parte implicava un passaggio di cui nessuno, malgrado il più ardente desiderio, poteva capire una sola parola. Ciononostante, pochi brani dello spettacolo catturavano come quello l’attenzione del pubblico, composto per di più dagli spettatori più ingenui e meno educati.

Ecco il testo:

Aî Khial boura ben 

Sivirim sizè tchok

Aî zalma, aî ghiaz

Dja-manaî, dja manaî.

All’inizio Kamenski aveva cercato di convincerci che si trattava di parole persiane ma poi ha finito per ammettere – e questo va a suo merito – che non appartenevano a nessuna lingua.

L’arabo del Corano 

(Gilgamesh
di Victor García 


(da "Le Monde")

Con questa leggenda, il francese non funziona, non fa scattare nessuna immagine. Ho pensato allo spagnolo, ho provato con l’italiano, non ne usciva niente! Mi sono sempre immaginato che l’arabo fosse simile al sumero. Ho provato l’esperienza con attori provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente. Hanno razionalità diverse, parlano in maniere diverse, li ascolto andare gli uni verso gli altri, rispondersi, e so che non mi sono sbagliato, teatralmente. Abbiamo fatto un lavoro musicale, nient’affatto intellettuale. Gli attori - ci sono solo uomini in scena - devono abbandonare la loro identità culturale per costruire quella dello spettacolo. Per mostrare questa ricerca di immortalità, l’avventura della morte. Sì, una storia pessimista... Solitamente io in scena parlo della morte e termino con una resurrezione. Muoio e poi risorgo…
La Saperlingua 

(Le Saperleau

di Anne-Françoise Benhamou 


(dal programma di sala di Le Saperleau di Gildas Bourdet, presentato dal Théâtre de la Salamandre a Lille nel 1977)

Se il testo del Saperleau è spesso al limite dell’intelligibile, è perché è nato dal piacere molto particolare di andare a teatro a vedere spettacoli in lingua originale. Per quanto complesso e letterario possa essere il testo recitato in una lingua straniera - Büchner, Eschilo, Shakespeare.. si trova di fatto messo allo stesso livello di un libretto che "garantisce" la recitazione. E mentre il testo conserva per l’attore e il regista la sua densità, la sua complessità, le sue contraddizioni, per lo spettatore resta opaco. Restano unicamente, a testimoniare il suo peso e il suo senso, l’autorità e la coerenza interna della recitazione. "E’ proprio questo il mio piacere", sembra dirci l’attore straniero, rivestito del resto di una legittimità ancora più difficile da mettere in questione, dato che il principio resta per noi impenetrabile: attore per diritto divino. Con un semplice effetto di scarto, ecco risorgere il mito di una teatralità allo stato puro, emancipata dal discorso, autonoma da ogni senso, significante finalmente liberato da ogni significato.
La Saperlingua insegue così la finzione di una lingua cui abbiano tolto il suono. Così facendo, Bourdet pone, più che una problematica letteraria, una domanda al teatro e agli attori: l’opacità della lingua, il tenue filo della storia narrata, fanno forse del Saperleau e la scena per un progetto utopico: una recitazione che sembra autorizzarsi da sola, fondarsi su di un’esigenza accessibile a lei sola.
Utopia, del resto: come sbarazzarsi del senso? Eliminate la trama, i personaggi, la finzione, denunciateli, ritorneranno al galoppo. Trasgredire la farsa, il vaudeville, il marivaudage, il naturalismo non significa rompere con i codici, ma fare in modo che si denuncino l’un l’altro. Non implica un addio al senso: significa organizzare la sua disorganizzazione. Un’incoerenza fatta di frammenti di coerenza. Ma da questi frammenti risorgono - dalle loro stesse ceneri, magari per un breve istante personaggi e finzione, allo stesso modo in cui nella Saperlingua sopravvivono spesso la logica ben nota di quel francese che trasgredisce, tutta la sua sintassi. Più che un teatro dell’altrove, il testo produce dunque, attraverso le sue rotture e i suoi codici, una originale sovversione, mettendo continua mente in crisi le battute più efficaci, i giochi di scena più espressivi, o altri effetti incomparabili. Dunque, nessun bisogno di sottotitoli: questo teatro in collera con se stesso fa apparire, di fronte allo spettatore, perfettamente identificabili tutti quei teatri che accusa con la violenza distruttrice, disperata e gioiosa del comico.
Dal latino al Basic
(Le piante di Padiglione Italia) 
di Pietro Bacilieri 


(da Echi dal regno permanente della metamorfosi, in Magazzini 8, Ubulibri, Milano, 1984)

L’ultima scema, la serra vuota con le due piante superstiti che si parlano in linguaggio Basic, e la voce femminile che, alla fine di tutte, chiede solo (o ancora) "un blazer in crépe marocain", per la sua vita finta, ribadendo che "questa è moda / questa è carne di film", cioè è ancora artificio, è l’ennesima moda (il canto della natura) in cui si incarna la finzione. E le ultime parole, "posso paragonarti a una giornata d’estate?", cadono nel buio di un tempo incerto. Tempo che, nello spettacolo, ha valenze diverse: per i Giardinieri è il tempo reale dello spettacolo, dell’osservazione esterna, che essi comandano; per gli attori, è come se esistessero infinite serie di tempo, per cui in una scena rivivono a Creta la leggenda del Minotauro, in un’altra si trovano in un orto macchiato d’ombra nell’Ottocento italiano, in un’altra ancora sono due figure di paraventi cinesi nel Settecento, eccetera.

Il Grammelot 

(Mistero buffo
di Dario Fo 
(da Compagni senza censura 1, p. 62)
Posso dire una battuta di un operaio di Caltagirone: il quale alla fine dello spettacolo, è intervenuto dicendo: "Ti ringrazio perché questa sera per la prima volta mi sono sentito un intellettuale anch’io, perché stasera ho capito che io ho una cultura, che dietro a me c’è una cultura, me l’hai fatta ritrovare, rivedere, e ho capito che certi modi di dire, certe cose, che io credevo banali, sono invece la cultura vera che i padroni ci hanno fregato. Da questo momento, mi voglio interessare voglio andare a vedere fine a che punto, dove, ecc."
 
Il discorso si allarga di più quando arrivi per esempio nel Veneto, in certi posti della Lombardia, della Romagna, per certi discorsi che ci sono dentro, dove senti l’operaio, il contadino che arriva a capire prima, perché il suo linguaggio di tutti i giorni, e non quello che magari il dialetto non lo parla più. Perché capisce, intuisce la sua logica dello scherno e del grottesco.

La Generalissima 

(Kaputt Necropolis 

della Società Raffaello Sanzio)

(dal programma di sala di Kaputt Necropolis)

 Negli ultimi cinquecento anni schiavi e cittadini venivano forzatamente reclutati dalle potenze coloniali europee, imbarcati in molte parti del mondo e inviati a svolgere lavori agricoli in Africa, nella regione dell’Oceano Indiano, in Oriente, nei Caraibi e nelle Hawaii.

Furono costretti a comunicare all’interno della loro comunità poliglotta per mezzo del rudimentale sistema linguistico chiamato pidgin.

Il pidgin è una lingua estremamente povera nella sintassi e nel vocabolario, ma per i bambini nati in una comunità coloniale era l’unica lingua comunque disponibile. La lingua creola è il germe della comunicazione. Il linguaggio del futuro ridurrà all’osso il verbo come un cancro; il cervello deve contenere più simboli e meno vocaboli. Parla con poche parole. Sarai più capito. Fai collane di simboli: ti aprono porte. Vendi le tue collane agli altri. Non parlare come tutti. Le parole serie solo quattro per me: agone, apotema, meoteora, blok.

Da queste parole immense discendono altre sedici parole: sono le parole del secondo livello che sporcano la purezza del primo, perché cominciano a de scrivere ciò che dovrebbe essere già capito. Da queste sedici parole discendono - purtroppo - altre ottanta parole (terzo livello) che si allontanano sempre più dalle quattro parole-chiave. Alle ottanta parole ne seguono altre quattrocento: seno le parole del quarto livello, le più deboli di tutte, le più equivoche. Ma sono le parole dei principianti. Bisogna avere pazienza. La testa scoppia perché è troppo piena, il corpo è supplicante (più bello) perché è stanco, si dicono cose da pazzi ma sempre logiche.

L’ebraico 

(Spinoza et Vermeer)
di Gilles Aillaud
("La lezione di ebraico" da Spinoza et Vermeer, testo di Gilles Aillaud, regia di Jean Jourdheuil e Jean-Franqois Peyret. scena di Nicky Rieti. Coproduzione del Théâtre Gérard Philipe e del Festival d’Automne. Parigi, Théâtre de la Bastille, novembre 1984)
SPINOZA. In ebraico le vocali non sono lettere. Gli Ebrei dicono che "le vocali sono l’anima delle lettere" e che le lettere senza vocali sono "corpi senza anima". Affinché questa differenza tra lettere e vocali venga compresa con maggior chiarezza, la si può spiegare benissimo con l’esempio del flauto che le dita suonano con i loro tocchi; le vocali sono i suoni musicali; le lettere sono i fori coperti dalle dita. La lingua ebraica è come un deserto di pietre sul quale soffia un vento straniere. Le vocali non sono presenti in alcun luogo; possono essere sottintese, o espresse dai punti aggiunti alle lettere. Ma, con il tempo e trasportate più lontane del deserto, queste lettere dai tratti taglienti, quasi sempre rettilinei, si sono fatte via via più piccole e arrotondate, per esempio nell’uso degli ebrei italiani, spagnoli o lusitani. Le si direbbe usurate dalla vece umana che le levigò come la risacca con i ciottoli della spiaggia.

Oltre all’assenza delle lettere che rappresentano le vocali, un’altra causa di ambiguità peculiare di questa lingua è che gli Ebrei non erano abituati a dividere i discorsi scritti, né a renderne più chiaro il significato rafforzandoli con dei segni.

A questi due difetti si è potuto senza dubbio supplire con i punti e gli accenti; ma questi due mezzi sono stati inventati e istituiti da uomini di un’epoca successiva. Gli antichi scrivevano senza punti, e cioè senza vocali, e senza accenti. I punti, come la melodia degli accenti, sono una aggiunta del tempo in cui si credette di dover interpretare la Bibbia. Chi voglia oggi interpretare la Bibbia senza pregiudizi deve considerare dubbio il testo così completato.

C’è un’ulteriore difficoltà, particolare alla lingua ebraica, che dipende dal fatto che le lettere che nascono dallo stesso organo vengono spesso confuse. Per esempio, le lettere Aleph, Gitel, Hgain, He vengono chiamate gutturali e praticamente senza alcuna differenza una viene impiegata al posto dell’altra. Così el, che significa verso, viene sovente preso per hgal, che significa sopra, e viceversa. Perciò accade sovente che tutte le parti di un testo vengano rese ambigue, o sembrano suoni usciti di rettamente dalla bocca di un cammello.

La lingua universale dei morti

(Genet a Tangeri)
di Federico Tiezzi
(da I Magazzini 8, Ubulibri, Milano, 1984).
Nel momento in cui ho deciso di scrivere il testo di questo spettacolo (e come teste-testo) mi sono sentito liberate: una leggera nebbia mi era partita dal cervello. Ho girato per molti anni sull’idea di un testo che classicamente riproducesse il Testo e però ne facesse saltare attraverso il linguaggio i naturali passaggi drammatici. E poi ho sempre voluto scrivere una tragedia. Pasolini, Carducci (il titolo "tragedia barbara" viene a riferimento delle luminose Odi barbare) sono stati due costanti punti di riferimento; Gadda e il Dolce stil novo sono stati la matrice, l’accecamento della lingua. Nonché un amore. Mi hanno offerto, i Quattro, quella lingua barbara che mi e fiorita attorno ai temi e sulle evoluzioni sintattiche e grammaticali di Jean Genet. Insieme, una "lingua universale" mi affiorava alle labbra: una lingua che era insieme etrusco e latino virgiliano, spagnolo e ittita, inventate e davvero. Una "lingua universale" (...), una lingua incomprensibile e indecifrabile, segreta nel significato e che sempre si dà in esametri, una lingua alla quale corrisponde una scrittura altrettanto segreta, altrettanto indecifrabile che solo i bambini della rivoluzione conoscono, ridendosene del significato. Una lingua nuova per la rivoluzione ovvero ogni rivoluzione ha bisogno di una lingua: questa è quella che le offro. Del resto, ora: spossessare Genet del suo linguaggio è stato uno dei miei motivi, non un pastiche e nemmeno un mélange di temi genettiani, ma una appropriazione indebita, il furto di una visione, un pasto selvaggio, da fiera, di quattro romanzi: Notre Dâme des Fleurs, Miracle de la rose,
Pompes funèbres, Journal du voleur. Il teatro ne è rimasto fuori: e l’apparizione di Solange alla fine del I atto è giusto un atto d’amore.

Mi era chiaro che avrei dovuto utilizzare un linguaggio osceno: il sangue di Genet è fatto dell’oscenità, i suoi globuli sanguigni sono aspersi da questa benedizione della lingua; altrettanto chiaro era l’utilizzare quei metri straordinari che Carducci aveva, luminosi, estratti dall’antichità e sillabati in italiano. Non so perché ma credo che sia per una ragione epica.

Questi metri musicano i temi: i ragazzi, la rivoluzione, Beirut, la morte, e ne fanno un canto. Che presto ho voluto trasformare in un insieme ubriaco, in orgia verbale. Solo così Genet e la sua poesia atroce avrebbero potuto parlare drammaturgicamente, dentro una storia inventata, con strani personaggi come un ectoplasma fumato dalla lingua.

E’ quella parte in ombra di noi che ho voluto nominare: quella contrada profumata di noi "che ho chiamato Spagna" (Genet, Journal du voleur).

Il copto 

(Oxyrhincus Evangeliet
di Eugenio Barba 


(da The Dilated Body, Zeami Libri, Roma, 1985, p. 36).

Quando ho iniziato a lavorare alla produzione il cui titolo definitivo sarebbe stato Oxyrhincus Evangeliet non c’erano né un testo scritto né una scenegiatura - neppure un unico tema guida. C’era piuttosto un interallacciamento di temi, di figure storiche e mitiche prese da periodi differenti e da culture lontane, di personalità politiche contemporanee e di personaggi di romanzi. Tutti costoro hanno iniziato a popolare il mio spazio mentale, attraverso gli attori, lo spazio materiale del teatro.
In questo doppio spazio, i sentieri dei vari protagonisti hanno iniziato a intersecarsi: era nata una
storia non prevista.
I miei suggerimenti e le improvvisazioni degli attori, le nostre intuizioni reciproche insieme alle
scelte fortuite, si sono lentamente cristallizzati in tracce d’azione, rapporti e situazioni spesso basati sulla simultaneità.
L’universo vocale della composizione è stato composto in questa fase del lavoro. Ho scritto alcuni testi che evocano la logica e le ballate sui fuorilegge brasiliani e la Kabbalah, discorsi politici contemporanei o poesie d’amore, aneddoti sui rabbini Hassidici o croniche medievali, a volte reinventate attraverso le improvvisazioni degli attori. 

Tutti questi testi sono stati "tradotti": per tutto lo spettacolo gli attori parlano il linguaggio di Oxyrhincus, la città ellenistica sulle rive del Nilo in cui ritrovati tre frammenti di vangeli apocrifi.

Ho poi preso i testi pronunciati dagli attori, li ho tradotti nella mia lingua - l’italiano - e ho composto un testo che cerca di trasferire la dimensione lineare del linguaggio scritto, il flusso di una storia che non procede per transizioni ma per salti.

Dal primo manifesto 
del Teatro della crudeltà 
di Antonin Artaud
(da Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968, p. 168)
Questo linguaggio oggettivo e concreto del teatro serve a captare e a imprigionare i sensi. Percorre le sensibilità. Abbandonando l’utilizzazione occidentale della parola, trasforma le singole parole in sortilegi. Alza la voce. Ne utilizza le vibrazioni e le qualità. Fa martellare violentemente i ritmi. Macera i suoni. Mira a esaltare, intorpidire, sedurre, fermare la sensibilità Libera il senso di un nuovo lirismo dal gesto che con il suo precipitare o con il suo espandersi nell’aria finisce per andar oltre il lirismo delle parole. Spezza infine la soggezione intellettuale al linguaggio trasmettendo il senso di una nuova e più profonda intellettualità che si cela sotto i gesti e sotto i segni, innalzati a dignità di esorcismi particolari.
   

copyright Oliviero Ponte di Pino 1985, 2000

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