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  Per un teatro jazz

Intervista con Leo De Berardinis a cura di Oliviero Ponte di Pino
 
 

Pubblicata originariamente in Jack Gelber, La connection con l'intervento di Leo De Berardinis, Ubulibri, Milano, 1983.
 
 

The connection è un testo chiave del teatro contemporaneo: e stato il primo spettacolo di successo del Living Theatre, e proprio con il Living Theatre è nata l’avanguardia teatrale degli anni Sessanta e Settanta. Ma nel testo di Gelber sono presenti anche molti degli elementi che hai sviluppato nel tuo teatro: penso al jazz, che per te è stato un costante punto di riferimento; al rapporto tra testo e improvvisazione, magari l’analizzato nell’ambiguità tra finzione scenica e realtà. Penso ai protagonisti della pièce, emarginati come erano emarginati gli attori del Teatro di Marigliano, o come eravate tu e Perla nei confronti del teatro ufficiale. Forse è il caso di ripercorrere lo sviluppo di questi temi nel tuo teatro: potremmo prendere come punto di partenza A Charlie Parker. Quindi prima di tutto un film, e cioè un polemico, anche se provvisorio, addio al teatro. E soprattutto un film che fin dal titolo rimanda a un jazzista.

E poi, guarda caso, anche The connection è legato al nome di Parker, è una strana combinazione. Però vorrei aggiungere una cosa. A Charlie Parker era una cesura che veniva dopo due esperienze mie. Avevo cominciato a Roma proprio agli inizi degli anni Sessanta, cioè subito dopo la riapertura del Centro Universitario Teatrale, nel 1958-59. Fu la prima volta che si riaprì un discorso teatrale giovane: il Cut era rimasto chiuso per molti anni, e quando riaprì ci fu una aggregazione di talenti. Agli inizi degli anni Sessanta io avevo già cominciato a lavorare con Carlo Quartucci e Rino Sudano. Il Living non ci diede qualcosa in più o in meno: noi facevamo ricerche avanzatissime sulla voce, sul corpo, sulla posizione da assumere nei confronti del teatro ufficiale e del pubblico. Tanto è vero che alla Biennale di Venezia, dove noi rappresentavamo l’Italia con Zip, Lap Lip eccetera di Giuliano Scabia, uno degli ultimi spettacoli che feci con Carlo Quartucci, c’era anche il Living con Frankenstein. E, a ben vedere, ci arrivavano dall’America cose che in Europa avevamo già fatto. Mi sembra ridicolo ricevere Brecht o Artaud dall’America. Julian Beck ha scoperto Artaud, Brecht e Pirandello negli anni Cinquanta. Mi chiedo perché noi prestiamo tanta attenzione al Living, invece di preoccuparci delle responsabilità della cultura italiana. Dall’America queste cose ci sono tornate a livello mercificato, come è arrivata la droga. C’è modo e modo di prendere la droga, c’è Charlie Parker e c’è chi la prende per moda, e quindi soggetto a una massificazione culturale. La cultura europea non deve essere una materia prima che viene distillata dalla tecnologia americana e poi restituita come prodotto fasullo, commerciabile. Mi sembra necessario dunque stabilire certe date, che sono importanti. Quest’esperienza con Carlo è stata fondamentale, il primo esempio di Teatro-Studio affiancato a un Teatro Stabile, quello di Genova, allora diretto da Squarzina e Ivo Chiesa. Squarzina mi aveva visto recitare in Finale di partita in uno dei "Lunedi della Compagnia dei Quattro" diretta da Franco Enriquez, e mi voleva a Genova. Posi come condizione la partecipazione di tutto il gruppo. Poi ci fu l’incontro con Perla. Al convegno di Ivrea del 1967 portammo La faticosa messinscena dell’Amleto di W. Shakespeare. Avevamo cominciato a lavorarci nel 1965. Lo spettacolo prevedeva anche tre schermi su cui venivano proiettati, a volte anche contemporaneamente, due ore di filmati: per motivi economici (costo della pellicola, sviluppo e stampa, montaggio) fu necessario un anno per andare in scena.

Su Ivrea ci sono molti equivoci. In effetti fu l’incontro di alcune personalità che lavoravano autonomamente e con modalità differenti: Carmelo Bene, Mario Ricci, Carlo Quartucci Perla ed io.

Ci scegliemmo per una "Associazione Nuovo Teatro". C’erano anche dei critici che sostenevano il nostro modo di fare teatro (Edoardo Fadini, Ettore Capriolo, Beppe Bartolucci, Franco Quadri).

Poi questa Associazione fu allargata; un allargamento equivoco e contraddittorio che ci ha portato a questi tristi anni Ottanta.

Chiarito questo, A Charlie Parker si capisce solo adesso. Già nel 1968, con Sir and Lady Macbeth, il Macbeth mio e di Perla, c’era stato un rifiuto totale del coinvolgimento del pubblico. Anche nell’Amleto il coinvolgimento esisteva solo come rifiuto polemico: non era coinvolgimento, era solamente quella che chiamo dialettica violenta. Esaurito questo discorso intorno al ‘68, dicemmo: "Al nostro posto basta uno schermo, con la nostra testimonianza. Ci fate talmente schifo...". E facemmo un film dedicato – sottolineo "dedicato" – a Charlie Parker. A Parker in quanto artista emblematico di una condizione socioeconomica, e quindi culturale e estetica. Esaurito anche questo rapporto, andammo a Marigliano, per ricominciare, dato che le cantine romane erano diventate una moda.

Una scelta di autoemarginazione...

Senza snobismi culturali o comunque di comodo. Autoemarginazione non nel senso vittimistico della parola, né in quello demagogico di "decentramento". Era proprio un "andare giù". Per noi era vitale, prima di tutto perché non si poteva più vivere ai livelli metropolitani e culturali della Roma di quell’epoca. Era il ’68, c’erano altre influenze che ci hanno fatto scegliere di andare a Marigliano. Anche per riprendere un mio discorso culturale: perché io venivo dal Sud, ero un emigrante, come emigranti erano Carmelo e Carlo, uno siciliano, l’altro pugliese. Si cominciò a portare laggiù la nostra esperienza, che era stata etichettata come teatro d’élite. In effetti non era d’élite, era soltanto un’esperienza teatrale priva, per responsabilità dei politici, di un’organizzazione del pubblico, di un circuito. Non era assolutamente un teatro d’élite, è sempre stato molto aperto. Si poneva come scelta di chiusura nel rapporto con un pubblico, qualsiasi esso fosse. A Marigliano non si è fatto altro che far esplodere questo discorso, continuandolo in un area meno inflazionata, meno sofisticata, meno infettata da certi fraintendimenti. Era una posizione provocatoria nei confronti di una cultura che per comodità chiamiamo "bassa", da far reagire con la cultura che chiamiamo "alta". Sono solo etichette, tanto per capirci. Di lì nacque il primo lavoro, O’ Zappatore, nel 1970. Quando a Roma cominciava l’inflazione dell’avanguardia, io cominciavo nel Sud un discorso completamente diverso. Era una reazione quasi chimica, da laboratorio: c’erano Schönberg e la tradizione musicale napoletana, Shakespeare e la sceneggiata, che è un fatto culturale molto violento, proprio a livello teatrale, di fraseggio. La sceneggiata era nata semplicemente come fatto pratico, di diritti d’autore: si scrivevano dei testi prendendo spunto da una canzone in voga; la presenza della canzone poneva dei problemi tecnici di rapporto col pubblico, faceva leva su una certa violenza, sulla rabbia che è nel pubblico napoletano di una certa condizione. È una rabbia che potrebbe essere utilizzata a maggior causa: è questa la ragione per cui io facevo reagire la sceneggiata con la cultura "alta". Mai a livello populistico o demagogico, o didattico, o politico, nel senso bieco del termine, cioè di basso profilo politico.

A Roma avevamo anche un problema di spazi: in un appartamento non potevo suonare la batteria o esercitare la voce. La voce al microfono, perché già dal 1965 io e Perla ci siamo posti il problema del microfono come strumento musicale, e non come amplificazione. A Marigliano eravamo riusciti a avere una casa di campagna, di fronte alla quale, per le prove, c’era la stalla. Lì si poteva provare, sperimentare. Diventò una specie di punto di riferimento, non solo per l’interno del Napoletano. Un punto di aggregazione per il quale sono passate migliaia di persone con cui ho preso rapporti: pittori, gente di teatro, di cinema, giovani. Avevano un punto di riferimento, dal quale sono sfociate poi alcune attività. Io uscivo per le strade a fare teatro: tutte le domeniche, perché gli altri giorni era inutile. Non era una scelta di etichetta, fare "teatro in strada": ero costretto a agire in quel modo per poterli poi portare in un locale.

A Marigliano hai anche scelto di usare dei non-attori, cioè persone prese dalla strada, e di fatto degli emarginati.

Socialmente emarginati. Gli attori ufficiali, giovani, avevano una certa mentalità. L’avevo già sperimentato, avevo alle spalle circa dieci anni d’esperienza teatrale abbastanza ricca: teatro ufficiale, commedia musicale, teatro d’avanguardia, partendo da testi come Finale di partita, Aspettando Godot. Volevo ripartire da una cultura teatrale, e le persone che cercavo dovevano essere emarginati. Se fossero già stati inseriti in un mercato culturale, avrebbero avuto bisogno di una apertura mentale impossibile da trovare. L’unica zona vergine era proprio quella, gente non ancora immessa nel mercato culturale, ma con una cultura teatrale: allora li chiamavo "attori geopolitici". Era un fatto culturale, geografico, politico che li portava a porsi in un modo molto particolare nei confronti della sonorità della voce, della gestica. Il mio lavoro consisteva solo nell’aggregare, nell’organizzare queste sonorità, questa gestica. Non si trattava certo di pigliare il povero disgraziato e recuperarlo.

Né cadere nell’equivoco, portando in scena un emarginato, di fare teatro proprio con la sua emarginazione, quasi in senso neorealistico.

Era esattamente il contrario. Il neorealismo funziona nel cinema. Un cinema di regia può usare un palazzo, una finestra così come un essere umano. Lì invece si trattava proprio di agire sul piano dell’attore, facendolo nascere da condizioni completamente diverse. Il primo spettacolo si chiamava O’ Zappatore. L’esperienza di Marigliano proseguì con una contaminazione, che entrò anche nel titolo. Allora ero molto interessato – come sempre – a Shakespeare, in particolare al terzo atto di King Lear. Nel titolo anagrammai – non a sillabe, ma a parole – King Lear e Lacreme Napuitane, che è il titolo di una sceneggiata: King Lacreme Lear Napulitane. Fu la fine delle contaminazioni, di questa reazione quasi chimica tra me e loro. Fu un processo dì selezione naturale: si formò un nucleo base, un abbozzo di compagnia con cui lavorare. Il problema diventò come far sorgere gli spettacoli da questa compagnia. Sono un autore, come Molière o Shakespeare, che scrivono a seconda degli attori che hanno a disposizione. Facevo nascere gli spettacoli proprio dalla personalità di questi individui, che non erano attori professionisti, ma che sul piano culturale si ponevano ..come attori. Così nacque Sudd, un perno preciso, anche a livello internazionale: fu uno spettacolo a resse a Parigi, senza cachet, per 45 giorni, a incassi. In Sudd la produzione estetica avveniva in modo diverso: Sebastiano Devastato, che avevo incontrato a Marigliano e che prese parte a Sudd, scriveva addirittura delle cose, che poi io cercavo di organizzare facendogli prendere coscienza di ciò che aveva scritto, e del modo in cui dirlo, aggregando i suoi modi, i suoi stilemi. Non si trattava più di un rapporto di contaminazione: si era formata una compagnia con una sua identità, i cui partecipanti cominciavano a prendere coscienza di quello che è il teatro: ed anche del con il pubblico, con le istituzioni. Io e Perla eravamo i leaders. In questi anni anche la seconda esperienza con l’istituzione teatrale. Caso strano fu ancora Enriquez a fare da tramite, come nel caso del Teatro Studio di Genova. Doveva diventare direttore del Teatro di Roma, ci incontrammo a Torino, vide O’ Zappatore e ci invitò a far parte delle tre compagnie che avrebbero affiancato il Teatro di Roma: gli altri erano Mario Ricci e Giancarlo Nanni. Così si concluse il periodo di Marigliano.

In quel periodo hai anche iniziato a utilizzare il jazz nei tuoi spettacoli.

La musica nel teatro mio e di Perla è sempre stata molto importante. In Sudd avevamo improvvisato su magnetofono una musica che poi è diventata la base dello spettacolo. In Macbeth la recitazione era basata su una scrittura dei versi, con un grafico sillaba per sillaba: era una vera partitura musicale. Con O’ Zappatore abbiamo iniziato a avere strumentisti in scena, e di lì siamo arrivati a esperienze musicali più complesse. A Roma eravamo in due, io e Perla, e cominciava a prendere forma il concetto jazzistico di assolo, della solitudine, della personalità isolata, dello stare in scena da soli.

Si è ripetuto in parte quello che è successo nel jazz in questi ultimi anni, penso per esempio a Braxton che oramai si esibisce spesso in assolo.

Sì, con Perla feci uno spettacolo che si chiamava addirittura Assoli. Con Annabel Lee – il titolo è tratto da una poesia di Edgar Allan Poe – arrivammo a un sestetto: di lì è cominciato un rapporto diretto con i musicisti, gli strumentisti. Ho sempre avuto un fraseggio che io chiamo jazz, un fraseggio molto personale. Anche quando usavo il microfono, era come se suonassi uno strumento.

Si trattava quindi di riprendere il jazz non soltanto nella struttura dello spettacolo – i musicisti che suonano tutti assieme e poi danno via via spazio agli assoli dei singoli strumentisti – ma anche all’interno della singola frase...

Certo. Io lo chiamo jazz per comodità di linguaggio, in effetti si tratta di un fraseggio, di una ricerca di timbri, si tratta di porsi di fronte alla battuta personalizzandola. Per questo è molto utile il dialetto, la ricerca di un fraseggio originale tramite quello originario. Il dialetto, in termini teatrali, diventa sintesi, astrazione. Quindi dialetto usato non in senso veristico, ma in quelle che chiamo intonazioni concrete – da non confondere con la musica concreta – cioè pezzi, frammenti, da inserire nella composizione, alla maniera pop. Quindi una aggregazione abbastanza complessa di un fraseggio completamente inventato con un altro fraseggio, che è la traduzione del fraseggio originario nel quale vengono inserite sillabe e parole. È la sintassi sonora che dovrebbe far parte del bagaglio di ogni attore, di quello che chiamo attore jazz, o attore lirico.

Parallelamente a questa contaminazione con il jazz, c’è un progressivo avvicinarsi – con l’assolo – a un teatro sempre più improvvisato.

Questo avvicinamento era cominciato da tempo. Mi ero sempre lasciato spazi molto liberi per l’improvvisazione. Dicevo di essere la spalla perfetta di Perla: con lei provocavo calcolatamente delle situazioni teatrali. Facevo proprio da spalla, Perla era il perno degli spettacoli. In un secondo momento mi sono posto come jolly della situazione: improvvisavo per tutto lo spettacolo, sollecitando gli altri componenti. Poi ho iniziato a lasciare tre, cinque minuti di spazio totalmente libero, in cui poteva avvenire qualsiasi cosa. In Leo De Berardinis The King lasciavo addirittura cinque minuti a disposizione di un corpo estraneo: chiunque, uno spettatore, un mio amico – una volta è venuto Pippo Di Marca, un’altra Mauro – poteva intervenire, dall’esterno, nello spettacolo. Non era improvvisazione totale, ma ci si avvicinava.

Un’altra costante dei tuoi lavori è quella di essere spettacoli "impossibili", che non possono esistere nella loro totalità. C’è una costante coscienza della morte del teatro, dell’impossibilità di fare teatro.

Più che dell’impossibilità di fare teatro si tratta di questo: voler distruggere il teatro, nella continua ricerca di una verginità, spettacolo per spettacolo. Gli spettacoli che abbiamo fatto io e Perla – negli ultimi tempi soltanto io – sono sempre al limite della tela bianca: quando finisce lo spettacolo, ogni volta mi chiedo: "Che faccio nel prossimo?". Ogni volta è un azzeramento totale. Ogni volta bisogna ricominciare daccapo. In ogni spettacolo, nego il teatro facendolo. In questo senso si tratta di "teatro-saggio", ‘di teatro usato come strumento di conoscenza. Non di informazione, ma di formazione. Per me l’avanguardia – anche se questa è un’etichetta in cui non credo – non deve essere noiosa, deve essere teatro, sempre.

Non si tratta dunque tanto di una negazione del teatro in sé, quanto di un rifiuto dei clichés, dei luoghi comuni che il teatro si porta dietro.

Sì, da una parte c’è questo. Poi c’è la dannazione dell’attore cosciente: nel momento in cui dice una battuta, quella battuta è fissata, morta. E lui lo sa. Io credo che nell’attore, nel vero attore, nell’attore-autore sia sempre presente il concetto di autodistruzione. Solo autodistruggendosi ha un senso andare avanti. Credo che il teatro sia proprio questo non lasciar tracce, il fatto che il lavoro non sia mai definitivo, questa ricerca continua. Il libro, come il film, una volta che l’hai fatto, è fatto. Il teatro invece si pone in termini propri. Se lo consideriamo arte – e così deve essere considerato – ha di specifico il concetto della morte: nel momento in cui hai detto una cosa, uccidi quell’intonazione, quello che hai dato di te. E sei costretto a rimettere in discussione tutta la tua … mentalità, secondo dopo secondo.

L’anno scorso, a settembre, hai spostato questo autoannientamento del teatro da un piano personale a un piano collettivo, con il "Censimento" dei gruppi dell’avanguardia.

Prima del "Censimento", sono arrivato a quella che chiamo, usando un termine jazzistico, "improvvisazione totale". Ero arrivato alla serata irripetibile, al momento, all’attimo irripetibile. Uno spettacolo poteva durare quattro ore, o cinque minuti. Lo facevo per una sola serata, magari due. Portavo al paradosso la posizione mia e di Perla, sviluppando le premesse contenute in Annabel Lee. Io e Perla eravamo un duo abbastanza affiatato e cosciente l’uno dell’altro. Si partiva dal concetto che il vero attore è quello che sta immobile, in silenzio, e che si muove o dice qualcosa soltanto quando è essenziale. Ho tirato la corda fino all’estremo, alle ultime conseguenze.

Una sera Perla non disse neanche una parola. Lo spettacolo lo feci io, da solo. Quando Perla a un certo punto cominciò a avere di nuovo nausea del teatro, si fermò. Io continuai da solo, arrivai quasi alla tela bianca. All’urlo, più che alla tela bianca. Cioè alla disarticolazione della voce, del corpo, di tutto. Nacque così l’esigenza di una verifica, del "Censimento": fare il punto di una situazione che era diventata insostenibile in tutti i suoi aspetti, pratici e estetici. Questo "Censimento", cui diedi il nome di Strage dei colpevoli (e per colpevoli intendevo la maggior parte dei gruppi partecipanti, la cui quantità – nel solo Lazio ce n’erano già 200! – aveva fatalmente abbassato la qualità della ricerca), non potevo che farlo a Roma, per il semplice fatto che c’era l’adesione di Renato Nicolini, Assessore alla Cultura. A Ulisse Benedetti va il merito di aver pensato a utilizzare Villa Borghese, con molti spazi diversi per gli spettacoli. A me venne l’idea di utilizzare questi spazi per fare il punto della situazione. Il "Censimento" non voleva essere una rassegna, volevo togliere di mezzo tutte le etichette – "teatro-immagine", "teatro-danza", eccetera – e tutte le speculazioni che ne conseguono, l’inflazione che determinano, la necessità di inventarsi talenti che non esistono e di rovinarli nel giro di un anno, o di farli stare a galla per decenni senza vere esigenze culturali. Volevo soltanto rappresentare quello che c’è, senza discriminazioni, offrire uno spaccato della situazione. Naturalmente avrei voluto farlo su un piano nazionale, coinvolgendo anche il teatro ufficiale: non è stato possibile, per motivi organizzativi e economici. Del resto, mi interessava di più il cosiddetto teatro alternativo. Alcuni gruppi hanno avuto l’occasione di mostrare per la prima volta il proprio lavoro, sono stati conosciuti. Altri sono stati "riconosciuti", nel senso che si è capito che non avevano nulla da dire.

Volevo anche che la critica affrontasse il problema del teatro in una maniera diversa: non più il giudizio su un singolo spettacolo, ma sulle serate, e quindi su un gruppo di spettacoli. Avrebbe potuto essere l’inizio di una critica comparata, sarebbe stato interessante. Ho parlato con diversi critici romani, nessuno di loro ha accolto l’invito. Si sono sentiti scavalcati da un teatrante, oppure non erano preparati. Avrebbe potuto essere una via d’uscita anche per la critica, che come il teatro è in cattive acque.

Con il censimento, prima di ricominciare, ho voluto fare il punto della situazione: vedere dove ero io, dove erano gli altri, cosa si poteva fare. In questo senso si trattava di un ampliamento collettivo della mia messa in discussione puntuale in ogni mio spettacolo.

Con il "Censimento" vengono a galla tutti gli equivoci presenti nel concetto di avanguardia.

Avevo bisogno di una verifica fisica. Forse ero stato disattento. E volevo porre la questione in termini pubblici. Non per mettermi la Coscienza a posto, ma per avere pubblicamente, dato che il teatro è un fatto pubblico, dei riferimenti. Il "Censimento" ha confermato quel che pensavo, ha coinciso con quello che sospettavo. Il mio discorso parte da molto lontano, dal dopoguerra, dall’affermazione del concetto di regia.

Da una parte la regia ha fatto piazza pulita di certi rimasugli ottocenteschi e dell’ignoranza del primo Novecento italiano. Ma è stata anche un fatto molto provinciale, con molti equivoci. Ha frainteso Brecht. Ha rifiutato teatralmente Artaud accettandolo esclusivamente da un punto di visto clinico-culturale. Non ha minimamente tenuto conto del futurismo – e per futurismo intendo quello russo, in particolare Majakovskij. Mentre proprio da Brecht, Artaud e Majakovskij avrebbe dovuto cominciare il teatro del dopoguerra. Invece la regia non ha fatto altro che distruggere l’attore. Senza offrire in cambio un’altra funzione. Il teatro di regia è stato poi portato avanti da una certa linea dell’avanguardia, che ha usato il testo semplicemente come pretesto. Dall’altra parte c’era la regia fatta da letterati che del fatto teatrale non sapevano niente e quindi non potevano porsi come maestri nei confronti degli attori: e le intenzioni letterarie del regista si ponevano come filtro tra l’autore e l’attore. A questo punto si è avuto lo scollamento tra tecnica e cultura, che ha portato a un totale degrado dell’attore, che oggi non ha né l’una né l’altra. Perché la tecnica teatrale non si insegna. La si impara stando in scena con un leader: l’attore deve spezzettare il discorso tecnico di questo leader per poi riaggregarlo, personalizzandolo. Qui torna in gioco il jazz come improvvisazione, intesa non come pezzo di vita in senso neorealistico, preso e ripreso come un oggetto.

Oggi, con l’equivoco dell’avanguardia, abbiamo due tipi di attore: quello che io chiamo "da doppiaggio", che parla una lingua che non è né quella letteraria, né quella teatrale italiana, la lingua che si poteva trovare per esempio in Benassi. E l’attore cosiddetto d’avanguardia, che non sa né portare la voce, né muovere un dito. A questo si è aggiunta la preponderanza della scenografia, il "teatro-immagine", quello degli scenografi e dei pittori: se c’era una diapositiva, era teatro d’avanguardia; se un attore faceva un urlo, era teatro d’avanguardia. E poi l’equivoco del dialetto: io lo usavo come sintesi, come fraseggio originario da personalizzare. Il mio concetto di teatro free, di uso di tutte le possibilità tecniche, è stato frainteso: bastava andare in scena ubriachi per credere di fare serate uniche e irripetibili.

Insomma, il teatro è noioso, sia quello ufficiale che quello d’avanguardia. E ingiustificabile culturalmente e economicamente, per responsabilità dei registi, degli scenografi. A questo punto al teatro non resta che l’attore. In questo modo è possibile superare tutti i problemi: per il momento si elimina tutto, interpretazione, improvvisazione, testo. Si accetta l’equazione "teatro = attore".

Voglio ripartire dall’attore annullato dalla regia, dal dopo Benassi. Cercherò di farmi capire con un esempio. Ultimamente sono andato a sentire Giulini dirigere la Seconda e la Quarta Sinfonia di Brahms. Gli orchestrali sono quelli che chiamo esecutori. Sono convinto che quando eseguono la Settima di Beethoven gli orchestrali non capiscano quello che stanno facendo. Però la eseguono perfettamente, se diretti da un grande interprete. Ecco esemplificata la differenza tra l’attore-interprete, il grande attore della tradizione italiana, e l’attore-esecutore. L’esecutore, e comprendiamo la facilità con la quale i registi hanno accolto il concetto di attore-marionetta, nasce da questo equivoco. Il regista si pone come interprete letterario:e in scena restano soltanto gli esecutori. Nel caso dell’interprete e dell’esecutore musicali, in una sinfonia, la proporzione è esatta: Giulini è un interprete, non un critico che scrive un saggio su Beethoven; l’orchestrale ha una tecnica perfetta, e funziona in sintonia con il direttore. In teatro invece nasce l’equivoco di un critico letterario con una marionetta in mano, e il rapporto viene completamente stravolto. Per proseguire il parallelo musicale, nel caso di un concerto per violino e orchestra l’interprete è il concertista, il violinista. In questo senso, secondo me il più grande attore-interprete del Novecento è Olivier, che si pone nei confronti dei problemi di fraseggio, di voce, di timbrica, con una tale grandezza d’interpretazione che non si sente più la presunzione di un attore che ti vuol spiegare Shakespeare. Viene annullata ogni ricerca da parte dell’attore di "rappresentazione" del personaggio: si va a sentire Olivier-Shakespeare. Il grande attore non rappresenta mai un personaggio: è il personaggio che diventa Olivier, e non viceversa.

L’altro polo è quello che chiami "attore lirico".

Attore lirico è per esempio Charlie Parker. Il jazz mi interessa anche come mentalità nei confronti del fatto estetico: è molto personalizzato, la tecnica d’improvvisazione porta un’aggregazione diversa sera per sera, a seconda dello stato fisiologico, e quindi storico, dell’artista. La timbrica, il fraseggio sono un’aggregazione diversa sera per sera, o momento per momento, di cognizioni tecniche ben precise e personalizzate. La presenza in scena dell’attore lirico è una sintesi teatrale, un blocco unico tra autore, interprete, scenografo, luci: è un tutt’uno che però esprime se stesso. L’attore lirico non "rappresenta", ma è teatro. Non fa teatro, è teatro. Non produce merce, non è merce. È.

Ci si riallaccia dunque al/a scelta di usare dei non-attori.

Si, con una differenza: che gli attori di Marigliano non avevano coscienza del fatto di essere attori. Avevo cominciato a far loro prendere questa coscienza, poi la cosa per motivi pratici si è slabbrata. Oggi ho tentato di riorganizzare quell’esperienza con l’Associazione Trianon, di cui faccio parte con Antonio Obino, Gianfranco Varetto e Bruno Mazzali, Di qui parte anche il problema della scuola, che ho affrontato con "Scuola Viva". Secondo me il teatro non si può insegnare, nel senso tradizionale del termine, non può esistere metodo. Una traccia per capire quello che sto cercando di fare è costituita dal concetto jazzistico di leader, di suonare insieme a un leader. E’ molto importante la mentalità, la cultura. In effetti si tratta di una scelta di politica culturale. Tolto questo, la scuola non significa più niente. La prima cosa che ho fatto è stato dunque costruire uno schema mentale: ho ricercato e ritrovato quei punti rossi culturali – Majakovskij, Brecht e Artaud – da criticare, rimettere in discussione, in gioco. Negli anni Settanta quei pochi talenti di cui parlavo prima si erano posti questo problema, che è stato completamente vanificato negli anni Ottanta. Ho voluto riprendere i fili del discorso. E dunque tutti possono far parte di "Scuola Viva" – non esiste prova d’ammissione, non ci sono provini – purché accettino di mettersi in questione di fronte al "come fare teatro", per parafrasare il "come fare versi" di Majakovskij. Siamo andati in scena per un mese, seguendo il concetto jazz di suonare con un leader, fare delle prove, costruire insieme lo spettacolo. Così è nato il cervello esploso di Leo de Berardinis. A questo punto gli allievi hanno preso coscienza di certe cose, soprattutto dei loro limiti.

Poi entra in gioco l’insegnamento tecnico vero e proprio.

A "Scuola Viva" vengono insegnate le basi tecniche a livello fisico: quindi niente motivazioni interiori, niente immedesimazione. Esiste soltanto il sistema nervoso che trasmette alla voce, al corpo. Si tratta di trovare il sistema più scientifico per ottenere la padronanza del proprio corpo. Di tutto il proprio corpo. Uno dei concetti tecnici basilari è di non impostare la voce, come si usa nella lirica, e come, purtroppo, si usa in teatro, con il risultato di avere una tessitura abbastanza limitata. Bisogna abituarsi a spostare la voce, non soltanto in tutte le risonanze possibili, ma abituarsi anche a cambiare timbro. La voce non deve restare un unico strumento, deve essere in grado di rendere tutti gli strumenti, tutte le risonanze possibili. Tocca al singolo attore giostrarle poi come vuole. Non deve essere un virtuosismo sterile, che non significa niente, come è accaduto anche nel jazz con l’estensione dei suoni del sax. Il mio modello è Paganini, in cui l’esigenza musicale coincideva esattamente con l’amplificazione delle possibilità dello strumento, rimetteva in discussione tutto il violinismo. In quanto musica, non in quanto tecnicismo. E qui sta la differenza tra tecnica e tecnicismo.

A questo punto entra in gioco la tecnica: imparare a suonare lo strumento, cioè il fiato. Per questo ho fatto venire uno specialista in ortofonia, per il problema della voce, non un insegnante accademico. E’ intervenuta anche Daniela Boench per i problemi di rapporto del corpo con il peso e con l’inerzia. Quindi il corpo allo stato puro: rapporti spaziali e di gravità, masse e articolazioni.

Con tutti questi strumenti gli allievi devono crearsi i loro punti di riferimento, personalizzare la loro tecnica. Prima però devono sapere quali sono i problemi che si pongono a un attore. Per esempio, se dico: "Devi mandare la voce", un attore non capisce perché la deve mandare. Solo quando va in scena e il giorno dopo vede che l’ha persa, si pone il problema in termini esatti, non accademici. È questo il lavoro che ho fatto con "Scuola Viva", un ‘impostazione molto simile a quella dello "stage allungato" di cui questo lavoro per The connection è un esempio.

Esiste però nell’impostazione di "Scuola Viva" il rischio di un certo democraticismo.

C’è un fatto: che attore si nasce, ma si diventa. Naturalmente con una buona scuola, chiunque può essere attore un po’ più umano di questi "doppiatori". Per quanto riguarda poi il grande attore, non vedo perché negli anni Ottanta e soltanto a Roma debbano nascere dei grandi attori, quando ne nasce forse uno ogni secolo. Da "Scuola Viva" perlomeno non escono degli illusi: i partecipanti si trovano di fronte scogli tali che sono loro stessi a abbandonare. La tecnica è massacrante, otto ore al giorno sono tante.

A questo punto sarebbe forse interessante chiedersi cosa li spinge a fare gli attori.

L’attore nasce quando muore il rituale. Questa è un’altra fonte di equivoci, il ritorno al "rito" – e in effetti è il discorso del Living. Il teatro nasce proprio come diversità. Credo che sia questa la motivazione che spinge a fare l’attore: quando non si riesce a essere protagonisti sociali. Ecco perché si sceglie di fare l’attore e non per esempio lo scrittore. Quello dell’attore è un intervenire pubblico, in senso sociale e fisico: dire la tua frase, fare la tua cosa. Credo che una delle ragioni, da un punto di vista sociopolitico, potrebbe essere questa.

Con "Scuola Viva" siamo arrivati, seguendo il filo cronologico, alla Connection.

La scorsa primavera sono stato contattato dalla Cooperativa Nuova Scena per parlare del loro progetto di realizzare The Connection, che conoscevo come avvenimento, già nel 1960, tramite un regista americano che era venuto a Roma con una borsa di studio e che avevo incontrato all’Università. In seguito ne ho ancora sentito parlare, vagamente, ma non avevo mai letto il testo. Con Nuova Scena si è parlato a lungo della faccenda della droga, dell’improvvisazione, del rapporto con il jazz, anche in riferimento alla loro programmazione InterAction al Teatro Testoni di Bologna che sarebbe stata caratterizzata dal rapporto jazz-teatro. C’era anche da parte mia l’interesse per un rapporto di committenza, che finora, perlomeno nei termini di "fare una regia", avevo sempre rifiutato. In questo caso non si trattava soltanto della proposta di un testo che, in ogni caso, mi interessava, ma anche di una committenza che già si poneva nell’ottica dello stage. E’ indicativo il fatto che abbia scritto "Appunti per Bologna", e non "Appunti per The connection". Il testo è soltanto un’occasione, avrebbe potuto essere anche il Riccardo III di Shakespeare.

Forse possiamo riprendere in esame i motivi del tuo interesse per questo testo. Prima di tutto il tema della droga, al quale il successo della Connection e dello spettacolo del Living è legato per due motivi: perché si affronta un tema scabroso, e poi perché il pubblico, di fronte a attori che facevano la parte dì drogati, finiva per chiedersi se fossero veramente drogati, e se recitassero. Molta gente durante lo spettacolo, al momento dell’overdose di Ernie, sveniva perché credeva che fosse tutto vero: e questa ambiguità ha certo contribuito al successo della Connection.

Il problema della droga interessa me come interessa tutti. A me poi interessa particolarmente, sono un ex alcolizzato. E anche se l’alcol è diverso dalla droga, tossicomani e alcolizzati hanno dei punti in comune: hanno tutti e due crisi di astinenza, non conoscono le motivazioni che li spingono a bere o farsi.

Però bisogna tener conto che nel caso della Connection si era in America, e nel 1959: c’era il mito di Parker, morto da appena quattro anni. E Parker faceva parte di un movimento, il be-bop, che in quel momento significava tante cose, come Dada in Europa dopo la prima guerra mondiale. Lo scopo del Living era quello di coinvolgere il pubblico, fargli prendere coscienza di alcuni fatti, di alcuni tabù, di dare scandalo e porre questo problema all’attenzione sociale. In effetti si trattava proprio di un discorso sociale. La faccenda dello svenimento di cui parlavi nasceva proprio da questa ambiguità: la gente si chiedeva: "Si è fatto veramente oppure no?" Lo stesso equivoco si verificava in alcune repliche, quando il produttore dice: "Questo è Jaybird, l’autore della commedia". Il pubblico americano, molto più candido, per non dire ignorante, di quello europeo, applaudiva: gli spettatori avevano letto le critiche che dicevano che il lavoro era buono, e applaudivano un attore credendo che fosse il vero autore. Erano ritardi culturali dell’America del 1959. In Europa la questione del "teatro nel teatro" dopo Pirandello non si è più posta.

Julian Beck a un certo punto si è chiesto: "Stiamo truffando il pubblico?", ponendosi il problema in termini etici, e non estetici. Senza capire che proprio questa ambiguità poteva essere l’unica cosa valida, se avesse spostato il discorso da un piano sociale, immediato, a un piano estetico. A questo punto ci si imbatte nel problema affrontato da Pirandello in termini non teatrali, in termini che potremmo definire filosofici, logici, di pensiero, di vita, e non di tecnica specificamente teatrale. E si può porre a livello estetico il problema del rapporto tra schema e improvvisazione. Il problema – che nella Connection è "Si fanno o non si fanno?" – a me interessava in questi termini: "Stanno improvvisando o no?" E’ questo il problema che voglio risolvere.

Dopo essere arrivato all’improvvisazione totale, mi sono chiesto se dovevo continuare a far teatro. Perché il teatro mi interessa, per me teatro e vita sono la stessa cosa. Allora mi sono posto il problema dell’improvvisazione totale: deve esistere uno schema? Quale deve essere il rapporto tra schema e improvvisazione? Deve esistere uno schema rigido con brani prefissati e spazi completamente liberi, o questi spazi devono mantenere un rapporto dialettico con quello che succede prima o dopo? E poi, che rapporto posso avere con i jazzisti? Che concetto possono avere i jazzisti dell’improvvisazione? Esiste il jazz di improvvisazione totale, e esiste il jazz che si pone il problema del rapporto tra composizione e improvvisazione. Con The Connection affronto dunque questi problemi, che coincidono con i miei problemi reali, di attore. Ho avuto un’occasione per sperimentare queste cose.

Quando hai incontrato gli attori per la prima volta, hai detto che The Connection non ha una vera e proprio struttura drammaturgica.

Sono partito proprio da questo punto. Nello spettacolo non ci sono personaggi, ci sono meno attori che personaggi. Io stesso faccio diversi personaggi – li chiamo cosi per comodità di linguaggio. The Connection avrei potuto farla anche da solo, come "attore lirico".

Il lavoro l’ho impostato così: ho spezzato il testo in blocchi, ogni blocco pone dei temi, dei problemi che poi gli attori svolgono individualmente. lo lavoro sulle loro risposte, cerco di renderli coscienti di ciò che stanno facendo, e quindi di poeticizzare le loro motivazioni, farle pervenire alla Coscienza teatrale. Poi aggrego le loro "note" pezzo per pezzo in una ritmica, prima di arrivare al montaggio definitivo. Sto facendo dell’improvvisazione una tecnica di composizione. Ognuno avrà uno spazio teatrale, a seconda delle proprie possibilità.

Io sono un organizzatore di improvvisazioni. Lavoro sulle risposte degli attori, un po’ come facevo a Marigliano, ma su basi più organizzate, con maggior coscienza sia da parte mia che da parte loro. Cerco di razionalizzare le loro personalità. Il rapporto schema-improvvisazione si pone quindi durante le prove. Le improvvisazioni sono il tema, io faccio prender coscienza agli attori di certi fatti, anche tecnici: si crea così uno schema da cui poi non bisogna più uscire, da approfondire replica dopo replica. In questa fase il lavoro deve fondersi con quello che fanno i jazzisti, con la musica.

Proprio il jazz è stato un ulteriore motivo del successo dello spettacolo del Living.

Pare che l’unica cosa buona dello spettacolo fosse il jazz, almeno a giudicare da certe recensioni. Però mi sembra che anche in questo caso ci fosse una certa immaturità culturale:

Gelber scrive all’inizio, in una didascalia: "Il jazz eseguito è nella tradizione di Charlie Parker". Se dico una cosa del genere a un vero jazzista, mi prende per pazzo. Per fare un esempio, ci fu in America il ritorno commerciale di una musica che si faceva dieci anni prima. Hanno chiesto a Lester Young: "Suoneresti come suonavi dieci anni fa?" "È impossibile", ha risposto, "io suono ogni volta come sono". Quella di Gelber è forse una didascalia di comodo, però c’è già una contraddizione tra jazz e "suonare nella tradizione di...". Questo mi ha fatto riflettere, e ho pensato che Gelber con il teatro, con la costruzione drammaturgica, avesse poco a che vedere. Ne ho avuto la conferma leggendo la sua introduzione: in effetti The Connection è stato il suo primo lavoro teatrale, e partiva da appunti di racconti. In TheConnection i vari pezzi sono intercambiabili, i personaggi non esistono. Per esempio, capiamo che Solly è un intellettuale solo perché un altro personaggio lo definisce così. E il fatto che i personaggi siano irrisolti a me fa comodo, perché sono contro l’integrità dei personaggi.

Siamo al polo opposto di Stanislavskij.

Per me il metodo Stanislavskij è sbagliato proprio perché èun metodo. Quando parlo di Brecht, Artaud, Majakovskij dico: "Nei loro confronti possiamo prendere una posizione critica. Però dobbiamo tenerne conto". Bisogna farlo anche con Stanìslavskij. È stato resuscitato male in America: in Europa dopo Brecht non se ne parla più. Però credo che sia stato molto frainteso. Il suo problema era quello della freschezza: potremmo dire che era proprio quello dell’improvvisazione, di improvvisare ogni sera. Stanislavskij se lo poneva in termini di "freschezza". Era una sorta di scienziato, voleva ritrovare scientificamente il modo di riprodurre la creatività ogni sera. Non si tratta di essere, ad esempio, paranoici perché si deve rappresentare un personaggio paranoico: il problema è trovare ogni sera delle motivazioni che facciano scattare nel sistema nervoso delle situazioni creative. Alcuni l’hanno frainteso in un altro senso, un po’ come è accaduto nel jazz: ci sono musicisti che per creare una situazione psicologica usano la droga, perché anche Charlie Parker lo faceva. Ma lo stesso Parker diceva: "Quando io sono veramente fatto non riesco neppure a pensare alla diteggiatura, figuriamoci le idee".

Per quanto riguarda il problema della droga, a me interessa soprattutto la crisi d’astinenza: non deve essere resa in senso veristico, ricadremmo nel personaggio, in tante cose che non mi interessano. La crisi d’astinenza è una non-azione, un’attesa che non è Aspettando Godot: è un’attesa dell’eroina. Quest’attesa deve trasmettersi al pubblico come angoscia dolorosa, una lacerazione molto dolorosa. Ma nello spettacolo ci sarà anche molta comicità, molta sdrammatizzazione. Ci sarà proprio un non-fare teatro, nell’attesa. Non si tratta di non-azione, ma di immobilità.

A me interessa far vedere che siamo tutti in crisi d’astinenza. Il conflitto come sempre per me non avviene sul palcoscenico. Il conflitto vero avviene in tutto lo spazio scenico, tra attore e pubblico.

L’opposto di quello che dice il primo protagonista della pièce, Warren Finnerty, che ha costruito la sua interpretazione sul pieno di moltissimi gesti e movimenti.

È assolutamente il contrario di quello che stiamo facendo noi. Per me l’attore è colui che sta immobile nello spazio. Sta zitto o parla soltanto se si tratta di una sintesi poetica. Altrimenti non bisogna muoversi. Bisogna svuotarsi. Preferisco togliere. Io tolgo tutte le parti inutili. Quando si è tolto tutto, resta l’essenziale. E quell’essenziale deve essere approfondito. Questo togliere non è un concetto registico. Quando gli attori mi portano la soluzione ai problemi che ho posto loro il giorno prima, prendo le cose essenziali, le approfondisco e le faccio diventare gesto poetico.

E la scenografia dello spettacolo?

Sono partito, come per gli altri miei spettacoli, dal palcoscenico nudo. A esso ho aggiunto un diaframma, una specie di muro bianco. Ricostruisco ironicamente la quarta parete del teatro veristico. Quando questo diaframma viene squarciato, il pubblico viene messo nella posizione di voyeur. Da questo muro esce a tratti un lampo di luce, il pubblico a volte ne viene attratto, a volte respinto: in ogni caso sentirà moltissimo questo diaframma. Utilizzerò sicuramente anche il secondo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven. Come distanza culturale, ma anche per creare una comunione tra palcoscenico e platea con una musica avvolgente che, a un certo punto, si interromperà.

La ritmica dello spettacolo si pone dunque in termini di apertura e chiusura, comunicazione e non comunicazione. In termini di diversità totale: "Noi siamo qui, voi siete là, sia ben chiaro". Questo diaframma è l’oggetto scenico su cui sto lavorando. Anche le luci saranno aggreganti o disgreganti, secondo questa ritmica.

Nel testo di Gelber resta irrisolto il rapporto tra testo e musica: l’autore lascia al regista la scelta dei punti in cui inserire i brani musicali, e testo e musica restano indipendenti.

Gelber non si è mai posto il problema in termini estetici, di drammaturgia, di teatro. Gli interessavano due fenomeni. Diceva: "Sia il jazz che il drogato sono emarginati, il jazz diventa musica commerciale, il drogato un derelitto. Poi c’è una strana connessione tra jazz e droga". Però li affronta come problemi sociali. Anche il Living ha letto il testo a questo livello. Ecco perché c’è un rapporto gratuito tra musica e testo, drammaturgicamente scollegati.

Che tipo di musica utilizzerai nello spettacolo?

I musicisti sono di formazione jazzistica, alcuni sì dedicano anche alla musica classica. C’è un fatto positivo: tra loro si conoscono poco, quindi la musica nascerà con lo spettacolo. Nel testo di Gelber soltanto una volta c’è un vero rapporto strumentista-attore: nella scena dell’Esercito della Salvezza due strumentisti ironizzano con il loro strumento a ogni battuta di Cowboy e di Sorella Salvezza. È un rapporto ironico. lo vorrei invece che ci fosse un’osmosi totale. Nell’opera lirica non c’è distinzione tra orchestra e cantanti: viene tutto unificato dal concetto di teatro musicale. Il mio spettacolo deve essere una sintesi di questo tipo. Non nel senso del melodramma, dell’opera lirica, ma nei termini della mentalità unificante del jazzman, che si pone nei confronti del pubblico come grande personalità, come attore lirico. Ognuno ovviamente a seconda delle proprie possibilità. Sto cercando di unificare il tutto, di fare un teatro dove ci sia anche il jazz. Ma per me il jazz è già teatro: per me tocca agli attori prendere cultura dal jazz. Il vero jazzista non ha bisogno di una cultura teatrale. Per me l’attore ideale è il grande jazzista.

Bologna, marzo 1983

copyright Oliviero Ponte di Pino, 1983, 2000
 
 
 
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