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parte prima

 

Raccontare il teatro
i. il racconto, una necessità

 

 

Lasciare una traccia di sé, stabilire un contatto tra passato e futuro, consegnare agli altri il proprio patrimonio di esperienze, per vincere la battaglia contro il silenzio e contro l’oblio è stata sempre un’esigenza connaturata alla natura umana. Questa lotta contro il nulla si combatte soprattutto attraverso la parola. Ancora prima della nascita della Storia come complesso organizzato di eventi umani, il mythos, il racconto, serve alla comunità degli uomini per trasmettere il sapere e per creare un’identità comune e condivisa. Linguisti, antropologi, semiologi, etnografi hanno cercato di indagare le motivazioni che hanno spinto l’uomo a raccontare e a raccontarsi[1]. In tutte le fasi della sua storia egli ha manifestato l’esigenza di lasciare una testimonianza, una traccia del proprio passaggio, una “storia”, un mythos, appunto[2]. Tutte le manifestazioni della vita umana vengono fatte oggetto di narrazione: divinità, battaglie, rituali, scoperte, viaggi, dolori, meraviglie... Il “racconto” - come pratica connaturata da sempre all’umano -  non è assimilabile ad alcuna forma letteraria, è un’esperienza sociale che preesiste a qualsiasi categoria culturale, e che si lega a doppio filo alla storia della civiltà e della cultura. È quindi difficilmente definibile:

 

che cos'è il racconto? Forse una galassia di segni in irreversibile, mostruosa espansione dal giorno lontanissimo, nei primordi dell'avventura umana, in cui qualcuno (un Narratore singolo o collettivo, non importa) cercò di fermare nelle parole o in altre forme un evento memorabile, degno di essere sottratto alla crudele entropia del transeunte. Da allora quell'indefinito e indefinibile mare di informazioni costituisce, probabilmente, la metafora più adeguata della civiltà, il luogo delle tradizioni, degli archetipi e dell'inconscio simbolico [3].

 

Un evento memorabile, dunque, fermato grazie alle parole, cristallizzato, sottratto alla legge naturale del divenire: questo è – ai primordi della civiltà – il nucleo originario del racconto. Un Narratore archetipico registra con il suo narrare un evento, un fatto, e così dà inizio ad una “tradizione”, cioè ad una serie ininterrotta di conoscenze, informazioni, ammonimenti, che come un flusso accresce di continuo la conoscenza umana. Quello che si potrebbe definire “il racconto originario”, una sorta di archetipo perduto, è l’elemento che ha dato impulso al sorgere della cultura, ne ha poste le basi irreversibili. Da questo punto invisibile e atemporale si dipana la messe inesauribile di narrazioni che collega le epoche precedenti alle posteriori, funge da tramite tra le generazioni che si susseguono, deposita ed eterna la memoria dei tempi trascorsi.

Con il passare del tempo le forme del racconto si modificano, si evolvono e si precisano. Le modalità stesse con cui avviene il passaggio di informazioni da un individuo ad un altro subiscono rivoluzionari cambiamenti, assumono aspetti differenti a seconda dei mezzi che vengono utilizzati, della specializzazione dei vari “generi” narrativi e delle cosiddette “pratiche di fruizione”. Non si intende qui tracciare una “storia del racconto” attraverso i secoli, ma piuttosto mettere in evidenza questa sempre presente volontà-esigenza di “raccontare”, viva nei tempi arcaici come ai nostri giorni. Si accenneranno quindi a grandi linee le tappe attraverso le quali si è evoluta la pratica narrativa[4], individuando le tre grandi fasi fondamentali del suo sviluppo: il periodo orale, l’avvento della scrittura e la rivoluzione tecnologica dell’ultimo secolo[5].

 

Nel periodo della comunicazione orale, la pratica narrativa è caratterizzata dalla trasmissione diretta: perché esista una narrazione è sempre necessario che vi sia qualcuno a raccontare e qualcuno ad ascoltare. Tra le sue caratteristiche fondamentali vi è l’assoluta reversibilità del processo, grazie alla quale chi racconta può divenire ascoltatore, e chi ascolta narratore a sua volta. La “circolarità narrativa” dunque è un altro dei caratteri peculiari di questo macroperiodo. Fondamentale infine è il ruolo della memoria come discriminante unica tra ciò che viene tramandato e ciò che al contrario è perduto per sempre.

 

Nella cultura orale tutto è nella memoria, e non si può dire di sapere se non ciò che effettivamente si ricorda; il resto è perduto per sempre. Così la massa delle nozioni a disposizione della comunità non può eccedere la capacità della memoria dei singoli, e per rimanere sempre più o meno entro le dimensioni possibili un ingresso di nuove nozioni dovrà comportare prima o poi la cancellazione di nozioni ormai non più utili[6].

 

L’avvento della scrittura[7] ha profondamente modificato l'esperienza del racconto: la nascita dei codices e poi dei veri e propri libri ha individualizzato sia la figura del narratore che quella del fruitore del racconto, ha mutato radicalmente il carattere della narrazione, sviluppando un sistema organizzato di segni e smorzando il potere quasi magico della memoria. La compresenza di narratore e fruitore non sono più indispensabili, il documento - nella sua materialità - si sostituisce alla voce narrante. La trasmissione delle informazioni è possibile anche in absentia della voce narrante. Questo mutamento della natura stessa del racconto modifica in modo sensibile anche le pratiche comunicative, oltre a consentire la conservazione di una maggior quantità di eventi.

 

Nella cultura scritta la memoria perde quasi tutto il suo valore; ogni nozione che non sia di uso immediato, quotidiano, si tramuta in un documento di una qualche forma. Non c’è limite all’accumulo dei documenti, anzi in una società letteraria questo accumulo è un bene prezioso giacché il sapere scritto è anche il sapere per eccellenza. Ma col crescere del sapere consegnato allo scritto diminuisce sempre più la possibilità di conoscere le cose anche di per sé, senza dover ricorrere ai documenti[8].

 

La letteratura, ai suoi esordi, riprende la materia dei cicli orali, li organizza, seleziona all’interno della loro entropia i materiali più rappresentativi per la comunità in cui è inscritta. Ad esempio, nell’epica omerica vengono scelti e sviluppati i mythoi fondativi della civiltà ellenica: la poesia epica di Omero seleziona all’interno dell’epos le zone narrative che più da vicino si riferiscono alle origini storiche e mitiche del popolo greco[9].

In ambito letterario si vengono precisando e gerarchizzando i diversi generi narrativi, che si inseriscono in due filoni indipendenti: l’“empirico”, orientato “verso la fattualità del reale”, e il mimetico”, interessato “alla fictio avventurosa”[10]. Entrambi i filoni rispondono all’esigenza dell’uomo – contemporaneamente ludens e illudens[11] – da una parte di raccontare e testimoniare la realtà, dall’altra di crearsi un mondo di finzione[12].

Dal magma indistinto della comunicazione orale, in cui elementi presi dalla realtà[13] si mescolano ad altri mitici e fantastici, nascono e si sviluppano all’interno della narrazione letteraria settori distinti e separati: da una parte il racconto della realtà, documentata e ricercata “scientificamente”, dall’altra l’invenzione fantasiosa, l’elemento “romanzato”. La narrativa “empirica”, da cui ha origine la storiografia, si vincola al “fatto avvenuto”, che registra e documenta; quella “fantastica” si libera del tutto delle esigenze di “verità”, mira al bello piuttosto che al vero, insegue obiettivi diversi da quello di dare testimonianza: il suo scopo è “divertire” il lettore, oppure “educarlo”. Noncurante del vero, la letteratura “fantastica” si appoggia all’invenzione di fantasia, tende a raggiungere un risultato estetico, come nel caso del romanzo in tutte le sue declinazioni, da quello classico al roman de geste medievale al romanzo moderno. Oppure si pone un fine pedagogico, fornendo attraverso il racconto degli spunti di riflessione, disponendo all’interno della narrazione esempi e precetti da seguire[14].

Questa divisione tra i generi narrativi è chiaramente affermata da Erodoto nell’introduzione alle Storie:

 

Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso perché le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate, né le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari rimangano senza gloria, e, inoltre, per mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro.[15]

 

Nel proemio è precisato un metodo di lavoro: ciò che si legge successivamente deriva dalle “ricerche di Erodoto di Alicarnasso”. Tutte le informazioni che lo storico fornisce sono frutto di un esame delle fonti, divengono un “documento storico”. E l’obiettivo che Erodoto si è prefisso è prima di tutto quello di “documentare” dei fatti, e solo successivamente – ed in conseguenza della documentazione – anche quello di glorificare “le gesta grandi e meravigliose”. Inoltre è dichiarata l’intenzione di “mostrare per quale motivo” si sia sviluppata una guerra tra due popoli. E’ una dichiarazione d’intenti che presume una serie di implicazioni: nelle Storie sarà privilegiata la ricerca dei dati e l’analisi delle cause. Con Erodoto prende forma letteraria la narrazione denominata “empirica”.[16]

Parallelamente alla distinzione e definizione dei generi, la letteratura dà luogo ad una specializzazione delle forme narrative. La poesia, il genere “primigenio” e onnicomprensivo dell’epica, si ritira nei suoi confini (poesia celebrativa, elogiativa, elegiaca, satirica, drammatica e lirica) per lasciare spazio alla prosa, che diviene la regina indiscussa della narrazione “empirica”.

 

Le modalità con cui preservare la memoria e lasciare testimonianza degli eventi cui si è assistito subiscono un radicale mutamento nel XX secolo, grazie all’avvento delle nuove tecnologie, come la fotografia, la cinematografia, la riproduzione prima analogica e poi digitale dei suoni e delle immagini.[17]

La scoperta della fotografia e successivamente del cinema ha prodotto nei pioneri di questo mezzo la speranza che fosse finalmente nato uno strumento in grado di riprodurre (e quindi conservare) oggettivamente la realtà. Teorici come André Bazin hanno sostenuto questa tesi con grande vigore. Parlando della fotografia Bazin afferma che si tratta di “una riproduzione meccanica da cui l’uomo è escluso”.[18] La presunta oggettività dell’immagine fotografica sembra aprire a un nuovo mondo narrativo. Eliminata la soggettività, i filtri del Narratore, i lapsus memoriae, le omissioni volontarie, l’evento potrà – secondo Bazin – essere documentato e conservato per sempre esattamente come è accaduto. Alla metà del 1900, all’epoca di questi scritti, la sensazione era quella di essere giunti a una nuova frontiera, ad una rivoluzione epocale nelle tecniche di narrazione e di trasmissione delle informazioni. Il cinema poi fu visto da questi teorici come il mezzo in grado di aggiungere all’oggettività dell’immagine fissa della fotografia anche l’oggettività temporale: le riprese cinematografiche avrebbero – secondo Bazin – dovuto restituire la realtà nel suo “essere” e nel suo “divenire”. Ma l’illusione di aver scoperto un mezzo “oggettivo” e meccanico per rappresentare la realtà non durò molto. Ben presto ci si accorse di quanto parziale, soggettiva e discriminante fosse sia la scelta della realtà da ritrarre e restituire in immagine sia soprattutto la scelta del punto di vista da cui operare la registrazione fotografica, e, nel cinema, l’inquadratura e il montaggio[19]. Nell’ultimo ventennio, con l’invenzione delle immagini sintetiche e virtuali, ogni riferimento alla tecnica fotografica come riproduzione oggettiva della realtà perde ovviamente senso e importanza[20].

La rivoluzione tecnologica del XX secolo, comunque, al di là delle sue implicazioni teoriche, modifica radicalmente le forme narrative. La parola scritta perde parte del suo valore, soppiantata dalle nuove potenzialità offerte dalla comunicazione per mezzo di icone. La struttura lineare propria della scrittura viene parzialmente sostituita da un “reticolato”[21] di informazioni: la sequenzialità del racconto scritto lascia il posto a una circolarità e a una multicentricità dei punti di vista. Per questo si parla – per la comunicazione contemporanea - di “ciclicità secondaria”, intendendo per “primaria” quella tipica del periodo orale.

Tutto questo ha delle implicazioni anche sulla fruizione della realtà, e sulla sua restituzione in forma narrativa: assistere ad un evento diviene sempre meno necessario, le nuove tecnologie video e audio sono in grado di registrare e fissare in un supporto non deperibile una gamma di eventi incommensurabilmente più vasta. Le riproduzioni elettroniche forniscono tutti gli elementi specifici di ciascun accadimento, divengono i suoi indici[22], cioè contengono parzialmente, o meglio “trattengono” in sè l’evento reale.[23] Il racconto per immagini ha un’immediatezza che il racconto scritto non possiede. La descrittività della narrazione tradizionale viene sostituita dalla velocità e dall’esaustività dei supporti elettronici. La differenza è quella che intercorre tra il vedere un concerto rock alla televisione e leggerne la cronaca sul giornale.

 

 

I.1. La scena narrata

 

Anche il teatro, come tutte le altre manifestazioni dell’agire umano, è stato, nella sua plurisecolare storia, innumerevoli volte oggetto di racconto. E solo grazie alle parole di scrittori, artisti, uomini di teatro o semplici spettatori è rimasta memoria del teatro del passato. Lo spettacolo teatrale infatti è per forza di cose un evento unico, composto com’è di una moltitudine di elementi che concorrono - nel loro insieme - a realizzarlo. La compresenza fisica di attori e pubblico all’interno di uno stesso spazio fa sì che lo spettacolo assuma ogni giorno una forma diversa, sia aperto a continue variazioni ed evoluzioni. Questa realtà rende il teatro un'arte diversa da tutte le altre, e maggiormente soggetta ad essere coperta dall'oblio. Ma attraverso le suggestioni raccolte dagli spettatori passati in racconto possiamo farci un’idea del teatro precedente, ricavare emozioni su una particolare interpretazione, uno spettacolo memorabile, un evento che ha rivoluzionato i criteri, le tecniche, le opinioni di un'intera epoca.

 

 




I.1.1. Di teatro nonostante il teatro

 

Tra le pagine più significative che hanno il teatro come oggetto di racconto, singolarmente ci sono quelle di due suoi detrattori. Platone e Agostino – con motivazioni e argomentazioni diverse – si distinguono infatti per la loro posizione critica nei confronti dell’attività teatrale.[24] Il primo, nella Repubblica, si scaglia violentemente contro le arti, teatro in testa, fino ad escluderle dalla sua Città ideale[25], in quanto portatrici di falsità e stimolatrici di passioni smodate. Secoli dopo Agostino, riprendendo in alcuni passi il pensiero di Platone, rifiuta il teatro pagano dei suoi tempi, perché immorale e “osceno”.

Ma nel loro furor polemico i due autori ci lasciano alcune testimonianze memorabili del teatro del loro tempo. Agostino, in particolare, introduce in molti punti della sua Città di Dio descrizioni puntuali e suggestive degli eventi spettacolari dell’antica Roma. Proprio per confutare l’opportunità di queste manifestazioni, l’autore è quasi obbligato a lasciarne una traccia indelebile e nitida.

 

La Repubblica e il Simposio appartengono allo stesso periodo della produzione platonica, nell’arco del ventennio che va dal 387 al 366 a. C. Ma mentre nel primo dialogo il teatro è considerato solamente “in negativo”, e perciò rifiutato, il secondo, all’interno di una disputa retorica per la migliore definizione di Eros-Amore, contiene alcuni spunti narrativi che hanno come oggetto il mondo della scena. Il motivo scatenante del banchetto è il festeggiamento in onore di Agatone, vincitore nell’agone drammatico delle grandi Dionisie. E il dialogo in più parti si riferisce a quella giornata. Socrate, per spingere Agatone a prendere la parola, racconta il momento in cui, prima della rappresentazione, il poeta si è mostrato nel teatro:

 

Sarei davvero smemorato, Agatone, se, dopo aver visto il tuo coraggio e la tua grandezza d’animo, quando salivi sulla scena con i tuoi attori, guardavi in faccia un pubblico così numeroso, sul punto di presentargli la tua espressione artistica, e non eri preso proprio per nulla dal panico, ora io credessi che tu potrai cadere in confusione a causa di noi, che siamo pochi uomini.[26]

 

Al di là dell’ironia socratica, per cui il duellante dialogico viene sempre blandito elogiandone le capacità dialettiche, Platone descrive uno spaccato del teatro della sua epoca: una scena, degli attori, una gran folla di spettatori, l’autore drammatico che presenta la sua opera, prima che venga rappresentata.

Poco prima è sempre Socrate (e sempre con una velata ironia) a celebrare Agatone nel momento della vittoria:

 

Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse fatta in modo da scorrere, se ci tocchiamo l’un l’altro, da chi di noi ne è più pieno a chi ne è più vuoto, così come nelle coppe l’acqua scorre attraverso il filo di lana, dalla più piena alla più vuota. Se le cose stanno a questo modo anche per la sapienza, apprezzo molto l’esser disteso accanto a te: penso infatti che sarò riempito, da parte tua, di una grande e bella sapienza. La mia, in realtà, se mai vale poco, o addirittura è discutibile, simile ad un sogno; la tua, invece, è fulgida, e capace di grande accrescimento, essa che è lampeggiata così violentemente da te, che sei giovane, e si è resa manifesta ieri l’altro, avendo per testimoni più di trentamila Elleni.[27]

 

Ecco il teatro entrare a far parte del dialogo. Le due situazioni ci sono restituite in modo nitido, fluido. E’ facile immaginare il poeta che sale sul palco, e dissimula il suo timore di incappare in un insuccesso con un atteggiamento volutamente deciso e spavaldo, mentre sugli spalti trentamila spettatori rumoreggiano. Anche il momento della vittoria, seppure tratteggiato brevemente, evoca le grandi ovazioni, le manifestazioni di entusiasmo collettivo che in ogni epoca ricevono i grandi uomini della scena.[28]

 

Il racconto teatrale di Agostino è di più vaste dimensioni. Le sue due opere più celebri, le Confessioni e il De Civitate Dei, contengono frequenti riferimenti alle pratiche teatrali. Si tratta anche in questo caso di momenti di teatro cui l’autore afferma di aver assistito. Sono dunque – come in Platone - vere e proprie testimonianze dirette, inserite all’interno di una trattazione in cui il teatro ha un ruolo assolutamente marginale. Nel secondo libro delle Confessioni, ripercorrendo criticamente le tappe della sua vita, Agostino racconta il suo avvicinamento al teatro:

 

Mi attiravano gli spettacoli teatrali, colmi di raffigurazioni delle mie miserie e di esche del mio fuoco. Come avviene che a teatro l’uomo cerca la sofferenza contemplando vicende luttuose e tragiche? E che, se pure non vorrebbe per conto suo patirle, quale spettatore cerca di patirne tutto il dolore, e proprio il dolore costituisce il suo piacere? Miserevole follia, non altro, è questa. A quei casi si commuove infatti di più chi è meno immune dalle passioni che agitano; eppure, mentre di solito si definisce miseria le proprie sofferenze, le sofferenze per gli altri si definiscono misericordia. Ma infine, dov’è la misericordia nella finzione delle scena? Lì non si è sollecitati a soccorrere, ma soltanto eccitati a soffrire, e si apprezza tanto più l’attore di quelle figurazioni, quanto più si soffre, e se la rappresentazione di sventure remote nel tempo oppure non immaginarie non lo fa soffrire, lo spettatore si allontana disgustato e imprecando; se invece soffre, rimane attento e godendo piange.[29]

 

Soffermiamoci su questo passo. Le intenzioni dell’autore sono chiare. Un errore di gioventù l’aveva portato a frequentare i teatri. Ora ripensando a quei tempi si pone una serie di domande sulla natura stessa delle rappresentazioni teatrali. Ma così facendo ci offre un’accurata descrizione del teatro romano, e ci tratteggia chiaramente l’atteggiamento,  le attese e le reazioni del pubblico: chi guarda è sollecitato “a soffrire”, se la rappresentazione non fa soffrire “lo spettatore si allontana disgustato e imprecando”, se l’attore riesce a provocare il dolore dello spettatore, questi “rimane attento e godendo piange”.

Anche nel De Civitate Dei sono moltissimi i richiami al mondo del teatro. Nel confutare le pratiche spettacolari, l’autore si ritrova a parlarne diffusamente.

Un passo, in particolare, si apre ad un vero e proprio racconto: è il resoconto degli spettacoli celebrati in onore di Cibele, la dea vergine della fertilità, chiamata qui Celeste:

 

Non sappiamo dove e quando gli individui consacrati a Celeste ascoltavano precetti di castità. Noi profani comunque ci radunavamo da ogni parte davanti al suo tempietto, dove potevamo osservare la sua statua ivi collocata. In piedi, dovunque ci si poteva sistemare, assistevamo con molta attenzione agli spettacoli che vi si eseguivano, osservando, col muovere lo sguardo, da una parte una parata lasciva, dall’altra la dea vergine, notando che lei era adorata con religioso rispetto e che davanti a lei si celebravano riti osceni. Non abbiamo visto in quel luogo mimi pudorati o un’attrice più costumata, tutte le parti erano colme di spudoratezza. Si sapeva ciò che era gradito alla divinità vergine e le si offriva ciò che rendeva una donna onesta più informata nel tornare dal tempio alla casa. Alcune più vergognose voltavano la faccia dai gesti osceni degli attori e imparavano con intenzione nascosta la prassi della colpa.[30]

 

La posizione di rifiuto dell’autore è messa ovviamente in primo piano. Ma il quadretto descritto è preciso: ci si immagina facilmente la folla di ragazzi e ragazze che assistono alle rappresentazioni rituali in onore della dea, sembra di vedere le ragazzine che volgono la testa dall’altra parte, ma allo stesso tempo cercano di carpire quanto più possono delle azioni degli attori.

Nella sua volontà di stigmatizzare l’immoralità dei costumi romani e l’oscenità delle rappresentazioni teatrali dell’epoca, Agostino ricopre una duplice funzione per gli appassionati di teatro: da una parte documenta, testimonia gli usi del suo tempo con dovizia di particolari, dall’altra li descrive in modo accattivante e suggestivo, con immagini brevi ed efficaci.[31]



I.1.2. Il teatro nel racconto

 

La rappresentazione teatrale è stata spesso inserita all’interno di opere letterarie di fantasia. Non si tratta in questo caso della testimonianza di un fatto veramente accaduto: il teatro diviene materia su cui costruire l’invenzione e l’intreccio. Non documentazione dunque, ma narrativa “fantastica”.

Questo tipo di “racconto teatrale” non aggiunge informazioni sul teatro del passato, non racconta fatti vissuti in prima persona dal narrante, ma fornisce il punto di vista degli autori sul mondo della scena, esprime le loro preferenze o antipatie, sviluppa un’idea di teatro, elargisce suggestioni, sensazioni, opinioni. Le pagine che Proust dedica al teatro trasferiscono in modo diretto e immediato al lettore le emozioni provate dal protagonista Marcel. Nei ritratti con cui egli dipinge le varie dive che non ha mai visto e che pure si è immaginato ciascuno può ritrovare le proprie suggestioni e fantasie, magari suscitate dalle parole di un parente anziano che descrive i grandi personaggi della scena, in base alla sua esperienza diretta o grazie ai racconti a sua volta ascoltati dal padre o dal nonno.[32]

In questo modo, incontrando il teatro nei testi dei grandi scrittori, è possibile costruirsi le proprie immagini, o confermarle, o inventarne di nuove. Inoltre, gli inserti “romanzati” che hanno come oggetto il teatro sono testimonianze anch’esse, in un certo senso, della visione che una determinata epoca possiede della rappresentazione teatrale come pratica culturale e sociale. Ad esempio la Recherche proustiana, nei vari passi in cui se ne occupa, descrive l’idea di teatro della Francia a cavallo dei due secoli. Il mondo della scena risulta essere molto frequentato, anche se visto con sospetto dalle classi borghesi: a teatro va Swann, il nobile chiacchierato e libertino, mentre al ragazzino borghese Marcel è proibito l’accesso. Ed è proprio questa considerazione ambivalente – un misto di fascino e di paura – che affascina il protagonista dell’opera. In questa chiave si può leggere il passo in cui Marcel esprime la sua attrazione per le grandi figure di attrici:

 

Ma se gli attori destavano in me tanto interesse e inquietudine, se la vista di Maubant che usciva un pomeriggio dal Théâtre Français mi aveva causato il brivido e la sofferenza dell'amore, il nome di una fulgida stella alla porta di un teatro, la vista del volto di una donna che pensavo potesse essere un'attrice dietro il vetro di un coupé che passava per strada con i suoi cavalli fioriti di rose sulla fronte, che turbamento ben più prolungato lasciava in me, che sforzo impotente e doloroso per rappresentarmi la sua vita! Classificavo per ordine di talento le più illustri: Sarah Bernhardt, la Berma, Bartet, Madeleine Brohan, Jeanne Samary, ma mi interessavano tutte.[33]

 

Proust, nell’invenzione letteraria che maschera la sua autobiografia, costruisce una situazione immaginaria, in cui però traspare la potenza che emanano le dive agli occhi del piccolo Marcel, che se le raffigura appartenenti ad un mondo diverso, quasi demoniaco e superiore al suo. E queste figure di donna, nella maestosità e imponenza con cui sono descritte, divengono per il lettore portatrici di un mistero e di un fascino senza uguali. La descrizione evoca, suggerisce, persuade. Proust – autobiograficamente - descrive le emozioni suscitate dalle grandi donne del palcoscenico in un adolescente che non ha ancora avuto modo di avere un riscontro diretto e basa le sue sensazioni unicamente sulla sua immaginazione.[34]

 

Il teatro, le sue leggi inesorabili, i suoi meccanismi perversi sono tratteggiati da Michail Bulgakov. Nel suo Romanzo teatrale, parodia del rapporto tra uno scrittore e il mondo della scena che si conclude disastrosamente con il suicidio del protagonista, è raccontata a tappe l’esperienza di un uomo che, digiuno di teatro, comincia a conoscerlo progressivamente, entra pian piano nelle complicate usanze della scena, ne impara i trucchi e le abitudini[35]. Maksudov – questo il nome del personaggio principale, sotto i cui panni si cela lo stesso Bulgakov – viene lusingato, irretito, coinvolto negli ingranaggi della macchina teatrale. E ne diventa a tal punto entusiasta, da affermare:

 

Non saprei dire se Il favorito fosse una bella pièce o fosse brutta. E del resto non mi interessava neppure. Ma c'era un inspiegabile fascino in quella rappresentazione. Appena si faceva buio nella piccola sala, fuori scena, cominciava a risuonare una musica e nella "scatola"[36] entravano dei tipi in costume del diciottesimo secolo. Il cavallo d'oro stava in un angolo della scena e i personaggi ogni tanto entravano e si sedevano accanto ai suoi zoccoli o si inoltravano in conversazioni appassionanti vicino al suo muso, e io ne provavo un grande godimento. Una sensazione di amarezza s'impadroniva di me quando terminava la rappresentazione e bisognava uscire sulla strada. Avrei tanto voluto indossare uno di quei costumi degli attori e prendere parte all'azione. […] Ma erano altri a pronunciare buffe battute, scritte da altri, e la sala, ogni tanto, scoppiava a ridere. Non ho mai provato in vita mia, né prima, né dopo questo evento, un godimento più intenso.[37]

 

L’ammirazione di Maksudov non si rivolge allo spettacolo specifico cui ha assistito. L’incipit in questo senso è esauriente: “Non saprei dire se Il favorito fosse una bella pièce o fosse brutta. E del resto non mi interessava neppure”. Qui non è Il favorito che suscita in lui un così forte “godimento”, ma l’apparato scenico nei suoi vari elementi: la scenografia, la musica, i costumi, l’azione, il tempo teatrale.

 

Nella curva a parabola in cui si snoda il racconto, il passo citato simboleggia il punto più alto. Poi comincia la discesa. E il punto più basso è rappresentato dall’incontro tra l’Autore (Maksudov, sotto le cui sembianze si cela lo stesso Bulgakov) e il grande Maestro-Regista (Ivan Vasil’evic, alter ego letterario di Konstantin Stanislavskij). Qui l’ironia diviene sarcasmo, la realtà vissuta dall’autore si mescola alla finzione. Il rapporto tra i due personaggi e la figura di Ivan Vasil’evic sono descritti in chiave volutamente parodistica.[38] Ma il racconto di Bulgakov, nell’ironia che lo pervade, è un atto di denuncia delle sopraffazioni subite dall’Autore ad opera del Grande Uomo di Teatro. In Romanzo teatrale il teatro è la materia attorno a cui ruota tutta la vicenda. La storia, inventata, si nutre dell’autobiografismo dell’autore, che racconta – per bocca del suo portavoce Maksudov – il suo rapporto con il teatro e con gli uomini che lo animano.



I.1.3. Il racconto del teatro

 

Il racconto del teatro nasce dalle esperienze e dalle fascinazioni personali di chi ha potuto assistere ad un evento memorabile, di chi ha potuto conoscere, vedere all’opera un grande personaggio. Nella molteplicità dei punti di vista, nella diversità delle descrizioni, il racconto dei contemporanei costituisce la memoria della scena del passato. Ed emblematica del passato recente è la narrativa fiorita intorno ad alcune grandi figure femminili. Già nella Recherche proustiana abbiamo visto che il fascino misterioso delle dive colpisce anche coloro che – pur non avendo mai occupato un posto in platea – se ne costruiscono un’immagine mitica. Che dire allora dei fortunati che hanno potuto assistere a una qualche loro interpretazione, e hanno potuto raccontare le impressioni e le emozioni provate nel vederle calcare le scene? Su attrici come Eleonora Duse e Sara Bernhardt, sono state scritte innumerevoli pagine. Spettatori, critici, attori, scrittori, uomini di teatro hanno riempito fogli su fogli per raccontarle, celebrarne la grandezza, i tratti fisici, il carisma, il mistero, la magia…

Si è concentrata l’attenzione su una di queste attrici leggendarie, Eleonora Duse, e si sono selezionati alcuni frammenti narrativi incentrati sulla sua figura.

 

Se si parla di Eleonora Duse è quasi obbligatorio partire da D’Annunzio, che costruisce sulla figura dell’attrice addirittura il personaggio di un suo romanzo, Il fuoco.[39] I due protagonisti, Stelio Effrena e Foscarina, sono un poeta e un’attrice. Questi ruoli risentono dell’altilenante rapporto che legò realmente D’Annunzio e la Duse per poco meno di dieci anni. All’interno del romanzo si ha quindi una mescolanza di elementi presi dalla realtà e altri di pura fantasia. Nell’intreccio, che traccia il rapporto sentimentale che lega i due protagonisti e si conclude poi con l’abbandono di Foscarina da parte di Stelio, il personaggio femminile viene descritto in modo preciso, come una donna dal grande fascino e ammantata di mistero. Il carattere di Foscarina è connotato soprattutto da due elementi, la passione per Stelio e una grande malinconia. Per tratteggiarne l’aspetto, D’Annunzio ricorre ad un parallelo con alcune grandi figure mitiche del teatro:

 

Ella a un tratto era diventata bellissima, creatura notturna foggiata dalle passioni e dai sogni su un’incudine d’oro, simulacro spirante dei fati immortali e degli enigmi eterni. Se bene ella fosse immobile, se bene ella tacesse, i suoi accenti famosi, i suoi gesti memorabili parevano vivere intorno a lei e vibrare indefinitamente come le melodie intorno alle corde che sogliono ripeterle, come le rime intorno al libro chiuso ove l’amore e il dolore sogliono ricercarle per inebriarsene e per consolarsene. La fedeltà eroica di Antigone, il furore fatidico di Cassandra, la divorante febbre di Fedra, la ferocia di Medea, il sacrificio di Ifigenia, Mirra dinanzi al padre, Polissena e Alceste dinanzi alla morte, Cleopatra volubile come il vento e la vampa sul mondo, Lady Macbeth veggente carnefice dalle piccole mani, e i grandi gigli imperlati di lacrime, Imogene, Giulietta, Miranda...[40]

 

Per raccontare Foscarina l’autore si rifà alle figure archetipiche del teatro. Nella sua descrizione entrano dunque prepotentemente le suggestioni reali che la Duse incarna, e che si legano a stretto filo con le suggestioni proprie del teatro, attraverso l’evocazione di una carrellata di personaggi che non casualmente appartengono tutti alla letteratura drammatica al femminile. L’immagine qui ritratta mette in evidenza la maestosità e le nobili sembianze del personaggio. Eleonora Duse viene qui “raccontata” attraverso il personaggio di Foscarina: la descrizione del personaggio “fantastico” si riferisce con evidenza anche al modello da cui trae origine.[41]

 

Ma Foscarina parla anche in prima persona, e narra un’esperienza di gioventù quando, attrice alle prime armi, aveva recitato la parte di Giulietta – amante infelice – nella suggestiva cornice dell’Arena di Verona:

 

Vedevo il vaso profondo dell’anfiteatro metà al sole, metà all’ombra, e nella parte illuminata un luccichìo come di mille e mille occhi. Il giorno era quieto come oggi. Non un soffio moveva le pieghe della mia veste o i miei capelli, che rabbrividivano sul mio collo nudo. Il cielo era lontanissimo e tuttavia mi pareva a quando a quando che le più deboli parole vi risuonassero fino all’estrema lontananza come tuoni, o che il suo azzurro si facesse così cupo ch’io ne fossi colorata come da un’acqua marina ove m’annegassi. E i miei occhi andavano a un tratto verso le lunghe erbe che sorgevano alla sommità delle muraglie; e mi pareva che mi venisse da loro non so qual consentimento a quel che dicevo e facevo; e quando le vidi ondeggiare al primo soffio del vento che si levava su le colline, sentii crescere la mia animazione e la forza del mio respiro.[42]

 

Anche questo passo sembra rivolgersi allo stesso tempo alla vicenda narrata e alla reale esperienza di una grande attrice. Il concorso degli elementi naturali, che contribuisce a trasfigurare la giovane nel suo personaggio, è narrato in modo molto verosimile. Le argomentazioni di Foscarina sono le stesse che grandi donne della scena passata e presente hanno utilizzato per descrivere lo stato di grazia che rapisce chi, recitando, perde i contorni della sua realtà e si confonde, diventa un tutt’uno con il personaggio che interpreta.

 

La personalità di Eleonora Duse, adombrata nel personaggio di Foscarina, è continuamente  evocata all’interno dell’opera. Attraverso il romanzo, genere “fantastico” per antonomasia, che racconta una vicenda inventata, l’attrice reale viene minuziosamente descritta. D’Annunzio, tramite la costruzione del personaggio, ci offre la sua immagine personale della Duse, lasciandone un ritratto soggettivo e affascinante.[43]

 

Su tutt’altro livello si colloca il ricordo della Duse lasciato da Ermete Zacconi, compagno di lavoro dell’attrice per molti anni. Nelle sue parole la figura dell’attrice assume connotati differenti:

 

Fu a Torino che per la prima volta mi fu dato ascoltare Eleonora Duse nella Fedora e nella Signora delle camelie. L'impressione fu quale prevedevo: non di stupore, ma di profonda gioia per l'anima mia e di altissima soddisfazione per il mio spirito. Nelle alte vette dell'arte raggiunte dalla forte e sicura intelligenza, ricca di vaste cognizioni, nel caldo senso di umanità, nell'avvincente realistica schiettezza del dire di Eleonora Duse trovai un sommo portento d'arte che giungeva vittorioso fino a noi, preparato dall'amore costante, dalle indefesse ricerche di umili artisti ignorati.[44]

 

In primo piano è posto il riferimento alla professione d'attore. E' il "sommo portento d'arte" ciò che più ha colpito chi racconta, sono le "indefesse ricerche di umili artisti ignorati". La Duse viene descritta come la “brava attrice”, l'attrice più brava di tutte le altre, perché nel vederla recitare si coglie il grado infinito a cui lei ha condotto - mediante "indefesse ricerche" - la sua tecnica e la sua arte. Zacconi, proseguendo, ribadisce questo aspetto:

 

Vollero chiamarla un "miracolo arcano". In sostanza, invece, Eleonora Duse, discendente da una stirpe di guitti, fu soltanto il riassunto, il logico naturale prodotto di quasi tre secoli d'arte, durante i quali con paziente, silenzioso lavoro intere famiglie di "cabotins" cercarono di avvicinare l'arte alla verità e per generazioni acuirono i cervelli, raffinarono la sensibilità, provarono sempre più vivo nel loro povero cuore il dolore di tutti gl'infelici. Da essi nacque la fanciullina dalla mente più ricca, dall'anima più generosa che, cresciuta e tempratasi nelle dure necessità e nell'amorevole pietà, fu la grande interprete del pensiero e dello spasimo umani.[45]

Dal punto di vista dell’attore, non si tratta di descrivere un essere superiore, inarrivabile, eccezionale nella sua unicità. Il brano di Zacconi desacralizza la figura della diva. Nel celebrare la grandezza della Duse l’attore esprime la volontà di esaltare la propria professione e la propria arte. Il mestiere dell'attore viene descritto qui come un'attività per spiriti elevati. Ed è in virtù di questa nobile professione - sembra dirci Zacconi - che la Duse - "cresciuta e tempratasi nelle dure necessità e nell'amorevole pietà" - divenne la "grande interprete del pensiero e dello spasimo umani".

 

Un terzo modo di raccontare la grande attrice è quello, più “esterno”, di uno spettatore, pur se d’eccezione. Silvio d’Amico, presente al ritorno sulle scene della Duse dopo molti anni d'assenza,  racconta così la reazione degli spettatori al suo arrivo sul palcoscenico del Teatro Balbo di Torino, nei panni di Ellida nella Donna del mare di Ibsen, dramma con cui l'attrice aveva preso commiato dal palcoscenico nel 1909, e con il quale aveva scelto di tornare al teatro nel 1921:

Tutti trasalendo l'hanno riconosciuta. E tutti, con uno scatto unanime, irrefrenabile, sono balzati in piedi. Allora è accaduto un fatto indescrivibile. Mentre Ellida, Eleonora Duse, entrava rapidamente con il volto levato in alto, lo sguardo un poco assorto, l'andatura un poco stanca, tutto il pubblico in piedi ha cominciato ad applaudire, senza una parola, senza un grido, con una commozione lenta e solenne, come in un rito. Eleonora Duse si è fermata, ha salutato lievemente più volte, ma la folla, sempre in piedi, non le ha permesso né di muoversi né di aprire bocca. Anche gli attori in scena, con Ermete Zacconi alla testa, si erano levati in piedi e stavano immobili, rivolti verso di lei, come militari sull'attenti.[46]

 

L'attenzione qui è rivolta all’eccezionalità dell’evento. Quello che D’Amico cerca di far emergere con maggior forza è la dimensione quasi rituale del ritorno alla scene dell’attrice: ecco allora in primo piano l’emozione e la commozione di tutti, dagli attori agli spettatori. L'accento è posto sull'evento, unico e irripetibile: l'emozione scaturita all’ingresso della Duse, la folla che applaude ma non riesce a dire niente, "come militari sull'attenti", sono tutti elementi che Silvio d'Amico utilizza per esprimere la grandiosità del fatto cui lui ha assistito in prima persona.

 

La critica teatrale di fine '800 e inizio '900 restituisce un'immagine della Duse "al lavoro", raccontandola in alcune delle sue più celebri interpretazioni. Le testimonianze critiche concentrano l'attenzione sullo spettacolo che analizzano, e forniscono un altro, importante tassello narrativo sul personaggio-Duse e sull’universo teatrale che la diva ha rappresentato.

Ogni grande personaggio raccoglie attorno a sé entusiasti e detrattori. Nemmeno la Duse fece eccezione a questa regola. La stessa figura suscita sentimenti opposti, come fascino e irritazione, a spettatori diversi, che lasciano sulla carta le loro diverse impressioni. E noi grazie ai loro occhi possiamo costruirci il nostro personale racconto.

 

Il critico inglese Max Beerbohm, parlando della Duse, divide in tre zone la sua attività di critico: "delirare"[47] a proposito della tecnica di un'attrice, sulla sua concezione della parte e sulla sua personalità. Argomentando con diverse motivazioni la sua impossibilità a parlare della Duse nei primi due campi, esprime un giudizio sulla personalità dell'attrice:

 

Sono oppresso, schiacciato dalla personalità della Duse? Naturalmente ho il dovere di esserlo - su questo non ci può essere dubbio. Ma il fatto disgraziato è che io non lo sono. Davvero, io vedo il potere e la nobiltà del suo volto; e la sottile stridula dolce voce, che è in un così grande contrasto con ciò che precede, ha un certo fascino su di me. Io ammiro anche i suoi movimenti, pieni di forza e di grazia. Ma l'emozione che prevale in me nei suoi confronti è l'ostilità. Io non posso arrendermi a me stesso, e vedere in lei l'"incarnazione della femminilità" e lo "spirito delle lacrime del mondo" e tutte le altre cose che gli altri critici vedono in lei. La mia impressione prevalente è quella di una forza grande ma egoistica; di una donna che calpesta, con un'aria di oscura indifferenza, drammi, attori, critici e pubblico. In un uomo io dovrei ammirare molto questo tremendo egoismo. In una donna mi mette a disagio. Non mi piace. Mi irrita. In nome dell'arte, io protesto...[48]

 

Beerbohm dà un giudizio sulla grande attrice dopo averne per sua dichiarazione visto "tutto il repertorio".[49] Ed è sulla scorta delle grandi figure interpretate dalla Duse che egli esprime un giudizio soggettivamente negativo sulla personalità della diva. Concorda con questo suo giudizio quello che dice poco prima a proposito della "concezione delle parti" della Duse, riferendosi ad alcuni grandi personaggi femminili:

 

Io conosco Magda, Paula e Fedora bene abbastanza da lodare o disprezzare la concezione di un'attrice di ciascuna di esse. Io le conosco abbastanza bene da essere convinto che la Duse non ha concezione di nessuna di esse. Lei le tratta come grandi veicoli per l'espressione del suo assoluto sé. Dall'inizio alla fine lei è la stessa in Fedora come in Magda come in Paula[50].

 

A fronte di un detrattore un'estimatrice. Helen Darbishire analizza l'interpretazione che la Duse dà del personaggio della Signora Alving in Spettri di Ibsen. Ma qui la personalissima "concezione della parte" della Duse è vista positivamente, come la cifra assoluta della sua grandezza d'interprete:

 

Ho visto Spettri due volte. La pièce le apriva un'enorme gamma di possibilità. Fu criticata per aver caratterizzato il personaggio della Signora Alving diversamente dalle indicazioni di Ibsen. Io pensai che lei vi non avesse introdotto nulla di più di quanto c'era nella parte, eccetto l'estrema bellezza e grazia che confluirono in essa dalla stessa personalità della Duse. [...] La fine dell'ultimo atto fu la cosa più grandiosa che io le ho visto fare. Lei sta parlando al Pastore dei programmi per il giorno dopo. Suo figlio è andato nella sala da pranzo. All'improvviso si sente il colpo di una sedia che si rompe, e la voce della ragazza che protesta urlando. La Duse sta immobile portandosi le mani alla testa come se avesse ricevuto un violento shock fisico. I suoi occhi sono sbarrati, fissi in un orrore cieco, poi ciò che accade comincia a divenire chiaro, sempre più chiaro. Non dimenticherò mai la sua voce che dice "Fantasmi!". Esprimeva non terrore, ma il più oscuro, il più straniante mistero.[51]

 

Ma Eleonora Duse, oltre che per se stessa, diviene, ancora giovane, riferimento costante per la critica teatrale a cavallo dei due secoli. In ogni recensione il confronto è quasi d'obbligo. E in questo modo la sua figura diviene il termine di paragone con cui è possibile anche ai posteri costituirsi un'immagine del teatro dell'epoca. Attraverso l'arte di Eleonora Duse si misurano altre attrici e altre interpretazioni. E' il caso - fra i molti altri - della  vasta attività critica di un grande scrittore inglese come George Bernard Shaw. In moltissime sue recensioni la Duse compare come archetipo, come assoluto interpretativo, su cui basare il giudizio positivo o negativo per altre attrici.

Nei tre volumi di critiche intitolato Our Theatres in the Nineties, il nome della Duse ricorre spesso. Si scelgono due passi in cui forte è il senso paradigmatico del lavoro della diva italiana. Due attrici - Patrick Campbell e Ada Rehan - sono recensite tramite il confronto tra le loro interpretazioni e l'esempio della Duse. Nel primo caso, una versione di Magda[52], cavallo di battaglia della grande attrice, la stroncatura è evidente sin dalle battute introduttive:

 

In tutte le arti c'è una distinzione tra la mera fisica facoltà artistica, che consiste di un fine senso del colore, della forma, del tono, del movimento ritmico e così via, e il supremo senso di umanità che da solo può elevare il lavoro artistico creato dalle facoltà fisiche e trasformarlo in un convincente temperamento vitale.

 

Poste queste premesse, Shaw demolisce lo spettacolo e poi comincia a stabilisce il confronto tra le due versioni del personaggio di Magda, quella della Duse e quella della Campbell, decrivendo impietosamente l’inferiorità della seconda. [53]

Nel secondo passo la critica non è così feroce. Ma nel racconto dello spettacolo che ci offre Shaw si fa strada ancora una volta la figura professionale di Eleonora, come punto di riferimento da cui prendere le mosse per descrivere l'interpretazione di Ada Rehan. Qui ritorna la caratteristica che tanto infastidiva Max Beerbohm, cioè la forte personalizzazione dei personaggi, un atteggiamento eccessivamente egotico ed egoistico, ma rivolta alla Rehan in contrapposizione all'arte della Duse.[54]

 

Il confronto tra i diversi giudizi critici sul lavoro di Eleonora Duse – sia di per sé che come modello cui paragonare altre attrici – , oltre che restituire un’immagine frastagliata e complessa della grande attrice, apre a una riflessione sulle diverse idee di teatro che caratterizzano l’inizio del XX secolo. Anche attraverso le brevi citazioni riportate si può infatti cogliere gli estremi di un dibattito centrale nelle riflessioni sul teatro di quell’epoca: il rapporto che si viene a stabilire tra interprete e personaggio. Attraverso i diversi pareri sull’interpretazione della Duse si possono ravvisare le differenti opinioni che circolavano in quell’epoca a proposito di questo tema. E’ in questa prospettiva che l’attrice viene criticata da Beerbohm, infastidito dalla sua eccessiva personalizzazione dei personaggi. Ed è questo elemento che invece spinge Helen Darbishire al suo commento entusiastico. Il racconto, la testimonianza, il giudizio su un evento o un personaggio specifico implicano per forza l’eco del modo di intendere il teatro di un’intera epoca.

 

 

 


 



[1] Cfr. Angelo Marchese, L’officina del racconto, Mondadori, Milano 1999, pp. 5 - 7 e 69 - 72.

[2] “Probabilmente il racconto nasce dal radicale bisogno di affabulazione insito nell’inconscio dell’uomo, homo ludens e illudens al tempo stesso: ognuno di noi deve inventare delle storie in cui proiettarsi come protagonista e ascoltarne delle altre dove riviva il suo alter ego sublimato ed eroicizzato” (Cfr. Angelo Marchese, cit., p. 69).

[3] Cfr. Angelo Marchese, cit., p. 5.

[4] Molti mediologi e studiosi della comunicazione si sono occupati specificamente della genesi del racconto. Per una ricostruzione completa e dettagliata cfr. Federico Di Chio, Cose e segni. Mezzi di comunicazione e forme della cultura, Isu - Università Cattolica, Milano 1997, pp. 42 - 64.

[5] Questa tripartizione, che risente di un certo schematismo, è il frutto di una sintesi tra tre diverse teorie della storia della cultura, rispettivamente quella di Marshall Mc Luhan (in: Marshall Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano 1981), quella di Régis Debray (in: Régis Debray, Cours de médiologie générale, Gallimard, Paris 1991) e quella infine di Michel Foucault (in: Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1985). Per un esame più approfondito dell’argomento si rimanda agli autori.

[6] Giorgio Raimondo Cardona, Antropologia della scrittura, Loescher, Torino 1981, p. 133.

[7] Nell’evoluzione delle sue fasi da un tracciato di segni che implicano direttamente le cose alle figurazioni simboliche, che richiamano appunto “simbolicamente” l’oggetto cui si riferiscono, fino all’astrazione della scrittura alfabetica, che inserisce una convenzione comunemente e socialmente accettata tra segno e referente naturale.

[8] Cfr. Giorgio Raimondo Cardona, cit., p. 134.

[9] Cfr. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Il Saggiatore, vol. 1, pp. 33 - 36 e 41 - 46.

[10] Cfr. ancora Angelo Marchese, cit., p. 69.

[11] Cfr. Johan Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino 1973, soprattutto le pp. 10 – 23.

[12] La distinzione tra i due filoni in cui si inserisce la narrazione è più facilmente comprensibile utilizzando le categorie di romance e novel, introdotte da R. Scholes e R. Kellog: “Romance è una favola eroica, che tratta di persone e di cose favolose; Novel è una rappresentazione di vita e di costumi reali, al tempo dello scrittore. Il Romance descrive, in un linguaggio elevato e nobile, ciò che non è mai successo, né probabilmente succederà mai; il Novel presenta, in un linguaggio familiare, un resoconto di cose che accadono ogni giorno, davanti ai nostri occhi, cose che possono capitare a un nostro amico o a noi stessi.” (Cfr. R. Scholes e R. Kellog La natura della narrativa, Il Mulino, Bologna 1970).

[13] O che conservavano la realtà della propria origine, come nel caso emblematico della disposizione delle navi narrata nel secondo capitolo dell’Iliade.

[14] E’ il caso ad esempio delle favole antiche, nella linea narrativa che lega Esopo a Fedro, e che subisce l’influenza del racconto popolare: la vicenda narrata contiene sempre un riferimento metaforico, un rimando alla vita. Gli stessi protagonisti – spesso presi dal mondo animale – incarnano i vizi e le virtù degli esseri umani. E la chiusa del racconto contiene sempre una sentenza.

[15] Cfr. Erodoto, Storie, traduzione di Augusta Izzo D’Accinni, Rizzoli, Milano 1998, volume primo, libro 1, p.75.

[16]Tucidide nel proemio della Guerra del Peloponneso andrà ancora oltre nell’affermare i criteri con cui ha proceduto all’analisi dei dati e alla composizione dell’opera. In Erodoto è importante soprattutto la dichiarazione della metodologia e degli obiettivi. All’interno delle Storie infatti si possono ritrovare luoghi in cui la narrazione non risponde ai requisiti annunciati dal prologo, e c’è ancora spazio per il mito o per l’annedotica popolare. Tucidide eliminerà nella sua opera questi residui di letteratura arcaica, fondando in tutti i suoi aspetti il genere storiografico.

[17] E’ d’obbligo il riferimento a Walter Benjamin, che nel suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica sottolinea le modificazioni delle modalità di trasmissione e ricezione dovute alle nuove possibilità tecnologiche (Cfr. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966). Sull’argomento, cfr. Francesco Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1989, cap. I, p. 11.

[18] Cfr. André Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1973. Sull’argomento si veda anche: Francesco Casetti, Teorie del cinema 1945 – 1990, Bompiani, Milano 1993, pp. 23 – 45.

[19] Le teorie di Bazin – riprese tra gli altri anche da Sigfried Kracauer (in Film: ritorno alla realtà filmica, Il Saggiatore, Milano 1962) – nella loro suggestività evocativa, hanno comunque influenzato profondamente il lavoro di registi e cineasti, basti pensare alla poetica del neorealismo e al “pedinamento” di Zavattini.

[20] In realtà l’idea della corrispondenza meccanica e oggettiva tra realtà e immagine fotografica fu smentita non molto anni dopo l’avvento della fotografia: “La fotografia si è accorta molto presto che la sua figuratività, la sua tonalità, la sua geometricità non avrebbero mai potuto limitare la loro funzione all’ambito della copia e della specularità referenziale; molto presto si è accorta della sua radicale differenza rispetto al mondo rappresentato e, quindi, della sua indipendenza e della sua autonomia, al livello della significazione e al livello dell’espressività. Nata come testimonianza, finalizzata a un elevato grado di utilità, essa ha molto presto scoperto la dimensione estetica del suo fare e, nello stesso tempo, la sua capacità di costringere le cose (dopo averle trasformate in segni e averle introdotte nel suo universo semiotico) a dire quanto apparentemente non dicevano prima di finire appiattite sul suo piano: di costringerle, quindi, a disvelarsi secondo modalità e aspetti impropri al loro modo di apparire allo sguardo comune, privo di protesi tecniche, nel contesto normale della loro esistenza.” (Cfr. Gianfranco Bettetini, Il segno dell’informatica, Bompiani, Milano 1987, pp. 60 – 61).

[21] Basti pensare all’utilizzo del Cd-Rom, in cui si sviluppa un percorso che impiega non più solamente il senso della vista, ma anche il tatto e l’udito, permettendo al fruitore di scegliersi da solo la direzione da seguire avanzando o ritornando a piacere sui propri passi. Cfr. anche Federico Di Chio, cit., pp. 58 - 64.

[22] Cfr. Federico Di Chio, cit., p. 61.

[23] In una fotografia, ad esempio, il soggetto ritratto è presente in absentia.

[24] Sul teatro in Platone e Agostino, vedi anche: Marvin Carlson, Teorie del teatro, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 35 – 38 e 50, 57, 87.

[25] Cfr. Platone, Politeia, II 377b – 381c e X.

[26] Platone, Simposio, a cura di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1998, p. 50.

[27] Platone, Simposio, cit, p.19.

[28] Si noti per inciso che al simposio sono presenti ben due autorità del teatro del tempo, lo stesso Agatone e Aristofane. Le loro orazioni sull’Amore – pur non ottenendo il successo dialettico di Socrate, che qui incarna le istanze platoniche, suscitano il plauso degli ascoltatori. Si potrebbe dire che Platone caccia i teatranti dalla Città ideale ma li accoglie volentieri a cena.

[29] Cfr. Sant’Agostino, Confessioni, a cura di Carlo Carena, Mondadori, Milano 1999, p. 71.

[30]Cfr. Sant'Agostino, De Civitate Dei, a cura di Domenico Gentili, Città Nuova Editrice, Roma 1997, pp. 103 - 104.

[31] In un paragrafo che riguarda il teatro dell’antichità classica e romana, non può non essere menzionato Aristotele e la sua Poetica. Anche se in nessun luogo del trattato il filosofo si dilunga in narrazioni su rappresentazioni o spettacoli specifici, la Poetica è una fonte inesauribile di informazioni sulla composizione dei testi drammatici, sull’esito cui tendevano e su moltissime opere ed autori di cui non ci è pervenuto nulla. Si vuole citare qui in contrasto con le celebrazioni di Agatone del Simposio platonico, un passo in cui Aristotele racconta i motivi di un insuccesso dello stesso Agatone: “Bisogna poi tener presente ciò che abbiamo detto più volte, e non fare una tragedia come se fosse una composizione epica […], come nel caso in cui un poeta prendesse per oggetto tutto l’argomento dell’Iliade. […] E ciò ben mostrano tutti quei poeti, che vollero racchiudere in una sola tragedia l’intero argomento della rovina di Troia, piuttosto che una sola parte, come fece Euripide, o tutta la storia di Niobe, in modo diverso da come fece Eschilo, i quali poeti o hanno fatto fiasco addirittura, o si sono trovati male nei concorsi, perché lo stesso Agatone cadde per questo solo difetto” (cfr. Aristotele, La poetica, traduzione di Ferdinando Albeggiani, La Nuova Italia, Firenze 1987).

Un altro autore che, nella sua opera, ha più volte fatto riferimento al teatro è Luciano. Soprattutto nelle Satire e Dialoghi (ma anche nell’impasto avventuroso dei Racconti fantastici) fa spesso capolino una qualche notazione sulle pratiche sceniche in vigore nel II secolo d. C. (Cfr. Luciano, Dialoghi, a cura di Vittorio Longo, Einaudi 1986 e Luciano, Racconti fantastici a cura di Fulvio Barberis e Maurizia Matteuzzi, Garzanti, Milano 1995).

[32] All’interno della vasta letteratura che comprende riferimenti impliciti o espliciti e spunti narrativi collegati al mondo del teatro, si sono scelti alcuni passi di grandi autori, che si inseriscono nel discorso generale come episodi esemplari di “teatro nel racconto”.

[33] Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann. Combray, traduzione di Maria Teresa Nessi Somaini, Rizzoli, Milano 1994, p. 162.

[34] Fatalmente, nel momento in cui Marcel riesce, nel corso della storia, a vedere di persona la tanto sognata Berma il risultato non potrà che essere una delusione.

[35] Cfr. Michail Bulgakov, Romanzo teatrale, introduzione, traduzione e note di Milli Martinelli, Rizzoli, Milano 1992

[36] La "scatola", per Maksudov, sta a simboleggiare il palcoscenico, il suo palcoscenico mentale, dove immagina che i suoi personaggi comincino a muoversi e a vivere.

[37] Cfr. Michail Bulgakov, Romanzo teatrale,cit., p.103.

[38] La situazione è questa: un Autore si reca a casa del Maestro per leggergli, pieno di timore e di ammirazione, il suo lavoro drammatico. Ecco alcune battute del dialogo tra i due:

 [maksudov] Andammo avanti, e quando ormai si stava facendo buio, io, con una voce arrochita, pronunciai la parola “Fine”. E subito fui invaso da un senso di orrore e di angoscia, come se mi fossi costruito una casetta, e appena trasferitomi fosse crollato il tetto. “Molto bene” disse Ivan Vasil’evic, a lettura conclusa. “Ora deve cominciare a lavorare su questo materiale.” Io volevo gridare: “Come?”. Ma non gridai.

(cfr. Michail Bulgakov, cit., pp. 174 – 175).

[39] Cfr. Gabriele D’Annunzio, Il fuoco, Mondadori, Milano 1996. Sull’identificazione tra Foscarina e la Duse non sembrano sussistere dubbi. Si veda comunque sull’argomento l’introduzione di Niva Lorenzini all’op. cit., p. IX, e la nota 1 di p. 229, p. 419. Sull’utilizzo da parte di D’Annunzio dei racconti fattigli dalla Duse per trasportarli nel romanzo, e sullo scalpore che il romanzo fece proprio per questi particolari intimi svelati dall’autore si veda anche la p.LXXIII della Cronologia di Egea Roncoroni nella stessa edizione.

[40] Cfr. Gabriele D’Annunzio, cit., p. 88.

[41] Si inserisce qui il ritratto che un altro scrittore fa di una grande attrice. Jean Cocteau descrive così Sarah Bernhardt: “L'ultima volta che ebbi la fortuna di vederla interpretava il ruolo di Atalia. Le avevano già tagliato la gamba. Dei negri l'introdussero su una specie di carriola. Fece la scena del sogno. Arrivata a Pour réparer des ans l'irréparable outrage sorrise, scosse il capo, allargò le braccia, si percosse il petto con le mani cariche di anelli, si inchinò, appropriandosi dei versi e scusandosi col pubblico di apparirgli ancora. La sala si alzò scalpitando. Ecco degli spettacoli teatrali quali non saprebbe immaginarne la nostra epoca il cui ridicolo sta nel credere di avere il senso del ridicolo e che prende per un insulto contro di sé il minimo segno inconsueto della grandezza. Sarah Bernhardt somigliava a quelle attrici tragiche senza teatro, di cui parlo sovente, e che si inventano un personaggio e una scena nel vuoto e nella vita. Si direbbe che l'impossibilità di incarnare delle eroine le esalti e le spinga all'estremo. Ma Sarah Bernhardt presentava questo fenomeno di vivere all'estremo della sua persona nella vita e sulle scene.” (Cfr. Jean Cocteau, Mes monstres sacres, Gallimard, Paris 1979, unica traduzione italiana in il Patalogo 2, p. 63).

[42] Gabriele D’Annunzio, cit., p. 259.

[43] La figura di Eleonora Duse sembra avere tre funzioni diverse e collegate fra loro, in un gioco continuo tra realtà e finzione. In primo luogo, come persona reale fornisce all’autore la materia per costruire il carattere di uno dei personaggi: dalla realtà alla finzione. In seconda istanza il personaggio di fantasia introduce all’interno dell’opera frammenti di “racconto teatrale”, come il debutto veronese di Foscarina: si ha quindi un “racconto teatrale nel racconto”, finzione all’interno della finzione. In terzo luogo, la storia della carriera di Foscarina, raccontata nel romanzo, si richiama, conduce nuovamente alla figura della Duse: la finzione riapre una finestra sulla realtà.

[44] Cfr. Ermete Zacconi, Ricordi e battaglie, Garzanti, Milano 1946, p.70.

[45] Cfr. Ermete Zacconi, cit., pp. 70 - 71.

[46] Cfr. Silvio d'Amico, Tramonto del grande attore, Mondadori, Milano 1929, p.47.

[47] “To rave”. Cfr. Max Beerbohm, The Incomparable Max. A Selection, Heinemann, London-Melbourne-Toronto 1962.

[48] Cfr. Max Beerbohm, cit., pp. 112 - 115.

[49] Cfr. Max Beerbohm, cit.p. 114.

[50] Cfr. Cfr. Max Beerbohm, cit.p. 115.

[51] Cfr. Helen Darbishire, An English Impression of an Italian Genius: Eleonora Duse, 23 aprile 1924, contenuto in: English Miscellany. A Symposium of History Literature and the Arts, edito per The British Council da Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1950.

[52] La critica, datata 6 giugno 1896, si riferisce ad uno spettacolo tenutosi pochi giorni prima (il 3) al Lyceum Theatre. L'edizione di riferimento è: Geroge Bernard Shaw, Our Theatres in the Nineties, Constable And Company, 3 volumes, London 1954.

[53]“ Se avete dei dubbi, andate a vedere Mrs. Patrick Campell recitare Magda. E andateci subito, perché lo spettacolo non durerà a lungo: la natura umana non sopporterà uno spettacolo simile per molte settimane. Questo non per colpa della pièce, che non fallisce finché lei non la uccide. [...] Dieci minuti dopo l'ingresso di Mrs. Campbell è tutto finito: da allora in poi l'applauso, anche il più di circostanza, si spegne del tutto. Il pubblico della prima aveva per la maggior parte visto Sarah Bernardt ed Eleonora Duse nella parte, e sapeva che cosa poteva fuoriuscire da una parte come quella. Nessuno, io credo, sarebbe stato così stoltamente irrazionale da aspettarsi niente di simile al momento di assistere alla meravigliosa caratterizzazione della Duse al Drury Lane, quando lei per prima impersonò Magda qui [al Lyceum Theatre] l'anno scorso. Mrs Campbell non ha ancora vissuto tanto a lungo da avere in tutto il suo repertorio qualcosa di simile a quello che esprime la Duse in dieci minuti della sua Magda.” (Cfr. George Bernard Shaw, cit., vol. II, pp. 145 – 146).

[54] “Io non sono in grado di giudicare dall'incantevole interpretazione di Rosalinda fornita da Miss Rehan se lei è una grande attrice shakespeariana o meno. E nemmeno so, in un certo senso, se posso affermare se lei sia un'attrice o meno. In realtà, io non l'ho mai vista creare un carattere. […] Non che mi lamenti: il teatro con tutte le eroine modellate su un’universale Ada Rehan non mi sono sembrate un panorama così triste. […] In Shakespeare (o almeno in ciò che Mr. Daly lascia di lui) lei era ed è irresistibile. […] Ma il critico in me mi costringe ad insistere sul fatto che Ada Rehan non ha finora creato nulla se non Ada Rehan. […] I migliori lavori della Duse sono altresì la Duse; ma ciò non ostacola Cesarina, Santuzza e Camilla dall’essere tre donne totalmente diverse. Nessuna di loro è la Duse, sebbene la Duse è tutte loro.” (Cfr. George Bernard Shaw, cit., vol. III, pp. 209 – 210). La recensione si riferisce alla messinscena di As You Like It tenutasi al Grand Theatre di Islington il 4 ottobre 1987. Il pezzo è del 9 ottobre dello stesso anno.

Si vuole citare qui un altro brano critico, di lingua francese, ad opera di Aurélien Lugné-Poe, in occasione di un’interpretazione parigina della Signora delle Camelie datata 1897. La Duse è così descritta: “Io vedo ancora l’espressione del viso di Eleonora Duse mentre legge la lettera di Armand Duval nell’ultimo atto. Era di una semplicità così grande che l’effetto tragico si produceva sanza brutalità e senza ricerca: gli occhi fissi, le braccia penzoloni, il foglio stretto tra le dita, ella non sembrava più incarnare un ruolo in una commedia: era semplice ed è in questa semplicità che risiede tutta la sua bellezza d’interprete”. (Cfr. Aurélien Lugné-Poe, Eleonora Duse. In: “Revue Illustré”, Paris 1897, tomo II, p. 363).


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