Ma gli uomini preferiscono le stronze?
(Gli spettacoli di Lella Costa)
di Oliviero Ponte di Pino
Le recensioni qui raccolte sono
apparse originariamente sul "manifesto".
Due. Abbiamo un'abitudine alla notte
(1992)
Lui: "Gli uomini preferiscono le bionde... ma le donne preferiscono gli stronzi." Lei: "Per forza, ci sono solo quelli in giro." Lui: "L'offerta si adegua alla domanda."
E' solo uno dei mille scambi dell'eterno teatrino della coppia, nella sua ultima incarnazione - ovvero Giorgio Melazzi e Lella Costa, protagonisti (e coautori insieme a Massimo Cirri e Sergio Ferrentino, coadiuvati da Piergiorgio Paterlini e Bruno Agostini) di Due. Abbiamo un'abitudine alla notte (in scena con successo al Teatro di Porta Romana di Milano).
Cinefili tra i trenta e i quaranta, impegnati in continui indovinelli su questo o quel film, ma con un residuo d'ingenuità che confonde allegramente la finzione con la realtà, vivono (cercando di riderci sopra) l'eterna crisi della coppia e quella - appena meno eterna - della sinistra, quella della donna postfemminista e quella del nuovo maschio... Sprofondano nella depressione dell'abbandono e si esaltano nell'euforia dell'infatuazione, si imbarazzano per la goffaggine delle loro performance erotiche e si crogiolano nei loro sentimenti, si sdoppiano tra autocoscienza e indagine sociologica, e tra equivoci e ripicche continuano invariabilmente a chiedersi "perché devo scambiare per amore la mia malattia?"
Compiaciuti della loro disinibita modernità ma indeboliti da un'intrinseca fragilità emotiva, hanno fatto del "parliamone" una regola di vita: le loro notti - come si deduce dalla "tipica" notte in cui è ambientato Due - sono un'interminabile confessione incrociata, che sguscia incessantemente tra sesso e affetto. Tuttavia, aldilà delle apparenze, antichi scheletri come possessività e gelosia, insicurezze e vulnerabilità, continuano a governare il rapporto. Lui, in omaggio alla tradizione di una famiglia di notai, compila semiseri protocolli di comportamento in caso di corna (distinguendo puntigliosamente relazioni occasionali e parallele, per precisare i casi in cui la confessione del tradimento è facoltativa, obbligatoria, o semplicemente consigliata...) e si interroga sull'origine della donna (quando la "cosa rosa" desiderata da Adamo nel Paradiso Terrestre non era Eva, ma la Gazzetta dello Sport...). Lei, perfetta eroina della sinistra sentimental-patetica, si fa forza convincendosi dell'autenticità delle passioni, oscilla tra depressione e consapevolezza, s'inquieta e si compatisce.
Dal duetto Costa-Melazzi, le
coppia emerge come una sorta di prigione senza vie d'uscita - che
non sia un altro rapporto di coppia, praticamente identico. Dove
si dibatte fino alla nausea (come in tv) di orgasmi e desideri,
delle misteriose e inconciliabili differenze tra maschietti e
femminucce, di fantasie genericamente erotiche, di insicurezze e
prepotenze reciproche, delle frasi dei Baci Perugina e delle
pubblicità dei preservativi, fino a seppellire sotto questo
insistito chiacchericcio ogni altro possibile discorso, a costo
di ritornare ossessivamente sullo stesso problema. Come se il
rapporto a due fosse il solo spazio superstite di comunicazione
interpersonale, l'ultima isola con qualche pretesa di autenticità,
l'estrema scappatoia alla solitudine, e una barriera contro il
mondo. Sotto questa pressione, la "simpatica catastrofe"
dell'amore si popola di riti privati, di nevrosi incrociate, di
frustrazioni che rimbalzano da un partner all'altro. Alla fine,
non resta che autocompatirsi, con tutta l'ironia di cui siamo
capaci, per due ore a metà tra il cabaret e la commedia di
costume.
Magoni (e altri miracoli)
(1994)
Ci dev'essere un'affinità tra l'ironia e il "magone", quel misto di struggimento e malinconia, quella percezione di vuoto, d'impotenza, d'inutilità, quella blanda ansia, angoscia o depressione, quel groppo in gola che senza una ragione precisa stringe il cuore e spesso fa sgorgare lacrime più o meno liberatorie. E' come se un'analoga malattia dell'anima da un lato producesse crepe, fratture, schegge. E dall'altro un gorgo, un mulinello, una vaghezza, un risucchio.
Allo studio quasi scientifico di questa anomalia emotiva così difficile da definire si sono impegnati Lella Costa e i suoi coautori (Massimo Cirri, Sergio Ferrentino, Piergiorgio Paterlini e Bruno Agostini). Hanno probabilmente individuato uno dei primi sintomi della sindrome esistenziale degli anni Novanta: fatta di nostalgia del futuro, di sensibilità, di un'insicurezza che non è più aggressiva o rabbiosa ma vagamente introspettiva, sommessa, adolescenziale, sempre in bilico tra compiacimento e autodistruttività (Con un'avvertenza. Qui non si parla di dolori veri, di autentiche perdite o tragedie: solo di un disorientamento, di quello squilibrio senza nome che sospende nel vuoto...).
Magoni (e altri miracoli) (perché così si chiama lo spettacolo, regia di Riccardo Piferi, che si replica al Ciak di Milano) assume fin dall'inizio una forma vagamente didattica. Del resto non è una novità: in quest'epoca senza maestri, solo i comici (con eccezioni marginali) possono permettersi di dare lezioni. Nei primi minuti, vengono citati (con discrezione, e nel modo giusto) Silvia Plath e Alessandro Baricco, Modugno e la Bonaccorti, Baudelaire, Garcia Marquez e Kant. Mentre l'elenco si allunga, si delinea una nuova, gradevole (e godibile) puntata di quell'ironico e garbato corso di sociologia del sentimento che Lella Costa costruisce nei suoi spettacoli.
Scopriamo che la nostalgia è nata in Svizzera (con tanto di tesi di laurea seicentesca sulla terribile sindrome che colpiva i mercenari lontani dalle loro valli). Che le reazioni maschili ai magoni delle donne sono facilmente prevedibili e classificabili (il comportamento del maschio può essere migliorato, con un po' d'applicazione). Che il magone non è monopolio femminile: tipico il "magone da stadio" suscitato dalle note di un qualsiasi inno nazionale (non necessariamente il proprio), debitamente illustrato da podio, medaglia e bandiera. Che esistono magoni bisex, a cominciare da quelli politici. Che la musica è una macchina per produrre veri e finti magoni (a proposito, alla maniera di Paolo Rossi, lo spettacolo è supportato dalla colonna sonora rock-jazz di Ivano Fossati, eseguita live da Mario Arcari, Claudio Fossati e Edoardo Lattes).
Tuttavia il comico è solo una delle corde di un'attrice che ha raggiunto una notevole maturità espressiva (e che sa far suo l'esempio dei migliori tra i suoi colleghi e colleghe), e può proporsi come portavoce di una coscienza femminile fatta di autoironia e buon senso, sentimento e dignità, nutrita di buone letture e di una moderata dose d'impegno. In Magoni non mancano inserti di forte tensione drammatica, da quello sull'aborto a quello su piazza Tien-An-Men: perché la difesa dei propri sentimenti e della propria dignità (e la polemica contro il sentimentalismo) assume una connotazione immediatamente politica.
Magoni racconta il privato
(o addirittura una intimità difficile da tradurre in parole), e
tuttavia non lo esibisce mai, non lo involgarisce. Mantiene vivo
il senso del pudore e quello del ridicolo. Anche se il suo
personaggio è costruito sul dubbio e sull'insicurezza, Lella
Costa riconosce le aggressioni alla sua (alla nostra) integrità:
sa che vengono soprattutto, come sempre, da quelli che non hanno
dubbi ma solo certezze. Da quelli che non dimostrano i loro
sentimenti, ma usano quelli degli altri. Da quelli che non hanno
debolezze (o fingono di non averne) e si accaniscono su quelle
altrui. Insomma, da quelli che non sanno cos'è il magone.
La daga nel loden
(1995)
Per chi voglia ristorarsi con una dose massiccia - quasi un'overdose - di Lella Costa, l'occasione È ghiotta: quasi due ore di spettacolo, una serata d'onore che presenta al Piccolo Teatro Studio, con il titolo La daga nel loden (lo stesso del libro con i suoi primi tre monologhi), unantologia dei suoi pezzi migliori.
In Italia Lella Costa è stata forse la prima donna a riprendere il modello dello stand up comedian alla Lenny Bruce - coniugandolo con una strizzata d'occhio all'autoironia al femminile alla Franca Valeri. L'autobiografia spettacolarizzata e dunque fittizia dell'autore-attore che si reinventa raccontando in prima persona diventa così - inglobando esperienze e racconti altrui - una autobiografia collettiva, nella quale è possibile seguire temi ricorrenti.
La daga nel loden affronta nella prima scena una questione personale: perché agli esordi della sua carriera, come da manuale, l'aspirante attrice Lella Costa, da poco diplomata all'Accademia dei Filodrammatici, venne tranquillamente scartata a un provino per El Nost Milan. Strehler non l'aveva voluta, insomma. Per approdare sul palcoscenico del Piccolo la volonterosa aspirante attrice ha dovuto seguire una strada più tortuosa (e probabilmente più divertente: tanto che ora, quindici anni dopo, quella debuttante mancata può esibirsi in un'irresistibile caricatura del "pianissimo singhiozzato sincopante" di Giulia Lazzarini).
Ma dopo questo affondo, non è difficile individuare i due temi - due ossessioni quasi obbligate per chi si è formato negli anni Settanta - del teatro di Lella Costa, il rapporto di coppia e la memoria, la ridefinizione del rapporto tra i sessi e l'equilibrio tra storia personale e vicende collettive. Con qualche effetto curiosamente paradossale, almeno a giudicare dal sismografo offerto dalla Daga nel loden.
La comicità di Lella Costa cerca di diffondere anticorpi. Di fronte alle difficoltà di rapporto tra i sessi nell'era del post-femminismo ha un effetto demistificante e sdrammatizzante: ammicca alla metà femminile della platea ma strizza l'occhio anche i maschietti (o quel che ne resta), gioca con il sesso ma anche con il sentimento e l'amour fou, esaspera i luoghi comuni fino all'assurdo e stempera le tensioni tra i sessi nel buonsenso. Non è difficile, attraverso questo collage di estasi e fallimenti erotico-sentimentali, ricostruire la storia della coppia in questi ultimi anni, e raccontare unevoluzione personale e collettiva che corre sempre il rischio di farsi schiacciare tra l'eternità delle frasi dei Baci Perugina e le rivelazioni sconvolgenti dell'ultimo sondaggio dell'"Espresso", le banalità alberoniane e la pseudoscienza dei test sessuologici.
Paradossalmente - ma non troppo -
a restare invece un passo al di qua di ogni possibile
storicizzazione è invece l'indagine sulla memoria, spesso più
sentimentale che ironica. A riaffiorare è il passato prossimo
dei grandi eventi storici vissuti (o televisti) negli ultimi
decenni ma soprattutto la microstoria individuale, fatta anche di
ricordi casuali, di cascami della cultura di massa, di piccole e
grandi rivelazioni, di itinerari personali che rispecchiano le
svolte del costume collettivo. Quel che la memoria individuale ha
salvato dall'erosione del tempo, lungo sentieri misteriosi,
casuali, che a volte possono apparire stupidi o perversi, è
ancora vivo e si proietta sul nostro presente, quasi lo invade e
lo sommerge. E' insieme la negazione della storia e la sua più
forte presenza: può indurre al piacere regressivo della
nostalgia in un amarcord generazionale, o può addirittura
intrappolare con i suoi fili le scelte attuali, tra ricatti
sentimentali e richiami alla coerenza.
Stanca di guerra
(1996)
Nei suoi spettacoli, Lella Costa lavora da tempo allesplorazione insieme ironica e sentimentale degli stati danimo individuali e collettivi. Il suo nuovo lavoro (scritto con un nutrito pool di co-autori: gli abituali Massimo Cirri, Sergio Ferrentino, Piergiorgio Paterlini e Bruno Agostini, più Gabriele Vacis che firma anche la regia e soprattutto il glamour letterario di Alessandro Baricco) si muove sullo stesso crinale, ma dimostrando fin dal titolo ambizioni ben maggiori: perché Stanca di guerra (al Teatro Ciak di Milano) lascia presagire che - nel corso di quelle di ore di monologo si parlerà anche di cose molto serie e nientaffatto divertenti. Del resto quella dellimpegno civile e della qualità letteraria può forse offrire una via duscita dalle strettoie del monologo comico, arricchendolo di temi e contenuti (a volte vagamente pedagogici) per cercare di disincagliarlo dal battutismo televisivo e dalla routine della satira politica.
Così, in questo Stanca di guerra, Lella Costa fa confluire un po di tutto. Resta naturalmente qua e là un pizzico di satira politica. Abbondano le citazioni colte: da un corso essenziale di sociologia a von Clausewitz, dal Macbeth a "la guerra è il modo in cui lOccidente guarda il mondo"; ma anche le citazioni colto-ironiche, come lanalisi comparata del monologo di Antigone e di Beautiful, volendo peraltro spiegare cose assai serie. Torna, con una divertita variazione bellica, il conflitto di coppia. Non manca il ritratto, con qualche pennellata patetica, di una madre anni Novanta alle prese con la crescita della figlia. Cè la polemica contro linformazione (e qualche suo mostro), con il suo perverso circuito di sensazionalismo e banalizzazione del male. Ci sono chiacchiere confidenziali e barzellette, non mancano i virtuosismi dinterprete e naturalmente qualche buona battuta cattiva. A spezzare e insieme collegare tutto questo (con qualche strappo un po brusco), a offrire attraverso una narrazione il possibile senso di una serata che procede per frammenti e divagazioni, è un bozzetto dal retrogusto gozzaniano ambientato ai tempi della Grande guerra, che ruota intorno alla fotografia di un giovane che sta partendo per il fronte.
Lispirazione dello spettacolo vuol essere in primo luogo realistica, cioè antibuonista: prendere nota dellesistenza dei conflitti, catalogarli e se possibile smitizzarli attraverso il riso. Ma affiora anche unadesione di fondo al pacifismo e una ribellione femminile alla violenza, a cominciare dalla perorazione contro lobbrobrio delle mine antiuomo (tra laltro parte degli incassi dello spettacolo sono destinati a Emergency, unorganizzazione non governativa che aiuta le vittime civili di guerra). Lella Costa si diverte a sovrapporre e confrontare la piccola realtà quotidiana, con i suoi attriti sostanzialmente innocui e dunque buffi, e le grandi tragedie della storia contemporanea, con le sue terribili stragi. Curiosamente, in questa riflessione sulla violenza dalla recente storia italiana e dallesperienza di una generazione, non riemerge mai la concretezza di quella "stagione di guerra" che sono stati gli anni Settanta (che è anche, probabilmente, il periodo in cui in Italia la riflessione sulluso e la legittimità della violenza è stata più lacerante, anche se spesso silenziosa). Quasi ad accantonare, almeno per il momento, gli aspetti più problematici e laceranti.
In questa cavalcata di quasi due
ore di monologo a ruota libera, tra mille temi e sollecitazioni,
il conflitto e la violenza paiono così confinati nelle pareti
domestiche, compreso il piccolo schermo, dove si celebrano tanto
gli orrori di Sarajevo quanto la designazione (da parte di Lella
Costa) ed eventuale acclamazione (da parte del pubblico) di un
"nemico personale" da odiare, indispensabile nellattuale
congiuntura video-politica.
Unaltra storia
(1998)
Nei suoi spettacoli Lella Costa vorrebbe metterci tutto: la quotidianità e la storia, la vita e larte, la comicità e la passione, le banalità e le grandi domande, e naturalmente il suo vissuto, i suoi incontri, le sue amicizie. Anche nel suo nuovo monologo, in scena al Piccolo Teatro. Sintitola Unaltra storia, ma in realtà di storie ne racconta moltissime: raccoglie infatti senza ordine apparente una enorme quantità di materiali, scovata, setacciata, messa a punto da un autentico pool di autori (la formazione comprende come al solito Bruno Agostini, Massimo Cirri, Sergio Ferrentino, Piergiorgio Paterlini, il regista Gabriele Vacis, ai quali va aggiunto Alessandro Baricco per lo spunto "astronomico" del finale), e condensati in due ore fitte fitte.
Si parte dalla nascita. O meglio, si comincia con il battesimo, e dallinquietante domanda che si sente rivolgere il neonato: "Rinunci a Satana?", con il necessario contorno di demoni in agguato. E si arriva fino alla morte, naturalmente, che è lautentico leit motiv della serata. Ma dopo aver attraversato mille divagazioni, mille personaggi e soprattutto mille narrazioni.
Lella Costa non racconta per salvarsi la vita, o per ritrovare un filo nelle schegge di unesistenza insensata (ha un senso dellio troppo forte e centrato per provare questa vertigine). Piuttosto, racconta per cercare un senso alla propria di vita e per trasformarla in merce di scambio: con lannotazione ironica, con la scivolata patetica, con lenunciazione di un principio condivisibile ma disatteso nella pratica. Rimescolando il vecchio e il nuovo: le battute le smancerie degli adulti nei confronti dei neonati e le considerazioni sociologiche sul parricidio a scopo eredità che è diventato uno status symbol di questa Italia, lattacco contro i pedofili e il sogno di un modo dove i mitici eroi degli anni Sessanta (da Kennedy a Che Guevara e Elvis, per arrivare fino allomaggio a Strehler) sono ancora vivi a lottare insieme a noi anche se magari allepoca se le sarebbero date di santa ragione. E poi il Piccolo Principe e le sue nuvole, il cappotto della nonna, levoluzione delle parole, eccetera eccetera. Moltiplicandosi in mille macchiette, dalla zitella che risponde ai telequiz al ragazzetto coatto, in un personale Pippo Kennedy One Woman Show, e tornando sempre a essere lei, con la sua saggezza millleusi, e una ironia che pare medicare tutti i graffi della vita.
Mentre sullo sfondo scorrono le diapositive scelte da Lucio Diana e Roberto Tarasco per illustrare questo viaggio politico-sentimentale nei costumi degli anni Novanta.
Non cè una morale, alla fine. Il senso continua a sfuggire in mille rivoli, nelle assurdità surreali e nelle ingiustizie inaccettabili di cui è fatto il mondo, nelle passioni che intrappolano, anno dopo anno, generazione dopo generazione, nelle stesse gag. Se non serve per ritrovare il senso (al massimo unillusione di buonsenso), raccontare e raccontarsi, divagare e svagarsi, è però almeno un modo per scambiare lesperienza, per non restare soli.
copiright Oliviero Ponte di Pino,
1992, 1994, 1995, 1996, 1998, 2000
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