UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di laurea in: Discipline delle arti, musica e spettacolo
 
 
 

La drammaturgia dell’attore comico fra teatro e televisione
(con esempi tratti dalla drammaturgia
di Franca Valeri, Gigi Proietti, Antonio Albanese)

Tesi di laurea in Drammaturgia
 
Relatore:
Prof. CLAUDIO MELDOLESI

Presentata da:
Alessandra Faiella
 

Cinque parole chiave:
Drammaturgia, comicità, teatro, televisione, attore

  Introduzione
 
 

Capitolo I

Le funzioni del comico

Lo smascheramento dell’imperfezione umana
La satira di costume: il comico anticonformista
La follia, il fool e l’infrazione alle regole
 
 

Capitolo II

Le tecniche dell’attore comico come elementi drammaturgici di base
La drammaturgia del corpo e del gesto
Improvvisazione e rapporto col pubblico
Immedesimazione e straniamento
 
 

Capitolo III

La costruzione del personaggio comico
L’osservazione della realtà
L’invenzione del personaggio tra scrittura e improvvisazione
Gli elementi linguistici:

Il tormentone
Dialetto e inflessioni dialettali
Il carisma dell’attore: il riso tra correzione e simpatia
Capitolo IV

Comicità e comunicazione di massa
Il Varietà televisivo
La televisione e la reificazione dell’attore comico
Scrivere per il teatro, scrivere per la televisione: differenze e difficili coniugabilità

Conclusioni

Biografie degli artisti citati

Bibliografia
 
 

 
 
Non v’è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano. L’uomo non è solo un animale che ride, ma è soprattutto l’unico animale che "fa" ridere".( Bergson, "Il riso")

 

Introduzione

Specializzato nell’arte del far ridere, l’attore comico sembra rispondere ad uno dei bisogni primari dell’umanità, raffinando il proprio talento nello sviluppo di un arte tra le più complesse.

Materia polisemica e politematica, la comicità sembra portare con sé le stesse contraddizioni del reale, confondendoci con la sua sostanza sfuggente e inafferrabile. In realtà l’apparente confusione è in gran parte dovuta alle diverse sfaccettature del fenomeno che non si esaurisce in una univoca funzione sociale ma si dipana in più direzioni, cambiando i suoi connotati a seconda delle diverse collocazioni spazio temporali. Il contesto storico, ad esempio, influisce in modo sostanziale sulla fruibilità delle diverse tipologie del comico. Altrettanto determinante è il contesto sociale, tanto che contesto storico e sociale possono essere considerati come linee di forza che comprimono e dirigono l’arte della comicità secondo traiettorie variabili, come ben evidenzia Umberto Eco: "Probabilmente il comico- come la droga- provoca i risultati più diversi a seconda delle condizioni del corpo sociale che lo consuma […]e ogni teoria dei meccanismi del comico deve integrarsi a una storia sociale del riso." (1)

Nei secoli precedenti il Novecento le analisi sul tema del significato del comico sono assai rare, anche se tra Sei e Settecento molti critici teatrali indagano sullo scopo della commedia, sui suoi fini morali, anche per difendere il teatro dagli attacchi delle autorità costituite. John Dennis (1657-1734), ad esempio, considerato il principale critico teatrale del 700, fa notare, in A Defense of Sir Fopling Flutter (1722), che l’argomento più conveniente al ridicolo è la natura corrotta e degenerata e che la commedia "mostrandoci ciò che si fa sul Palcoscenico comico, ci mostra ciò che non si dovrebbe mai fare sul Palcoscenico del Mondo". (2)

Siamo tuttavia ancora lontani da una analisi antropologica sul tema del riso, poiché, come sostiene Umberto Eco nell’articolo precedentemente citato dall’eloquente titolo "Il nemico dei filosofi", i grandi pensatori sono riusciti a definire Dio e l’essere ma non i meccanismi della risata.

Sarà il XX secolo a colmare certe lacune, forse perché è il secolo del moderno e come sappiamo la modernità ha portato con se nuovi orizzonti teorici, aperti sul mondo e i suoi continui cambiamenti, ha portato la consapevolezza che i confini del vivere sono spesso incerti, difficilmente spiegabili secondo le leggi della scienza e che la scienza stessa è un fenomeno umano e come tale non privo di relatività. Superate le certezze dell’etica positivista, il nuovo secolo accoglie l’incerto e lo sfuggente, studia le ambiguità dei sogni, il tabù delle pulsioni, l’inafferrabilità del riso. Non a caso due dei più grandi pensatori del nuovo secolo, Bergson e Freud, hanno dedicato i loro studi anche al tema della comicità. Sarà proprio Bergson che ci fornirà alcuni degli spunti più interessanti per tentare di comprendere i meccanismi che sottendono alla creazione del testo comico.

Escludendo Bergson e Freud, non sono molti gli studiosi che si sono dedicati al problema del comico sia da un punto di vista sociale che da quello drammaturgico. Recentemente Concetta D’Angeli e Guido Paduano hanno pubblicato uno studio interessante sulla fenomenologia del comico e delle sue "funzioni" sociali utilizzando una ricca casistica tratta dal teatro e dalle opere letterarie. Dario Fo nel "Manuale minimo dell’attore" ci mostra esempi concreti e trucchi del mestiere indagando su questioni di grande interesse, quali l’improvvisazione, l’uso delle maschere, il grammelot. Manca tuttavia in letteratura uno studio sul problema specifico della drammaturgia dell’attore e in particolare dell’attore comico, la cui professione tesa tra le due polarità dell’arte e dell’artigianato si nutre di un lavoro paziente e meticoloso, frutto di una ricerca personale spesso solitaria. Un contributo interessante è stato dato ultimamente da Marco De Marinis che in recente saggio dal titolo "Capire il teatro" (3) si sofferma sulla figura dell’attore comico nel teatro italiano del Novecento. Tuttavia sebbene ricca di spunti e di approfondimenti (che saranno utili anche per la nostra ricerca), la sua analisi include nel concetto di "attore comico" anche artisti che lavorano sul registro drammatico come Carmelo Bene o Leo de Berardinis. Per "attore comico" infatti De Marinis intende l’attore di tradizione popolare, in contrapposizione, almeno in sede teorica, alla tradizione borghese e accademica. Noi useremo invece il termine "attore comico" in un significato ancor più ristretto, come colui che "fa ridere" in teatro o utilizzando altri media.

Partendo dunque da quello che sembra l’impegno primario della comicità, lo smascherare i vizi e le imperfezioni umane, cercheremo di chiarire come questo avvenga nell’elaborazione del testo teatrale per opera dell’attore comico monologhista. Il nostro ambito di ricerca infatti si limiterà ad analizzare testi e tecniche recitative di attori contemporanei che, pur non disdegnando di partecipare a lavori collettivi, hanno spesso preferito una scena vuota dove essere protagonisti. Eredi di Karl Valentin e di Ettore Petrolini, costoro si sono sentiti a proprio agio nei panni di personaggi comici creati da loro stessi quindi più facilmente rispondenti alle proprie potenzialità espressive. Come l’attore comico-popolare di cui parla De Marinis, anche il "nostro" attore è caratterizzato dalla vocazione solistica, una solitudine scenica e drammaturgica, che lo porta a costruire da solo la propria opera drammatica, sfuggendo alla costrizione di un copione scritto da altri e gestendosi la scena senza aiuti registici (se non intesi soltanto come interventi di coordinazione attorale e drammaturgica molto limitata). Tra gli artisti con questo tipo di talento e impostazione ne abbiamo scelti tre, ognuno di essi emblematico per rappresentare il proprio tempo e il proprio ambito culturale: Franca Valeri, Gigi Proietti e Antonio Albanese.

Brani tratti dai testi di questi attori e le loro parole citate dalle interviste (nel caso di Albanese raccolte da noi), ci accompagneranno nel nostro excursus sulla drammaturgia del monologo comico. I tre attori che useremo come esempio ci sono sembrati emblematici per molti diversi motivi: sono, come già accennato, essi stessi gli autori del loro lavoro (anche se a volte in collaborazione con altri). Sono di tre generazioni diverse e quindi possono aiutarci a cogliere i cambiamenti nel lavoro dell’attore comico dagli anni 50 circa ad oggi.

Tutti e tre provengono da una solida formazione teatrale e tuttavia si sono cimentati col mezzo televisivo, un ambito che a noi interessa esplorare. Infine appartengono ad aree geografiche differenti (due lombardi e uno romano) e portano quindi nel loro modo di fare comicità alcuni aspetti specifici dei loro diversi retroterra culturali.

Lungi dal pretendere di svelare le leggi generali sottese al lavoro dell’attore comico, tenteremo tuttavia di individuare un minimo comune denominatore tra le diverse modalità espressive. Proveremo a uscire dal generico per domandarci se esistono delle regole o dei meccanismi che possano dirsi simili, nel lavoro di attori comici contemporanei.

Indagheremo dunque sulle tecniche attorali di immedesimazione e straniamento, sull’uso del corpo e del gesto, sull’uso dell’improvvisazione sia nella fase creativa che nella fase della messa in scena. Cercheremo insomma di cogliere lo sviluppo del testo comico, dall’osservazione da parte dell’attore della realtà circostante al lavoro di scrittura vero e proprio. Emergerà come per testo comico debba intendersi una complessa sintesi tra diverse elaborazioni artistiche: il testo scritto, ovviamente, che come vedremo, è elaborato in varie fasi, ma anche tutto quel patrimonio di gesti, di espressioni, di mimica facciale, di suoni, di intonazioni vocali che costituiscono la drammaturgia dell’attore comico.

Vorremmo inoltre sottolineare un aspetto finora trascurato del comico in scena: la sua capacità di provocare il riso non solo mettendo in evidenza e, quindi, punendo come dice Bergson, l’imperfezione e il vizio. Ma anche la sua abilità di far perdonare tali limiti umani, grazie anche ad un carisma personale capace di suscitare nel pubblico simpatia e complicità. La comicità infatti, come è stato osservato da diversi autori, possiede un duplice statuto: quello correttivo, evidenziato dal lavoro di Bergson, e quello liberatorio, che permette il compromesso tra l’istanza repressiva e quella trasgressiva.

Nella seconda parte della nostra ricerca cercheremo di comprendere i cambiamenti che intervengono nel personaggio comico passando dal palcoscenico al varietà televisivo.

Come le altre arti, anche quella dell’attore comico ha subito dei cambiamenti nella seconda metà del nostro secolo, quando il dilagare incontrastato dei mezzi di comunicazione di massa sempre alla ricerca di forme di intrattenimento universali ha trovato nell’attore comico un interlocutore privilegiato, offrendo, in cambio di un sostanziale impoverimento delle sue potenzialità espressive, il miraggio e spesso la realizzazione dei sogni di popolarità e di successo.

Si è così assistito soprattutto negli ultimi decenni al consolidarsi di un rapporto stretto, quasi simbiotico tra teatro comico e televisione: l’attore ha cercato e spesso trovato nuove modalità espressive adattando tecniche di origine teatrale ai codici e alle caratteristiche specifiche del piccolo schermo. Il circolo vizioso si è fatto in questi ultimi anni ancora più pressante: l’attore comico si fa le ossa in teatro dove può sperimentare le proprie modalità espressive. Poi deve passare obbligatoriamente per la televisione se non vuole restare per anni nell’anonimato. Dopo la consacrazione dei media può permettersi di ritornare al teatro, non senza qualche compromesso nei confronti di un pubblico ormai abituato a certi codici stilistici. In questo gioco oscillatorio, l’attore si trova a percorrere un terreno piuttosto accidentato e non privo di pericoli. Egli si trova nella condizione paradossale di dovere parte del suo successo proprio a quella omologazione televisiva che tanto teme, perché danneggia la sua originalità e svilisce il suo impegno attorale e drammaturgico.

Questa condizione si è, come dicevamo prima, inasprita soprattutto in tempi molto recenti. Riguarda dunque più da vicino gli attori della nuova generazione rispetto a quelli delle precedenti, e ha effetti anche sulla costruzione dei personaggi. Per fare un esempio possiamo citare il cosiddetto "tormentone" di cui parleremo nel terzo capitolo della nostra ricerca. Non è un caso che questo artificio linguistico sia praticamente assente nelle drammaturgie di Valeri e Proietti mentre diventa un elemento importante in quella del loro collega più giovane.

Cercheremo dunque di capire i rapporti che intercorrono tra drammaturgia teatrale e televisiva, le somiglianze e le differenze, indagando sulle possibilità del comico di sfuggire almeno in parte all’omologazione mediatica.
 
 

Note all’introduzione
  1. 1 U. Eco, Il nemico dei filosofi, articolo da L’espresso 13 agosto 1967, pag. 18
  2. 2 J. Dennis, Critical Works, Citato da Carlson: Teorie del teatro, Bologna, Il mulino, 1988, p. 155
  3. 3 Marco De Marinis, Capire il teatro, Roma, Bulzoni, 1999

  4.  

     
     
     


Capitolo I
Gli elementi della drammaturgia comica

 

Lo smascheramento dell’imperfezione umana

Come avverte Bergson, si ride soltanto di ciò che è propriamente umano. Umano e relativo all’imperfezione umana. Bergson ricorda i titoli delle commedie dove il vizio comico è il vero protagonista della commedia (l’Avaro, il Giocatore). Ben Jonson (1573-1637) commediografo inglese del ‘600, nella prefazione a Every man in his Humor (1598) analizza il tipo di "follie umane" che costituisce l’ambito della commedia. "Soggetto della commedia dovrebbe così essere un tratto, distorto e dominante, della personalità, non un semplice capriccio o un atteggiamento affettato. Lo scopo della commedia rimane morale, flagellare simili distorsioni mettendole in ridicolo". (1)

E’ questa del "Castigat ridendo mores", una tradizione antica; già in epoca classica troviamo una delle prime opere letterarie che analizzano la commedia, il Tractatus Coislinianus, di cui ci resta un frammento che qualcuno attribuisce ad Aristotele, altri ad un suo allievo: la definizione di commedia è "un’imitazione di un’azione ridicola e imperfetta, di sufficiente lunghezza… (presentata) da individui che recitano, e non in forma narrativa; che realizza attraverso il piacere e il riso la purgazione di simili sentimenti. I tipi della commedia sono buffoni, personaggi ironici, e imbroglioni, il linguaggio è comune e popolare". (2)

Cicerone (106-43 a.c.), interessato alla comicità come strumento dialettico e retorico, parla dei tipi convenienti al ridicolo: "il bisbetico, il superstizioso, il sospettoso, il gradasso e lo stolto". (3)

Tra Sei e Settecento si inasprisce il dibattito sulla morale dello spettacolo provocato anche dall’esigenza dei difendere il teatro e in particolare la commedia dagli strali dei censori ecclesiastici (soprattutto in Inghilterra dove il teatro è spesso bersaglio delle autorità costituite). Vengono così alla luce una serie di pamphlet in cui critici e scrittori, cercando di legittimare la moralità di commedie e tragedie teatrali, si sforzano di definirne i caratteri: "Compito delle Commedie è raccomandare la virtù, e disapprovare il vizio; mostrare la precarietà della grandezza umana, gli improvvisi mutamenti del fato, e gli esiti infausti della violenza e dell’ingiustizia." (4)

Tre secoli dopo Bergson approfondendo l’analisi antropologica del riso, ribadisce, anche se con premesse di natura filosofica e sociologica, la tesi del riso come denuncia degli atteggiamenti devianti rispetto all’ordine stabilito dal sistema sociale. Il comico rappresenta l’allontanamento dai valori sociali mentre il riso, punendo tali deviazioni ristabilisce l’ordine. Da qui per Bergson ciò che fa ridere è un atteggiamento rigido, laddove la società e la vita richiedono adattabilità ed elasticità del corpo e della mente. Ridicole sono le infermità psicologiche, le follie e il riso "punisce" tali deviazioni, poiché "ogni rigidità del carattere, dello spirito ed anche del corpo sarà dunque sospetta alla società, perché essa è il segno possibile di una attività che si addormenta ed anche di una attività che si isola, che tende a scostarsi dal centro comune intorno a cui essa società gravita, di una eccentricità, infine". (5)

Al di là delle osservazioni sulla moralità della commedia ci interessa notare la coincidenza di intenti tra studiosi di epoche così lontane nell’osservare che ciò che si confà al ridicolo è un difetto dell’animo umano, un elemento di disturbo nell’armonia del flusso vitale, l’immagine dell’anima umana immobilizzata in certe forme o il corpo in certi difetti. Come potremo osservare in seguito anche tutti e tre gli autori- attori qui presi in esame hanno creato i loro personaggi fondandosi sulla caratterizzazione e la parodia di aspetti caratteriali e nevrotici.

Infinita è la teoria delle assurde signore interpretate da Franca Valeri, impietosi ritratti di donne dietro alla cui vacuità e snobismo non si può fare a meno di leggere il disagio della società contemporanea. Che tratti della popolana romana o della signora borghese lombarda, lo sguardo acuto dell’attrice si posa sugli aspetti rigidi del carattere delle donne in questione, sulla loro incapacità di raggiungere una misura e un equilibrio interiore.

Caposaldo di questa lunga teoria è la Signorina Snob, personaggio che accompagnerà la Valeri lungo tutta la sua brillante carriera, passando dalla radio alle tavole del palcoscenico e infine alla televisione (prima nel varietà settimanale "La regina e…io", poi a "Studio uno"), per poi tornare nuovamente al teatro rinnovata e modificata per adattarla a tempi che cambiano.

Al personaggio della facoltosa milanese la Valeri si è ispirata anche per il cinema: in "Totò a colori" ce ne offre una nuova versione, forse meno raffinata, ma sempre assai gustosa, nella interpretazione della ricca signora che si lascia incantare dal presunto artista contemporaneo impersonato da Totò. Cinica, egocentrica, superficiale, la Signorina Snob è la summa di tutti i vizi e le meschinità della buona borghesia milanese (e non solo). Sandro Avanzo ne ha stilato un gustoso ritratto: "La signorina Snob è l’iperbole dell’Ego, il punto di riferimento assoluto della soggettività. E’ il prodotto di un’educazione basata sulla massima disponibilità di denaro che permette al personaggio di porsi totalmente al di fuori e al di sopra della vita quotidiana. I suoi parametri sono di conseguenza totalmente autoreferenziali, e in questo paradosso sta tutta la sua forza comica. […] La costosa educazione ricevuta non le ha certo formato un animo sensibile. L’arte, la letteratura, il frutto dell’elaborazione della mente dell’uomo, valgono per la signorina Snob solo sulla base della moda del momento ("Avrei anche potuto decidermi, già che c’ero a vedere quella faccenda della galleria degli uffizi, che tutte le volte che vado a Firenze mi dico: ’vacci, vacci’, ma ha quel nome bancario che fa tristezza da matti")". (6)

Fondamentale per l’effetto comico del personaggio è il linguaggio (su cui torneremo): un personalissimo stile telegrafico colmo di deformazioni, di accrescitivi e vezzeggiativi, infarcito di francesismi e di termini anglofoni, in tempi in cui le lingue Anglosassoni erano parlate da una ristrettissima élite.

Dalla "cafè-society" padana al proletariato urbano: ecco la Cesira, manicure milanese che si esprime con la parlata tipica del lombardo non acculturato, carica di strafalcioni e di luoghi comuni: "Sicché io una sera ero in casa mia e siccome ognuno nella sua interiorità ci è lecito di fare quello che vuole, eccoci allora, con rispetto parlando, ero un po’ in desabbigliè."

Il tentativo di usare una terminologia forbita fallisce subito: "Ho messo un bel vestitino, un modellino molto semplice, ma perspicace…".

Tipico del proletariato urbano degli anni 50-60 è anche un malcelato razzismo che non fatica ad emergere: "Bel ragazzo, spalla larga, un bruno, i suoi bei ricci qua di dietro e tutto quanto, e anche quella tenuta dell’unghia che dà il senso della signorilità. L’unica cosa…meridionale." (7)

Se la manicure milanese è poco istruita e un po’ razzista, la sarta romana è indolente al punto da voler spingere la cliente a finire da sola di cucire il vestito: "Sa che famo? Je lascio l’orlo imbastito, così se lo scorcia come je pare…". Oltre che torpida e fiacca la nostra sarta è anche insolente: "Sa che cià sto vestito? Nun je torna bene de petto, la spiatta tanto…Sarà che lei nun ce l’ha. Quasi quasi ce metto un rinforzino…Assunta, me porti n’imbottiturina Lollo?…che è sempre quella che ce l’ha mejo de tutte…sennò qua cascamo per tera…" (8)

Feroce la critica alle nevrosi femminili, dietro a cui si nascondono le bizze di mogli viziate e annoiate: "Una moglie nevrotica, che era un privilegio di pochi, è ormai di uso corrente. […] Non vale più portarla in Svizzera, né offrirle mille agi e tanto meno metterla nelle mani di uno psicanalista famoso e costoso. Escluso farle fare un altro figlio. Si sentirebbe sorpassata". Una donna borghese che si rispetti sa come mascherare una consumata furbizia femminile: "Una moglie nevrotica con un marito che le voglia bene deve avere un ragazzo vicino, lacerante per bellezza, disordine e fragilità nervosa". (9)

Spietato è il ritratto della madre egoista, che vuole a tutti i costi portare il figlio non al mare, come consiglia il medico pensando alla salute del piccolo, ma in montagna dove impegni mondani di ogni tipo attendono la signora.

Vedremo più avanti come i ritratti creati dall’attrice si facciano in questo e altri casi esempi di satira di costume, quando colpisce non soltanto l’individuo deviante, ma tutto un milieu, l’ambiente dell’alta borghesia superficiale e snob ad esempio, oppure le mode culturali degli anni ’70, quando, in molti casi, la contestazione politica diventava vuota esibizione di appartenenza ad una élite.

Gigi Proietti sfrutta il suo talento istrionico per creare o ricreare (ispirandosi inizialmente a Petrolini) maschere comiche di una umanità stravolta e allucinata.

Petrolini fu un maestro nell’infliggere colpi alle abitudini e alle idee preconcette ed incrollabili della società di fine secolo; non ci sarà più scampo per gli esibizionismi delle prime donne, dei viveurs, per i vezzi narcisistici dei conferenzieri, degli scrittori dai languori decadenti. Proietti "cita" Petrolini riprendendone fedelmente la maschera e la sua riproposta si fa a volte un po’ paludata, rischiando di non sfuggire ai pericoli della distanza temporale e culturale, che rende certe maschere efficaci nella loro teatralità ma mute per ciò che riguarda la società a cui si riferiscono.

Proietti si è rivelato tramite il modello petroliniano maturando all’interno di esso, fino a non averne più bisogno, avvertendo l’esigenza di creare autonomamente nuove maschere, specchi deformanti della realtà contemporanea. Del mondo del teatro Proietti deride gli esibizionismi, i facili istrionismi a buon mercato come quelli dell’attore "di estrazione popolare", che ha la fortuna di essere ignorante, ma ignorante vero, che ha scoperto tardi che Brechte è di Brechte e non di Grassi e Strehler. La vanità degli attori viene smascherata con sarcasmo elegante. L’attore soffre "tutto qui" nella zona diaframmatica o intestinale, "come si soffre qui non si soffre da nessuna parte", e poi si estragna: "come mi estragno io non si estragna nessuno…esco dal personaggio gli sputo in faccia poi rientro, è tutto un entrare e uscire...certe correnti d’aria!" Il gioco è qui quello classico in cui il basso, il prosaico, il corporeo sviliscono le pretese artistiche traducendo in termini materiali l’incorporeità della metafora.

I vizi del mondo del teatro vengono messi in ridicolo soprattutto nello spettacolo "Come mi piace" dove l’attore gioca a satireggiare le vanità del milieu teatrale, da quello classico (l’attore che recita Amleto e già russa alla parola "dormire") a quello di ricerca, al No giapponese recitato con inflessioni napoletane, al dramma di un attore amnesiaco nel mezzo di un dramma medioevale. Anche qui, direbbe Bergson, il bersaglio della comicità è un atteggiamento rigido, in questo caso ad essere satireggiata è la rigidità delle convenzioni teatrali.

Antonio Albanese, il più giovane dei tre, rivolge il suo sguardo ad un mondo popolato da esseri umani strampalati, alienati, di cui l’attore coglie i tratti distorti della personalità. I personaggi tratti dallo spettacolo teatrale "Uomo" (1992) hanno una lunga storia perché partono dal teatro (o dal cabaret) per giungere in televisione e poi ritornare al teatro.

L’esempio tipico di questo percorso circolare è Alex Drastico il meridionale spocchioso e fallocrate che anche grazie al tormentone "Io ce l’ho tanto, tu ce l’hai piccolo" riesce a sfondare in televisione nel programma di Paolo Rossi "Su la testa" (1993).

Epifanio è il personaggio poetico e un po’ folle antitetico a Drastico, frutto di un lungo studio teatrale, Efrem l’omosessuale ingenuo e affetto da incurabile solitudine. Nello spettacolo teatrale "Giù al Nord" (1997-99) i testi acquistano ancora più spessore e, come vedremo, possono essere collocati a pieno titolo nella satira di costume.

Non sono semplicemente i difetti dei nostri simili a farci ridere, ma il modo in cui ci appaiono, si manifestano. Non è tanto importante la loro intensità, cioè se siano gravi o leggeri, ma che siano inconsapevoli, automatismi psichici, gesti involontari che rivelano un vizio che si vuole nascondere. Per questo l’azione è fondamentale nel dramma, il gesto nella commedia: "l’azione è voluta, in tutti i casi è cosciente; il gesto sfugge, è automatico." (10) Nell’azione la persona si mette in gioco, "ma il gesto ha qualcosa di esplosivo che allarma la nostra sensibilità risvegliandoci." (Ibid.) Questa intuizione di Bergson è fondamentale per cogliere l’importanza della fisicità e della gestualità nell’arte dell’attore. Come vedremo in seguito, il gesto, specie se meccanico e ripetitivo, svela molto di più della parola, evidenziando non solo i tratti individuali di un personaggio, ma raccontandoci anche del suo ruolo nella prassi sociale. Del resto i personaggi da parodiare non sono mai interessanti "di per sé" come individui isolati da qualsivoglia contesto, ma attirano lo sguardo del comico perché sono espressione di atteggiamenti, costumi, mode culturali in cui il pubblico può riconoscersi.

Perché il difetto faccia ridere inoltre, dice Bergson, non è tanto importante che sia morale, quanto che sia insociabile: "La verità si è che il personaggio comico può a rigore, essere in regola con la stretta morale: gli resta solamente di mettersi in regola con la società. Il carattere d’Alceste è quello d’un uomo perfettamente onesto; ma è insociabile e perciò comico." (11)

Anche Eco sembra sostanzialmente acconsentire alla tesi di Bergson, quando sostiene che perché l’effetto comico sia valido la regola da trasgredire deve in realtà essere supposta come inviolabile: "In questo senso il comico non sarebbe affatto liberatorio perché per potersi manifestare come liberazione, richiederebbe (prima e dopo la propria apparizione) il trionfo dell’osservanza. E questo spiegherebbe perché mai proprio l’universo dei mass media sia al tempo stesso un universo di controllo e regolazione del consenso e un universo fondato sul commercio e sul consumo di schemi comici. Si permette di ridere proprio perché prima e dopo la risata si è sicuri che si piangerà". (12)

La comicità è dunque espressione di conformismo? L’attore comico non è che una pedina dell’establishment? Oppure rimane nella comicità contemporanea lo spazio per una azione di trasgressione sociale? La questione è stata ampiamente dibattuta e riveste oggi un’ importanza particolare in un momento storico in cui l’omologazione mass-mediologica sembra sempre più orientata a fare assumere alla comicità la funzione di mediazione del consenso, il che ingenera un proliferare esasperato di varietà televisivi centrati su di una comicità sempre più superficiale e di maniera. Eppure la satira televisiva non è un miraggio, è stata e continua in parte ad essere praticata, ma gli spazi che le sono riservati sono sempre più esigui. All’attore comico resta ancora la via di fuga nel teatro, ma anche qui, come vedremo meglio in seguito, dominano le leggi del mercato, regole che sospingono l’attore sempre più verso un circolo vizioso: il successo televisivo spalanca le porte dei teatri, pronte però a richiudersi non appena il calo dell’audience espelle il comico fuori dal grande "circo mediatico".

Ma prima di inoltrarci nel dibattito sul rapporto tra televisione e comicità, proviamo a definire meglio le caratteristiche e le possibilità di una comicità più graffiante e trasgressiva.
 
 

La satira di costume: il comico anticonformista

La tesi del riso come punizione della devianza sociale e come trionfo dell’osservanza alla regola non spiega un aspetto fondamentale della comicità e cioè il suo carattere trasgressivo e polemico. Bergson sostiene che il personaggio per essere comico deve essere "insociabile", cioè non adattato alle regole sociali. Si tratta qui di capire meglio che cosa si denomina esattamente col termine. Vi sono personaggi perfettamente socievoli e sociabili e tuttavia irresistibilmente comici; anzi la critica alla società repressiva e conformista passa proprio dalla derisione di personaggi perfettamente omologati al sistema (come l’industriale Perego, personaggio di Albanese che analizzeremo in seguito).

Senza tale critica alla società il comico non avrebbe ragion d’essere. I suoi bersagli serebbero soltanto i goffi, gli incapaci, i nevrotici. Vi è, una comicità "anarchica" o anarcoide che ama fare il verso alla "società" e alle aberrazioni a cui porta l’ordine su cui si fonda. L’idea del comico conformista, che nel condannare i difetti di comportamento dei singoli si adegua ai pregiudizi prevalenti nella società renderebbe inspiegabile come molti grandi comici, da Chaplin a Fo, hanno usato il comico come arma sociale, strumento di denuncia e critica ai nodi irrisolti del sistema.

E’ questa la spinta che muove anche alcuni nuovi comici, tra i quali Antonio Albanese: "Mi sta a cuore rappresentare la solitudine, l’ignoranza, la stupidità, i falsi valori. In quello che faccio c’è sempre una volontà di denuncia. Il comico deve essere in grado di rappresentare le ingiustizie. In ogni gesto c’è un comportamento sociale. Cerco di andare alla radice dei problemi, non affronto direttamente il comportamento che mi sembra aberrante (come ad esempio il razzismo), ma gli atteggiamenti mentali apparentemente meno gravi che ne stanno alle origini."

Siamo qui nel territorio di ciò che solitamente viene definito satira politica o di costume. Il taglio si fa dunque più caustico e a essere presa di mira è la società stessa o i personaggi più omologati con le sue regole.

Forse nessuno dei comici che prendiamo in considerazione può essere propriamente definito "satirico", ma è vero tuttavia che alcuni personaggi di Franca Valeri o di Antonio Albanese si avvicinano a tale definizione poiché i bersagli del comico politico non sono soltanto le ideologie ma anche i luoghi comuni e le convenzioni che guidano più delle leggi l’agire umano e le relazioni sociali.

Gigi Proietti ha spesso dichiarato nelle introduzioni ai suoi spettacoli che fare il verso ai politici "è come sparare sulla Croce Rossa" e che basta leggere i giornali per ridere. Sicuramente la comicità legata all’attualità si logora in fretta e rischia facilmente di affossarsi nella critica qualunquista del "sono tutti ladri". Anche un attore fortemente impegnato politicamente come Fo ha sempre cercato di scavalcare l’aneddoto del quotidiano creando storie e metafore in cui calare la realtà contemporanea.

Proietti dunque sfugge il commento diretto ai fatti del giorno, e non solo: più volte sottolinea che il suo non è e non vuole essere teatro di contenuti, pur ben sapendo che la mancanza (voluta) di significati è già di per se stessa un significato.

Più che qualunquiste però, le sue scelte ci sembrano piuttosto anarchiche, per l’insofferenza verso gli schematismi e le convenzioni. Sono soprattutto i manierismi del mondo del teatro a colpirlo e contro di essi Proietti ha lanciato strali in tutta la sua carriera. La satira sul mondo del teatro emerge in tutta la sua forza nello spettacolo "Come mi piace" (1991-94) scritto come sempre con Roberto Lerici, ma in tutti gli spettacoli monologanti di Proietti c’è sempre qualche elemento dissacrante le convenzioni asfittiche del palcoscenico. Così Giulietta (in "Come mi piace" Proietti si avvale della presenza di alcuni giovani attori provenienti dal suo laboratorio) si porta in giro il balcone in monopattino e un Goldoni di maniera rivela tutta la sua polverosa convenzionalità; non manca la parodia di un certo teatro d’avanguardia la cui ricerca drammaturgica si svolge sempre al buio perché altrimenti anziché cercare si troverebbe subito. Lo spirito si fa caustico soprattutto nel prendere di mira il brechtismo burocratico degli stabili e le leggi sul teatro piene di surreali assurdità. Ma al di là delle parodie sul mondo dello spettacolo l’apparente disimpegno dell’attore nasconde forse qualche altro elemento: ad una più attenta analisi non sfugge che i suoi funambolismi non sono mai fine a se stessi, ma che dietro allo sguardo sornione e beffardo dell’attore si nasconde una sottile ansia di fuga, come se il gioco, il canto, il ballo nascondessero un sottile malessere, un bisogno quasi compulsivo di stare molto sopra le righe per evitare di sprofondare verso il basso. Forse lo spettacolo dove più emerge questa profondità dietro alla leggerezza è quello che l’attore ha dedicato allo scrittore Ennio Flaiano in una serata unica al Teatro Parioli di Roma nel maggio del ’93, a poco più di 20 anni dalla morte dello scrittore.

Dal contrasto tra la sottile e sfuggente irriverenza dell’intellettuale e l’esuberante istrionismo dell’attore nasce la satira sui vizi di una Roma ambigua e volgare tutt’altro che "sanamente" vivace e popolare.

Proietti e Flaiano vagano per la città del finto boom degli anni ’60, e osservano in disparte e con apparente distacco i modi e le mode, gli snobismi e i vezzi dei nuovi ambienti sociali, dal cinema ai salotti. Nel finale, seduto sotto un cono di luce, l’attore giunge a parlarci del dolore, della sofferenza che non risparmiò nemmeno Flaiano, mostrando ancora una volta la tragedia che spesso si nasconde dietro la risata.

Franca Valeri si dedica alla satira di costume sin dai suoi esordi, quando con la compagnia dei Gobbi (Valeri, Bonucci e Caprioli), mette in scena sketch comici sulla società contemporanea. Dal 1960 in poi scrive monologhi comici di cui è anche l’interprete, come "Le donne" (1960), "Le catacombe" (1962), "Non c’è niente da ridere se una donna cade" (1978). La Valeri è maestra nel cogliere i tic e le manie degli ambienti sociali più à la page, dai salotti borghesi ai gruppi femministi più radicali di cui l’attrice rivela, non senza una vena di superiore distacco, gli aspetti più assurdi.

Il milieu borghese, alto o basso che sia, è uno dei bersagli preferiti dell’autrice. Feroci i ritratti delle donne snob, dalla famosissima Signorina Snob alla blasonata col titolo comprato che non teme di esporsi al ridicolo: "Tornando al titolo: l’abbiamo portato praticamente solo un paio d’anni, non di più e non completamente. Io non ho avuto neanche il coraggio di mettere una corona sui biglietti da visita. Per una volta che la cameriera ha detto al telefono "la contessa è in bagno" pare che abbia riso tutta Milano." (13)

Pur provenendo dallo stesso ambiente sociale della Signorina Snob, la Valeri non risparmia i suoi feroci attacchi nei confronti di un mondo superficiale e vanesio, fintamente dandy e anticonformista, refrattario alla massa ma paternalisticamente amante del popolo: "Il Lele ha trovato un giaciglio non so dove tipo albergo, e io mi sono sbattuta a corpo morto sulla mia solita cucciotta dai miei solitissimi pescatoroni. Fa così tanto lazzaretto".

Gruppi sociali come quello degli artistoidi o dei falsi intellettuali vengono spesso presi di mira dall’attrice, abile nel cogliere nel linguaggio e negli atteggiamenti di certi personaggi segni evidenti di snobismo culturale. Puntuale il ritratto della ricca signora appassionata d’arte (una delle tante variazioni sul tema della Signorina Snob): "Pronto Boston? Signorina chiamo da Milano…vogliamo muoverci? …baby, tira giù quel fiammingo! Lo sai che non voglio vedere niente attaccato ai muri…Io, che tutti sanno come cammino al passo con l’arte contemporanea e ho la fortuna di avere un palazzo…[…]

Pronto?…helloo…Ci siamo! Yes, it is me…Ah parla italiano signorina? […] Ah è un maschio? La voce mi lasciava qualche dubbio…Ottomila dollari ho mandato, caro. Lo dico non perché sia una cifra eccessiva, per carità, noi abbiamo in casa quadri modernissimi sull’orlo di non essere neanche quadri e sono costati molto di più…" (14)

Il monologo in questione non è soltanto il ritratto impietoso di una insopportabile signora con ambizioni artistiche, ma diventa anche satira su certe forme d’arte contemporanea del cui valore artistico l’autrice dubita fortemente. La signora chiede istruzioni per costruire l’opera del maestro, come fosse una operazione di bricolage: "Il maestro suggerisce mezzo pianoforte? Come mezzo? Abbia pazienza, voglio capire come lo dimezzo: cioè l’involucro oppure solo l’interno…Ah proprio segato a metà?…Segato, benissimo. C’è scritto tutto vero? Trova ovvio, certo…Senta nella parte che mi diventa l’opera devo tenere un pedale o due? Perché generalmente sono tre. A piacere? Baby scrivi…No, baby non chiedo il colore così facciamo segare quello di tua madre che è insuonabile."

In "Primo incontro con una femminista" l’attrice ci narra del polemico incontro, con una femminista radicale, di quelle che negli anni ’70 avevano trasformato l’impegno per i diritti della donna in una vera e propria guerra al maschio con effetti a volte paradossali e ridicoli. "Vedi, cara, il nostro sesso è vissuto per secoli davanti a uno specchio" mi ha comunicato una femmina seduta sui talloni scalcinati "e per secoli la donna si è adornata per piacere agli uomini. Puoi immaginare soddisfazione maggiore di quella di non dovergli più piacere?"

"Oddio," pensavo "c’è di meglio nella vita. Ma non ho aperto bocca."

Di fronte ai presuntuosi attacchi verbali della donna, la Valeri commenta con un ironico: "ma lei signora ne sa una più del diavolo". E la femminista replica implacabile : "io non sono una signora, che è il femminile di signore, sono una donna e basta, cioè un femminile assoluto. Non so niente più del diavolo che è una identificazione della cattiva coscienza maschile e comunque non mi rifaccio a nessun tipo di cultura inventato dagli uomini. Per me e per le donne del futuro Leonardo da Vinci e Mussolini non sono mai esistiti." (15)

Forse oggi non sono molte le donne che, come la polemica contestatrice di allora, aspirano più che alla parità ad "un rovesciamento della disparità", come dice la Valeri. Ma allora discorsi del genere potevano essere facilmente tacciati di conservatorismo e asservimento a valori reazionari. In realtà l’attrice, coglie con ferocia gli aspetti abnormi e paradossali delle mode culturali, e smaschera le adesioni acritiche alle ideologie. Non sono certo i diritti della donna a essere messi in discussione, ma la rigidità ottusa che guida certi ragionamenti fino al parossismo.

Il linguaggio tipico della contestazione studentesca viene messo in ridicolo anche nel monologo: "La signora Cecioni contestatrice." Qui l’ironia sullo slang politichese si fa ancora più caustica, perché a pronunciare certi luoghi comuni è la Signora Cecioni, una donna del popolo solitamente estranea agli ambienti della contestazione politica.

Il lessico studentesco imitato dal dialetto romanesco della Cecioni, produce effetti esilaranti: "Questo è lo spazio mio, e me lo gestisco come me pare perché ciò da evidenzià li problemi mia…- esordisce la signora romana – Pronto mammà?…Te volevo dì…cioè stavo a pensà, ma nun me risponne subito a livello de casualità perché allora al limite nun me interessa manco una risposta si nun cià niente a monte…" (16)

Insomma, anche se l’attrice non fa mai esplicito riferimento a eventi politici in atto, segue con occhio critico gli effetti dei mutamenti sociali che intervengono a cambiare il volto del paese nel corso della sua lunga carriera.

Come abbiamo accennato in precedenza, Albanese approda alla satira di costume vera e propria nello spettacolo teatrale "Giù al nord": qui sfila una teoria di personaggi dediti al lavoro in modo ossessivo sia per scelta, come l’industriale Perego, che per costrizione come "L’uomo che non sa che lavoro fa" o il Professore, vittima, prima che degli allievi, delle assurdità dei programmi ministeriali.

Prendiamo ad esempio il già citato personaggio dell’industrialotto del nord interpretato da Albanese. E’ un uomo completamente dedito al lavoro, totalmente assorbito dalla sua amata fabbrichetta di Eternit, tanto da dimenticarsi di avere una moglie. Un tipo così è perfettamente funzionale alla società: lavora, produce, è perfettamente inserito nel sistema capitalista o post capitalista su cui è fondata la nostra società. Di tale sistema sociale ed economico però siamo tutti un po’ vittime, Perego e noi. Ridere di Perego non è dunque ridere di una personalità asociale o insociabile come direbbe Bergson, è piuttosto ridere di un’altra vittima della società o, meglio, è ridere della società stessa nei sui eccessi di efficienza e di perfezionismo. Si potrebbe obiettare che è proprio questo eccesso ad essere risibile, ma invero il capitalismo si basa proprio su tali eccessi, la società premia e gratifica chi vota la sua vita al lavoro e vive nella prona dedizione ad esso.

Perego: "Io, credetemi, non mi sono mai lamentato di niente, sono un uomo tranquillo. Non vedo le cose a tinte forti, anche perché l’Eternit ha quel grigio uniforme che ti insegna a vivere senza tanti grilli per la testa. Chiedo una cosa sola. Che mi lascino lavorare. Come si lavora qui, non si lavora da nessuna parte. Viviamo per il lavoro. Lavoriamo moltissimo. Per noi il lavoro è sacro. Lavoro, lavoro, lavoro. Una vita di lavoro. Ho visto lavorare il vecchissimo Perego, ho visto lavorare il vecchio Perego, io lavoro. Qui lavorano tutti…e mio figlio si droga." (17)

Tornando a Franca Valeri ci interessa notare come certi suoi personaggi sono molto vicini alla definizione che Pirandello dà dell'umorismo come "sentimento del contrario".

Comicità e umorismo hanno in comune la funzione di smascheramento delle ipocrisie sociali, la disintegrazione di una norma. Entrambi percepiscono che qualcosa è contrario alla illusorietà delle maschere sociali, evidenziano che al di sotto di esse esiste una realtà più profonda, pulsano delle energie vitali diverse rispetto a ciò che esteriormente appare.

Il comico però, secondo Pirandello, si sofferma superficialmente su tale avvertimento, mentre l'umorismo va più a fondo, coglie anche la genesi delle contraddizioni in atto. L'umorismo ci permettere di prendere coscienza delle motivazioni interne che hanno generato le maschere sociali e infine ci rimette in contatto con la realtà più profonda e vitale dell'essere umano.

Anche se, avverte Pirandello, dietro alla maschera se ne trova subito un altra: "Ciascuno si racconcia la maschera come può- la maschera esteriore. Perchè dentro poi c'è l'altra, che spesso non s'accorda con quella di fuori. E niente è vero! Vero il mare, sì, vera la montagna; vero il sasso; vero un filo d'erba; ma l'uomo? Sempre mascherato, senza volerlo, senza saperlo, di quella tal cosa ch'egli in buona fede si figura di essere: bello, buono, grazioso, generoso, infelice ecc. ecc." (18)

E davvero di fronte alle gallerie di personaggi della Valeri si ha la sensazione di trovarci di fronte ad una sfilata di marionette sociali, maschere illusorie dietro alle quali non ci sono che altre maschere, in gioco infinito di specchi. Ecco ad esempio la maschera della brava moglie e madre borghese, dietro alla quale si nasconde la maschera della vittima e altre cento maschere diverse: "To' non viene a casa...son contenta, son proprio contenta perchè ha il diritto di distrarsi un po' anche lui poveretto. E poi mi lascia forse sola? No ho i miei bambini, ho mia suocera, ho la donna di servizio...Io son contenta, son proprio contenta perchè ho fatto un buon matrimonio...Anche mia suocera è una brava donna, mi tratta come una figlia, non si fa riguardo di niente, mi piglia la mia roba, le calze per esempio, solo che lei ha il piede più lungo e me le rompe...e mio marito poveretto, che fastidio mi dà? Non viene mai a casa...ci sono uomini che sono sempre in giro per affari, una cosa, l'altra, non è bello...ecco, non è bello perchè si stancano...il mio non potrebbe farlo, perchè lui è un uomo delicato. Ma siccome lo so che passa la notte con una brava ragazza, allora di che cosa devo stare in pensiero?" (19)

Si ride con molta amarezza di fronte a questo ritratto, riso e pianto convivono e dietro al cinismo e alla cattiveria non può sfuggire un elemento di comprensione e forse di tenerezza. Certo qui manca del tutto l'ottimismo bergsoniano, che vede nella società la possibilità di uno slancio vitale che sempre si rinnova. Nel comico- umoristico manca ogni fiducia nei meccanismi sociali, percepiti come falsi ed illusori: in ultima analisi quindi si può dire che siamo nel campo della satira, intesa come rottura, scomposizione, frantumazione della normatività sociale.

Quanto poi la satira politica o di costume sia veramente efficace nello scardinare i luoghi comuni più retrivi, è questione assai dibattuta, che non sta a noi risolvere.

Ennio Flaiano, grande conoscitore del teatro è della società italiana, notava in un articolo del ’63, come la commedia italiana difficilmente riesca a farsi satira e denuncia poiché il riso in certi casi assolve e la denuncia inorgoglisce. Si scopre così con amarezza che coloro che dovrebbero sentirsi colpiti dagli strali satirici di una commedia, ne escono in realtà fieri poiché il successo della commedia ha concesso loro "uno stato civile artistico, un riconoscimento di ignobiltà che li solleva dal grigiore dell’ignoto." (20) Il fatto emerge con forza ancora maggiore nella società contemporanea dominata dai media e dalla televisione dove personaggi mediocri o negativi assurgono facilmente a simboli di successo e di potere. Lo scrittore si chiede se sia possibile la satira in un paese dove l’uomo medio avverte molto il ridicolo negli altri e poco in se stesso e dove la mediocrità di un personaggio se ampiamente diffusa ispira nella massa sentimenti di identificazione. Altrettanto amara la riflessione del fumettista satirico Jules Feiffer: "La nostra satira anziché indicare ciò che è la nostra società, rinforza il mito di ciò che la nostra società stessa dà l’impressione di essere. […] Il giullare di corte è stato sostituito dal sovversivo di corte e non c’è atteggiamento, che chiunque possa assumere ovunque, il quale non finisca per agire, in ultima analisi, a favore del sistema."(21)
 
 

La follia, il fool, lo sciocco e l’infrazione alle regole

La dimensione della comicità prevede la percezione dell’insolito e dello strano, l’individuazione dell’eccezionalità rispetto alla quotidianità che può farsi in certi casi trasgressione e follia.

Ridere della follia come pensiero deviante e irrazionale sembra consistere nel deridere con distacco e sufficienza di chi mette a repentaglio la sicurezza sociale basata sulle regole della logica e della ragione.

Ma la questione si fa più complessa se si prende coscienza che il folle è in grado di sollevare dubbi legittimi sulla perenne fondatezza di tale ordine razionale le cui leggi sottoposte ad uno sguardo diverso e straniante appaiono discutibili. Il folle è ridicolo perché la sua è una logica altra rispetto alla norma, ma è comunque una logica anche se appare maggiormente legata agli aspetti pulsionali ed inconsci.

Il folle o lo sciocco è colui che non può o non vuole tentare di omologarsi al sistema e di piegarsi alle sue regole, perché qualcosa lo sospingerà sempre verso il crollo dei dogmi e delle certezze; è colui che, in ultima analisi non può o non vuole adeguarsi alla logica dell’altro, del mondo: è un permanente e insanabile contrasto tra forze opposte. Sono proprio questi aspetti a rendere la follia inquietante, ma attraente nelle sue potenzialità liberatorie. "In ogni caso si introduce il sospetto che il processo di conoscenza possa fare a meno della ragione, come pure che se ne possano alterare radicalmente gli strumenti e che questo procedimento, lungi dal paralizzare ogni capacità di pensiero, ne liberi altre possibilità, impreviste e sconosciute." (22)

Questo uso del comico come minaccia all’uso soffocante di una ragione normativa è simile alla tecnica del paradosso linguistico, l’aggressione alle procedure logiche del linguaggio: nonsense, calembours, paradossi linguistici sono tutte infrazioni alla razionalità del linguaggio, giochi liberatori e paradossali con cui ci è data la possibilità di sfuggire al rigore delle strutture sintattiche e grammaticali esattamente come "mimando" la follia si sfugge alla fissità delle norme sociali. Così nel comico letterario e teatrale la follia si fa tic, mania, nevrosi del quotidiano.

Proietti gioca spesso con la follia nei suoi personaggi citando l’iconografia del pazzo: occhi spiritati con le pupille che ruotano vorticosamente, i capelli arruffati, il sorriso sardonico vagamente allucinato.

Nel suo spettacolo più famoso, "A me gli occhi please", l’attore tra uno sketch e l’altro è perseguitato dalla figura muta di un infermiere, che si suppone uscito da un ospedale psichiatrico. Del resto il riferimento alla follia è esplicito, Proietti gioca con l’ambigua affinità tra l’attore e il folle: "E’ assolutamente scandaloso che uno come me sia finito qua dentro…ma il mondo non ci ha fatto caso, il mondo ha ben altro di cui occuparsi che di uno come me, che vagando alla ricerca di un se stesso meno inconsistente, è stato arrestato per vagabondaggio, e pochi sanno che nel nostro paese il vagabondaggio è assimilabile alla pazzia e può condurti al manicomio. Come nel mio caso, finito in questa cella, in questa scena, palcoscenico, luogo chiuso, depresso, represso, dove la fantasia non alberga quasi più. […] Ma chi sono io, ho perso la mia identità, quella sì…forse presentatore, faccia suadente, sorriso imbecille, cretino, tentatore, tentato, malato, navigatore solitario, sempre in cattive acque, nel senso morale dell’acqua, poco amante della vita associata, sì poco amante della vita associata, ma amico dell’umanità …e allora …attore…forse". (23)

L’attore ha una, cento, mille identità o forse non ne ha nessuna e gioca al teatro per cercarne una diversa ogni sera; l’attore cretino, tentatore, tentato, malato, malato forse di pazzia, forse malato d’arte, di passione. L’amore per il teatro è passione e la passione è stata spesso assimilata alla pazzia, perdita della ragione, dell’equilibrio, gioco sfrenato, gestualità eccessiva, scomposta. Nel palcoscenico, "luogo chiuso, depresso, represso", si consumano i rituali degli scambi di persona, delle metamorfosi, delle identità perse e ritrovate, dei volti che si fanno maschera e delle maschere che si tramutano in volti, dei corpi sudati, esaltati, eccitati fino al fanatismo, alla follia appunto. Il teatro offre già di per sé uno specchio deformato della realtà in cui il mondo reale subisce sdoppiamenti e travestimenti, ambiguità e confusioni tra vero e falso, tra realtà e menzogna.

Il teatro dunque è già una forma di alterazione del reale o se si preferisce di metareale, con un suo statuto particolare che mette in gioco le relazioni tra logica e follia in un gioco di incastri e sdoppiamenti: "In effetti il teatro rappresenta una condizione in cui le categorie razionali sono insieme mobilitate e messe in scacco; è il luogo dell’equivoco, che duplica e potenzia la struttura del mondo e la ragione che lo governa, ma inducendo il dubbio sulla sua realtà ne vanifica le leggi […]" (24)

Con modalità espressive alquanto differenti, anche Albanese ha sfruttato nei suoi personaggi il tema della follia. L’attore, che ha lavorato in un centro psichiatrico, afferma: "Sono sempre stato attratto dalla follia: nella follia trovi il gesto non comune, non banale, la follia mi spaventa ma mi attrae, mi affascina incredibilmente. Siamo tutti condizionati dallo sforzo di contenere il movimento, e quando non lo vedo controllato vengo irrimediabilmente attratto".

Da questo sentimento ambivalente di attrazione e timore nasce il personaggio di Tommino, un degente di una casa di cura: il personaggio è il protagonista di uno spettacolo dal titolo significativo di "Psicofarmaco", il primo di Albanese, in scena nei cabaret milanesi. In un secondo momento il personaggio si trasformerà in Epifanio, una versione meno inquietante della precedente e per questo esportabile sugli schermi televisivi. Se Tommino era chiaramente un malato di mente, Epifanio è una figura più aderente a quella dello sciocco timido e buffo, impacciato e stralunato, con una gestualità bizzarra, inconfondibile. La camminata ondulatoria, i tic, la labbra spostate lateralmente in un mezzo sorriso che diventa la sua maschera. Epifanio è colui che con la sua logica "altra" vede ciò che gli altri non riescono a scorgere. Un monologo di Tommino, scritto da Francesco Freyre e ideato da Daniele Sala è stato interpretato da Albanese presso l’Ospedale psichiatrico "Roncati" di Bologna nell’ambito della rassegna estiva "Bologna sogna 1992". Non a caso il brano si intitola: "Visita guidata al mondo capovolto".

Seguiamone l’inizio: "Valeriana! Ti si stacca la gola a forza di fumare! No, stai fumando, c’ho naso io, son minga depress. Va che muro Valeriana! Che crepe! Si entra, si entra Bem! Ho ciulato una sigaretta al prufessur…Valeriana non te la do. Te me la dai? No. Son …a farsi stretti nelle crepe si entra. E quando si entra, prima viene sangue al naso… minga depress. Vado a prendere il pubblico.Butta quella cicca!

Un buongiorno a me, un buongiorno a te

E un buongiorno a voi del pubblico.

Regola terza non si fuma. Regola seconda, se capovolti ci vuole il fazzoletto, perché viene il sangue dal naso.

Terzo, la pianura è piena di monti, solo che da qui non si vede, perché sono sotto. […]

E’ un mondo di poesia e di immaginazione, un mondo onirico dove l’individuo scopre poteri immaginifici, a lui ignoti nella vita da sveglio. "[…] Allora, andando di là, a parte il sangue dal naso, ho visto che i sassi crescono spontaneamente; ho visto che quando piove, piove solo dentro le persone; e ci son poche cose, ma molto ben fatte, e tutti si fissano a guardarle, anche le parole sono poche, e si ripetono sempre le stesse, i colori son diversi, e non stanno fermi, e ronzano mosche, molte mosche ma la Valeriana, capovolta, sembrava un fiore, era bella come un fiore." (26)

La follia ci porta nel mondo stravolto del sogno e non è un caso che sia Freud che Bergson ci parlino spesso di comicitàe follia, di riso e di sogno. Del resto i due pensatori scrivono nello stesso periodo e alcune date ci indicano qualcosa di più di una semplice coincidenza. Bergson pubblica "Il Riso" nel 1900, esattamente lo stesso anno dell’ "Interpretazione dei sogni"; nel 1905 Freud pubblica "Il motto di spirito e i suoi rapporti con l’inconscio". Il sogno, come sappiamo, segue per Freud, logiche diverse e per molti versi opposte a quelle diurne. Elaborando le tracce diurne il sogno le trasforma, creando attraverso meccanismi di condensazione, associazione e simbolizzazione, scenari dove si manifestano le pulsioni inconsce.

L’essere umano da sveglio è soggetto alle leggi che governano la realtà. Nel sonno la necessità cede il posto ad una nuova esperienza mentale affrancata dal bisogno di dominare con l’azione l’ambiente circostante. Libera dalle strettoia della logica diurna, l’immaginazione onirica segue le sue regole: "V’è dunque una logica della immaginazione diversa da quella della ragione – che, anzi, talvolta le si oppone e sulla quale bisogna tuttavia che la filosofia faccia assegnamento (…). E’ qualcosa come la logica del sogno, ma d’un sogno che non venga abbandonato al capriccio della fantasia individuale, bensì sia il sogno sognato dalla intera società". (27)

Il comico analogamente al sogno, sembrerebbe fondarsi, in ultima analisi, su atteggiamenti indifferenti al "principio di realtà".

Oltre ad essere uno stravolgimento delle logica e della ragione normativa, in certi casi la follia si fa momento ribellistico e anarcoide rispetto alle regole sociali. In epoca medioevale il fool aveva un ruolo di rilievo nelle feste popolari, dove rappresentava l’elemento trasgressivo. A questo proposito Bachtin, nel suo testo su Rabelais e la cultura medioevale e rinascimentale, sottolinea come il riso carnevalesco scompagini le gerarchie sociali e l’ordine dei valori.

Attraverso la parodia, il triviale e l’osceno la comicità rituale del carnevale associa figure inconciliabili quali il pazzo e il re, l’uomo e l’animale, la religione e l’osceno con una furia iconoclasta e tuttavia ambivalente: la sovversione infatti non è mai definitiva ma temporanea e instabile. Tutto questo ci fa pensare ad una esigenza collettiva di trasgressione che si è perpetuata per alcuni secoli, perdendo via via di forza eversiva probabilmente a causa dell’affermazione della cultura borghese.

Oggi poi che la società ha mitigato i suoi caratteri repressivi, la fissazione regressiva sulle funzioni orali e anali (l’esaltazione del cibo e delle funzioni escretive), il linguaggio triviale e parodistico rispetto alla cultura alta, l’oscenità e la follia hanno perso radicalmente le loro funzioni. E oggi il comico triviale è relegato in spazi marginali rispetto alla cultura dominante. Persiste tuttavia anche nella cultura moderna il bisogno di proiettare nella comicità i desideri inconsci di liberazione, di evasione dai codici restrittivi della morale da un lato e della logica razionale dall’altro. Inoltre il comico nel suo ruolo di fool sembra assolvere anche alla funzione di farsi carico dei vizi e difetti umani per permettere agli altri di esorcizzarli proiettandoli su di lui.
 
 

Lo sciocco

Stupidità e follia vengono spesso accomunate perché considerate come deficit del pensiero razionale e intelligente. In realtà esistono tra follia e stupidità differenze rilevanti che denotano la prima come alterazione del pensiero logico e la seconda come limite dell’intelligenza. Se il folle nella sua alienazione mentale offre suo malgrado una visione alterata ma pregnante della realtà, lo stupido sembra piuttosto incapace di interpretarla correttamente.

Forse proprio a causa di questo statuto particolare, il teatro comico, la commedia, il cabaret sono sempre stati popolati da personaggi sciocchi e si può affermare che in ogni personaggio comico c’è un germe di follia o di stupidità.

Petrolini ha fatto delle "scemenzuole", delle cretinerie, il materiale dei suoi spettacoli: "Ho imparato in questa mia esperienza a sondare la stupidaggine, ad atomizzare la puerilità, a vivisezionare il grottesco e l’imbecillità del nostro prossimo, per arricchire il museo della cretineria. Il sentimentalismo odioso, la prosopopea, il tragicismo ad ogni costo mi hanno attratto irresistibilmente; e la boria presuntuosa di qualche attore del teatro così detto serio mi ha fornito molto materiale umoristico per il mio teatro". (28)

Il contrasto tra la logica e le sue interpretazioni distorte è sempre comicamente efficace, inoltre lo sciocco ha un’immagine di se gonfiata e priva di autocritica incapace com’è di interpretare i segnali del reale come limiti allo spazio dei propri desideri. Lo sciocco è insomma un essere vanesio, narcisista e tutto questo sembra coincidere perfettamente con un importante intuizione di Bergson secondo cui la vanità è un difetto dell’animo umano che non solo ne sintetizza altri e svariati, ma è anche il più adatto ad ottenere il carattere comico: "io non credo che vi sia difetto più superficiale, né più profondo. Le ferite che le si fanno non sono mai molto gravi, e tuttavia non guariscono facilmente […]. Per se stessa è a pena un vizio, e nondimeno tutti i vizi gravitano intorno ad essa e, raffinandosi, tendono ad essere non altro che mezzi per soddisfarla". (29)

La vanità in tutte le sue sfaccettature è uno dei temi preferiti da Franca Valeri forse quello che ha dato vita al maggior numero di personaggi. Nel breve monologo "Il suo fascino", che riportiamo interamente, troviamo un ritratto di donna vacua e incapace, chiusa com’è nel suo delirio narcisistico, di vedere la realtà.

"Che stupidone, non osa nemmeno più tornare a casa perché ha paura d’incontrarmi: ogni volta che mi vede perde la testa. Questa mattina si faceva il nodo alla cravatta vicino alla finestra, io ero sul balcone di fronte…gli tremavano le mani. E’ innamorato pazzo, pazzo…E io sono di un crudele! La donna che buffa bestiolina! A farlo soffrire mi diverto. Gli telefono tutti i giorni, tutti, e lui è talmente timido, si turba talmente che mi fa sempre rispondere che non c’è. La sera lo aspetto sulle scale, anche al portone: lui mi vede, fa finta di non vedermi… se ne va tutto dritto. Non mi ha mai rivolto la parola, mi sfugge. Poco fa l’ho visto uscire tutto elegante, sono sicura che andrà con una donna. Ha detto la portiera che se le sceglie molto belle… E’ perché spera di dimenticarmi più facilmente. Povero ragazzo, mi fa una gran pena. Ma cosa avrò io per far soffrire tutti gli uomini?" (30)

Il personaggio è totalmente privo del senso di realtà, tanto da volerla manipolare secondo i suoi desideri. Il contrasto tra la presunzione di pensarsi desiderata e la realtà dell’indifferenza altrui fa nascere una risata amara.

In molti altri personaggi comici si annidano aspetti sciocchi e vanesi. La già citata Esperta d’arte, ostenta un improbabile inglese e una altrettanto dubbia sensibilità artistica dato che installa le opere al contrario facendosi ridere dietro da tutta Milano.

L’esterofilia molto snob di certi italiani è un ottimo materiale per costruire personaggi sciocchi e ridicoli: prova ne è l’efficacia con cui la Valeri interpreta la ricca che lavora per hobby. Momola Menardi, già il nome la dice lunga, figlia di Tonino Menardi, attrezzature belliche, è la giovane rampante che si inventa lavori assurdi, quali il cattering per gli Americani ("European Refreshment…che sarebbe ti rinfresco l’Europa") o il Titles Research, che aiuta a trovare nomi per ogni tipo di iniziativa ""Non so scrivo un libro su…mettiamo Milano: come lo chiamo? Il Panettone, questo grosso cake che dà abbastanza l’idea della città, così spampanato."

L’idiozia del personaggio raggiunge l’apice con le strampalate citazioni di proverbi inglesi "trovare il corvo sulla coda del passero, come dicono i gallesi" o "trovare il suo vantaggio sul cappello della suocera, come dicono gli scozzesi", e il pezzo non poteva concludersi che con un "Cercheremo di allungare la testa per superare la coda, come dicono in Inghilterra nel Derby’s Day." (31)
 
 

Note al capitolo I

  1. 1. Ben Jonson, Works, 11 vol., a cura di C.H. Herforrd e P. Simpson, Oxford, 1925-52, III, p. 303. Citato da Carlson: Teorie del teatro, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 107
  2. 2. L. Cooper, An Aristotelian Theory of Comedy, New York, 1922, p. 224.
  3. 3. G. Monaco, Cicerone e il trattato de ridiculis, Palermo, Palumbo, 1964, p. 67
  4. 4. J. Collier, A Short View of the Immortality and profaness of the English stage, London, 1698, p.1. Citato da Carlson: Teorie del teatro, Bologna, Il mulino, 1988, p. 147
  5. 5. Henry Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1983, p. 14
  6. 6. Sandro Avanzo, "Questa o quella per me pari sono", in "Franca Valeri una Signora molto Snob, Torino, Lindau, 2000
  7. 7. Il personaggio si può ascoltare dalla voce di franca Valeri nel disco: Le donne di Franca Valeri, La Voce del Padrone, 1961, 45 giri EP (sigla 7EMQ215)
  8. 8. Ibidem
  9. 9. Franca Valeri, Le donne, Longanesi, Milano 1961
  10. 10. Henry Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1983, p. 94
  11. 11. Ibidem
  12. 12. Ibid. Pag. 90
  13. 13. U. Eco, intervento: "Il comico e la regola" su Alfabeta del 21-2-1981 Pag. 5-6
  14. 14. Franca Valeri, Le donne, Longanesi 1961
  15. 15. Ibidem
  16. 16. Ibidem
  17. 17. Ibidem
  18. 18. Antonio Albanese, Giù al Nord, Torino, Einaudi, 1998, pagg. 6,7
  19. 19. Luigi Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti vari, Milano, Mondadori, 1965, seconda ed. p. 153
  20. 20. Franca Valeri una Signora molto Snob, Torino, Lindau, 2000 pag. 97
  21. 21. Ennio Flaiano, Lo spettatore addormentato, Milano, Bompiani, 1996, pag. 159
  22. 22. Citato da Ranieri Carano, Jules Feiffer e l’America del Dissenso, in Enciclopedia del fumetto, Milano Libri, Milano 1969
  23. 23. D’Angeli, Paluano, Il Comico, Bologna, Il Mulino, Pag. I7
  24. 24. Luigi Proietti, Roberto Lerici, "A me gli occhi please", registrazione dello spettacolo rappresentato al Teatro Tenda di Roma nel 1976, videocassetta Videorai
  25. 25. C. d’Angeli, G. Paluano, Il comico, Bologna, Il Mulino, 1999, pagg. 189 - 190.
  26. 26. A. Albanese, Patapim e Patapam, Milano, Baldini e Castoldi, 1994 Pag. 85
  27. 27. Henry Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1983Pagg. 27, 28
  28. 28. Ettore Petrolini, in Stefano De Matteis, L’imprecazione culturale di Petrolini, Quaderni di teatro anno VI numero 21- 22, Agosto 1983
  29. 29. Henry Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1983, p. 111
  30. 30. Franca Valeri, Le donne, Longanesi 1961
  31. 31. Ibidem

  32.  

     
     
     
     
     

Capitolo II
Le tecniche dell’attore comico
come elementi drammaturgici di base
 
 

La drammaturgia del corpo e del gesto

Bergson sottolinea come il comico smascheri ciò che sta dietro la facciata spirituale dell’individuo la cui vitalità è contrastata dalle esigenze del corpo, dalla sua materialità: "E’ comico ogni incidente che attira la nostra attenzione sul fisico di una persona quando dovremmo badare solo al morale di essa". (1) Ecco perché un mal di pancia nel bel mezzo di una dichiarazione d’amore è ridicolo, così come il tonfo di un ballerino che si stava librando in aria, perché è il corpo che prende il sopravvento sull’anima, la forma sulla sostanza. Anche Freud arriva a questa conclusione: "Ecco spiegato in modo unitario perché ci appare comico chi, in paragone a noi, compie un dispendio eccessivo per le funzioni del corpo e insufficiente per le funzioni dell’anima, e non si può negare che il nostro riso è in entrambi i casi l’espressione della superiorità – cui va congiunto un sentimento di piacere – che ci attribuiamo rispetto all’altro. Se nei due casi il rapporto si capovolge, e il dispendio somatico dell’altro ci appare minore del nostro e il suo dispendio psichico maggiore, non ridiamo più, siamo stupefatti e ammirati".(2)

Tutti questi elementi concorrono a degradare " […] la dignità del singolo individuo richiamando l’attenzione sulla sua fragilità, comune a tutti gli uomini, e particolarmente sulla dipendenza delle sue funzioni dell’anima da bisogni del corpo. Lo smascheramento equivale allora all’esortazione: "Il tale e il talaltro, ammirati come dei semidei, sono soltanto uomini come me e te." (3)

Il corpo inoltre, e la gestualità che gli è propria, è espressione di impulsi interiori, rivela intenzioni nascoste e sentimenti interiori, ma è anche come vedremo produzione di senso, segno iconico.

E ancora, il linguaggio del corpo è legato alla sua appartenenza sociale. L’attore comico attinge dall’osservazione di atteggiamenti socialmente connotati, per caratterizzare in modo pertinente il personaggio: "[…]nella performance, certe caratteristiche di un determinato movimento sociale vengono ingranditi o esagerati, in modo da aumentare la loro stessa socialità". (4)

L’attore comico dunque, allarga il repertorio cinetico grazie all’osservazione di gesti "sociali", di posture e movimenti tipici delle persone che appartengono ad un determinato ambiente. Si tratta di qualcosa di analogo a ciò che Brecht definiva "gestus sociale", anche se, pur solo nel primo impulso, il gestus avviene all’interno di relazioni tra individui e in una piece che regola i comportamenti sociali tra i personaggi.

L’attore comico si crea poi un suo stile, utilizzando le proprie caratteristiche fisiche e in alcuni casi sfruttando in chiave comica i propri difetti: così Petrolini accentuerà col trucco gli occhi a palla, il grande naso, il mento prominente, e Gigi Proietti nel riprendere i personaggi del grande attore romano, trasformerà in questo senso i tratti, più regolari, del suo viso. Dario Fo disarticolerà il suo corpo dinoccolato in camminate sbilenche e accentuerà con risate equine la sua dentatura pronunciata e Totò porterà alle estreme conseguenze la trasfigurazione del volto e la disarticolazione del corpo – marionetta che tanto piaceva alle avanguardie del ‘900 da Craig ai futuristi. Grazie ad un linguaggio fortemente caratterizzato testualmente, questi comici si affermano con forza come autori di una performance totale e poliespressiva.

L’attore comico si trova solo davanti al pubblico senza appigli scenografici e scenotecnici, se non alcuni effetti di luce: privo di artifici tecnici a cui ancorarsi egli non ha che il suo corpo e la sua voce a disposizione, elementi che egli può rendere particolari, creando codici artificiali, innaturali, extraquotidiani, secondo la terminologia coniata da Barba. Stravolge dunque la sua mimica, costruisce una particolare gestualità, altera la voce, inventa nuovi rapporti tra parola e gesto, studia nuovi ritmi nella scansione delle battute.

In questa invenzione di nuovi stilemi recitativi, il corpo ha una influenza fondamentale, il corpo inteso in senso allargato che comprende non solo gestualità e movimento, ma anche voce, sguardo e respirazione. Spesso questi sofisticati processi di artificializzazione fisica e comportamentale non sono del tutto consapevoli nell’attore che li attua, ma non sono mai del tutto casuali e imprecisi, poiché su di essi l’attore basa il suo processo di seduzione sul pubblico.

Non è un caso che un attore poliedrico e poliespressivo come Proietti abbia riproposto le gags di Petrolini a cui dedica un intero spettacolo Caro Petrolini (1980) e alcuni brani di A me gli occhi please.

Petrolini era un maestro di nuove tecniche corporee, col suo uso del corpo in posizioni dinamiche e squilibrate, nell’utilizzo della voce e della respirazione in modalità volutamente innaturali.

Proietti aderisce al modello, anche se smorza decisamente l’aggressività e la forza provocatoria del maestro. Del resto l’ambiente sociale e teatrale da cui provengono i due artisti non potrebbe essere più diverso: se Petrolini all’inizio della sua carriera ha calcato i palcoscenici dei teatri da quattro soldi e dei caffè concerto di second’ordine, Proietti non è mai sceso più in basso delle cantine- cabaret degli anni ‘70.

Lo sberleffo dell’attore di tradizione si nutre degli umori caustici del teatro popolare di varietà in rivolta contro la prosopopea del grande attore finalmente al tramonto. La riproposta dell’attore romano di estrazione borghese non potrebbe conservare la stessa aggressività irriverente, tuttavia Proietti cita con eleganza e correttezza il maestro reinterpretandone lo stile.

Proietti è stato spesso definito "eccessivo" e "sopra le righe", ma ciò che appare in eccesso è in realtà la forza energica di uno stile recitativo antinaturalistico, nulla di più lontano cioè dalla recitazione compassata e convenzionale dell’attore drammatico e borghese, con la dizione perfetta e il corpo statico per facilitare l’emissione della voce. Il Proietti mattatore si è espresso in tutta la sua versatilità nel recital A me gli occhi please, unanimemente considerato il suo cavallo di battaglia.

Scritto insieme a Roberto Lerici e rappresentato per la prima volta nel 1976 al Teatro Tenda di Roma, e’ stato piu’ volte riadattato, intitolato in modi diversi ( A me gli occhi bis, Come mi piace, Prove per un recital), montato e rimontato con il gusto della contaminatio tipico dell’attore romano: qui egli si esprime completamente mostrando una totale padronanza della tecniche attorali dalla recitazione al canto al ballo. La presenza fisica dell’attore è una presenza plastica, un corpo capace di adattarsi e modellarsi senza sforzo alle diverse esigenze interpretative: fluido e vitale nei brani in vernacolo, compassato ed elegante nelle parodie dei classici, disinvolto e molleggiato nelle riproposte della gestualità americana.

Il potere di seduzione che Proietti ha sempre esercitato sul pubblico è dovuto ad una particolare abilità trasformistica fisica e vocale e ad una notevole forza carismatica, una energia esplosiva grazie alla quale lo spettatore rimane inchiodato a seguirlo durante tutta la sua performance. Nelle parodie che interpreta, il corpo dell’attore è sempre presente con una energia costante che egli modula sapientemente all’interno della partitura gestuale. In sostanza è quella che viene definita usualmente presenza scenica, ovvero la capacità di non scindere mai pensiero e corpo, corpo e azione tenendo fermi i propri obbiettivi. L’attore che perde questa unità organica si stanca e si smarrisce, non si diverte più e di conseguenza smette di divertire. Se l’energia scaturisce dall’interno, dal profondo, si manifesterà in azioni coscienti e mai meccaniche determinando la plasticità del gesto e della parola.

Nel saggio "Teatro e boxe" Franco Ruffini ha evidenziato come l’attore di teatro per certi versi svolge un lavoro analogo a quello dell’atleta, dell’acrobata e del boxeur. Se costoro si preoccupano troppo di essere ammirati, si distraggono perdendo di organicità e finiscono per perdere la gara. Così l’attore troppo concentrato sull’ammirazione che vuole suscitare nel pubblico cede alla trappola del cabotinage, della vanità di maniera, perde i suoi obbiettivi e smette di produrre azioni credibili. L’attore è come un acrobata che si confronta con ostacoli fisici e per superarli deve concentrare le sue energie in una sintonia di forze psichiche e corporee: "L’analogia organica tra esercizio atletico ed esercizio affettivo tocca il terreno professionale dell’attore.

Quello in cui la passione, prima di farsi moto dell’anima, è "movimento dell’azione drammatica". Prima, in senso temporale e in senso gerarchico. E’ con la passione sulla pagina che primariamente l’attore ha a che fare.

L’analogia organica, nel lavoro in scena e per la scena, pone in corrispondenza corpo e testo." (5)

Sebbene Proietti appaia molto concentrato su se stesso, la naturalezza con cui svolge azioni tutt’altro che naturali e il senso di leggerezza con cui arriva al termine di faticosissime performance ci fa comprendere quanto egli sia un attore organico in cui tutto il corpo è partecipe di ogni movimento.

E’ l’organicità del movimento che rende impossibile l’affettazione e il cabotinage, che crea il ritmo e l’azione credibile. Grazie all’organicità, l’artificialità delle tecniche extraquotidiane non diventa mai artificiosità ma restituisce un senso di naturalezza altrimenti impossibile.

In molte performance di Proietti le tecniche extraquotidiane, vengono estese anche al lessico e alla pronuncia che si trasforma e deforma fino a diventare volutamente "difettosa". La lingua si contamina con i dialetti creando nuove sperimentazioni linguistiche e sonore di grande forza espressiva come nel grammelot napoletano e inglese.

Altri attori lavorano invece sulla sottrazione Franca Valeri ad esempio, riduce al minimo la gestualità, ma questo non significa che non ne faccia uso. I suoi sono gesti per così dire minimalisti, essenziali e, proprio perché "asciutti", fortemente efficaci. La sua parodia del milieu milanese, snob e con velleità intellettualistiche prevede un volontario irrigidimento del corpo e una gestualità molto contenuta per accentuare lo scarso dispendio energetico che certe persone impiegano per comunicare con gli altri (a maggior ragione se considerati estranei all’ambiente che conta).

Se si assiste ad uno spettacolo di Antonio Albanese, non si può fare a meno di notare che la gestualità occupa uno spazio importante all’interno della sua drammaturgia. Una grandissima parte delle risate che egli suscita nel pubblico sono dovute ad una mimica sapientemente studiata.

Ogni personaggio possiede una precisa grammatica gestuale che lo contraddistingue inconfondibilmente. Basta un gesto, uno sguardo, un tic, per permettere di identificare con esattezza quel tipo di personaggio e la sua personalità. L’attore crea dunque una sorta di partitura gestuale , di testo non verbale che supporta o in certi casi supplisce quello verbale. Anche in lui dunque come in Proietti e in altri attori comici di tradizione è presente l’esigenza di caratterizzare i personaggi non solo da un punto di vista socio- psicologico, ma anche fisico e gestuale segnando grazie a tecniche extraquotidiane, la distanza tra il teatro e la vita reale che pure lo ispira.

Il personaggio del sig. Perego, l’industriale dell’eternit, esponente della grettezza nordica più piccola e meschina, l’uomo che non riconosce sua moglie perché è troppo impegnato a lavorare, ha un atteggiamento, composto, statico, ai limiti della rigidità. La sua scarsa mobilità fisica corrisponde alla limitatezza dei suoi orizzonti mentali. Sta sempre in piedi, con le mani in tasca, stipato nel suo cappottino su misura. Ricordiamo ciò che dice Bergson: "Là dove la materia riesce a far crassa esteriormente la vita dell’anima irrigidendone il movimento ed ostacolandone la grazia, ottiene dal corpo un effetto comico. Se dunque si volesse qui definire il comico confrontandolo col suo contrario bisognerebbe opporlo alla grazia più che alla bellezza; è piuttosto rigidità che bruttezza". (6) Una fisionomia comica dunque conterrà in se stessa tali rigidità e automatismi, che renderanno i lineamenti "antigraziosi" per usare una definizione cara a Marinetti.

In altri momenti il corpo di Albanese diventa mobilissimo: certe camminate sono quasi una danza: sposta il baricentro del corpo da destra a sinistra e poi da sinistra a destra con uno scatto veloce e compresso che ricorda quello di una molla; ricordiamo ancora le parole di Bergson: "qualcosa di meccanico applicato al vivente". Anche il gesto di Alex Drastico grazie al quale equipara la lunghezza del suo braccio a quella dei suoi attributi sessuali è nella sua ripetitività maniacale, qualcosa di meccanico, un gesto automatico dove una forza comprime qualcosa che riesce infine a liberarsi di scatto. In un processo estetico di stilizzazione ed esasperazione del gesto, Albanese ricostruisce i tic psicologici e comportamentali del personaggio.

Nella concezione classica della gestualità teatrale, il gesto è la traduzione esterna di un sentimento interiore. Attualmente nuove correnti estetiche tendono a considerare il gesto non tanto o non solo una comunicazione di qualcosa di preesistente, ma anche e soprattutto una produzione di senso. In alcuni personaggi di Albanese, per esempio, la gestualità si svincola dalla necessità puramente illustrativa. Le camminate di Epifanio, i suoi tic, i suoi sospiri e le sue pose statiche dense di stupore non sono la traduzione di un pensiero, di una intenzione precisa. Sono gesti eccentrici, bizzarri, intraducibili se restiamo nel binomio sentimento-espressione.

Certo esprimono moti dell’anima ma quasi come geroglifici da decifrare. In questi casi la gestualità è anche produttrice di segni, segni iconici precisi, che tuttavia resistono alla semiotizzazione perché la gestualità è inestricabilmente legata all’individuo che l’ha creata.

"Sono sempre stato attratto dalla fisicità, dal gesto, forse perché sono cresciuto con le immagini del cinema muto, o perché appartengo ad una generazione in cui la parola è stata svalorizzata." Le parole di Albanese ci ricordano quanto un certo filone del teatro contemporaneo abbia rivalutato la fisicità, la corporeità, come elemento fondamentale della prassi teatrale.

Nel novecento si è assistito ad un processo di rinnovamento che ha uno dei suoi punti di forza proprio nella riscoperta delle enormi potenzialità espressive del corpo e, soprattutto a partire dagli anni ’70, molti teatranti hanno incentrato le loro ricerche su questo rinnovato rapporto col corpo dell’attore, sviluppatosi poi in direzioni diverse. Per quanto riguarda la comicità è infinita la teoria degli artisti che hanno privilegiato questo aspetto della creatività attorale, integrando o eludendo il linguaggio verbale, recuperando a volte le figure del mimo e del clown: da Lecoq a Jango Edwards da Bustric a Yves Lebreton. Il già citato Dario Fo è considerato da molti comici contemporanei un vero maestro, per la sua capacità di coniugare parola e gesto, affabulazione ed espressione corporea.

Sentiamo ancora Albanese: "Ogni mio personaggio ha un ritmo interno, per me la musica è estremamente importante, il modo di muoversi, di parlare di un personaggio è modulato su un ritmo musicale, questo ritmo mi sostiene sempre anche durante le pause che io cerco sempre".

Sono le parole di un attore che ha sempre cercato dei nessi tra la parola, il gesto, la corporeità e la musica come spartito interiore che sorregga il testo verbale. Anche a questo proposito troviamo dei punti di contatto con il metodo pedagogico di Lecoq. Stefanesco ha analizzato questo tipo di ricerca della scuola del maestro francese: "Lecoq fa ascoltare ai suoi allievi differenti tipi di musica moderna e contemporanea e chiede che vi si identifichino finché non arrivano a realizzare essi stessi la loro propria musica, senza appoggio esterno.

Di solito questo lavoro consta di due fasi principali: nella prima, l’allievo cerca di tradurre corporeamente la musica ascoltata; nella seconda, Lecoq gli propone di rifare a memoria i movimenti senza l’aiuto dei suoni. […] Con l’aiuto della musica vengono anche ripresi gli esercizi di scomposizione / ricomposizione/ ingrandimento

/ riduzione delle "frasi gestuali" […] Riguardo a questo lavoro non è inappropriato parlare (citando Dalcroze) di "solfeggio corporeo". (7)

Albanese utilizza anche la musica come gesto, quando ad esempio il suono del sax commenta e sostiene il ritmo del testo.
 
 

Improvvisazione e rapporto col pubblico

E’ opinione comune anche tra una parte di autori e storici dell’arte teatrale che un elemento fondamentale nel teatro della commedia dell’arte fosse l’improvvisazione, ovvero la tecnica di recitare qualcosa di non preparato precedentemente. Taviani e Schino (8) hanno in verità ridimensionato il ruolo dell’improvvisazione nel teatro del ‘500 mettendo in evidenza come i cosiddetti canovacci fossero in realtà testi piuttosto strutturati, e anche le parti comiche dei singoli comici, gli sketch apparentemente improvvisati, fossero in realtà un patrimonio preesistente, nato dall’accumularsi di numerose improvvisazioni estemporanee, ma ormai ben consolidato.

Dobbiamo quindi superare la concezione romantica dell’improvvisazione come spontaneità e creazione "dal nulla", per intenderla in senso più serio e pregnante.

L’attore comico può usare l’improvvisazione in due modi diversi: come esercitazione da attuare nel momento della costruzione del personaggio (o comunque del testo) quando, tenendo fermi alcuni punti di riferimento già individuati, si lascia andare alla creatività, inventando e arricchendo il testo con nuove battute e situazioni. Oppure come modo estemporaneo di creare in scena, inventando battute o cambiando i ritmi direttamente sul palcoscenico in fase di spettacolo. E’ quest’ultima una tecnica molto complessa e dunque piuttosto rara anche se fortemente efficace dal punto di vista dell’effetto comico.

I comici da noi interpellati hanno dato minore importanza all’improvvisazione di quanto che ci saremmo aspettati, sia per quanto riguarda l’invenzione di gags durante lo spettacolo, sia nel processo creativo di costruzione drammaturgica. Forse questa tecnica è stata sopravvalutata a partire dagli anni ’70 quando si è affermata la moda del rifiuto del testo e l’esaltazione del potere liberatorio del corpo e della spontaneità.

Sin dai suoi esordi col "Teatro dei Gobbi" Franca Valeri sostiene che l’improvvisazione non faceva parte del loro modo di fare spettacolo: "Abbiamo seguito la verosimiglianza nell’aspetto fisico e nella mimica scenica, scartando oggetti, scene e costumi e cercando di portare il pubblico allo sforzo dell’immaginazione, partendo da abiti seccamente borghesi, direi misuratamente eleganti e non da quella mezza strada che è l’abito clownesco. Questa operazione richiede indubbiamente una grande precisione e devo ammettere che l’improvvisazione, motivo di ammirazione nella valutazione di un comico, non ha mai fatto parte del nostro bagaglio. Del resto questo si spiega col genere del nostro teatro, di estrazione ironica più che tradizionalmente comico." (9)

Anche Vittorio Caprioli si è espresso molto chiaramente su questo punto: "A proposito delle scenette, Silvio D’Amico aveva capito che queste nostre improvvisazioni non erano affatto tali. Cioè erano delle idee, delle osservazioni che noi prima portavamo sulla carta e poi realizzavamo con delle prove estenuanti. Cioè non abbiamo mai, mai, mai, improvvisato un alito. Tutto questo sapore di improvvisazione veniva da uno studio profondo." (10)

Anche nei monologhi successivi, la Valeri scrive in modo assai meticoloso e riporta la stessa meticolosità in scena senza dare spazio alle variazioni estemporanee. Del resto la Valeri resta fedele allo stile asciutto, cerebrale dei Gobbi, e i suoi personaggi sono frutto di una elaborazione linguistica raffinata che necessita di un lavoro di scrittura preciso che mal si accorda con i repentini cambiamenti di situazione imposti dall’improvvisazione.

Anche se possiede una comicità più sanguigna e fortemente "fisica" che farebbe supporre un maggiore desiderio di comunicazione empatica col pubblico, Antonio Albanese non ricorre all’improvvisazione tanto quanto ci si potrebbe aspettare.

Nell’intervista a noi rilasciata, l’attore ci indicava che la sua prassi è quella di partire dal testo scritto, per integrarlo poi anche con l’improvvisazione, ma quasi esclusivamente durante la fase creativa; durante la performance, l’improvvisazione si limita esclusivamente a incrementare la forza evocativa del gesto e delle pause. Anche se non abusa di questo elemento, Albanese ne evidenzia l’importanza nel rapporto col pubblico: "Non aggiungo molte battute durante lo spettacolo, gioco di più con le pause, aggiungo o dilato i gesti, quello sì, anche a seconda della risposta del pubblico. Il rapporto col pubblico è fondamentale, è un gioco bellissimo anche se faticoso, aggiunge una umanità fantastica. Ho tutto il rispetto per il teatro che utilizza la quarta parete, ho fatto questo tipo di teatro e lo rifarò, ma per il momento amo lavorare a contatto diretto col pubblico, sento questo rapporto in modo viscerale, è un mettersi in gioco coraggioso. Forse è perché vengo dal teatro classico che ho voglia di entrare in contatto diretto col pubblico".

L’abbattimento della quarta parete nel monologo comico è coerente con la situazione di solitudine drammaturgica in cui si trova l’attore: non potendo appoggiarsi ad un testo drammatico precedentemente scritto da altri, l’attore non ha che la sua attoralità cui fare riferimento: "Per interessare, per piacere, egli ha solamente se stesso, la sua persona, la sua tecnica, le sue doti di entertainer.

Egli non può e - sia chiaro - non vuole ricorrere, come l’attore borghese, allo scudo protettivo di una finzione drammatica, della cosiddetta "quarta parete": infatti, non è in scena per rappresentare (interpretare) ma, semmai, per rappresentarsi, o meglio – come scriveva Alberto Savinio a proposito di Ferravilla, Govi e altri – per "creare l’evidenza", mediante microstorie e piccole narrazioni". (11)

C’è inoltre una motivazione antropologica a questo desiderio di abbattere le barriere tra palcoscenico e platea: è evidente che la comicità da sempre compie un lavoro di attualizzazione delle tematiche teatrali; il comico attinge materia dalla realtà a lui contemporanea e si ispira a comportamenti individuali e collettivi che ben conosce perché li condivide col suo pubblico. Si instaura così un rapporto di complicità fondato su di un sapere comune e su di una sostanziale condivisione dei punti di vista. Da sempre l’abbattimento della quarta parete consente all’attore comico ampi margini di libertà; questi può agilmente interrompere l’azione per captare gli accadimenti estemporanei che possono manifestarsi durante una replica: un rumore, un colpo di tosse fastidiosa o una risata bizzarra sono "incidenti" comuni durante una rappresentazione, e il comico deve essere pronto a rilanciare con un gesto o una battuta improvvisati; tutto questo trasmette al pubblico una sensazione di immediatezza stimolandone la partecipazione. Un evento casuale accaduto durante una rappresentazione può a volte diventare un elemento permanente da inserire nel testo ed arricchire il repertorio.

Abbattuta la quarta parete l’attore è solo col suo pubblico e deve con l’esperienza imparare a sedurlo, ad attrarlo, quasi a domarlo. Anche se il pubblico di oggi è sicuramente più civile rispetto a quello del varietà e dei caffè concerto di secondo ordine di fine ottocento (quello vociante e chiassoso che gettava le bucce dei lupini sul palco e interloquiva ad alta voce con gli attori), tuttavia le sue reazioni di fronte ad uno spettacolo comico sono sempre determinanti. Se il silenzio di fronte ad uno spettacolo drammatico è indice di attenzione e di rispetto, durante uno spettacolo comico è un segno preoccupante di disinteresse e di noia; non può esserci battuta o lazzo senza una risata, più o meno sonora, in risposta, non ci può essere spettacolo comico senza la risposta plaudente del pubblico.

Per questo un testo comico non può dirsi completo se non è stato passato per il vaglio del debutto teatrale: il comico non costruisce i suoi materiali drammaturgici in laboratorio ma li sperimenta in presenza del pubblico. Nell’arte del comico il giudizio del pubblico è fondamentale, perché è il pubblico a decretare o meno l’efficacia di una certa soluzione scenica, di una determinata battuta comica, a decidere insomma che cosa "funziona" e cosa no.

Questa ricerca di approvazione da parte del pubblico, può sembrare una forma di appiattimento sul senso comune, sui gusti diffusi e omologati di chi assiste agli spettacoli teatrali. In realtà non esiste un unico pubblico, una entità precisa con gusti univoci. Ogni attore seleziona inconsciamente il "suo" pubblico e ogni spettatore sceglie più o meno consapevolmente il suo tipo di attore preferito di cui condivide e apprezza le scelte artistiche. Inoltre in uno spettacolo comico non tutte le battute pronunciate dall’attore devono sortire come effetto una risata: l’attore sa che certi elementi sono fondamentali per la costruzione del testo anche se non mirano a far ridere il pubblico. Questo vale però solo per il teatro. In televisione, come vedremo, l’ansia della risata a tutti i costi, porta a costruire testi dove una battuta segue l’altra senza soluzione di continuità, con effetti di semplificazione, banalizzazione, ripetitività del testo.
 

Immedesimazione e straniamento
E’ difficile individuare per l’attore comico una tradizione cui far riferimento, un’unica tecnica e un unico linguaggio scenico su cui modellare la propria forma recitativa. Il comico attinge ad una grande varietà di linguaggi teatrali, sfrutta diversi elementi tratti a volte da pratiche recitative "alte", magari per parodiarle, altre volte a pratiche teatrali "basse" e popolari. Questo nomadismo culturale anche se non manca di determinare una forma di solitudine culturale e storica (come la chiama De Marinis) gli permette tuttavia di creare una cultura eclettica, assai più varia e ricca rispetto a quella dell’attore "borghese".
In mancanza di un modello unico e codificato cui riferirsi, l’attore comico è costretto (per sua fortuna) a crearsi uno stile unico e originale se vuole affermarsi con la sua personalità artistica. Originalità che, come vedremo, sarà sempre più facilmente intaccabile dall’omologazione culturale imposta dal mezzo televisivo.
Tuttavia per quanto unico e irripetibile sia lo stile di ciascuno, è lecito chiedersi se ci siano degli elementi in comune nello stile recitativo dell’attore comico. Un metodo come quello della scuola stanislavskiana può essere utile a chi si cimenta col comico?
Come abbiamo visto precedentemente, per Bergson il riso sgorga da dinamiche di natura squisitamente mentale: perché il carattere di un personaggio tocchi le corda del comico, è fondamentale che il sentimento non venga coinvolto.

Il comico si rivolge all’intelligenza dello spettatore, quindi il vizio, il difetto non deve mai commuovere o impaurire, pena la perdita di forza comica. Perché ciò avvenga l’autore deve applicare due procedimenti: "Il primo consiste nell’isolare nella stessa anima del personaggio il sentimento da deriderne e farne, per così dire, uno stato parassita dotato di una esistenza indipendente." (12)

Per l’autore comico, dunque, parlare all’intelligenza dello spettatore significa puntare sull’eloquenza di elementi grotteschi: ma poi perché il divertimento scatti, perché la risata possa sgorgare immediata e spontanea, certamente l’attore comico sa che le corde che deve far vibrare non sono quelle del pathos ma quelle della ragione.

La comicità nasce da giochi critici: se nella tragedia il pubblico prende parte emotivamente alle vicende dell’eroe e rinuncia ad ogni critica, nella commedia prende le distanze da ciò che accade sulla scena. Questa presa di distanza che smaschera i vizi individuali nascosti e le pratiche sociali ridicole è operazione che l’autore comico deve svolgere prima del pubblico. Egli offre agli spettatori il suo punto di vista e la sua presa di coscienza sui costumi sociali per poi invogliare la platea a condividere il suo gioco. Abbiamo infatti constatato prima, che i nostri autori-attori hanno diretto tutta la loro attenzione agli aspetti abnormi della personalità, alle idee nevrotiche, ossessive, privando in un certo senso il personaggio dalle classiche contraddizioni e sfaccettature che contraddistinguono l’essere umano.

Ma la forza comica di un personaggio non dipende come sappiamo solo dalla scrittura ma anche dall’interpretazione, luogo di ri-creazione di significato. Qui si concentra tutta l’energia comunicativa dell’artista, qui egli è a diretto contatto col pubblico, con i suoi interlocutori fondamentali che egli deve divertire cioè etimologicamente divertere, deviare dalla strada maestra del quotidiano e del banale.

Che cosa accade dunque quando l’attore comico porta in scena ciò che ha scritto ri – creando in presenza del pubblico i propri personaggi? Come abbiamo visto per l’attore comico di cui ci occupiamo il momento dell’elaborazione della scrittura comica è molto vicino al momento interpretativo, tanto che le due fasi si sovrappongono spesso in un unico processo creativo. In questa dialettica attore – personaggio ha senso parlare di identificazione? O non è più sensato pensare a tecniche attorali mimetiche e straniate dato che nella comicità il sentimento è poco coinvolto?

Nella sua critica al teatro di immedesimazione Brecht sostiene che identificarsi nell’eroe comporterebbe assenza di spirito critico e porterebbe a considerare le relazioni umane eterne e immodificabili.

Perché questo non accada è necessario che l’attore non si investa più nel personaggio, ma resti estraneo al suo mondo, straniato appunto, "mostrando" attraverso segni (di idee, di affetti, di sentimenti) le diverse alternative alla propria posizione. In questo modo il teatro torna ad essere luogo di comunicazione dove si riflette sulla realtà e sulle possibilità di cambiamento. Non a caso, questo processo di "presa di distanza" sembra assai più difficile da realizzare nella tragedia che nella commedia. Se il tragico induce facilmente a processi di identificazione, che portano a considerare le sventure come inevitabili, la commedia prevede già di per se stessa un processo di distacco e indica, per sua natura, che le norme sociali non sono eterne ma utili convenzioni sostituibili da altre.

Sembrerebbe dunque molto sensato che un attore comico si trovi naturalmente a suo agio seguendo tecniche recitative basate sulla distanza dal personaggio. E’difficile pensare ad un attore che mentre conduce il pubblico a ridere di un determinato personaggio ne condivida contemporaneamente passioni e sentimenti.

E’ vero dunque che la comicità, poiché è in gran parte una operazione critica e razionale, prevede uno straniamento piuttosto netto dal personaggio, distanza che permette anche all’attore di improvvisare e giocare con gli stimoli estemporanei che gli vengono offerti dal caso; tuttavia è anche vero che è impossibile interpretare un ruolo senza credervi nemmeno un po’. Del resto Stanislavskij non riteneva la perezivanie un processo puramente emotivo, ma un processo di "montaggio" psicologico e viceversa Brecht, l’ultimo Brecht, arriva alla conclusione che recitare "dimostrando" e calarsi in una situazione (immedesimarsi) sono "due procedimenti contrari che però si conciliano nel lavoro dell’attore".(13)

Dalla dialettica tra immedesimazione e straniamento nasce uno dei maggiori piaceri che si provano durante una rappresentazione teatrale e questo vale sia per l’attore che per il pubblico, se coinvolto in termini di denegazione: "E’ un caso di denegazione la situazione dello spettatore, il quale subisce l'illusione teatrale avendo, tuttavia, la sensazione che quanto percepisce non esista nella realtà. La denegazione fa della scena il luogo di una manifestazione di imitazione e di illusione (e dunque di una immedesimazione): essa si oppone all’inganno e alla dimensione dell’immaginario, e rifiuta di riconoscere nel personaggio un essere di fantasia, facendone un essere simile allo spettatore.[…]Come il bambino (descritto da Freud) che giocando a lanciare e riprendere la bobina, si diverte perché in tale gioco è, insieme, attore e spettatore, la denegazione fa oscillare la scena tra effetto di realtà ed effetto teatrale provocando di volta in volta immedesimazione e straniamento". (14)

Così l’attore, specialmente comico, gioca a sorprendere e a sorprendersi in questo gioco oscillatorio, indispensabile alla creazione di una azione teatrale efficace.

Abbiamo chiesto ad Antonio Albanese, che tipo di rapporto sente di avere col personaggio, se prevalentemente di immedesimazione o di distacco. Ci ha risposto: "Nella costruzione dei miei personaggi, c’è sempre stata una sorta di immedesimazione tranne forse in Frengo (personaggio nato a "Mai dire gol" programma televisivo della Gialappa’s band, N.d.R.) non a caso un personaggio nato in televisione. E’ completa osservazione e immedesimazione in qualcosa che tu hai già visto. Nella fase creativa l’immedesimazione è fondamentale, poi quando hai costruito il personaggio e un gesto può far partire il corpo, allora puoi fare a meno dell’immedesimazione completa. Creare in questo modo è importante per dare una identità ai personaggi. Se mi chiedi chi è Frengo non lo so, anche nel suo linguaggio non aveva anima. Durante gli spettacoli invece scatta una sorta di automatismo che affonda però le radici in un processo di adesione psicologica al personaggio. Mi sono innamorato del teatro proprio per questo, perché è capace quasi di farti entrare in una altra persona".
 
 

Note al II Capitolo

  1. 1 H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1983, pag. 33
  2. 2 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, [princeps 1905] da Opere, a cura di C. Musatti, Torino, Boringhieri, 1967- 1978, V, p. 174
  3. 3 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, [princeps 1905] da Opere, a cura di C. Musatti, Torino, Boringhieri, 1967- 1978 ,V, p. 180
  4. 4 K. Elam, Semiotica del teatro, Bologna, Il Mulino, 1988, pag. 82
  5. 5 F. Ruffini, Teatro e boxe, Bologna, Il Mulino, 1994, pag. 149
  6. 6 H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1983, pag 20
  7. 7 Citato da M. De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, La casa Usher, Firenze 1993 pag. 283
  8. 8 Citato in Marco De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, Firenze, La casa Usher, 1993
  9. 9 F. Taviani, M. Schino, Il segreto della commedia dell’arte, Firenze, La casa Usher, 1982
  10. 10 AA.VV, Franca Valeri. Una Signora molto Snob, Torino, Lindau, 2000, pag. 63
  11. 11 Ibidem, pag. 38
  12. 12 M. De Marinis, Capire il teatro, Roma Bulzoni 1999, pag. 175
  13. 13 H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1983, pag. 92
  14. 14 B. Brecht, Aggiunte al "Breviario", in Scritti teatrali, 1975, Torino Einaudi 1975 pag.187
  15. 15 P. Pavis, Dizionario del Teatro, Bologna, Zanichelli,1998, p. 119, voce Denegazione

  16.  

     
     
     
     
     

Capitolo III
La costruzione del personaggio comico
 
 

L’osservazione della realtà

Riguardo alla tendenza innata dell’essere umano ad imitare e a conoscere il mondo attraverso la mimesi, l’antropologo Marcel Jousse propone la nozione di "mimismo", così definendo la tendenza dell’essere umano a mimare nell’ambito dell’interazione sociale. Scrive Jousse: "L’imitazione è la volontaria presa di possesso, volontaria e orientata dai meccanismi spontanei del mimismo . […]Il bambino, fin dalla nascita, è particolarmente soggetto a questi meccanismi della mimica: piange, fa smorfie, sorride, diventa triste o va in collera. Ma il bambino non fa solo questo, a poco a poco subisce tutta una serie di reazioni che è facile osservare e che consistono nel giocare e rigiocare tutte le azioni dell’ambiente circostante. E questo è il mimismo. L’uomo conosce soltanto ciò che riceve dentro di sé e che rigioca. L’Anthropos è un animale interazionalmente mimatore. Vale a dire che soltanto l’uomo "capisce" le interazioni del reale. […] L’interazione, il gesto interazionale consiste nel ricevere dentro di sé un agente che agisce un altro oggetto che noi chiamiamo agito. Interazione giocata e rigiuocata. […] Il fatto è che conosciamo le cose soltanto nella misura in cui si giocano, si "gestualizzano" in noi. (1)

Questa tendenza innata alla gestualità mimetica si trasforma poi nel teatro da gioco istintivo a gioco consapevole. L’attore assorbe stimoli e spunti dalla realtà umana che lo circonda e li rielabora in partiture drammaturgiche e gestuali. L’osservazione della realtà circostante diventa un punto di partenza fondamentale e comporta un lavoro consapevole e una ricerca finalizzata.

Anche nella prassi pedagogica di molte scuole di teatro ri-giocare la realtà diventa la base per successive improvvisazioni e trasposizioni teatrali.

Nella scuola di Lecoq ad esempio gli allievi devono integrarsi, per tre settimane, in un ambiente parigino a loro totalmente sconosciuto (ospedale, casa di riposo, fiera, pompe funebri, vigili del fuoco). Poi hanno a disposizione altre tre settimane per trasfondere le osservazioni e le impressioni raccolte in una forma teatrale che possa essere rappresentata. Si tratta di cogliere la vita reale per rigiocarla in sé e per poi giocarla per il pubblico, seguendo la propria visione delle cose.

La comicità tratta sempre di un reale già conosciuto, solo che lo amplifica rendendo visibile ciò che superficialmente non appare, evidenziando la falla, l’aspetto abnorme, la stupidità sottesa, che non cogliamo completamente ma che abbiamo già intuito. Dice Antonio Albanese: "Il teatro dovrebbe raccontare situazioni che normalmente sfuggono alla gente."

Accostando l’osservazione dal vero agli stimoli che attinge dal teatro, dalla letteratura, dalla televisione, cioè dalla vita culturale del suo tempo, l’attore combina elementi eterogenei che poi filtra attraverso la sua intelligenza creativa.

Morando Morandini in una recensione del 16 aprile 1953 sul teatro dei Gobbi racconta efficacemente questo processo: "Sono ragazzi che vanno in giro (non per il mondo, per le strade, per i bar, per i salotti che frequentiamo noi) muniti di un lapis e con gli occhi aperti e annotano. Sul palcoscenico trascrivono quel che hanno visto e ascoltato. […] Attraverso il distillatoio della loro intelligenza critica e interpretativa (e qualche volta polemica) filtrano elementi diversi ed eterogenei che tutti conosciamo perché appunto sono nell’aria cioè nella vita: osservazioni da settimanale umoristico (da Campanile a Mosca), satira sul costume (da Brancati a certe rubriche del ‘Mondo’), trovate mimiche e dialettiche che fanno parte del nostro teatro (da Petrolini a Ugo Tognazzi), gusto intellettuale del pettegolezzo". (2)

Logicamente ogni attore segue un suo metodo particolare ma, come possono testimoniare gli attori da noi interpellati, il punto di partenza resta sempre l’essere umano nelle sue infinite contraddizioni, nei limiti e nei difetti che un attimo prima di rendercelo odioso ce lo rendono ridicolo. Questo "attimo prima" è di importanza fondamentale.

La nevrosi o il vizio portati alla loro massima rappresentazione destano nello spettatore un sentimento di disagio e di rifiuto, mentre presi nella loro fase meno estremizzata suscitano una ilarità che non è avulsa da in sentimento di umana comprensione, di solidarietà che può essere più o meno indulgente, ma mai arriverà all’odio e all’escrazione. L’abilità dell’autore sta proprio nel collocarsi in questa zona franca, sfruttando abilmente l’ambiguità del riso che come abbiamo visto colpisce la rigidità asociale, ma premia contemporaneamente il coraggio della follia nel separarsi dalla severità coercitiva delle regole. In ultima analisi la comicità e uno strumento di aggressione verso un oggetto nei confronti del quale non proviamo odio, bensì ambivalenti sentimenti di attrazione-repulsione (torneremo sull'argomento nel paragrafo sul riso tra correzione e simpatia). Il lettore prova simpatia per Don Chisciotte perché comprende lo sforzo autentico di leggere il mondo secondo un ordine alternativo. Il personaggio comico si prende sempre le sue rivincite. E’ goffo, inadeguato, folle o nevrotico ma scatena nel pubblico il dubbio che la società a cui si oppone lo sia più di lui.

Jourdain nel "Borghese gentiluomo" di Molière, dopo i suoi goffi tentativi di accolturarsi si sente dire che la sua frase "Bella Marchesa i vostri begli occhi mi fanno morire d’amore" (a.II, V) è migliore di tutte le versioni affettate e forbite proposte dal maestro. Prova evidente che lo snobismo del nostro piccolo borghese è in fondo il frutto di una società artificiosa che fa della affettazione un simbolo di elevazione sociale.

Così le donne snob di Franca Valeri sono risibili perché collocate all’interno di un certo milieu sociale, che legittima e incoraggia le manifestazioni di perbenismo ipocrita e di fatuità modaiola. Di certo l’ambiente esclusivo e chiuso, dove si muove la Signorina Snob, è ben più spocchioso e irritante di lei: quantomeno la nostra possiede una prospettiva personale che la porta a contrapposi ai luoghi comuni della sua casta con la forza dissidente (e a volte demenziale) del dandy: "Anche quest’anno ho l’aria di mantenermi folle. Per Capodanno ho regalato a tutti gli amici dei calendari dell’anno prima. Li fa una mia amica americana (sposatissima con uno dei nostri) che sono un urlo". (3)

La prima fase della drammaturgia del comico sembra dunque quella della osservazione dei tipi umani risibili all’interno di determinati ambienti sociali.

Questa particolare osservazione in molti casi avviene quasi inconsapevolmente: per talento, istinto, o deformazione professionale, l’attore osserva e incamera le sue osservazioni quasi senza accorgersene. Una serie di immagini, di espressioni gestuali e verbali si accumulano lentamente nella sua mente creando un universo di spunti che lentamente decanta nella sua immaginazione ed affiora ogniqualvolta egli li evoca.

"Mi tornano spesso alla mente – dice Albanese - atteggiamenti, sguardi che ho osservato e che poi ripropongo deformandoli leggermente".

Alla domanda su come nascono i personaggi di Franca Valeri, l’autrice risponde: "Un po’ dall’istinto, un po’ dall’osservazione, un po’ dalla riflessione. E’ come quando si scrive un libro. Lo scrittore ci pensa e organizza quelle che probabilmente sono in gran parte cose sue, ricordi, osservazioni. Lo stesso è scrivere per il teatro. I miei sono quasi tutti personaggi veri; non una persona sola, ma una raccolta di impressioni, di osservazioni su molte persone; in base alle quali, poi come autrice, scelgo." (4)

L’osservazione della realtà, dunque, non sempre è automatica, spesso è frutto di una scelta precisa, dettata dal desiderio di capire l’umanità che ci circonda, di registrare i fenomeni sociali in continua evoluzione per raccogliere materiali e temi da riproporre in teatro. Citiamo ancora il comico lombardo: "Amo lavorare con dei giornalisti (Michele Serra, Enzo Santin, Vincenzo Cerami), perché sono loro che stanno raccontando il nostro tempo. E’ importante osservare quello che cambia, cambiano i ritmi, cambiano i linguaggi, cambiano persino i colori e gli odori. Io amo osservare, frequentare un po’ tutti gli ambienti, dal centro sociale al circolo del tennis."

Osservare, captare le contraddizioni che spingono al ridicolo ed analizzarne le origini. Moliere spiega come osservare il ridicolo per poi fuggirlo costituisca il fine della sua drammaturgia: "Il ridicolo è, dunque, la forma esteriore e sensibile che la provvidenza della natura ha dato a ciò che è irragionevole, per far sì che noi lo vediamo e per costringerci a fuggirlo. Per riconoscere il ridicolo, bisogna riconoscere la ragione di cui esso segnala il difetto e vedere in che cosa consista".(5)

Alex Drastico, il personaggio di Antonio Albanese, sembra uscito direttamente da un bar di provincia popolato da un microcosmo di uomini che nascondono dietro la sicurezza sfrontata del macho di provincia tutta la frustrazione dell’uomo represso ed emarginato, boss del quartiere ma sostanzialmente privo di una qualsiasi legittimazione sociale.

Albanese ne riprende i tic e le manie, ne imita i linguaggi, rifacendosi a quello dell’emigrante semi-integrato, dal forte accento siciliano, disperatamente patetico nei suoi tentativi di integrazione attraverso gli status simbol del consumismo.

Lo spaccone di Albanese porta i suoi improperi all’esasperazione creando invettive iperboliche e surreali dove l’aggressività sconfina nella maniacalità in un crescendo inarrestabile di profezie apocalittiche e insulti coloritissimi.

Conseguenza immediata dell’osservazione dal vero, sembra essere l’imitazione fisica, l’assunzione di una postura tipica del personaggio: la pancia prominente, le gambe leggermente allargate su cui sembra costantemente cercare un equilibrio, una gestualità eloquente ed espressiva, quella che gli stranieri identificano come tipicamente italiana: tutto ciò a conferma di come la gestualità rappresenti un elemento fondamentale nella prassi dell’elaborazione drammaturgica dell’attore comico, come già nella farsa ottocentesca e finanche nella commedia dell’arte.

Una minuziosa osservazione del reale è anche alla base delle parodie di Gigi Proietti con la particolarità che nella maggioranza dei casi l’attore si rivolge a realtà di secondo grado rispetto al quotidiano. Spesso infatti i riferimenti di Proietti sono nei confronti del mondo del teatro, ovvero una realtà che già costruisce le sue categorie interpretando la vita reale.
 
 

L’invenzione del personaggio tra scrittura e improvvisazione

In una fase successiva, quella della scrittura, ciò che l’attore ha osservato e incamerato nella memoria si ripropone e si amplia dilatando i suoi effetti. Interviene qui un processo intellettuale di elaborazione e ricostruzione dei dati osservati.

E’ questo il momento della scelta, della selezione: tra i tanti aspetti della follia umana che colpiscono l’immaginazione del comico, ora devono essere scelti i più pregnanti, quelli che maggiormente attraggono la sua fantasia, che stimolano il suo desiderio di sfoderare le armi della satira.

Franca Valeri afferma di aver scritto di getto alcuni personaggi, proprio perché erano già presenti nella memoria e nell’immaginazione : "Ci sono cose che vengono istintive, perché le hai incamerate dall’esperienza e dall’osservazione." (6)

Per qualcuno è importante partire da un tema, un argomento che gli sta particolarmente a cuore: "Si parte dal desiderio di raccontare un tema, si parte da un idea. Ad esempio nello spettacolo "Giù al nord" siamo partiti dal desiderio di parlare del lavoro. Su un giornale c’era una frase: …quell’uomo è una brava persona, lavora sedici ore al giorno. No, ci siamo detti quella non è una brava persona è un pazzo o un deficiente". In questa fase l’attore scrive da solo o con la collaborazione di altri. Per alcuni scrittura ed improvvisazione vanno insieme. Dice Albanese: "Via via che i personaggi prendono vita durante le prove c’è anche una fase di improvvisazione, cominci ad entrare nel personaggio e a parlare come quel personaggio".

Gli aspetti comportamentali prima solo osservati prendono vita, e grazie alla scrittura comica trascendono la realtà a cui si ispirano; una volta individuato l’oggetto su cui esercitare la satira l’autore ne applica le tecniche: lo smascheramento o degradazione oppure la parodia e il camuffamento. Nel primo caso l’essere umano normale o che si crede tale viene ridotto a monomaniaco, ad un essere ridicolo di cui vengono messi in evidenza i tic, i gesti inconsci che ripetendosi lo sviliscono mostrando l’inconsistenza della sua pretesa unicità.

Oppure l’attore usa la parodia, impadronendosi di uno stile letterario, teatrale o linguistico e deformandolo. Così Proietti parodizza il teatro accademico o quello d’avanguardia mostrandone gli aspetti retorici e vacui. Oppure storpia il modo di parlare degli americani, mettendone in evidenza gli aspetti sguaiati e ridondanti.

Grazie all’esasperazione delle caratteristiche fisiche e caratteriali del soggetto da deridere, l’attore crea una maschera,una sorta di icona, di effige meno inquietante della persona reale perché più caratterizzata. Le pulsioni aggressive del pubblico (o meglio quel miscuglio di pulsioni fatte di attrazione e repulsione di cui parlavamo prima), possono così esplicarsi più facilmente, poiché vanno a colpire un tipo, una maschera appunto, che si distingue dalla persona reale.

A volte non è il personaggio stesso ad essere bersaglio della satira (come avviene nel caso della signorina Snob o di Perego) ma è il personaggio stesso che smaschera valori e regole sociali. E’ il caso del fool, dell’ingenuo (potrebbe essere un bambino o uno straniero) che non capendo le regole della società civile si rifiuta di coglierne i valori simbolici e ne rivela l’assurdità. Abbiamo esaminato questo caso nel paragrafo dedicato al fool.

La scrittura teatrale e in particolare modo quella comica sono modulate sui ritmi e i linguaggi della prosa quotidiana; la lingua deve avere una sua carnalità, deve essere credibile, continuamente adeguandosi alla lingua parlata e alle sue metamorfosi storiche e sociologiche. Per questo il lavoro di osservazione è strettamente legato al momento dell’elaborazione artistica: perché tutto ciò che l’autore riporta nel suo personaggio teatrale deve essere vivo e credibile anche se deformato dalla caricatura e dalla satira. L’autore comico, come vedremo meglio in seguito parlando degli elementi linguistici, non avrà mai il problema della correttezza sintattica e grammaticale del suo discorso. Ciò che conta è che il suo linguaggio (e ovviamente la sua mimica) siano credibili e riconoscibili dalla maggior parte della gente che compone il suo pubblico. Anche per questo motivo il lavoro di improvvisazione, di messa in prova è estremamente importante. Non possedendo un riferimento letterario preconfezionato cui fare riferimento, l’attore che è anche autore dei suoi monologhi deve continuamente modulare e accordare la parola scritta a quella che si incarna poi nella vita teatrale. La stesura iniziale di un testo subirà notevoli modifiche nel corso delle prove, per mettere a punto sonorità, ritmi, azioni che magari sembrano perfette sulla carta ma suonano poi incongrue sulla scena.

Nel lavoro di scrittura, spesso il comico ha ben presente i ritmi e le intonazioni con cui il personaggio pronuncerà il suo discorso. Un lavoro di regia quindi è già presente nella stesura del testo come ha più volte dichiarato Franca Valeri e come è evidente ascoltando i dischi con le registrazioni dei suoi personaggi.

La costruzione del testo comico è un minuzioso lavoro artigianale fatto di continue rielaborazioni, tagli e integrazioni, un lavoro di montaggio e smontaggio continuo prima di arrivare alla stesura definitiva.

In questo accidentato percorso, l’attore utilizza non solo la sua competenza di scrittura, ma si aiuta con la sua tecnica fisica, non-verbale. Ciò gli permette di individuare la gestualità e l’espressività vocale di un personaggio in sintonia e sincronia con i contenuti verbali. Entra in campo qui tutto quel patrimonio artistico che l’attore ha accumulato nei lunghi anni del sua apprendistato, quel patrimonio fatto di esperienze di vita e di lavoro, di gesti e di tecniche acquisite nell’osservazione della realtà, della sua e di altre culture ed esperienze. E’ un sistema complesso di linguaggi, citazioni, trasposizioni, codici culturali, che l’attore elabora e reinventa continuamente. L’attore comico non è in scena per rappresentare ma per rappresentarsi. Egli mette in scena il proprio mondo, rielaborando spunti autobiografici, facendo riferimento ad altri generi in un rapporto libero e critico con la tradizione. Petrolini ha più volte sottolineato l’importanza dell’elemento autobiografico nel suo lavoro artistico, ovvero la possibilità di inserire nel testo il proprio punto di vista, l’unicità delle proprie invenzioni.

Il termine "recitazione" sembra rivelarsi riduttivo o improprio al cospetto del modo particolare di elaborare questo tipo di drammaturgia comica. Stefano De Matteis ha analizzato molto bene questo aspetto nel suo studio su Petrolini, evidenziando come l’attore popolare (ma questo vale in gran parte per i suoi eredi del teatro comico contemporaneo) non recita perché non finge, non rappresenta, non mette in scena, ma si esprime nell’arte del narrare "… come capacità drammaturgica, di montaggio e di elaborazione di movimenti, azioni, gesti, parole, e come tecnica del coordinare i vari elementi in un linguaggio, in una lingua personalizzata. Ed è la lingua stessa dell’attore che narra, qualcosa attraverso di essa; la lingua è la narrazione." (7)

Per questo è difficile restituire verbalmente la complessità del tessuto drammaturgico dell’attore comico, perché la compenetrazione tra gesti, movimenti, azione e parole costituisce una trama fittissima e personale, un idioletto particolare che distingue ogni comico da un altro. Tale lingua è composta da una serie di micro narrazioni ognuna con un proprio percorso indipendente dal testo. Il testo è frantumato da queste piccole narrazioni che riempiono di intenzioni la partitura verbale e la rivitalizzano. Le singole microstorie sono in equilibrio tra loro, costituite dai momenti maggiormente discorsivi e le battute comiche, le pause e le accelerazioni, i momenti di tensione e quelli di rilassamento.

Nel nostro caso poi c’è un elemento caratteristico che riguarda gli attori da noi presi in considerazione.

Questi ultimi si inscrivono nel solco di una tradizione che per certi versi può definirsi gloriosa, di attori e comici che hanno scritto per se e per altri le parti che poi andavano a recitare in teatro: Petito, Scarpetta, Eduardo de Filippo, Petrolini, Fo per citare i più noti hanno costituito la solida tradizione degli attori- autori italiani. Codesti autori però avevano la peculiarità di scrivere copioni che poi potevano essere interpretati da altri. E così è stato anche nei casi in cui sembrava impossibile slegare una drammaturgia dall’autore che la interpretava, ad esempio nei casi di Eduardo e di Fo. Nel caso dei nostri comici invece risulta difficilissimo pensare ai loro testi interpretati da altri: nessuna attrice potrebbe immaginare di interpretare i testi di Franca Valeri senza correre il rischio inevitabile di imitarla e lo stesso vale per Proietti e Albanese.

Questo accade perché prima di tutto si tratta di monologhi e non di commedie dove è prevista la partecipazione di un gruppo di attori (infatti se pensiamo al testo di Fo meno rappresentabile da altri attori è proprio un monologo, Mistero Buffo); in secondo luogo ciò avviene perché i nostri si sono cuciti addosso una propria drammaturgia, modulata secondo le proprie caratteristiche fisiche e gestuali (compresi i propri difetti), la propria voce, il proprio e unico modo di porgersi al pubblico, in ultima analisi la propria essenza corporea e spirituale.

Qualcuno potrebbe vedere questa caratteristica come un limite, poiché il drammaturgo, per quanto sia egli stesso attore, dovrebbe permettere la trasmissibilità della propria opera ad altri e ai posteri. Ma probabilmente non è questo che interessa ai nostri attori che invece puntano tutto su stessi, e della loro unicità fanno uno strumento per la seduzione del pubblico. Proprio come un prestigiatore che per incantare il pubblico va alla ricerca del gioco più nuovo e stupefacente, l’attore comico che non ha che se stesso in scena, va alla ricerca di qualcosa di sorprendente e di particolare che lo renda unico e inimitabile. Qui sta la sua forza e non la sua debolezza: l’essere irriproducibile.

Per semplificare ora la nostra analisi degli elementi che compongono la partitura drammaturgica del testo, separeremo gli aspetti linguistici da quelli fisici e gestuali per meglio evidenziare come le diverse componenti concorrano a creare un quadro coerente composto di elementi che si compenetrano.
 
 

Gli elementi linguistici

Il tormentone

Nel linguaggio risulta risibile tutto ciò che riduce le motivazioni alla sola dimensione fàtica: automatismi, ripetizioni, luoghi comuni, eufemismi. Bergson direbbe che si tratta di elementi meccanici, rigidi, quali fossero oggetti qualunque: "Il gioco di parole svela dunque sempre una distrazione momentanea del linguaggio, ed è comico per questo".(8) Un esempio classico di questo automatismo è il cosiddetto "tormentone", una tecnica che consiste nel ripetere più volte all’interno di uno sketch una parola chiave, un suono, una frase o anche un semplice gesto.

Il tormentone ha celebrato i suoi fasti in televisione, dove l’importanza del ritmo e della brevità ha costretto il comico a condensare il personaggio in poche battute, possibilmente capaci di colpire l’immaginazione dello spettatore e di fissarsi nella memoria. Ma anche in teatro il tormentone gode di una lunga storia e vanta nobilissimi padri letterari come nota Dario Fo che lo descrive, nella parte finale del "Manuale minimo dell’attore", dedicata al gergo teatrale: "Tormentone: ripetere a tormento una battuta o una stessa azione così da far scattare la molla del comico. Classico tormentone è quello impiegato da Moliere nelle Furberie di Scapino: il padre del giovane innamorato, al quale è fatto credere che il figlio sia stato rapito dai pirati, è colto da un attacco di arteriosclerosi e ripete fino all’ossessione, al termine di ogni discorso: "Ma che c’è andato a fare quello sulla nave dei pirati?" (9)

L’aneddoto ci ricorda anche il "Te piace ‘o presepe?" del grande Eduardo, l’ossessiva domanda rivolta a tutti dal protagonista di "Natale in casa Cupiello": questo è un caso particolarmente "nobile" di uso del tormentone, poiché dietro una frase apparentemente semplice si nasconde gran parte del senso della commedia.

Questa tecnica del teatro comico è stata utilizzata molto spesso, soprattutto nei testi del teatro di varietà e nel cabaret. Totò ne ha dati esempi clamorosi. Chi non ricorda: "Siamo uomini o caporali?" o "Sciocchezze, quisquilie, pinzillacchere" e l’immancabile "Ma mi faccia il piacere!". Sono frasi che identificano un comico e ne tracciano un’immagine indelebile.

Il successo del tormentone può essere in parte spiegato con il meccanismo della reiterazione, ampiamente studiato da Bergson: la ripetizione meccanica di un gesto o di una parola diventa risibile nella misura in cui si immagini all’interno di un essere vivente una sorta di meccanismo funzionante.

Secondo Bergson "[…] la ripetizione di una parola non è mai ridicola di per se stessa. Essa ci fa ridere in quanto simboleggia un certo gioco particolare d’elementi morali, simbolo esso stesso d’un gioco materiale. E’ il gioco del gatto che scherza col topo, il gioco del fanciullo che spinge e rispinge il diavolo in fondo alla scatola; ma fatto raffinato, spiritualizzato, trasportato in una sfera di sentimenti e d’idee. Enunciamo una legge che secondo noi definisce i principali effetti comici di ripetizioni di frasi a teatro: in una ripetizione comica di frasi vi sono generalmente di fronte due termini: un sentimento compresso che si ritira come una molla ed un’idea che si diverte a comprimere di nuovo il sentimento". (10) Dietro questa frase che ritorna automaticamente noi possiamo intravedere tutto un meccanismo a ripetizione, montato da l’idea fissa.

La parola o la frase ripetuta sembrano alludere dunque, anche ad aspetti ossessivi del carattere del personaggio, ad una certa ottusità, un bisogno di rimarcare la propria presenza grazie all’uso di frasi ripetitive.

Franca Valeri usa pochissimo questa tecnica, forse proprio perché i suoi personaggi raramente rivelano questo di tipo di ripetitività coatta. Sono certe situazioni a ripetersi, certi tic del personaggio come il perenne stare al telefono della Signora Cecioni, o le espressioni anglofone della Signorina Snob e una mimica facciale particolare che ci permette di identificare il personaggio ancora prima di sentirlo parlare.

Il pubblico teatrale, ma soprattutto quello televisivo, ama ripetere le frasi che ha ascoltato pronunciare dai comici, poiché questo permette da un lato un’identificazione, dall’altro la possibilità di partecipare ad un gioco.

Antonio Albanese, ha colto con precisione questo aspetto ludico del tormentone: "La gente ama ripetere il tormentone per comunicare all’altro uno stato d’animo, in questo caso di allegria. E’ una sorta di parola magica in cui si combinano parole e suoni gradevoli ma strani, che non esistevano prima, che creano attenzione. E’ quasi un segnale animale. Inoltre la frase ripetuta da un personaggio diventa quasi un suo segno distintivo, la gente lo riconosce da quel suono o da quella frase".

Nel ripetere il tormentone, le persone che sono state pubblico si sentono accomunate da un sentimento di complicità, da un sapere e da un divertimento condivisibile. Anche per questo il tormentone ha avuto grande risonanza con la televisione (come vedremo nel capitolo dedicato alla comunicazione di massa): grandi masse di persone si sono potute riappropriare di questo gioco, trasformandolo in uno strumento di comunicazione.

La televisione però, ha spesso banalizzato questo meccanismo comico, rendendolo un gioco meccanico senz’anima, volto solo a rafforzare il successo di un determinato personaggio. Come vedremo in seguito il tormentone diventerà quasi d’obbligo nei testi dei comici televisivi, in particolare a partire dagli anni ’90. L’ossessione del tormentone costringerà molti alla ricerca forzata della "parola magica" che faccia colpo sul pubblico, con effetti di innegabile artificiosità.

Tra gli attori comici da noi studiati quello che più ha usato questo espediente linguistico è Albanese, il più giovane e il più "televisivo".

Cerchiamo di fare alcuni esempio di questo elemento del linguaggio con esempi tratti dai suoi testi.

Alex Drastico, siculo egocentrico e fallocrate ama esaltare gli attributi della sua virilità con una frase divenuta assai celebre: " Tu… tu ce l’hai piccolo, io ce l’ho tanto"; i periodi sgrammaticati delle sue frasi sono sovente inframmezzate dagli intercalari: "senti a me bello bello", "e patapim e patapam…".

Frengo è un sedicente cronista sportivo pugliese, abile ballerino, dotato di riporto e di vestito luccicante con paillette. Ecco due tormentoni tratti dal suo repertorio: "recchia de gomma; Frengo e Stop!"

A teatro l’uso della reiterazione forzata è indubbiamente meno spinto.

Nello spettacolo "Giù al Nord" (scritto con Enzo Santin e Michele Serra) forse il più complesso e artisticamente completo di Albanese, il tormentone vero e proprio è quasi sparito: lo mantiene solo Alex Drastico mentre gli altri personaggi non vi ricorrono quasi mai. Nel monologo delle "Figure di Fumo", dove un omino che crea figure di fumo si contrappone all’efficientismo pragmatico dei lavoratori del nord, c’è una frase ricorrente: "Hai mai lavorato? Ti vogliamo aiutare. Vuoi lavorare? Sai lavorare? Cosa sai fare?" In apparenza si tratta della solita frase ripetuta per creare un effetto comico.

In realtà, qui la tessitura drammaturgica è più complessa e la frase si inserisce in una sorta di partitura musicale dove parlato e suono del sassofono si alternano in una scansione ritmica e poetica. Qui la reiterazione verbale assurge ad un compito più alto di quello meramente ludico: è rivolta a creare un effetto di sospensione e straniamento in accordo al contenuto surreale del testo, modulato sulle note di un sassofono che accompagna l’attore dal vivo:

"Hai | mai | lavorato |

in una piccola industria edile

in una grande industria edile?

Hai | mai | lavorato |

In una piccola industria casearia |

In una grande industria casearia?

Hai | mai | lavorato

In una piccola industria zootecnica |

in una grande industria zootecnica?

Hai | mai | lavorato |

In una piccola industria autostradale |

In una grande industria autostradale?

Ti vogliamo aiutare. Vuoi lavorare? Sai lavorare? Cosa sai fare?

Si ferma la musica. Silenzio

Lo so che può sembrarvi insolito, eppure, so fare figure di fumo. Soltanto figure di fumo, ma non è poco. E’ il mio modo di manifestarmi, la mia forma d’arte o, forse, soltanto la mia occupazione preferita.

Non so esattamente quando ho cominciato. Certo, allora non fumavo ancora, ma ricordo che fin da bambino, nelle fredde giornate d’inverno, amavo fare pupazzi di nebbia impastando con le mani la condensa del mio respiro. E oggi, col fumo, posso creare qualsiasi cosa…

Soffia il fumo

Una statua equestre priva di cavallo, una cattedrale relativamente gotica, un bronzo parzialmente di Riace, oppure…

Soffia il fumo

La tigre temporaneamente feroce".

Il testo riparte in questo susseguirsi di ritmi sincopati e momenti statici e surreali in un crescendo di immagini fantastiche che vanno da un bestiario onirico (il toro dalle corna inconsistenti, il tapiro illusorio, l’ippopotamo platonico…), ad una musica dell’assurdo (lo scodinzolare di un pianoforte a coda, la melodia circolare di una capriola, il microscopico urlo di trionfo di uno spermatozoo mentre feconda l’ovulo), fino ad una biblioteca dell’evanescente ("nella mia libreria posso leggere il vento dei mulini di Don Chisciotte; quasi tutto il tempo perduto della ricerca di Proust; La coscienza di Zeno ad alto contenuto di nicotina e condensato; un quarto del Visconte Dimezzato…").

In questo monologo dunque, la frase ripetuta, perde la mera funzione di gioco meccanico assumendo la funzione di coniugare una comicità più diretta e "popolare" con una comicità d’autore fatta di umorismo sottile e citazioni colte.
 
 

Dialetto inflessioni dialettali, influssi gergali

Gli attori comici sanno che il dialetto è una lingua estremamente duttile ed espressiva, capace di rendere estremamente naturale la recitazione. Dario Fo, nel "Manuale minimo dell’attore", consiglia ai propri allievi di tradurre la parte che devono interpretare nel loro dialetto d’origine per cogliere la musicalità e il ritmo naturale delle battute. Il dialetto aiuta, secondo Fo, a liberarsi dai manierismi fonetici e ad esprimersi in modo autentico.

Lo stesso effetto di immediatezza lo si può ottenere anche con l’imitazione del dialetto o dell’accento regionale, sempre che lo si sappia riprodurre in modo efficace; il personaggio che si esprime in tal modo porterà con se la ricchezza della cultura a cui appartiene, rivelerà di essa i pregi e i difetti.

Claudio Meldolesi ha evidenziato come l’uso del dialetto da parte di alcune importanti figure di attori contemporanei rompa significativamente con le convenzioni dell’antilingua teatrale, intendendo per antilingua il compromesso tra la lingua media da salotto e le convenzioni sceniche borghesi fondate su movimenti e toni di voce standardizzati.

Gli attori in questione (Eduardo prima, poi Cecchi, Fo, De Berardinis e altri) si fanno autori recuperando il dialetto per sfuggire alla mancanza di pensiero dell’antilingua e cercare un linguaggio capace di esprimere reali bisogni esistenziali. Questo tentativo di sfuggire alla gabbia delle convenzioni del teatro borghese è sicuramente presente anche negli attori comici su cui verte la nostra ricerca, ma con alcune sostanziali differenze.

Negli attori-autori dell’area di ricerca citati da Meldolesi, la scelta del dialetto appare come gesto fortemente caratterizzato in senso politico (e per alcuni anche in senso personale, intimo come per Cecchi). La rivolta contro l’antilingua è lotta contro il degrado della professionalità, contro l’omologazione dei linguaggi televisivi che operando una forzata socializzazione sono riusciti ad assorbire e a mistificare anche le tradizioni dialettali.

L’invasione mass-mediologica impone oggi ciò che prima è stato imposto dal fascismo che ridusse drasticamente gli spazi dei teatri dialettali (salvo qualche rara eccezione) e operò una "razionalizzazione" della tradizione dialettale in senso populista; in pratica "[…] il dialetto a teatro rovesciò la sua natura di testimone della divisione sociale per farsi veicolo di uniformità, compagno di strada della lingua media nei processi dell’espropriazione proletaria." (11)

E’ difficile oggi vedere nella scelta dell’uso del dialetto da parte dei comici da noi presi in esame un fatto propriamente politico, e questo perché l’attore comico contemporaneo ci sembra suo malgrado incline ad alcuni compromessi con la società dello spettacolo e i suoi processi produttivi. Tale inclinazione rende difficile una reale ostilità ai non-valori espressi dall’antilingua e fa sorgere dubbi sull’uso eversivo della tradizione dialettale. Tuttavia un attore come Proietti, che si è sempre dichiarato "disimpegnato", in una recente intervista ha evidenziato la forza anti istituzionale del dialetto: "Io sono un cane sciolto. Non un anarchico, no, però non vado d’accordo con le istituzioni. E il disamore è reciproco. Sarà perché ho usato molto il dialetto." (12)

Ma in linea di massima ci sembra che il problema i nostri attori non se lo siano nemmeno posto. Ciò che sembra muovere la loro ricerca sembra piuttosto l’esigenza di trovare da un lato un radicamento in una tradizione attorale forte, oggi sempre più in via di estinzione.

Dall’altro lo scopo è quello di trovare nuove sonorità, una lingua espressivamente ricca di suoni "strani" dal sicuro impatto comico: rispetto ad una lingua italiana sempre più omologata e appiattita sul linguaggio pubblicitario e televisivo, il dialetto crea oggi un ulteriore effetto di stranezza, di bizzarria che amplifica l’ effetto comico.

Il comedian americano degli anni ’60 cercava le sue radici negli slang degli underdogs, i gruppi sociali ai margini della società wasp, cioè le comunità di neri, irlandesi, italiani ed in modo particolare ebrei, che essendo estranei alla comunità cristiana possiedono un punto di vista ancora più libero e distaccato.

Dalla tradizione di questo ambiente emarginato ma spesso colto, il comedian assorbe gergo, slang, abitudini sociali, reinterpretandole e "ripulendole" a suo modo. Anche qui il gesto era politico.

I comedians americani come Lenny Bruce, Ellen May, il primo Woody Allen, per citare solo i più famosi, esprimono il disagio e le contraddizioni dell’emigrato che vuole e nello stesso tempo non vuole appartenere alla cultura che lo rifiuta. Egli è il piccolo uomo solo contro tutti e la sua solitudine diventa irrimediabilmente comica. In questo scenario la lingua "separata" del dialetto, del gergo, diventa un fatto fortemente politico e provocatorio in un paese che prima di tutti ha imposto una cultura e una lingua di massa.

Esaurita la spinta rivoluzionaria degli anni ’60, il comico americano e più tardi anche europeo, viene sempre più assorbito nello show-business con le conseguenze di banalizzazione e di perdita di individualità che vedremo in seguito.

Lo sradicamento provocato dai nuovi processi produttivi dello spettacolo, crea l’esigenza di trovare un maggiore radicamento con la tradizione attorale precedente, con un passato non così remoto con cui confrontarsi. In Italia il dialetto rappresenta in parte questa tradizione, un linguaggio ancora vivo e "popolare" con cui misurarsi, una lingua adatta a rappresentare personaggi fortemente caratterizzati.

Come abbiamo documentato citando stralci dei suoi monologhi, Franca Valeriha sempre dato un grande importanza alla ricerca linguistica. Consapevole del fatto che inflessioni dialettali, espressioni gergali, utilizzo di lingue straniere, permettono di identificare con immediatezza il personaggio collocandolo nel suo ambiente regionale o culturale, la nostra attrice ha attinto a piene mani tanto al linguaggio popolare quanto a quello della conversazione alto borghese creando personaggi estremamente credibili nonostante il gioco dell’assurdo.

Dalla Signora Cecioni alle signore della High Society lombarda, la Valeri riassume ed elabora con precisione dialetti e linguaggi diversi creando puntuali parodie dei più disparati ambienti sociali. E’ il linguaggio a fare del personaggio della Signorina Snob, ciò che Sandro Avanzo ha definito "un piccolo capolavoro del teatro del ‘900" (13)

E’ soprattutto con questo personaggio che la Valeri ha creato un nuovo lessico ricco di neologismi e di parole inventate: "è di una perbenezza rara", " ho scoperto uno scoglio di una carinezza disgustosa che sembra una fruttiera di quelle sciocchine fronzolente che ci sono più o meno in case avolesche (nonne)". Accrescitivi e vezzeggiativi abbondano "[…] ho spaccato alcuni piatti simpaticissimi dell’albergo, tipo vecchiotto…", "Lui (il Maestrone santo) bravo, io ero prevenutissima, ma devo ammettere bravo. E poi mi fa così un tantinello banda di paese, trovo simpaticissimo." Le parole straniere si sprecano e alla Valeri va riconosciuto il merito di aver colto con largo anticipo l’imminente invasione della cultura anglofona. Così tra un of course e un quickly ("prestino, per i posteri non poliglotti") scorre il flusso logorroico della personalissima lingua della signorina lombarda, un discorso perfettamente calibrato anche per ciò che riguarda i ritmi e i tempi comici: "Alla lettura delle pagine scritte ancor oggi riecheggiano ai timpani le pause e le inflessioni con cui andava pronunciando le singole frasi, e tanto più ora a distanza di decenni si capisce come i tempi comici fossero già previsti in fase di scrittura.

La pagina stampata rende conto della tenuta del fiato, del numero di righe che si possono pronunciare di filato prima di prendere nuovamente il respiro, determinate contrazioni sincopate sono messe lì apposta per poter accelerare il ritmo della battuta". (14)

Il ritmo delle parole e la sintassi seguono una logica del tutto personale, atta a far emergere uno stile particolare perfettamente aderente al personaggio. Di grande effetto è il linguaggio telegrafico seppur ricchissimo di termini: "Avuto un raffreddore divertentissimo, tipo tromba marina." "Il commendatore est furente perché mi sono rifiutata di farmi infliggere un Capodannone in U.S.A. […] la genitrice madre è in Egitto e cartolina via aerea a più non posso di andarla a trovare che è stufa di Sfingi e ha voglia di risotto".

Anche l’uso dell’inflessione dialettale è fondamentale nella drammaturgia di Franca Valeri. Delle donne che appartengono a determinati ambiti regionali, la Valeri coglie soprattutto il carattere, lo spirito di una determinata cultura.

Dice l’attrice: "Ho fatto milanesi, bolognesi, venete, romane, l’antiquaria Toscana. Di quella, che decapava tutto, era entusiasta per esempio Piero Tosi. In realtà, sono tutte imperfette. Ricordo che Fabrizi, quando sentiva la Signora Cecioni, diceva: "E’ più romana de me". Ma non era vero, perché l’accento era imperfetto, era lo spirito ad essere perfetto. La Signora Cecioni è Roma, la vera Roma: è furba, è pigra, è una che giudica. Con gli altri diventa una che si intrufola, che si adegua. E la signorina Snob è Milano; ma anche di più, perché lo snobismo è universale. E’ un personaggio di un mondo industriale, del Nord. Ci sono sempre un sacco di errori di pronuncia, ma sono talmente precisi i caratteri che i personaggi sembrano perfetti. E’ tutto un gioco di intuizione, legato all’osservazione. Perché io sono anche molto indiscreta." (15)

Sono soprattutto gli attori del Nord Italia, ci pare, ad amare le trasformazioni linguistiche e a calarsi più spesso negli umori e nei climi delle culture regionali diverse dalla propria, mentre gli attori romani o meridionali sembrano più inclini ad esprimersi nella loro lingua d’origine. Franca Valeri ha interpretato quasi tutti gli accenti regionali d’Italia, tranne quelli del sud, mentre Albanese si è spinto fino in Sicilia a scovare i suoi personaggi.

Per Gigi Proietti la riscoperta del dialetto si propone come ricerca di un radicamento nella propria realtà culturale, una sorta di travaso nel teatro comico contemporaneo di umori popolari. Così Proietti utilizza come cavallo di battaglia "Er fattaccio" già cavallo di battaglia di Alfredo Bambi, un monologo da recitare sui tavolacci dell’osteria: nella interpretazione di Proietti il vernacolo si fa lingua e il brano da avanspettacolo diventa un "classico".

Le macchiette romane, prima fra tutte Giggi er bullo, restituiscono gli umori caustici dell’ironia petroliniana e nel Ghetanaccio emerge una tensione quasi retorica e oratoria. Ma non è solo il dialetto romano ad attrarre l’attore in cerca di sonorità particolari.

E’ noto il virtuosismo dell’attore romano nel manipolare i linguaggi, alterandone la fonetica e modificandone i ritmi: scioglilingua velocissimi, filastrocche e grammelot costituiscono i "cavalli di battaglia" dell’attore.

Il grammelot americano traduce perfettamente non solo i suoni e i ritmi, ma anche lo spirito della cultura d’oltre oceano con i suoi riti e i suoi miti: la musica country, i cow-boy, i Presidenti della Repubblica.

Analogamente l’attore manipola le sonorità del dialetto napoletano restituendo il clima della sceneggiata in una gustosa parodia. Nei momenti in cui l’attore si cala nei panni del teatrante serio, dell’attore che accede solo a brani classici, l’impostazione vocale di Proietti si modifica radicalmente: in un attimo e con impeccabile credibilità ecco che indossa i panni di Amleto.

La parodia del brano teatrale più celebre del mondo, il frequentatissimo "essere o non essere" viene recitato con voce impostata e lineare: l’effetto comico scaturisce dalla evidente incapacità dell’interprete di comprendere i passaggi nodali del brano e dal contrasto tra il tono alto che il teatro classico richiede e l’effetto svilente dell’incomprensione. In un’altra versione l’attore al verso "morire, dormire…" si addormenta di botto.

Uno degli aspetti più interessanti del teatro di Proietti, è il continuo cambiamento di registro dall’ "alto" verso il "basso", dall’avanguardia al popolare, dal gergo dialettale al teatro borghese in un continuo gioco di trasformazioni e contaminazioni. E’ il tentativo di fare un teatro fruibile da larghi strati di pubblico senza rinunciare alla sperimentazione linguistica. Del resto nella sua lunga carriera Proietti ha frequentato tutti i generi, dal cabaret al teatro classico, dalla commedia all’avanguardia, come quando prese parte alla Cena delle Beffe di Sem Benelli con la regia di Carmelo Bene (e Bene sarà oggetto di satira in "Come mi piace", quando al comico romano basterà citare la parola Koinè).

Sebbene in teatro Proietti sia stato spesso accusato di eccessivo istrionismo, addirittura di "gigioneria", l’attore ha dimostrato di saper perfettamente modulare i propri toni e accenti in senso naturalistico. Al cinema e soprattutto nelle recenti fiction televisive da lui interpretate, la sua recitazione si rivela estremamente semplice e naturale, confermando la tesi di Dario Fo secondo cui la massiccia frequentazione del dialetto permette all’attore di raggiungere alti livelli di semplicità e naturalezza.

Anche Antonio Albanese utilizza le inflessioni dialettali nei suoi personaggi: il Signor Perego, l’industriale lombardo maniaco del lavoro, Alex Drastico, siciliano trapiantato al nord, Frengo, tifoso barese.

A dire il vero solamente Frengo utilizza parole in dialetto, gli altri due personaggi mantengono solo una inflessione dialettale anche se ben definita e ogni tanto compaiono espressioni o modi di dire dialettali (es.: "Dio è grande, ma Alex Drastico nun cugghiunia").

Ciò che sembra interessare maggiormente l’autore è la rappresentazione di due mondi solo apparentemente antitetici. Alex Drastico è cambiato nel tempo e nello spettacolo "Giù al Nord" emergono nuove caratteristiche. Il siciliano arrabbiato dedito ad attività pressoché illecite, che mandava coloritissime imprecazioni maledicendo chi osava rubargli il motorino o le sigarette, si è a suo modo integrato. Prima nella fabbrica di Perego, poi dopo averlo abbondantemente maledetto (Alex non ha perso le buone abitudini), è riuscito a diventare a sua volta un piccolo imprenditore. E’ diventato direttore della palestra "Alex Drastico Drugstore Fitness Center e Figli", tempio dell’arredamento kitsch (moquette salmonata e acquario con pesci al neon) e della fitness demenziale. Anche lui, irriducibile fannullone, si è tramutato in un imprenditore di successo, si è integrato nella realtà del Nord dove è impossibile non lavorare. Un mondo, dicevamo, che nonostante le apparenze non è tanto diverso da quello di Perego, che pure è stato in un primo tempo l’ odiatissimo padrone.

Alex Drastico è in fondo l’altra faccia di Perego come dimostra il finale del monologo: Perego compare in sogno a Drastico e i due sono vestiti nello stesso modo, ma non solo, hanno anche le stesse idee politiche. I due si fronteggiano con le pistole, ma nessuno osa sparare per primo, rimangono otto giorni immobili, vengono avvolti da piante rampicanti e infine prelevati dalla nettezza urbana.

Così finisce lo scontro tra due realtà che non sono altro che due facce della stessa medaglia: il nuovo mondo del lavoro, il nuovo mercato che tutto mercifica e aliena, livellando le differenze e le culture, inglobandole in un unico meccanismo volto al guadagno e allo sfruttamento. Non è più tempo di dialetti, di culture alternative, di umori regionali e popolari. Il grande Nord che tutto ingoia ha divorato ogni cosa, anche il dialetto come ultima arma contro l’omologazione globale.
 
 

Il carisma dell’attore: il riso tra correzione e simpatia

Sia Freud che Bergson concordano con la tesi che il riso sia ispirato da un senso di superiorità nei confronti dell’oggetto di ilarità. Questo sentimento di superiorità è per Bergson fondamentale per l’elaborazione di un desiderio di correzione nei confronti di chi devia dalla logica e dalle regole dell’adattamento sociale. Rimanendo però ancorati all’idea di superiorità e di punizione, risultano difficili da comprendere il senso di simpatia nei confronti del personaggio comico e il grande fascino che suscita l’attore.

Innanzi tutto è importante cogliere il ruolo esercitato dal processo di identificazione col personaggio da parte del pubblico.

Il gusto che prova il pubblico di fronte al personaggio comico sta proprio in quel continuo passare dall’immedesimazione alla distanza.

Identificandoci almeno parzialmente con le fragilità altrui, ci è permesso sciogliere le tensioni in una risata liberatoria che a quanto pare è insieme punitiva e assolutoria. Concetta d’Angeli e Guido Paluano hanno cercato di spiegare questa ambivalenza evidenziando come anche in Freud ci sia una sorta di confusione tra la concezione del comico come ricupero del riso infantile perduto e nello stesso tempo come riso sul bambino: "[…] sembrerebbe davvero seducente collocare il carattere specifico del comico come ricupero del "riso infantile perduto". Si potrebbe dire allora che rido della differenza di dispendio tra l’altra persona e me stesso ogni volta che nell’altro riscopro il bambino". (16)

I due autori notano la strana conclusione di Freud che porta a rovesciare i ruoli relegando in una posizione di rifiuto l’infanzia nostalgicamente inseguita per tutta la sua opera: "La via d’uscita da queste contraddizioni non può che stare nell’ammettere che ogni volta che nell’altro riscopro il bambino, questa riscoperta marca insieme la superiorità adulta e l’invidia adulta. La nostalgia delle infinite libertà e ricchezze che appartengono all’infanzia. Il movimento che sembrava di sola alienazione è insieme di alienazione e di identificazione, vale a dire che l’aggressione comica è sempre accompagnata e complicata da un recupero affettivo.

E’ dunque un’ambiguità strutturale quella che si apre nell’apparente compattezza del comico e che più profondamente giustifica il suo carattere compromissorio: non è in questione solo l’indulgenza come fattore che attenua l’aggressività ribadendo la posizione adulta, ma uno stare contemporaneamente da tutte e due le parti che fa giustizia dei ruoli personali concepiti come alternativi, proponendo piuttosto una concezione circolare del riso." (17)

Questa riflessione porterebbe a comprendere come nella risata siano compresenti un elemento di distaccata derisione, ma anche una spinta solidaristica che equivale al riscatto della dimensione infantile, naturale, con cui veniamo chiamati ad identificarci. Il personaggio comico che incarna un determinato vizio dell’animo può liberare tutti noi dall’ansia della perfezione, da un super-io ingombrante con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno, suscitando nel pubblico un duplice sentimento: derisione e senso di superiorità da un lato, dall’altro invidia e ammirazione per la capacità di trasgredire le regole liberando caratteristiche egocentriche ed infantili. Persino Bergson, che ribadisce continuamente come il riso sia innanzi tutto una correzione, in un passo è costretto ad ammettere: "Il personaggio comico è spesso un personaggio col quale, noi di fatto, cominciamo a simpatizzare. Dico che noi ci poniamo per un brevissimo istante al suo posto, approvandone i gesti, le parole, gli atti; e che se ci divertiamo di ciò che in essi è di risibile, in immaginazione lo invitiamo a divertirsene con noi". (18)

Col riso dunque ci ritempriamo dalle fatiche della vita. Anche Francesco Fiorentino in uno studio sul ridicolo nel teatro di Molière esprime chiaramente la tesi di una duplice valenza del riso: "Ridendo ci si confronta con chi fa ridere per affermare la propria preminenza, ma si possono anche contemporaneamente assumere le ragioni di chi è ridicolo. C’è dunque un riso "repressivo" che punisce chi ha sbagliato violando una norma razionale, morale o estetica, e un riso "liberatorio" che più o meno nascostamente ci induce a solidarizzare con lui a spese della norma. E, punto capitale, molto spesso le due istanze, sia pur gerarchizzate, convivono". (19)

Prendiamo ad esempio gli improperi, le maledizioni che Alex Drastico rivolge contro chi gli ha rubato il motorino o l’autoradio. E’ una sorta di regressione culturale e infantile, dove l’invettiva si fa formula rituale, quasi che il potere magico della parola possa arrecare danno al nemico, secondo le credenze della mentalità primitiva. Si ride di un pensiero magico che trascina le strutture del pensiero adulto verso una regressione culturale sulla scia del recupero del mondo infantile. Alex Drastico non si nasconde dietro al Witz sottile, ma viene allo scoperto nella sua esplosione iraconda, ed è proprio questo mettersi a nudo, questa mancanza di savoir faire che ottiene l’effetto voluto.

Ancora una volta il comico infrange le regole della buona creanza e del rispetto reciproco, libera le istanze aggressive e minacciose, le rende da latenti a esplicite, suscitando una risata catartica e liberatoria. Ancora una volta si ride del personaggio, nella sua irruenza eccessiva, ma si ride anche col personaggio attraverso cui si compie un gesto trasgressivo e antisociale.

Si manifesta cioè quell’ambivalenza che vede compresenti nel riso il distacco sufficiente nei confronti della minorità morale o intellettuale del personaggio e l’attrazione verso le istanze regressive che liberano dalle strettoie della ratio. Inoltre, le caratteristiche negative del personaggio (violenza verbale, machismo, prosopopea arrogante) trovano una sorta di contrappeso equilibrante nella rappresentazione di impulsi, quali l’impulso alla vendetta, elementari quindi condivisibili. Diviene così possibile quella immedesimazione del pubblico nel personaggio che lo rende simpatico al di là del giudizio morale, umano fra umani.

L’elemento di partecipazione solidaristica col personaggio è anche alimentato dal carisma dell’attore, un essere percepito come "speciale" che induce ammirazione anche laddove il personaggio da lui rappresentato dovrebbe suscitare una distaccata derisione.

La presenza globale, fisica dell’attore teatrale, tanto diversa da quella "spezzata" del grande e del piccolo schermo, viene percepita dal pubblico a livello sensoriale oltre che visivo e mentale.

Questo concetto di presenza così difficile da definire è quello che nel teatro orientale: "[…] è stato spesso identificato con termini che connotano l’idea di forza, di energia, di tensione, ma che possono anche semplicemente indicare la parte del corpo in cui tale energia si deve concentrare". (20)

Il fascino del virtuosismo trasformistico e mimetico dell’attore giustifica il topos del "potere" dell’attore: "signore del riso e del pianto" come dice Molinari. Vi è qualcosa di magico nella capacità dell’attore di evocare i personaggi che vivono in lui e sui quali egli esercita un potere richiamandoli a suo piacimento. Se poi i suoi personaggi sono capaci di suscitare il riso, il carisma dell’ attore si potenzia ancora di più dato il potere liberatorio e quasi taumaturgico della risata.

Gli effetti benefici della risata che oggi sono stati scientificamente provati, sono noti fin dai tempi passati, anche se di essi si dava una spiegazione piuttosto fantasiosa: secondo Rabelais che si appella alla dottrina del Corpus Ippocraticus il riso era considerato purgativo perché consentiva l’espulsione dal corpo dell’aria corrotta e perché il soffio alimenta il calore corporeo. Il riso inoltre era considerato diuretico e utile alla mistione degli umori e dato il suo essere contagioso "[…]è importante che il medico si faccia buffone, per non contagiare negativamente il malato con spiriti "tenebreux", o "melanconiques". (21)

Questa teoria sorprendentemente anticipatoria della terapia del medico americano Patch Adams, contribuisce a spiegare la forza carismatica dell’attore comico e il senso di simpatia e gratitudine che suscita nel pubblico.
 
 

Note al III Capitolo

  1. 1 M. Jousse, citato in M. De Marinis, Mimo e teatro del 900, Firenze, La Casa Usher, 1993
  2. 2 Morando Morandini, Sessappiglio - Gli anni d’oro del teatro di rivista, Il Formichiere, Milano 1978
  3. 3 AA.VV,Franca Valeri una Signora molto Snob, Torino, Lindau, 2000, pag.81
  4. 4 E. Martini, Il segno di Franca, in Franca Valeri una Signora molto Snob, Lindau 2000, pag. 68
  5. 5  AA.VV, Franca Valeri una Signora molto Snob, Torino, Lindau, 2000,pag. 76
  6. 6 S. De Matteis, L’imprecazione culturale di Petrolini, in Quaderni di teatro, Anno VI Numero 21\22, Agosto- Novembre 1993
  7. 7 H. Bergson, Il riso.Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1983, pag.78
  8. 8 D. Fo, Manuale minimo dell’attore, Einaudi, Milano, 1983, pag. 353
  9. 9 H. Bergson, Il riso.Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1983 pagg. 48-49
  10. 10 C. Meldolesi, Quaderni di Teatro anno III numero 12, Maggio 1981, Pag. 134
  11. 11 G. Proietti, intervista a cura di Alessandra Rota, "La Repubblica" Mercoledì 3 Maggio 2000
  12. 12 S. Avanzo, Questa o quella per me pari sono, in "Franca Valeri una Signora molto Snob, Torino, Lindau, 2000, pag. 46
  13. 13 Ibidem, 44
  14. 14 F. Valeri dall’intervista: "Il segno di Franca" di Emanuela Martini, in AA.VV, Franca Valeri una Signora molto Snob, Torino, Lindau, 2000 pag. 76
  15. 15 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, da Opere 1905- 1908, Torino, Boringhieri, 1972, p. 200
  16. 16 C. d’Angeli, G. Paluano, Il comico, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 10
  17. 17 H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1983 p. 124
  18. 18 F. Fiorentino, Il Ridicolo nel teatro di Moliere, Torino, Einaudi, 1997, p. X dell’introduzione
  19. 19 C. Molinari, L’attore e la recitazione, Bari, Laterza, 1992, p.115
  20. 20 G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Torino, Einaudi, 1975 p. 93
 

Capitolo IV
Comicità e comunicazione di massa
 

Il varietà televisivo

Lo spettacolo leggero o varietà, è insieme alla fiction e all’informazione, uno dei tre macrogeneri dell’attuale programmazione televisiva.

Il varietà televisivo italiano degli esordi è in sostanza una sintesi fra la tradizione della rivista teatrale, il modello dei programmi di intrattenimento radiofonico (fondati quasi esclusivamente sulla musica leggera) e l’ispirazione ai grandi show americani degli anni ’50. Da questi ultimi, la televisione italiana ha importato soprattutto lo sfarzo scenografico e l’importanza data alla vedette, prestigiosa protagonista dello spettacolo.

Nei suoi primi anni di vita la televisione ha avuto un rapporto quasi di filiazione rispetto al teatro, che ha per anni rappresentato un modello linguistico e culturale per una parte dei programmi del piccolo schermo. La prosa teatrale aveva grande spazio nella televisione degli anni ’50, e non a caso la prima trasmissione serale della RAI presentò proprio una commedia teatrale L’osteria della posta di Goldoni con la regia di Franco Enriquez. Il teatro rispondeva perfettamente al progetto di educazione e formazione culturale di massa nel tempo della prima televisione. Anche i romanzi sceneggiati, tratti da opere conosciute e popolari per il piccolo schermo, adottavano schemi drammaturgici e recitativi di tipo teatrale.

Negli anni ’70 nuovi maestri del teatro italiano come Bene, Quartucci e Ronconi sperimentarono ulteriori tecniche di ripresa televisiva, contribuendo alla scoperta, attraverso originali inquadrature e movimenti delle telecamere, dello "specifico televisivo" e attivando, così, potenzialità nascoste del mezzo elettronico.

Quindi, col passare del tempo, la prosa occupò sempre meno spazio nei palinsesti della RAI, che a partire dagli anni ’80 dovette affrontare la concorrenza delle televisioni private. Questo tipo di rivalità è tuttora accesissimo e sta portando ad un sempre maggiore decadimento della qualità dei programmi. Sin dall’inizio infatti le televisioni private hanno privilegiato schemi spettacolari graditi al grande pubblico. La pubblicità inoltre, essenziale alla sopravvivenza delle televisioni prive di finanziamento pubblico, ha ben presto imposto i suoi codici comunicativi fondati sul ritmo, sulla brevità e sulla seduzione dell’immagine.

Le modalità comunicative e le tecniche espressive della pubblicità vengono immediatamente assimilate dai programmi tanto da rendere questi ultimi simili da un punto di vista linguistico agli spot che ospitano. Ed è questa somiglianza a fare in modo che lo stacco pubblicitario venga avvertito come meno intrusivo. Ma non si tratta soltanto di linguaggio: il peso della pubblicità ha decretato, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, una influenza dei dati Auditel sulle scelte del palinsesto. I programmi televisivi, particolarmente quelli di intrattenimento, sono estremamente sensibili al richiamo seduttivo degli sponsor. Le agenzie pubblicitarie e i loro clienti quando scelgono dove piazzare i propri spot intervengono inevitabilmente a modificare i contenuti dei programmi: anche se non sempre del tutto consapevolmente, programmisti e autori scartano linguaggi e proposte che potrebbero non soddisfare gli sponsor.

La pubblicità, che in breve tempo ha letteralmente invaso gli schermi televisivi, porta con sé anche nuovi valori, proponendo stili di vita fondati sui consumi. Inevitabilmente tali contenuti penetrano subdolamente anche all’interno di programmi che dovrebbero restare impermeabili alle seduzioni commerciali.

In un tempo piuttosto breve, insomma, la televisione ha modificato radicalmente il proprio linguaggio e i propri contenuti, orientandoli maggiormente verso l’intrattenimento facile ed immediato.

Tutti e tre gli artisti che abbiamo preso come riferimento sono passati dalle tavole del palcoscenico agli schermi televisivi, anche se in tempi e modi diversi. Proietti a causa del suo istrionismo è stato spesso considerato "poco televisivo" ed ha ricevuto la massima consacrazione dal piccolo schermo solo recentemente e non interpretando i suoi cavalli di battaglia di attore comico, ma recitando in alcune fiction di successo come Il commissario Rocca e L’avvocato Porta. Ma, in genere, le tecniche teatrali dell’attore romano, la sua maschera fortemente espressiva, l’uso di tecniche corporee e vocali antinaturalistiche, rendono difficile la fruizione televisiva delle sue performance. Il linguaggio televisivo infatti è estremamente immediato e prevede una sostanziale semplificazione dei codici espressivi teatrali.

Questo emerge con chiarezza anche se riflettiamo sul fatto che un comico come Totò è riuscito ad essere eccezionalmente efficace con un mezzo di comunicazione, quello televisivo, apparentemente molto lontano dalla sua formazione artistica, mentre un attore altrettanto eccezionale come Chaplin non riesce ad avere in televisione la stessa efficacia che ha nel cinema, sembrando lì la sua vena comica un po’ artificiosa. L’immediatezza dei lazzi di Totò, i suoi calembours fondati su lapsus linguistici, i doppi sensi, il gusto dell’assurdo che ribalta i luoghi comuni insiti nel linguaggio, vengono valorizzati nello specifico televisivo che ha proprio bisogno di tali spiazzamenti e di tale immediatezza. Del resto il pubblico che subito e più intensamente ha amato Totò è stato il pubblico di massa e tale è anche la televisione.

Viceversa la leggendaria precisione e la sapiente costruzione delle gag di Chaplin rendono meno immediata e quindi meno fruibile la trasposizione della sua comicità nel piccolo schermo. Chaplin viene dal music-hall inglese, dove ogni artista doveva costruire i suoi numeri alla perfezione, con un inizio, un momento centrale e una escalation verso il coinvolgente finale. Una drammaturgia così fortemente strutturata stride con la semplicità e la sintesi richieste dal mezzo televisivo.

Il piccolo schermo mantiene un rapporto col teatro perché continua ad avere bisogno di attori e di comici, anche se si sta assistendo ad un’altra tendenza, quella di gettare allo sbaraglio "la gente comune", persone sempre più ansiose di comparire in TV per avere il loro piccolo momento di gloria. Tendenza che ha raggiunto l’apice (ma forse si andrà ancora oltre) con il programma "Il grande fratello" dove ragazzi assolutamente comuni, senza nessun tipo talento sono in breve tempo diventati i nuovi divi del piccolo schermo.

E’ il cosiddetto fenomeno della spettacolarizzazione, ovvero la tendenza ad accentuare gli aspetti spettacolari dei programmi televisivi "montando" eventi di per sé insignificanti. Tale propensione, sottolinea Aldo Grasso, è un’altra conseguenza della concorrenza tra emittente pubblica e reti private: "Poiché l’incremento della programmazione ha indebolito il carattere di eccezionalità di cui godeva in origine l’appuntamento televisivo, le emittenti hanno tentato di ovviare a questa perdita ricercando negli avvenimenti quotidiani connotazioni sempre più sensazionalistiche." (1)

Tuttavia, nonostante questa preoccupante situazione, la televisione ha ancora bisogno di professionisti. Da sempre gli attori comici sono particolarmente amati dal pubblico televisivo per ovvi motivi: offrono intrattenimento, divertimento e nel migliore dei casi anche spunti di riflessione.

Nella TV degli esordi sono spesso proprio gli attori comici a diventare presentatori di successo. Un esempio che vale per tutti è quello di Mario Riva. Questi arrivava dal teatro dove svolgeva il ruolo di spalla del comico Riccardo Billi con cui apparì anche in televisione nella conduzione di "Un Due e Tre" (1954). Sciolta la coppia, Riva presentò da solo alcuni programmi televisivi che lo fecero conoscere ad un pubblico più vasto, ma fu solo col Musichiere che ottenne un enorme successo. Riva conquistò il grande pubblico della televisione proprio con le sue doti di attore comico: l’ironia pungente e una vivace e allegra comunicativa dotata di grande immediatezza. Riva sapeva utilizzare contemporaneamente l’umorismo, la satira, la caricatura, passando da un interlocutore all’altro con semplicità e leggerezza. Fu proprio questa immediatezza, questa apparente spontaneità, a renderlo così adatto al linguaggio del mezzo elettronico.

Il cabaret, la rivista, il varietà teatrale offrono all’attore la possibilità di imparare a sostenere con disinvoltura le improvvisazioni, i cambiamenti repentini di situazioni, tutte eventualità che occorrono spesso nella conduzione di uno spettacolo televisivo a contatto col pubblico. Ecco dunque che Riva e altri conduttori provenienti dal varietà riescono ad interpretare perfettamente e con disinvoltura il ruolo del presentatore affabile, che gioca a ironizzare sulle persone prendendole garbatamente in giro, che sa tenere i ritmi dei tempi televisivi senza dilatarli, senza annoiare il pubblico a casa.

In breve tempo la televisione si accorge che ha bisogno di attori comici che sappiano interpretare l’attualità in maniera intelligente e divertita. I comici dunque, partono alla conquista del piccolo schermo ovunque diano loro spazio, sia come conduttori che come ospiti nei programmi di intrattenimento, che come protagonisti di un genere nuovo: il varietà televisivo ovvero uno spettacolo di intrattenimento leggero che prevede un equilibrio tra canzoni, balletti, ospiti e sketch.

Sin dai suoi esordi, la comicità televisiva ha sempre avuto un forte carattere autoreferenziale, la carica di irriverenza della battuta sarcastica si è da subito rivolta agli stessi personaggi televisivi, tanto che si dice che la seconda trasmissione della TV italiana facesse già il verso alla prima. Parodie del mondo televisivo e satira sui personaggi del piccolo schermo si trovano ad esempio in Un, due e tre con la coppia Vianello Tognazzi (e prima Riva- Billi). Sebbene il programma andasse in onda negli anni ’50 (dal 1954 fino al 1959) in pieno regime democristiano, i comici osavano alludere anche a personaggi politici attirandosi spesso polemiche e ire censorie.

"Un, due, tre" (il titolo allude alle tre telecamere presenti in studio) è la prima trasposizione della rivista teatrale alla rivista televisiva, con sketch, battute e numeri di attrazione.

Il programma non è in fondo molto diverso dai famosi programmi americani, come Your shows of shows varietà della NBC, scritto tra gli altri da Mel Brooks e Woody Allen, soltanto che i riferimenti sono importati dal teatro di rivista italiano.

Negli anni ’60 i numeri comici e satirici compaiono solitamente all’interno dei cosiddetti varietà. A Studio Uno (dal 1961), innovativo varietà del sabato sera, si esibiscono attori comici come Vianello e Mondaini, Salce, Panelli e Valori, Chiari, Luttazzi, Franca Valeri e, come ospiti, Sordi, De Sica e perfino Totò. Franca Valeri farà qui conoscere al grande pubblico alcuni dei suoi più riusciti personaggi, primo fra tutti il celeberrimo "La Signorina snob".

Siamo in un periodo in cui la satira si limita ad essere satira di costume, che prende di mira comportamenti individuali, poiché il controllo censorio è sempre in agguato, pronto a stroncare ogni velleità di polemica politica.

Un esempio clamoroso di quanto la satira sia stata elemento di disturbo, soprattutto in un delicato momento storico, è l’episodio dell’abbandono da parte di Dario Fo e Franca Rame dell’edizione 1962 di Canzonissima: i testi fortemente politicizzati della coppia mal si accordano con lo spirito disimpegnato di una delle trasmissioni più nazional-popolari che la storia della televisione ricordi; il conflitto con i dirigenti RAI si fa presto insanabile e i due attori si allontano dal programma tra clamorose polemiche.

Verso la fine degli anni ’60 si afferma un nuovo tipo di spettacolo leggero. Più sobrio e contenuto nell’apparato scenografico e più sintetico e aggressivo nella comicità, in gran parte mutuata dalla tradizione del cabaret, soprattutto milanese. Parte nel gennaio del ’68 sulla Rai, alle ore 18 della domenica: Quelli della domenica, varietà televisivo di Marchesi, Terzoli e Vaime, che segnerà il debutto televisivo di Paolo Villaggio e Cochi e Renato. Nasce una nuova comicità, straniata e surreale, con nuovi ritmi e contenuti, in gran parte importata dai cabaret dove i comici solevano esibirsi.

Dopo il vento di liberazione portato dal ’68, la RAI accoglierà nuovamente anche la coppia Fo-Rame con il ciclo Il teatro di Dario Fo (1977), un programma che proponeva al pubblico televisivo i testi messi in scena dall’autore-attore dal 1963 al 1969.

Sempre del ’77 è uno dei programmi più innovativi del momento Non stop, il varietà di Rai 1 diretto da Enzo Trapani. Siamo di fronte ad una modificazione profonda del genere che ha perso alcuni elementi strutturali. Lo spettacolo è infatti organizzato come un cabaret, in cui i numeri dei comici si succedono rapidamente senza un conduttore che tenga le file del discorso. Questo varietà si rivela presto una fucina di talenti e consacrerà più di un comico di successo (un nome per tutti: Carlo Verdone).

E’ probabilmente a Non stop che si ispira Drive in, uno dei primi varietà comici delle reti Fininvest, almeno nella successione rapida degli sketch e nella mancanza di un filo conduttore che li leghi. Ma siamo già negli anni ’80 in piena epoca di riflusso, e nonostante il tentativo degli autori (tra cui figurano l’ideatore Antonio Ricci e Gino e Michele) di proporre una satira pungente, il programma appare chiassoso e piuttosto superficiale nelle forme e nei contenuti.

Per la prima volta compaiono le prosperose ragazze che in breve tempo invaderanno l’etere, passando con disinvoltura dalle reti private a quelle pubbliche, un tempo garanti del buon gusto televisivo. Sono loro le uniche donne del programma poiché le attrici e le autrici comiche sono, salvo rarissime eccezioni (Susy Blady, Elle Kappa), praticamente scomparse, soffocate dall’invadente presenza delle procaci incarnazioni dell’immaginario maschile.

Il programma riscuote grande successo, anche per l’indubbia capacità di adattarsi con intelligenza all’invadenza delle interruzioni pubblicitarie, rubandone il ritmo frenetico e la sintesi del messaggio. E’ forse questa la maggiore innovazione di Drive in, l’avere colto con rapidità i cambiamenti che i tempi e le forme degli spot pubblicitari stavano imponendo al linguaggio televisivo. Ma la novità presenterà presto il suo lato più inquietante: il comico, come vedremo, sarà costretto d’ora in poi ad accelerare i tempi e ad esasperare la caricatura, per captare l’attenzione di un pubblico ormai assuefatto ai nuovi ritmi del messaggio televisivo.

Un approccio più tradizionale ai ritmi già consolidati della comicità televisiva si trova invece in Fantastico, lo show del sabato sera abbinato alla lotteria di Capodanno che ritornerà per 11 puntate dalla stagione 1979-80 a quella 1991-92. Lo spettacolo è il classico varietà del sabato sera: con le soubrette, i balletti, i conduttori più o meno ingessati. Forse l’unico elemento di novità lo portano proprio i comici che in alcuni casi fanno esplodere polemiche politiche di un certo rilievo. Ci troviamo così di fronte ad un paradosso: all’interno di un programma convenzionale e popolare come "Fantastico" compaiono schegge impazzite di comicità trasgressiva, quasi a sottolineare come la satira abbia bisogno di uno scenario tradizionale per esplicarsi. Ricordiamo anche che l’edizione del 1983-84 era condotta da Gigi Proietti, che ebbe modo di riportare in televisione i brani più riusciti del suo repertorio.

Spogliata la satira delle sue istanze provocatorie, resistono tra gli anni ’80 e ’90 poche sacche di libera espressione in cui possa esplicarsi il lato "trasgressivo" della comicità, quello che dirige la sua forza irrisoria contro i vizi sociali e gli abusi del potere politico. Si accentua così quel carattere autoreferenziale che ha caratterizzato la satira televisiva sin dai suoi esordi. Questo aspetto di autoreferenzialità era inizialmente motivato dalle pressioni che l’apparato censorio esercitava sulle trasmissioni satiriche, in seguito la ragione di tale scelta sembra piuttosto da cercare nell’enorme influenza che la televisione sta assumendo nella cultura di massa.

I programmi televisivi vengono seguiti da un numero sempre più ampio di telespettatori e per questo sono un incredibile elemento di unificazione sociale e culturale.

Al di là della satira sulla televisione, i due programmi presentano notevoli elementi innovativi: La TV delle ragazze, la prima e forse l’ultima trasmissione tutta al femminile, oltre a dirigere le sue ironiche invettive contro i cliché televisivi, ironizza sul difficile ruolo della donna contemporanea. Da un punto di vista artistico, la trasmissione ha il merito di aver creato un gruppo di attrici (a cui si aggiungeranno poi anche attori maschi), che tra aggregazioni e defezioni, manterrà una sua identità forte almeno fino al Pippo Chennedy show (Rai 2, 1997), il programma di prima serata condotto da Serena Dandini che avrà un grosso impatto sul pubblico, influenzando moltissimo il linguaggio comune, soprattutto giovanile.

Stimolata dalla precaria situazione politica e dai cambiamenti sociali in atto, la satira riaffiora negli anni ’90 quando ogni rigurgito di ribellismo sembrava ormai sopito. A partire dal 1990, su Italia 1, compare un singolare varietà comico, destinato ad avere grande successo soprattutto nei suoi primi anni di vita (continua infatti tuttora), Mai dire gol ideato e condotto (ma sempre rigorosamente "da fuori") dalla Gialappa’s Band.

I tre impertinenti "ragazzacci" della TV (Santin, Gherarducci e Taranto) si divertono a prendere di mira il mondo del calcio, colpendo con la loro comicità fulminante gli svarioni sportivi (e linguistici) dei protagonisti dello sport più amato d’Italia. A poco a poco il calcio perde la priorità tra i contenuti della trasmissione che diventa un vero e proprio spettacolo comico, lanciando attori di grande talento che ben presto si affermeranno anche grazie al successo del programma (Teo Teocoli, Antonio Albanese, Daniele Luttazzi, il trio Aldo, Giovanni e Giacomo). Albanese aveva precedentemente debuttato in un altro programma di successo: Su la testa (1992, Rai 3), il programma condotto da uno stralunato Paolo Rossi. Trasmesso da un teatro tenda nella periferia di Milano, lo spettacolo si distingue per il clima nuovo sospeso tra il teatro, il cabaret e la televisione e per i testi di satira politica e di costume piuttosto trasgressivi. Antonio Albanese colpisce nel segno col personaggio di Alex Drastico, i suoi tormentoni e la sua caratteristica parlata sono immediatamente capaci di influenzare il linguaggio giovanile.

Nella televisione di fine anni ’90 si perde anche questo tipo di umorismo trascinante e impertinente che amava "disturbare" e fare il verso a tutto e a tutti in primo luogo alla stessa TV. Drammaturgia compressa in tempi brevi e "ritorno all’ordine" rendono sempre più difficile la sopravvivenza di una comicità che cerchi di coniugare la voglia di divertire con quella di smascherare, nei limiti del possibile, le ipocrisie della società moderna. Non è un caso che nella seconda edizione de "Il laureato" (1995-96) lo show presentato da Piero Chiambretti, Dario Fo abbia protestato per il poco tempo accordatogli: un grande attore teatrale che aveva fatto televisione in altri tempi (Canzonissima 1962-63 e poi negli anni ‘70) evidentemente non riusciva ad adattarsi ai nuovi codici televisivi, avvertendo il limite di non poter sviluppare nella performance una evoluzione drammaturgica che avesse almeno un percorso compiuto. Questo dei tempi compressi è, come vedremo, il problema più grande della comicità televisiva contemporanea assieme a quello dell’inflazione di programmi comici che hanno letteralmente invaso il piccolo schermo, determinando un generale decadimento della qualità delle trasmissioni.
 
 

La televisione e la reificazione dell’attore comico

Quando negli anni ’80 cominciò a dilagare nei mezzi di comunicazione di massa (principalmente la televisione) la moda della comicità, il mestiere del comico sembrò trarre vantaggio dalla nuova situazione. Programmi di successo portavano popolarità agli attori, che vedevano così moltiplicate le occasioni di lavoro e di guadagno.

Il nesso tra visibilità, fama e possibilità di esibirsi in serate ben pagate (nei teatri, nei locali di svago, nelle discoteche), diverrà ben presto un circolo vizioso che imprigionerà il comico, soffocandone poco a poco la creatività. Negli anni ’90 la situazione precipita inesorabilmente. L’inflazione dei programmi televisivi di varietà svuota la figura del comico di un qualsiasi spessore rendendola sempre più indifferenziata e omologata. Il mercato detta le sue leggi e la mercificazione dell’attore comico assomiglia in modo sempre più preoccupante a quella del lavoratore salariato di un secolo fa. Dice K. Marx nel primo capitolo del manifesto del partito comunista: "Questi operai che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo di commercio, e perciò sono egualmente esposti a tutte le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato". (1)

Agenzie, manager, produttori televisivi e cinematografici corteggiano e colmano di attenzioni l’attore del momento, quello che, a giudicare dalle impennate dell’audience, "funziona di più". Ciò che conta è il profitto che l’attore garantisce, a prescindere dal valore del suo lavoro artistico, della sua professionalità ed esperienza. Si potrà obbiettare che è sempre stato così, che è sempre stato il pubblico nella sua accezione più vasta, di massa, a decretare il successo di un comico.

La differenza fondamentale è che oggi il comico non viene giudicato dalle sue performance teatrali o cinematografiche, che danno piena riconoscibilità al suo lavoro, ma quasi esclusivamente dalle apparizioni televisive, che difficilmente rendono giustizia delle abilità professionali di ciascuno. Inoltre la televisione non ha solo il potere di diffondere l’immagine di un artista, ma anche di condizionare i gusti del pubblico.

Citiamo per tutti Popper che osserva come la "gente" può solo scegliere tra quello che gli viene offerto. Non si può sapere "che cosa la gente sceglierebbe se ricevesse proposte diverse." (2) Non solo: l’esposizione continua a determinate immagini, finisce con l’abituare le menti degli spettatori a selezionare le figure dei personaggi che vedono più di frequente. Un attore presenzialista, che colma della sua presenza programmi televisivi di varietà, talk show, quiz a premi, avrà più visibilità e quindi più successo di un attore, magari più bravo, ma meno onnipresente sugli schermi televisivi. La televisione crea suggestioni, climi emotivi e un "passaggio" televisivo è in grado di trasfigurare una persona creando una dimensione psicologica molto potente: la notorietà. Un volto qualunque passaggio dopo passaggio diventa familiare, rassicurante anche perché ormai lo spazio televisivo si confonde con lo spazio domestico. A maggior ragione questo accade se il volto non è un volto qualunque ma porta con se caratteristiche particolari come l’espressività di un comico. Ma la notorietà costruita sull’effimero televisivo nasconde sempre delle insidie: le oscillazioni della moda ad esempio, influenzate da un mezzo di comunicazione come quello televisivo che ha continuamente bisogno di ricambio, di volti nuovi da lanciare sul mercato. Mercato che come abbiamo visto è sempre più spietato, poiché l’immagine del comico si consuma in fretta soprattutto se l’attore non ha alle spalle una solida professionalità. Sono purtroppo numerosi i casi di giovani comici lanciati allo sbaraglio che consumano la loro notorietà in pochissimi anni, a volte in pochi mesi.

Comunicazione sempre più standardizzata e logiche mercantili non solo le sole insidie che sviliscono l’antico mestiere dell’attore comico. Grazie anche al dilagare degli spot pubblicitari soprattutto sulle reti commerciali, il pubblico televisivo si va abituando a ritmi di comunicazione sempre più serrati, di conseguenza lo sviluppo di un discorso in tempi più ampi è spesso percepito come lento e noioso. I tempi a disposizione dello sketch si restringono sempre di più e la drammaturgia deve fare i conti con una scansione temporale veloce e molto ritmata.

Il comico si trova ora a dover creare ed esprimersi in tempi brevissimi cercando di concentrare al massimo la potenza espressiva della sua vis comica. Operazione questa che si rivela molto difficile, faticosa e spesso frustrante.

Così se nella commedia dell’arte l’attore comico era specializzato nell’arte di non specializzarsi (Taviani, Schino), il comico contemporaneo è costretto a limitare la propria versatilità per non deludere un pubblico orientato prevalentemente su di una cultura televisiva che assorbe quasi esclusivamente i suoi bisogni di svago e di divertimento.

Molti studiosi della cultura popolare hanno evidenziato come i media per soddisfare i bisogni di evasione del pubblico, abbiano scartato un uso meno superficiale della comunicazione. Se è vero che le funzioni di evasione possono essere messe in relazione con il bisogno di ridurre l’ansia e scaricare la tensione, la comicità risponde perfettamente allo scopo.

Nel momento in cui l’attore comico televisivo è sempre più mercificato, tanto più deve rispondere alle caratteristiche standard che ci si aspetta da un prodotto di consumo. Difficilmente dunque potrà cimentarsi con testi di altro tipo e la drammaturgia seria gli è quasi vietata poiché non risponderebbe alla aspettative del "suo" pubblico, l’auditorio tanto difficilmente conquistato grazie al piccolo schermo.

C’è un passo interessante nel libro di Ferrone dedicato ai comici dell’arte, in cui si scopre una curiosa analogia tra la posizione del comico contemporaneo e quella dei suoi progenitori. Tra Sei e Settecento, spiega Ferrone il pubblico cambia, non è più quello omogeneo delle corti, del teatro dilettante, dove attori e spettatori appartengono agli stessi gruppi sociali. In quell’epoca l’attore diventa straniero, un professionista che si separa dai dilettanti che costituiscono il suo pubblico. Ecco allora che i comici "incerti tra l’adeguamento conformistico al gusto di chi l’applaude e l’attaccamento istintivo al loro repertorio …decidono di volta in volta quale strada scegliere". (3)

Allo stesso modo, l’attore comico contemporaneo cerca faticosamente una sua strada, a volte adeguandosi ai gusti di un pubblico meno selettivo, a volte tentando escursioni in altri settori quali il cinema o il serial televisivo. Oppure cerca di coniugare il proprio repertorio teatrale con quello televisivo, magari aggiungendo quest’ultimo solo alla fine dello spettacolo, come "regalo" al pubblico che lo richiede, come fa Albanese.

Si cerca a questo modo di fare salva la drammaturgia teatrale cedendo a qualche compromesso col pubblico più affezionato della televisione.

Sarebbe interessante capire come mai ai nostri giorni si sia amplificata in modo considerevole l'esigenza di riempire i palinsesti televisivi di spettacoli comici. Nella stagione 2000- 2001 sono in previsione almeno quattro programmi di varietà comici: il nuovo programma della Gialappa's band, Rido su RAI due, Zelig su Italia Uno e un nuovo programma condotto da Serena Dandini.

I varietà comici prevedono la presenza di decine e decine di comici vecchi e nuovi, famosi e meno famosi, un enorme calderone in cui diventa sempre più difficile fare distinzioni di tipo qualitativo. Il pubblico italiano sembra essere sempre più drogato non solo di televisione, ma soprattutto di comicità televisiva a buon mercato. In una offerta così ampia, infatti, diventa sempre più difficile salvare la qualità dei programmi, sottrarsi alla omologazione imperante. A che cosa è legato questo impellente desiderio di ridere? Forse in un momento in cui si è smarrita ogni spinta al cambiamento sociale e i meccanismi di organizzazione e di produzione sono sempre più rigidi, si fa strada una maggiore esigenza di spreco, di perdita di tempo. Nell'epoca della produzione e del consumo, nell'era della progettazione a priori e della corsa al denaro, il riso diventa, per dirla con Bataille, un consumo improduttivo, l'annullamento del lavoro quotidiano, il ritorno all'insensatezza e alla gratuità del gioco infantile. In una momentanea sospensione di senso, il pubblico può permettersi di rompere gli schemi e le convenzioni, affacciarsi nel regno dell'assurdo e dell'impossibile, rimanendo tuttavia inseriti nella vita sociale e nel mondo del lavoro.

O forse la risata è una risposta alla precarietà della nuova economia, alla flessibilità, alle incertezze del futuro, al vuoto di un consumismo senz'anima, un aggrapparsi ad un momentaneo benessere in un momento di forte, anche se latente, disagio sociale. O forse l’esposizione ai media è molto più casuale di quanto si pensi e l’uso che si fa della televisione è quella di passatempo, un modo semplice e alla portata di tutti per scaricare le tensioni e i conflitti.

Certo è che ci troviamo di fronte ad una inflazione del fenomeno comico con gli effetti di banalizzazione e omologazione che sappiamo.

l varietà televisivo ha visto molti momenti felici ed ha rappresentato per molti comici l’occasione per fare conoscere il proprio repertorio ed ottenere un gratificante successo. Ben presto però, la comicità in televisione ha smesso di essere un evento speciale, un momento di intrattenimento particolare, poco frequente e quindi aspettato da tutti, per divenire un elemento diffusissimo, imprescindibile, quasi istituzionale.

Nel momento in cui la comicità viene istituzionalizzata, il riso smarrisce la sua funzione liberatoria e viene assorbito nei valori dominanti, funzionale alle strategie di controllo sociale. Da strumento di critica, la comicità rischia di ridursi a strumento per intorpidire le menti di spettatori resi sempre più confusi dal caos e dell'insensatezza televisiva. La perdita di qualità è direttamente proporzionale allo sviluppo della quantità.

Del resto, nonostante l'enorme quantità dell'offerta di comicità, diventa sempre più difficile ridere, anche perchè al comico mancano ormai una serie di riferimenti storici e sociali precisi da utilizzare per la sua satira. La società, sempre più stratificata e diversificata, rende sempre più ambigui i bersagli di una possibile parodia. Borghesia, proletariato, snobismo, sono termini che hanno subito una certa consunzione e che forse non riescono più a definire con esattezza una realtà molto più complessa.

L'accesso ormai quasi universale ai consumi ha ridimensionato le separazioni tra le diverse classi sociali, rendendoci tutti una enorme classe di consumatori. E nella grande massa dei consumi entra, come già accennavamo, anche la comicità e con essa l'attore comico, sempre più in balia dei capricci dell’Auditel. Quest’ultima è una società costituita nel 1984 con lo scopo di rilevare in modo imparziale i dati di ascolto attraverso indicatori che misurano l’entità del pubblico e la durata della sua permanenza su determinati programmi. La rilevazione dei dati d’ascolto avviene grazie a people meter installati nelle televisioni di un campione di famiglie rappresentative della popolazione italiana. I dati d’ascolto rilevati vengono poi trasferiti al computer centrale e qui elaborati. Questo sistema di controllo e verifica degli ascolti ha suscitato più di una perplessità. Ne sono stati contestati i metodi di rilevamento e soprattutto l’uso che se ne fa: i dati andrebbero sempre interpretati mentre diventano spesso l’unico metro per un giudizio estetico e di contenuto. Antonio Ricci commenta così lo strapotere dell’Auditel: "L’Auditel è una divinità. I suoi responsi sono dogmi. Come Eurinomo, il genio infernale che sbrana la carne dei morti lasciando solo lo scheletro, così l’Auditel ogni giorno si spolpa qualche conduttore, qualche telegiornalista o soubrette. Per placarlo, gli aruspici Direttori di Rete, oltre a vittime umane, immolano soprattutto il buon senso. Anche i critici televisivi più esigenti, di fronte ai sacri dati, chinano il capo: non c’è tivù senza ascolto". (4)

L'ossessivo riferimento all'audience fa si che, trovata una formula efficace non si faccia che tentare di ripeterla col risultato di fare apparire simili tutti i programmi: "Se un programma raggiunge un alto ascolto (fra non molto dovremo anche dire: se soddisfa lo sponsor) non si usa più giudicarlo con criteri estetici; e con i medesimi criteri non si osa più difendere un programma magari straordinario dal punto di vista della costruzione linguistica, ma povero di audience. L'elogio della "spazzatura" è infatti parso l'ultimo grido alla moda da parte di studiosi ed osservatori vari del costume. " (5)

Il pubblico appare sempre più passivo, frastornato da un eccesso informativo e spettacolare, sempre meno capace, sembra, di scegliere autonomamente. Ciò che appare nei media, ciò che viene proposto dalla società dello spettacolo viene percepito positivamente secondo il principio che: "ciò che appare è buono, ciò che è buono appare". Guy Debord con sorprendente intuito profetico aveva previsto con anni di anticipo la situazione attuale di asservimento massiccio al potere del mercato in un mondo dove lo spettacolo ha assorbito ogni forma di opposizione fagocitandola e assimilandola a se.

Il prevalere della copia sull'originale è talmente evidente che rende difficile parlare della realtà, del mondo reale distinguendolo dalle immagini che lo riproducono: "Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. Nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riproduce in se stessa l'ordine spettacolare portandogli un'adesione positiva. [...] La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l'essenza e il sostegno della società esistente." (6)

Oggi, un programma come "Il grande fratello" ci offre una evidente conferma del talento profetico del filosofo francese.

Debord ha colto perfettamente il nesso tra merce e spettacolo, spiegando come le società moderne non siano altro che una enorme produzione di merci e una accumulazione di spettacoli. Anzi merce e spettacolo divengono sostanzialmente una cosa sola e lo spettacolo diviene la struttura della società dei consumi.

Il consumo, il consumo alienato di merci e di immagini diviene il nuovo oppio dei popoli; il lavoratore produce e consuma, lo spettatore diviene merce da vendere alla pubblicità: "Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita sociale [...] A questo punto della "seconda rivoluzione industriale", il consumo alienato diventa per le masse un dovere supplementare che si aggiunge a quello della produzione alienata." (6)

Il processo di banalizzazione domina in modo incontrastato la società dei consumi e i media ci restituiscono un vissuto apparente, piatto, senza profondità che compensa una natura e una cultura ormai totalmente trasformate e inquinate secondo gli interessi economici del mercato globale.

Nei "Commentari sulla società dello spettacolo" scritti nel 1988, quando il trionfo dello spettacolare ha invaso definitivamente le strutture sociali, Debord ribadisce le sue tesi di fondo, confermate già di fatto dagli sviluppi sociali in atto. Debord constata che "il pensiero spettacolare" sta sempre più impoverendo la formazione dell'individuo condizionandone lo sviluppo. Il linguaggio spettacolare diviene l'unico linguaggio familiare poiché e quello con cui si insegna a parlare e in ciò consiste, sostiene il filosofo francese, il più importante successo del "dominio spettacolare": "La cancellazione della personalità accompagna fatalmente le condizioni dell'esistenza sottomessa concretamente alle norme spettacolari, e in tal modo sempre più separata dalle possibilità di conoscere esperienze autentiche, scoprendo così le sue preferenze individuali." (8)

Tuttavia in questo scenario apocalittico si aprono degli spiragli di speranza. Studi recenti hanno messo in evidenza che i media soddisfano i loro consumatori, molto meno di quanto ci si aspetterebbe. Katz, Blumer e Gurevitch, (9) sostengono che le preferenze del pubblico esprimono una grande varietà di bisogni e di interessi, bisogni che potrebbero rappresentare una sfida ai produttori. Si tratta di vedere quanto costoro siano in grado di accoglierla, trincerati come sono dietro all’alibi di un pubblico totalmente in balia di interessi futili e superficiali.
 
 

Scrivere per il teatro, scrivere per la televisione:
differenze e difficili coniugabilità
Dice Giorgio Gambino, uno dei responsabili della redazione del Costanzo Show: "La terza e ultima generazione annovera tra le sue file i cosiddetti comici nuovi, personaggi che la gavetta non la fanno e non l’hanno fatta perché hanno verificato il potere della televisione attraverso l’esperienza dei loro predecessori. Rinnegano cabaret e teatro e puntano il tutto e per tutto sul piccolo schermo, persuasi che la scorciatoia della televisione sia sempre e comunque preferibile a qualunque altro percorso. Il problema sono i tempi: la televisione li dimezza. E se è vero che ti conferisce notorietà e successo, in men che non si dica è altrettanto vero e provato che ti travolge e stritola con la stessa rapidità." (10)
Per quanto eccessivamente generalizzante possa sembrare questa affermazione, sicuramente coglie un aspetto fondamentale del problema. Un programma come il "Maurizio Costanzo show" che ha decretato il successo di tanti giovani (e non più giovani) comici, è un esempio evidente di come lo strapotere televisivo possa facilmente annientare ogni pretesa di spessore artistico. Il programma, che come è noto consiste in un talk show dove il comico di turno è costretto ad esibirsi in pochi minuti, magari dopo storie strappalacrime, è fortemente dominato dalla figura del conduttore che dirige le serate televisive e decide chi deve o non deve emergere.
Costanzo ha creato uno show a sua immagine e somiglianza dove solo in apparenza gli ospiti hanno un rapporto paritetico: il conduttore prende la parola nella quasi totalità dei casi mentre gli invitati parlano quasi esclusivamente su sollecitazione dello stesso. L’animatore è l’onnipresente controllore delle iniziative verbali degli astanti. Egli si muove alle spalle degli ospiti, in una posizione singolarmente simile a quella dello psicanalista, spostandosi dall’uno all’altro, toccando gli invitati, mettendo loro la mano sulla spalla, presentandoli nell’ordine che lui ha deciso, valorizzando alcuni e screditando sottilmente gli altri.
Attori bravissimi sul palcoscenico teatrale hanno avuto vita breve su quello del Costanzo show: "Per Maurizio, il programma viene prima di tutto e non c’è niente che lo faccia arrabbiare più di un ospite intenzionato ad anteporre i propri interessi a quelli della trasmissione o incapace di assecondarlo e di fare il suo gioco nei modi e nei tempi a lui graditi. E non importa che un comico abbia talento"(corsivo nostro). (10)

Il talento non conta, tanto è vero che attori come Albanese e Bergonzoni non sono piaciuti a Costanzo e sono dunque spariti in fretta dal suo programma.

Circondati da attricette maggiorate e da opinionisti di ogni sorta, i comici del talk show si sforzano di lanciare le proprie battute in un clima di festa paesana, con un trionfo di luoghi comuni a ruota libera. In questa e altre circostanze da Talk Show, l’attore comico ospite deve scrivere interventi brevi e incisivi, ma ciò che più conta non è la qualità del suo intervento comico: egli conquisterà il conduttore (e quindi il pubblico) se si mostrerà brillante, interverrà improvvisando con battute estemporanee senza mai prevaricare il presentatore. Insomma dovrà mostrare più che altro qualità di animatore, di intrattenitore piuttosto che di comico.

I pericoli di un mestiere che non cerca più le sue radici sono evidenti. Non solo per i giovani comici stessi, che saranno probabilmente presto esautorati del seppur piccolo potere conquistato, ma per un mondo culturale già così avvilito e depauperato.

Quando Franca Valeri si affacciava al mondo televisivo eravamo negli anni ’50, agli albori del varietà televisivo. Dopo il debutto con I Gobbi nel 1954, la Valeri compare senza i suoi compagni nel programma "le Divine" sette ritratti di dive della prima metà del secolo. Il programma, troppo colto e raffinato non riscuote l’ambito successo e la Valeri ci riprova correggendo il tiro con "La regina e…io" (1960): è un varietà settimanale in cui la regina del pettegolezzo, Nilla Pizzi, e la sua segretaria, Franca Valeri, intrattengono, parlando e sparlando amabilmente, diverse ospiti femminili. Nilla Pizzi canta e la Valeri si esibisce nei suoi personaggi più famosi: la Signorina Snob e la sarta romana, ovvero la Signora Cecioni ante litteram, insomma una sorta di prova generale per i suoi interventi nel varietà del sabato sera "Studio Uno". Quest’ultimo programma, in onda dall’ottobre del 1961 fino al 1965, segna l’inizio di un nuovo modo di fare televisione.

Al posto delle scenografie sfarzose, troviamo quelle disegnate da Cesarini da Senigallia, che ricordano quelle algide e austere di Adolphe Appia. Le inquadrature mostrano per la prima volta giraffe e attrezzature tecniche e comici e ballerine si muovono in grandi spazi che ne valorizzano la gestualità. Qui la Valeri, fasciata in un sobrio abito nero firmato Capucci, propone le sue donne dopo averle introdotte con una breve spiegazione sul tema del giorno.

La Valeri e gli altri comici (attori come Chiari, Mondaini e Vianello, Luttazzi, Salce e Panelli) hanno la possibilità di mostrare il proprio repertorio integralmente o quasi, senza drastici tagli. Le riprese, i tempi comici, le inquadrature ricreano un clima per molti versi simile a quello teatrale.

Assistendo ad un programma di quell’epoca e confrontandolo con uno di oggi si resta stupefatti dalla differenza. I cosiddetti "stacchi" cioè i cambi di inquadrature sono pochissimi e la telecamera segue docilmente il comico inquadrandolo come l'occhio dello spettatore farebbe a teatro. La durata di un monologo o di uno sketch è pressoché identica a quella che troveremmo in teatro.

Dice Antonio Albanese: " Pur avendo avuto sempre la totale libertà, nelle situazioni televisive in cui ho deciso di lavorare, devo ammettere che lì la situazione è asettica, sei assolutamente penalizzato dai ritmi, dai fattori tecnici.

La televisione è come una grande fiera in cui vai ad esibirti, ma dove puoi fare solo degli abbozzi, degli accenni, perché la tv che ti viene offerta oggi dai capi struttura è quella dei minuti e dei secondi, dove puoi solo capire che Albanese non è una donna, o al massimo che quel gesto ti piace e magari vuoi rivederlo in teatro.

La tv ha bisogno di una accelerazione di ritmi. In due minuti devi scegliere uno schizzo che possa durare pochi minuti. Il contesto di un personaggio è totalmente diverso da quello in cui è nato. La tv è un grande mercato, va usato con cautela, cercando di non inflazionarsi, la comicità è accattivante, bisogna cercare di non farsi intrappolare da un meccanismo di indebolimento del pensiero, sia dell’attore che del pubblico".

Lo sguardo comico, privato dello spazio/tempo della riflessione, rischia di diventare diniego della problematicità, visione superficiale e asfittica della realtà.

Prevalendo la logica commerciale il comico ha ora bisogno di avere un impatto immediato sull’immaginazione del pubblico televisivo che consenta di essere facilmente ricordato e riprodotto (vedi il tormentone). Dovendo ridurre i tempi, il comico è costretto a modificare la sua scrittura dotandola di sintesi e di soluzioni stilistiche adeguate all’impatto mediatico.

Il personaggio da interpretare deve essere immediatamente riconoscibile, chiaramente collocabile all’interno di determinate categorie sociali e quindi dotato di un abbigliamento perfettamente aderente, anche se in modo caricaturale, al modello che si desidera parodiare. Il personaggio deve presentare tratti caratteriali estremamente semplificati che in certi casi lo fanno assomigliare più ad una macchietta che a un "tipo".

Nella drammaturgia del comico televisivo, inflessioni dialettali e influssi gergali sono fortemente accentuati, sempre allo scopo di caratterizzare chiaramente il personaggio affinché sia possibile ricordarlo e facilmente imitarlo.

Il linguaggio sarà dunque ricco di espressioni in parte tratte dal gergo di determinate categorie sociali e professionali (lo studente, il soldato, il poliziotto, il professore) e in parte inventate.

Per ciò che riguarda il dialetto, ad esempio, il discorso viene mantenuto in italiano per ciò che riguarda la struttura sintattica, ma pronunciato con accento locale mantenendo alcune parole simbolo comprensibili anche da chi è estraneo a quella determinata cultura regionale. "Drive in", uno dei programmi culto della televisione degli anni 80, pullulava di personaggi che si esprimevano in vernacolo, dallo "studente calabrese iscritto alla Bocconi", al "paninaro" milanese.

Il linguaggio, così infarcito di espressioni gergali, viene ritmato su precise scansioni ritmiche delle frasi, ognuna delle quali deve terminare con una battuta ad effetto; le battute crescono in progressione, l’ultima (la cosiddetta "chiusa") dovrà essere la più forte e "sostenuta" dal comico in modo particolare per dare l’idea che il pezzo si sia concluso.

In questa rapida successione il ritmo è fondamentale: velocità e brevità sono tutto, non si lascia il tempo di godere una battuta perché si passa immediatamente alla prossima.

Fondamentale nel linguaggio comico televisivo è il famoso tormentone di cui abbiamo già parlato, che qui assume un valore molto forte perché permette che il pezzo si imprima più facilmente nella mente degli spettatori. Un tormentone che funziona può decretare il successo del personaggio, quindi la sua costruzione è molto curata dai comici e dagli autori del programma.

Il tormentone è diventato così fondamentale nella scrittura televisiva che alcuni comici sono stati tentati di studiare la sua formula "a tavolino", cercando un artificio verbale che possa essere facilmente memorizzato da parte del pubblico. Col risultato però che l’efficacia di questo meccanismo comico viene compromessa dalla freddezza con cui è stato concepito e che il pubblico avverte anche inconsapevolmente qualcosa di falso e artificioso. Nei pezzi più riusciti invece, il tormentone è scaturito dal personaggio in modo spontaneo e naturale come un vezzo, un modo di esprimersi caratteristico, coerente con le sue caratteristiche psicologiche.

Antonio Ricci, autore di alcuni programmi televisivi di successo, ci spiega come venivano cercati i tormentoni per i personaggi di "Drive in": "Ogni personaggio pronunciava delle frasi proverbiali, che lo identificavano, possedeva un vero e proprio idioletto.[…] La ricerca di questi slogan, di questi tormentoni era uno dei momenti più delicati nella costruzione di un personaggio: certi attori, più che per il loro nome e cognome, erano e sono ancora identificati dal pubblico per il loro tormentone". (12) E questo aggiungiamo noi, è un elemento inquietante per ciò che riguarda il mestiere del comico, costretto a barattare la sua identità per un po’ di popolarità a buon mercato.

Continua Ricci: "Prima di partire con qualsiasi trasmissione, facciamo uno studio sui tormentoni da lanciare. I prescelti formano delle "truppe d’assalto di tormentoni" che mandiamo allo sbaraglio nelle prime tre o quattro puntate. Quelli che non sopravvivono vengono cassati oppure messi in riserva e riciclati in futuro, perché la televisione è come il maiale: non si butta via mai niente". (13) La eloquente metafora la dice lunga su una televisione che più che a un mezzo di comunicazione assomiglia sempre di più ad un supermarket.

A proposito di riciclaggio, Ricci ci è ancora utile per capire come viene costruito un personaggio comico in un varietà televisivo: il "paninaro" ad esempio nasce dal riciclaggio di un repertorio cabarettistico degli anni ’70: "Dell’esistenza dei paninari seppi guardando un servizio sui gruppi giovanili milanesi realizzato da "Non solo moda", trasmissione televisiva di Canale 5.

I paninari, eredi spirituali dei sanbabilini, erano non più di una trentina e bivaccavano al bar Panino, in piazzetta Liberty, nel cuore di Milano.

Vidi la possibilità di riciclare, con gli opportuni aggiornamenti, un repertorio sperimentatissimo nei primi anni Settanta nei cabaret, riguardante i giovani che vestivano la salopette, portavano le scarpe gialle (le Barrows), la maglietta Lacoste e gli occhiali RayBan.

Mandai Enzo Braschi a infiltrarsi tra i paninari per carpirne i segreti. I paninari avevano già un loro gergo: sfitinzia, truzzo, tamarro ecc.; per il personaggio televisivo lo arricchimmo. Dal droghese prendemmo: fuori di melone, fuori di zucca, mi acchiappa un casino, spararsi un…; dall’italiano delle regioni meridionali prendemmo la forma troppo: troppo giusto, troppo scarso. Abusammo della desinenza –azzo: paninazzo, schiaffazzo, ecc.

Impiegammo, in forma mistificata, l’inglese, secondo un certo stile del linguaggio dei cabaret degli anni Settanta: arrapescion, inchiappettescion, very-ospedalescion, tentacolescion, ecc." (14)

E’ una vera e propria lezione di costruzione drammaturgica per la televisione da cui emergono alcuni elementi importanti: apparentemente la nascita di un personaggio è simile a quella che abbiamo visto precedentemente per i personaggi teatrali, parte cioè dall’osservazione della realtà, anzi da una osservazione sul campo quasi di tipo antropologico. Se rileggiamo il brano però notiamo che l’idea del personaggio non nasce dall’attore stesso (in questo caso Enzo Braschi), ma dall’autore che "manda" sul campo l’attore a spiare i cliché comportamentali e il gergo dei soggetti da imitare. Non è poi un caso che l’ispirazione sia venuta a Ricci non osservando i cosiddetti paninari, ma vedendoli in televisione in un reportage giornalistico di costume.

La sensazione è che tutta l’elaborazione del testo e della caratterizzazione del personaggio (a partire dal linguaggio, elemento fondamentale) sia stata una operazione fatta a mente fredda, nata non dall’urgenza dell’attore di fare della satira su comportamenti odiosi o ridicoli, ma dall’esigenza dell’autore di creare un personaggio di successo.

Del resto Ricci lo dice tranquillamente subito dopo: "Insomma fu elaborato a tavolino il paninarese che, per un certo periodo, tanto influenzò il linguaggio giovanile." (15)

Un altro elemento fondamentale nella drammaturgia del comico televisivo è, come abbiamo accennato, il ritmo. Il ritmo del testo è sottolineato dal ritmo dei cambi di inquadratura, i cosiddetti "stacchi" modellati sul ritmo del montaggio pubblicitario. Rispetto alla televisione degli anni ’50 e ’60 il ritmo del montaggio si è fatto sempre più veloce: prima l’inquadratura era quasi fissa, poco variata, predominava cioè nel testo come nell’immagine il riferimento teatrale. Nella televisione di oggi gli stacchi frenetici delle telecamere uccidono spesso le battute di un comico nell’illusione di dare più ritmo alla trasmissione. Così come è pure illusorio per il comico accelerare il ritmo delle battute, cancellando quelle pause, quegli attimi di sospensione che sono essenziali nella costruzione dell’effetto comico.

L’attore è sempre più spesso lasciato solo nella creazione dei suoi personaggi e nell’elaborazione dei testi. Purtroppo è sempre più rara la figura del regista-autore, che partecipa all’insieme del progetto e collabora con le sue idee e la sua professionalità alla realizzazione del programma. Il regista televisivo è ormai soltanto un tecnico anch’egli vittima dei tempi di produzione, spinto a fare in fretta e quindi ad evitare di rifare troppe volte le scene. Spesso il regista non partecipa nemmeno più alla selezione del cast della trasmissione, compito nelle mani del dirigente televisivo o del produttore.

Anche l’autore televisivo è una figura discussa: accanto ad alcune figure qualificate, fondamentali per il programma, ve ne sono alcune che percepiscono una lauta percentuale di introiti dalla SIAE, magari per limitarsi a fare le fotocopie o cambiare le virgole ai pezzi scritti dai comici; quest’ultimi, anche se sono in realtà autori dei propri interventi, nella maggior parte dei casi non percepiscono nulla, dato che sono pagati solo per le loro performance attorali.

Un altro elemento del processo di banalizzazione e mercificazione della comicità televisiva è la ripetitività dei testi e dei personaggi. Il processo di affezione al personaggio da parte del pubblico televisivo viene rinforzato dalla ripetitività con cui il personaggio si ripresenta ad ogni puntata.

Se nei programmi degli anni ’50, la Valeri poteva proporre in ogni puntata un personaggio diverso, nella televisione contemporanea questo è impossibile, poiché il pubblico si è abituato a seguire le vicende di un personaggio come fosse il protagonista di una sit-com o di una fiction in cui si ripetono schemi drammaturgici sempre uguali. Lo spettatore può così affezionarsi al personaggio, imitarne i modi di dire più caratteristici, i tormentoni più tipici.

Visti nella loro successione seriale, gli interventi del personaggio sembrano tutti molto simili, ma questo elemento di reiterazione non sembra annoiare gli spettatori che anzi dimostrano di gradirlo particolarmente. La sensazione che il personaggio sia sempre diverso (perché le parole e il testo cambiano), ma sempre uguale (perché l’abbigliamento, gli atteggiamenti, la gestualità, gli accenti verbali sono sempre gli stessi) sembra tranquillizzare il pubblico offrendo punti di riferimento stabili.

Sia Franca Valeri che Gigi Proietti hanno partecipato ad una televisione in cui non erano ancora previsti programmi che consistevano esclusivamente in monologhi o sketch comici. L’attore partecipava ai diversi programmi come ospite, fisso o una tantum, e i varietà prevedevano numeri diversi, canori, coreografici ecc. L’ospite comico aveva dunque spazio fisico e tempo sufficiente per esprimersi in un "numero" tutto suo e la sua performance era attesa e presentata come un evento speciale. In numerosi varietà contemporanei di intrattenimento invece, i numeri sono eseguiti esclusivamente da attori comici. Non si hanno più dunque eventi particolari, diversificati da tutto il resto, ma sketch in serie, senza distinzione e soprattutto in gran numero. Il momento comico smette di essere un momento speciale per diventare del tutto prevedibile e di conseguenza banalizzarsi.

Un altro elemento ci indica con chiarezza che i programmi comici televisivi hanno in gran parte perso la loro efficacia: l’inserimento delle risate registrate. François Brune ha analizzato il fenomeno mettendo in evidenza come l’uso delle risate preregistrate infantilizza completamente lo spettatore mostrandogli dove ridere e dove no. Inoltre, il fatto di indicare al pubblico che bisogna ridere mostra l’insicurezza degli autori e dei comici rispetto alle loro creazioni.

Le risate preregistrate inducono a ridere perché tutti lo fanno, non in seguito ad una riflessione ma per riflesso, per contagio.

La passività e la perdita di senso critico vengono coltivate deliberatamente. Il risultato è che "Nel momento in cui ci si mette a ridere, nel momento in cui si accetta di lasciarsi trattare a quel modo, si rinnega la propria intelligenza individuale, si entra nel regno dell’anonimato, non si è altro che quelli che amano queste cose, - che è poi l’alibi dei programmatori. Miracolo dei media: la perfetta imbecillità del pubblico, postulata in partenza, e ottenuta all’arrivo!" (16)

Considerate tutte queste circostanze, appare evidente come sia particolarmente difficile per il comico contemporaneo costruire personaggi televisivi che non si riducano al rango di macchiette. Albanese sembra esserci quasi del tutto riuscito anche se la sua drammaturgia stretta nei codici televisivi ha sicuramente sofferto di asfissia rischiando di impoverirsi notevolmente.

Se per Franca Valeri e Gigi Proietti portare un personaggio o un monologo in televisione non implicava un rilevante cambiamento della struttura drammaturgica, Albanese ha dovuto sacrificare parecchio lo spessore delle sue performance. Basti citare il caso del personaggio di Tommino, il degente della casa di cura psichiatrica che nel trasformarsi nel personaggio televisivo di Epifanio ha perso molto della carica polemica sulle problematiche di normalità e devianza e sulla condizione del malato psichico nella società contemporanea.

C’è un elemento fondamentale che distingue i comici delle generazioni precedenti dall’esperienza del loro collega più giovane: la Valeri e Proietti hanno costruito il proprio successo in teatro (e alla radio per quando riguarda l’attrice milanese), per poi "esportare" la propria notorietà in televisione e naturalmente rafforzarla. Il giovane comico invece, pur avendo studiato per il teatro, ha ottenuto il suo successo in televisione e lo ha poi esportato sul palcoscenico. Inoltre, come abbiamo ampiamente spiegato, Proietti e la Valeri hanno "fatto televisione" in altri tempi storici, quando, l’impatto dei media sullo spettatore era meno determinante e la concezione del tempo e dello spazio da dedicare alla comicità era molto diversa.

Ci sono monologhi di Proietti, costruiti in teatro ma che sono stati goduti anche dal pubblico televisivo, dove non è presente nemmeno una battuta comica: il grammelot americano ad esempio o la sceneggiata napoletana fondano la loro forza comica esclusivamente sul virtuosismo dell’attore nel manipolare il linguaggio, i suoni e il ritmo di una lingua e la cultura che esprime. Proietti non ha mai rinunciato a portare in televisione le stesse caratteristiche di stile recitativo che mostrava a teatro, non si è mai "televisivisazzato" ed è forse per questo che per alcuni anni si è sentito ripetere che "non bucava il video".

A teatro Albanese si è ripreso i suoi tempi, costruendo drammaturgicamente personaggi di più ampio respiro. Anche sul palcoscenico però la televisione non ha mancato di esercitare il suo influsso: l’attore si è trovato costretto a inserire nei bis, alcuni sketch tratti dai programmi televisivi per non deludere le aspettative del pubblico.

Anche nella costruzione dei testi scritti appositamente per il palcoscenico si avverte una sorta di condizionamento di matrice televisiva. In alcuni personaggi di Albanese si percepisce una sorta di ansia, di spinta compulsiva a suscitare la risata a tutti i costi e la struttura drammaturgica del pezzo appare costruita in modo simile al modello televisivo: ritmo serrato, successione di battute, escalation di comicità fino alla "chiusa" finale sempre in crescendo. In altri momenti invece, forse i più felici, il personaggio si permette di dilatare i suoi tempi quando questo è reso necessario dal ritmo interno delle sue intenzioni. Ad esempio nell’ "Uomo che costruisce figure di fumo", il clima surreale del pezzo lascia spazio a pause e a ritmi più lenti e in molti momenti il testo sembra scritto più per suggerire stati d’animo e trasmettere emozioni che per suscitare la risata.
 

Note al capitolo IV
  1. 1 Aldo Grasso, Enciclopedia della Televisione, Milano, Garzanti, 1996, voce "spettacolarizzazione"
  2. 2 K. Marx, Manifesto del partito comunista, Roma, Datanews Editrice, 1994, pag. 22
  3. 3 K. Popper e J. Condry, Cattiva maestra televisione, Milano, Reset, 1994, pag.16
  4. 4 S. Ferrone, Attori mercanti corsari, Torino, Einaudi, 93 pag. 22 dell’introduzione
  5. 5 A. Ricci, Striscia la TV, Torino, Einaudi, 1998, pag.61
  6. 6 A. Grasso, Enciclopedia della televisione, Milano, Garzanti, 1996, p.179
  7. 7 Guy Debord "La società dello spettacolo" , Milano, Baldini e Castoldi, 1997, p.55
  8. 8 Ibidem, pag.70
  9. 9 Ibidem pag.209
  10. 10 AA. VV., Tele-visioni, a cura di A. Marinelli e G.B Fatelli, Roma, Meltemi editore, 2000
  11. 11 Hystrio N° 1, Anno 1999, pag. 33
  12. 12 Ibidem pag. 33
  13. 13c A. Ricci, Striscia la TV, Torino, Einaudi, 1998, pag. 23
  14. 14 Ibidem, pag. 23
  15. 15 Ibidem, pagg. 26, 27
  16. 16 Ibidem, pag. 27
  17. 17 F. Brume, Les mèdias pensent comme moi!, Paris, L’Harmattan, 1993, pag. 85
 

Conclusioni

Franca Valeri ha accompagnato con il suo umorismo pungente i cambiamenti sociali di un’ epoca, rimarcando nello stesso tempo l’eternità e l’universalità di certe debolezze umane di aria milanese

La sua scrittura, umoristica più che propriamente comica, ha creato personaggi dallo stile arguto e caustico, molto cerebrale. Anche il modo di porgere in scena i personaggi con sofisticato distacco ricorda un po’ lo stile dello humour inglese, laddove invece l’attore italiano è spesso più sanguigno e "fisico".

Gigi Proietti ha rappresentato un legame con le radici del teatro comico del Novecento: attraverso la maschera di Petrolini ha rilanciato, modernizzandola, la figura del comico di varietà, versatile, istrionico, beffardo, castigatore delle umane vanità, in particolar modo quelle appartenenti al mondo del teatro.

In Proietti si avverte con molta forza l’appartenenza all’ambiente romano e alla cultura della capitale, con i suoi pregi ed i suoi limiti: il sarcasmo, la gigioneria, l’istrionismo spavaldo lo accomunano ad altri attori romani, ma egli è forse il solo che riesce a coniugare con grande eleganza i materiali "alti" del teatro e il registro "basso" e popolare della comicità in vernacolo. Inoltre, mentre nei paesi anglosassoni è usuale che un attore sappia nello stesso tempo recitare, danzare e cantare, in Italia questo è un fenomeno assai raro e Proietti è uno dei pochissimi artisti italiani capaci di tanta versatilità.

Antonio Albanese, il più giovane, ha saputo coniugare tradizione e innovazione, creando personaggi tipici della realtà contemporanea utilizzando nello stesso tempo una fisicità ed una gestualità non distanti da quelle usate dagli attori di tradizione.
 
 

Albanese è uno dei pochi giovani comici che sono usciti quasi incolumi dagli ingranaggi stritolanti della macchina dello show-business, allontanandosi in tempo dalla televisione e sperimentando mezzi a lui più congeniali come il cinema e soprattutto il teatro.

Al di là di queste evidenti differenze, è stato comunque possibile puntare sugli elementi comuni alla drammaturgia di questi tre artisti. Dietro ai nostri attori si cela una lunga storia, la storia dell’attore comico solista che fonda la propria ricerca esclusivamente sulle proprie risorse umane e professionali. Come gli attori del varietà, del café-chantant, del cabaret, i nostri hanno cercato una strada particolare che li distinguesse da tutti gli altri e che permettesse loro di sedurre il pubblico con l’effetto sorprendente delle loro creazioni.

I nostri tre attori inoltre sono accomunati da un ulteriore elemento: essi non appartengono alla maggioritaria categoria del comico "sfortunato", del clown, del perdente e, controcorrente, la loro stessa drammaturgia si fonda su di una particolare capacità di osservazione delle tipologie umane. Quando dal singolo individuo, l’attacco sarcastico si rivolge all’intera società, l’umorismo si fa satira, denuncia di costumi corrotti seppure collettivamente accettati.

La creazione del personaggio e l’elaborazione di un testo comico sono operazioni che stanno a metà strada tra l’arte e l’artigianato, poiché nascono da un paziente lavoro di osservazione, di analisi psicologica dei tipi umani e, in un secondo tempo, da un accurato lavoro di scrittura.

Il guizzo artistico, l’intuizione felice non possono mai prescindere da un lavoro artigianale che dia loro forma plastica, concreta. Nella stesura del testo sono fondamentali, come abbiamo visto, le tecniche teatrali che gli attori hanno introiettato con l’esperienza nel loro mestiere, tecniche che permettono di scrivere con i ritmi teatrali già predisposti alla traduzione scenica del testo.

Franca Valeri ha sempre lavorato da sola, firmando testi e regia dei suoi spettacoli che sono dunque incentrati sulla forte individualità della protagonista, mentre Proietti e Albanese si sono spesso serviti della collaborazione di altri autori: dell’inseparabile Roberto Lerici il primo e di alcuni tra i migliori scrittori comici del momento il secondo.
Per scrivere con altri è fondamentale oltre che una sostanziale unità di vedute, anche un forte affiatamento, quasi un sodalizio, che permetta la massima sincerità nello scambio di opinioni. L’autore che lavora con un comico dotato di carattere forte e di carisma, sa che non potrà mai imporre un’idea o una battuta se l’attore non la gradisce, perché è poi quest’ultimo che deve "giocarsela" in pubblico; e si sa che non vi è niente di peggio di una battuta detta senza convinzione.
Anche se scritti in collaborazione con altri autori, i testi di Proietti e Albanese recano fortissima l’impronta del talento istrionico di entrambi; i personaggi, come accade anche per Franca Valeri, sono cuciti addosso all’attore e difficilmente potrebbero essere interpretati da altri.
Per quanto riguarda il rapporto dei nostri artisti con la televisione, possiamo concludere che tutti hanno cercato di sfruttare il piccolo schermo, senza esserne sfruttati. Senza dubbio chi lo ha meglio utilizzato è Franca Valeri, non tanto per suo merito o per demerito degli altri, ma perché negli anni ’50, ’60 e ’70, la televisione concedeva ampio spazio alle performance artistiche dei comici. Spazio che si è andato sempre più restringendo fino a concedere al pubblico, come dice Albanese, di distinguere soltanto un attore da un altro. Il piccolo schermo è sempre stato un mezzo di comunicazione di massa che richiede semplicità ed immediatezza, per questo, come abbiamo visto, comici straordinari ma dalla drammaturgia complessa come Chaplin fanno fatica a "bucare" il video.

Pur tenendo conto dei codici di comunicazione del mezzo, non si può non notare come tale semplicità di espressione va oggi protetta. Il mercato si è, come sappiamo, espanso, e la società dello spettacolo che tutto inghiotte ha divorato anche le caratteristiche artigianali del lavoro dell’attore comico.

Al comico che voglia mantenere integro il valore della propria professionalità, non resta dunque che tenersi a debita distanza dal mezzo televisivo, cercando di utilizzarlo a proprio favore senza esserne inghiottito. L’attore con la passione per il proprio lavoro sa che non può chiedere più di tanto, in termini artistici, al piccolo schermo. Nonostante siano ormai decenni che si dichiara inevitabile la crisi del teatro, esiste ancora, si spera, un pubblico curioso, disponibile a seguire i comici nell’unico luogo dove l’antica arte dell’attore può davvero esprimersi con pienezza.
 
 













Cos’è la vita? Un dramma di passione
La nostra gioia? La musica fra gli atti.
I lombi della madre sono il retroscena
Dove indossiamo i costumi per la breve commedia della vita.
La terra è il palco, e il ciel lo spettatore
Che annota chi sbaglia la battuta.
Le nostre tombe, che ci nascondono al sol che tutto vede
Sono il sipario che cala quando il dramma è finito.

William Shakespeare


Biografie degli artisti citati
Franca Valeri

L’attrice, che in realtà si chiama Franca Norsa, nasce a Milano nel 1920.

Dopo essersi messa in vista nei salotti milanesi, divertendo con le sue caricature femminili, tenta di entrare all’accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico di Roma, ma non viene ammessa. A Roma conosce Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci con cui in seguito darà vita al gruppo dei "Gobbi".

Debutta in Teatro con Caterina di Dio di Testori nel 1948. Passa poi alla compagnia Tofano-Solari e al Piccolo Teatro di Milano (stagione 1949-50) in due piece dirette da Strehler, "Questa sera si recita a soggetto" e "La parigina" di Becque.

Presenta i suoi monologhi alla radio dove debutta "La Signorina Snob".

Nel 1951 nasce il "Teatro dei Gobbi" fondato insieme a Bonucci e Caprioli (che diventerà poi suo marito). Il trio debutta a Parigi dove ottiene grande successo, poi a Roma con Carnet de notes n° 1 e 2, una serie di fulminanti sketch satirici sulla realtà contemporanea.

Nel 1952 inizia anche la sua carriera cinematografica con Totò a Colori di Steno e "Il segno di Venere" (1955) di Dino Risi, scritto dall’attrice in collaborazione con Risi, Flaiano e Zavattini. Al cinema è spesso partner di Alberto Sordi: in Piccola posta di Steno (1955), in Un eroe dei nostri tempi di Monicelli (1955), nel Vedovo di Risi (1959) e nel Moralista di Bianchi (1959). Anche se non compare tra gli sceneggiatori, la Valeri scrive sempre le sue parti nei film a cui partecipa.

Nel 1961 e nel 1962 è tra i protagonisti di due film di Caprioli Leoni al sole e Parigi o cara di cui firma anche la sceneggiatura.

A partire dal 1960 la Valeri inizia anche a scrivere i testi teatrali dei suoi monologhi come Le donne (1960), Le catacombe (1962), "Questa qui, quello là"(1964) "Non c’è niente da ridere se una donna cade" (1978).

In televisione debutta con La regina e…io nel 1957; nel 1959 è il turno de Le divine e, dal 1961 al 1965, è tra i protagonisti di Studio Uno il famoso varietà televisivo trasmesso dal Teatro delle Vittorie di Roma. In televisione verranno trasmessi anche tre atti unici da lei scritti Le donne balorde (1970).

Prosegue anche la carriera cinematografica con alcuni titoli di rilievo come Crimen di Camerini e "Basta guardarla" di Salce, ma nel complesso verso la fine degli anni ’60 le sue interpretazioni cinematografiche si diradano, e le parti si fanno meno interessanti e più ripetitive. Negli anni ’80 la Valeri si allontana sia dal cinema che dalla televisione. Continua invece la sua carriera teatrale che la vede anche regista di Rossella Falk e Monica Vitti in La strana coppia di Neil Simon (1986). Nello stesso anno interpreta con Adriana Asti un testo scritto dalla Valeri stessa Tosca e le altre due; con Adriana Asti recita anche in Alcool. Nella stagione 1997-98 interpreta insieme a Gabriella Franchini Sorelle, ma solo due- come diceva nostra madre.

Appassionata di lirica Franca Valeri ha anche curato la regia di diverse opere liriche.

Attualmente sta portando sui palcoscenici italiani il suo ultimo recital Una serata con Franca Valeri, una summa dei suoi migliori "cavalli di battaglia".
 
 

Luigi Proietti
Nasce a Roma nel 1940 e qui ha inizio alla sua carriera teatrale con Giancarlo Cobelli conosciuto all’università. Dopo l’esordio nei cabaret romani debutta a teatro con Antonio Calenda in "Direzione memorie" di C. Augias (1966).
Passa poi allo stabile dell’Aquila recitando nel Coriolano di Shakespeare, nel Dio Kurt di Moravia, in Operetta di Gombrowicz. Nel 1974 recita, diretto da Carmelo Bene, nella Cena delle beffe di Sem Benelli.
Verso la fine degli anni ’70 dà vita ad un laboratorio per giovani attori.
Riscuote molto successo con il recital A me gli occhi please che va in scena dal 1974 al 1976 e che verrà poi ripreso con diverse variazioni nel corso degli anni e con titoli diversi (A me gli occhi bis, Come mi piace). L. Magni scrive per lui La commedia di Gaetanaccio (1980) cui fanno seguito Caro Petrolini, Cirano, Per amore e per diletto, I sette re di Roma, Kean.

In televisione debutta con I grandi camaleonti diretto da Federico Zardi. Da allora gli impegni televisivi si susseguono a ritmi incalzanti: Missione Wiesenthal di Cottafavi, Il socio di Majano, La presidentessa di Enriquez, Conoscete Don Chisciotte di Quartucci, Figaro di Sequi, Fatti e fattacci di Falqui. Con la regia di Ugo Gregoretti interpreta Il circolo Pickwik (1967) e Le tigri di Mompracen (1974) un adattamento del romanzo di Salgari.

Nel 1976 ottiene grande successo l’adattamento televisivo di A me gli occhi please. Negli anni ’80 ha condotto Fantastico 4 e Io a modo mio, dove collabora anche come autore. Nel 1990 ha curato la regia di Villa arzilla, una fiction ambientata in una casa di riposo. Ha riscosso un notevole successo con Il commissario Rocca, la fortunata fiction di Rai 2 (1996).

Nella stagione 1999-2000 porta in scena Socrate di Vincenzo Cerami dai Dialoghi di Platone. Nel cinema ha lavorato con diversi registi tra cui: Lumet, Lattuada, Damiani, Monicelli.
 
 

Antonio Albanese

Nasce a Olginate (Lecco), nel 1964.

Dopo la formazione alla scuola d’arte drammatica "Paolo Grassi" di Milano, dove viene a contatto con registi dell’area sperimentale quali Danio Manfredini, Giampiero Solari, Gabriele Vacis, debutta in cabaret allo Zelig di Milano.

Dopo una breve apparizione al Maurizio Costanzo Show si fa notare a Su la testa (Rai 3, 1992) a fianco di Paolo Rossi, dove interpreta alcuni dei suoi personaggi divenuti famosi come Alex Drastico ed Epifanio.

A teatro l’attore consolida il successo televisivo con lo spettacolo Uomo (1992), ripreso poi per due stagioni. Dal 1993 torna in televisione per due successive stagioni a Mai dire gol, il fortunato programma della Gialappa’s band dove nascono altri personaggi di successo quali Frengo e Pier Piero, il giardiniere di Arcore.

Alcuni dei suoi testi sono pubblicati nel volume Patapim e patapam, Baldini e Castoldi editori.

Nel 1994 interpreta la commedia di Francesco Freyre Salone Meraviglia con Vito e Tita Ruggeri.

Debutta nel cinema come attore con Carlo Mazzacurati come protagonista del film Vesna va veloce e come regista e attore protagonista di due film L’uomo d’acqua dolce e La fame e la sete.

Torna in teatro per tre stagioni consecutive (1997-2000) con lo spettacolo Giù al nord (regia di Giampiero Solari) che da il titolo anche ad un libro edito da Einaudi con i testi dello spettacolo.

Torna nuovamente al cinema come co-protagonista insieme a Fabrizio Bentivoglio nel film La lingua del santo, di Carlo Mazzacurati (2000).
 
 

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