Il pezzo di Mimma Gallina per "Hystrio"
Il caso Martone
qualche cosa di nuovo, anzi d'antico
Dei diversi aspetti della vicenda di Mario Martone, vorrei soffermarmi su
quelli che ripropongono, con accenti e sfumature nuove, problemi antichi di
particolare rilevanza organizzativa (non per risolverli, ma per
sottolinearli).
Lo scontro fra presidente, CDA e direttore
Non mi sembra del tutto originale la tanto richiamata omogeneità politica
fra presidente e direttore: si tende a dimenticare quanto siano cruente le
"contraddizioni in seno al popolo" (e quanto lo stile delle persone conti a
volte più del loro orientamento politico). Mentre sempreverde è la
questione di fondo, quella relativa a chi fa cosa nei teatri stabili e nelle
istituzioni culturali in genere (è una interessante coincidenza che nello
stesso giorno in cui Martone presentava la sua lettera di dimissioni a Roma,
a Venezia il Presidente della Biennale "licenziasse" il direttore della
sezione architettura). Il "decreto Tognoli" del 29/11/90 (che il Ministero
ha però dichiarato nei fatti decaduto a seguito del regolamento triennale)
aveva teoricamente messo le cose a posto: a un direttore unico, artistico e
organizzativo-amministrativo (con facoltà di delegare una delle due
competenze senza però sottrarsi alla relativa responsabilità), competono
gestione e programmi "da sottoporre" al CDA e al presidente, cui compete la
rappresentanza legale. Tutto sta nell"intendersi su quel "da sottoporre".
C'è chi ritiene (i direttori di solito), che competa agli organi
amministrativi verificare che i programmi generali approvati vengano e
possano essere rispettati, il ché implica anche che siano compatibili con il
bilancio (preventivamente e in corso d'opera) e che rispettino la "missione"
dell'Ente (ovvero si pongano e cerchino di rispondere alla domanda di cosa
deve fare un teatro pubblico e in una determinata città/regione) e che tutto
ciò basti e avanzi (se fatto seriamente). In concreto, una volta nominato un
direttore e approvato il suo programma si tratterà di controllarne la
compatibilità, garantire le condizioni perché sia realizzato e valutare a
fine mandato se ha lavorato bene o male (il che non vuole necessariamente
dire che chi ha lavorato bene verrà confermato e male no, ma questo è un
altro problema: il principio ci sembra coerente con il senso del teatro
pubblico, un controllo della collettività, tramite i suoi rappresentanti, su
organismi che rivestono funzioni di pubblica utilità).
Ma chi la pensa così non è di solito il presidente e non sono i consiglieri
di amministrazione, cui sempre più frequentemente vengono attribuiti
incarichi progettuali, pagati o meno (e qui le questioni di stile si
intrecciano con quelle di etica). L'esuberanza delle presidenze è tale che
il progetto di legge Veltroni (probabilmente inattuale ma indicativo), si
preoccupa particolarmente di proteggere l'indipendenza dei "sovrintendenti".
Esiste una via d'uscita normativa al problema? Come limitare i Presidenti
che vogliono fare i Direttori? penso che la tendenza a nominare direttori
artistici "artisti", corrisponda a queste velleità o, per essere più
obiettiva, a questi orientamenti. Oppure hanno ragione? In una logica di
direzione unica (che recentemente molti rimettono in discussione), il
presidente è può essere di fatto - direttore organizzativo? Il Presidente
quindi, deve essere un "manager"?
Mi sembra che recentemente qualche equivoco sulla managerialità stia
alimentando questo scontro con risultati spesso paradossali. Ad esempio a
Torino. Abbiamo letto nei mesi scorsi che Massimo Castri, direttore di quel
teatro stabile, non può e non intende produrre perché costretto a
rimboccarsi le maniche per far funzionare l'azienda: le regie di Castri ci
mancheranno e, francamente, non ce lo saremmo aspettati dal teatro col
presidente più manager di tutti, con vocazione alle "holding" (insomma un
altro Fossa).
Il casus belli della pianta organica, ovvero il problema del personale
Fra i problemi di cui i presidenti dei Teatri Stabili storicamente amano
occuparsi, questo è il principale. Dalle assunzioni, dagli uffici molto più
che dal palcoscenico dove il "mestiere" si vede, è passato nei decenni il
clientelismo (assunzioni, incarichi, gratifiche, passaggi di categoria etc.)
mortificando in primo luogo proprio i lavoratori e la loro professionalità.
Se non si sono fatti degli Stabili dei "carrozzoni" (non lo sono) è stato
perché, per fortuna, non c'erano soldi abbastanza. Anche indipendentemente
dall'eleganza dimostrata dal direttore dimissionario nei confronti del
personale, francamente non penso che quello del Teatro di Roma sia un
problema di clientele (oggi forse non lo è), ma è significativo che sulla
pianta organica si misuri una lotta di potere e sono certa a intuito e per i
precedenti, che Martone ha ragione quando denuncia il tentativo di
privilegiare la scrivania al palcoscenico. Dei fatti emersi, questo è il più
grave: non dimentichiamoci che il Direttore è Capo del Personale. O un
direttore è in grado di gestire l'azienda, oppure non lo è, e in questo
caso, o non lo si nomina, o si cambiano le regole. Qualunque scelta
organizzativa e amministrativa deve essere organica prima alla
funzione/missione, quindi al progetto: enfatizzare l'organizzazione per se
stessa, è una pessima scelta organizzativa. Credere nel ruolo del marketing
ad esempio e personalmente io ci credo - non significa pensare che il
merchandising salverà il teatro ma nella necessità di strategie di ricerca e
rapporto col pubblico in relazione ad una determinata istituzione e progetto
(e anche in questo Martone aveva dimostrato di essere bravissimo).
La valutazione ambivalente dei risultati
Anche questo è un copione antico: l'aritmetica, come si sa, è un opinione, i
dati (che siano sul pubblico o sul bilancio) non sono chiari e si tirano da
tutte le parti. Sono fermamente convinta che il direttore di un teatro
stabile debba rispondere fino in fondo del bilancio, analizzare e
fronteggiare le cause degli eventuali deficit (che, per decreto, possono
comunque essere ripianati nel biennio successivo): insomma non deve più
succedere quello che successe nel Teatro di Roma che fu (quando un deficit
con molti zeri in più di quello che si ventila ora passò sotto gli occhi
inesperti dell'ingenuo personale, in parte lo stesso di oggi).
Se Martone ha montato tutto questo perché è un ragazzo capriccioso e nasconde la sua
insipienza amministrativa con la persecuzione, merita tutta la riprovazione.
Se teme che si usino i numeri per spingere verso altre direzioni, o attuare
una sorta di gestione parallela, merita che si rifletta con lui su questo
rischio.
E la vicenda qui presenta qualche interessante elemento di novità
se qualcuno ancora credeva che gli scontri o le censure in teatro passassero
solo dagli spettacoli. Scelte come quella della nuova formula di
abbonamento, non sono amministrative: dall'abbonamento passa la
"convenzione" teatrale e la "rivoluzione" della formula proposta dal Teatro
di Roma (che si sta sperimentando in molte città d'Europa: e perché non da
noi?) era organica a un cambiamento complessivo: da verificare, certo, da
perfezionare, comunque da difendere come parte integrante di un progetto. Lo
scontro sui numeri (numeri ambigui del resto) è anche questa volta uno
scontro di sostanza, che del resto il presidente onestamente non maschera.
L'ostilità dell'ambiente
Ma fra tutti il punto più vicino alla sostanza è questo ultimo aspetto,
quello che sembra amareggiare di più Martone, e lo capisco. Non voglio
entrare nel merito dei programmi se non per dire che hanno offerto
un'interpretazione della funzione di teatro pubblico, oggi, a Roma, insomma
si è trattato di scelte, non è detto che fossero le uniche possibili, ma
per una volta non era tattica, non era equilibrismo, e sono state perseguite
con coerenza e determinazione.
Il teatro italiano è miope, è come un complesso di villette a schiera, in
cui nessun inquilino vede oltre il giardino di casa. Può darsi che anche
Martone, abbia, come tutti, i limiti che ciascuno ricava dalla sua
esperienza, dalle sue conoscenze, dal suo gusto, come tutti potrebbe essere
caduto in qualche equivoco, ce ne sono tanti in giro (mi riferisco alle
"scuffie" improvvise e poco comprensibili per un attore o un gruppo, alle
amnesie totali per altri, alla divisione un po' manichea fra il vecchio e il
nuovo che accomuna i punti di vista più distati, ad altri equivoci meno
innocui). Ma fra tutti quelli che non c'erano e si sono sentiti un po'
danneggiati, un po' defraudati, e compongono questo "ambiente ostile", ci
sono - ne sono certa - anche persone di buona volontà (non penso sia
interessante occuparsi delle altre). Penso che questa vicenda romana possa
insegnare loro e a tutti - qualcosa per il futuro. Invece di pensare che
un po' di mezzi del Giubileo potevano aiutare il loro lavoro anzichè quello
di giovanissimi che forse non "saranno famosi", e che De Berardinis e Cecchi
potrebbero andare in pensione, e che non se ne può più di Napoli e della
tradizione della ricerca, e che la Raffello Sanzio, e che S etc etc.,
amareggiandosi nelle tournées sempre più asfittiche o in compagnie casuali,
si chiedano chiediamoci - cosa succederebbe se tutti i 15 teatri pubblici
si ponessero davvero, non per inerzia, e in modo libero (dagli scambi, dal
regolamento, dalle pubbliche relazioni, dai presidenti,dal governo) una
domanda sulle loro funzioni, sulla loro missione contemporanea, si
applicassero con la stessa determinazione e ciascuno a suo modo - a far
funzionare queste macchine.
Martone ha contribuito come diceva un vecchio manifesto a rimettere in
moto qualche pensiero nel teatro italiano: forse era utopia, ma a volte il
pensiero è contagioso.
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