Le prime due parti di questo testo sono state pubblicate in ateatro 94 e 96. L'intero testo è in corso di pubblicazione nel volume Luca Ronconi. Spettacoli per Torino, Umberto Allemandi Editore.
Forse uno dei segreti della semplicità ronconiana è questo: è talmente consapevole delle complessità labirintiche del reale e della comunicazione che le esplicita e le rende limpide
e comprensibili. E’ senz’altro il creatore di clamorosi eventi teatrali, che hanno spostato i confini stessi della sua arte, ma al centro del suo lavoro ci sono da sempre il testo, gli attori e naturalmente il pubblico. Tenendo tuttavia presente una di quelle fulminanti verità che d’improvviso sembrano quasi sfuggire alla timidezza ronconiana.
Il pubblico ha tutti i diritti. Il che non vuol dire che abbia sempre ragione.
(intervista di Mario Baudino, “La Stampa”, dicembre 1990)
Ogni testo, ribadisce ossessivamente, va affrontato per quello che è. Ronconi è sempre consapevole dei materiali su cui lavora e sulle interpretazioni che ne sono state date. Per cominciare, utilizza spesso la categoria di “genere” (partendo magari dalla classica contrapposizione aristotelica tra commedia e tragedia). Per esempio, nell’affrontare Strano interludio di Eugene O’Neill traccia una mappa assai meticolosa di interpretazioni e dunque di possibili ricezioni.
Questo testo, se lo prendi alla leggera, puoi vederlo come un fumettone, oppure come una saga, o ancora come una trascrizione di alcuni schemi mitici europei in chiave americana; c’è poi chi lo legge come dramma psicologico e chi lo interpreta come volontaristico modello di dramma biologico. E tuttavia il dato rilevante è il fatto che ancora oggi di tratta di un corposo testo sperimentale. Per questo vale la pena di affrontarlo.
(intervista di Gian Luca Favetto, “la Repubblica”, 20 dicembre 1989)
Il lavoro preliminare consiste nell’esaminare quali strade siano state imboccate, e perché non abbiano funzionato – o perché non possano più funzionare. E su questo Ronconi può perfino permettersi una forma di civetteria.
Non sono mai sufficientemente informato e documentato sui testi che faccio e non voglio farlo. Per fare filologia non ho altra guida che la lettura del testo e gli attori. Allo stesso modo, non amo rapportare il testo alla sua epoca o alla storia del suo autore. Non me la sentirei mai di stiracchiare un testo. Già non so bene cosa succeda nella nostra epoca. Ma nella nostra per lo meno ci vivo e ci partecipo. È lei che mi guida all’interno del testo. Lavoro molto con gli attori e del dove voglio andare non so nulla. Posso sapere dove non voglio andare, posso in qualche modo precludermi delle strade. Faccio un esempio non su ciò che ho fatto, ma su ciò che sto facendo in queste settimane. Si dice che Troilo e Cressida sia una parodia degli eroi omerici. Prima di dire no perché è stato già fatto in quel modo, bisogna verificare che significa parodia, chi sono gli eroi omerici e se veramente dentro il testo c’è qualcosa di parodistico. La parodia è ciò che non voglio, non mi interessa. Ma non è detto che Troilo e Cressida sia parodia. Probabilmente il nostro concetto di parodia è diverso da quello che poteva avere un inglese del 1600. Procedo chiudendo delle strade e vedendo qual è quella percorribile, quella che può aprire altre strade e altre prospettive.
Al termine di questo percorso le risposte possono essere assai sorprendenti e innovative.
Oltretutto per Ronconi, in un modo o nell’altro, tutti i testi che affronta sono “sperimentali” e dunque possono mettere alla prova le strutture profonde della comunicazione teatrale. Perché nella visione ronconiana c’è una pars destruens preliminare: gli è sempre ferocemente chiaro quello che non vuole, e quello che non vuole essere. Qui la sua semplicità (e la sua ironia) possono raggiungere la forza sintetica di un aforisma. Per cominciare, pur avendo rivoluzionato molti degli schemi tradizionali della regia, rifiuta ogni assimilazione all’avanguardia.
Non sono mai stato un sessantottino, sono stato in genere molto inviso a quelle che erano le avanguardie. Il mio atteggiamento è sempre stato questo, e non credo di aver visto male: l’alternativa programmatica rischia di diventare un’accademia, o una sostituzione della convenzione: rischia di creare solo nuove convenzioni. Il rinnovamento è un’altra cosa: tener sempre gli occhi aperti, e il naso lungo, e le orecchie aperte per capire che cosa succede realmente. Sono sempre stato convinto che alla lunga l’avanguardia sia sempre stata una questione di stile, e non una questione di linguaggio. Per linguaggio intendo qualcosa che si modifica continuamente, che ha un iter storico evolutivo, che genera continuamente nuove forme, che ha una dinamica interna, che può camminare come il cavallo o come il gambero, secondo necessità. Lo stile non è questo: è comunque una codificazione, un genere, e molto spesso è accettato proprio in quanto genere.
Allo stesso modo rifiuta con decisione ogni etichetta generazionale.
A differenza di quello che accade adesso, quando gli attori che escono dallo stesso corso provano a fare compagnia, io un legame generazionale non l’ho mai avuto. Non l’ho mai cercato, perché guardavo ad altro. Quando ho avuto trentacinque anni, mi sono immediatamente rivolto a chi ne aveva venti: e quando ne avevo diciotto o diciannove mi sono immediatamente rivolto a chi ne aveva trentacinque. Anche da questo, credo, mi viene un’insofferenza per le letture generazionali.
Nei confronti del teatro italiano, ha espresso giudizi assai duri, che in qualche rara ma cruciale circostanza si sono riverberati anche in una delle sue rare esternazioni sulla situazione del paese.
Gli attori italiani non hanno altra vocazione che quella di fare ditta, di diventare capocomici. Questo svilisce il loro lavoro, la loro qualità. Un capocomico finisce col non essere un attore, ma un amministratore che la sera sale truccato in palcoscenico. Ce ne sono tanti così, troppi. (...) Veniamo agli autori: Strehler, e poi Visconti, per qualche anno, hanno fatto un teatro con la “T” talmente maiuscola da sfondare il soffitto delle sale. Poi più niente. Ma non era un teatro che facesse posto agli autori. D’altra parte la letteratura ha sempre considerato il teatro un lavoro da mano sinistra. Non c’è in Italia né la continuità di un teatro di regia, né quella di un teatro di drammaturgia. E’ la nostra società che ama specchiarsi soltanto nei capocomici. Non rischia forse di farne anche un problema politico, o il problema della politica attualmente? Tutto si tiene.
(da un’intervista di Enzo Siciliano, “la Repubblica”, 11 aprile 1994)
Nel lavoro sui testi e con gli attori, diffida di quelle che spesso gli appaiono comode scorciatoie, semplificazioni fuorvianti. In primo luogo la psicologia (alla base del metodo Stanislavskij), che rischia di occultare le trappole del rapporto tra il testo e il corpo dell’attore.
Si può recitare solo ciò che è recitabile. La psicologia, per esempio, non lo è. La lingua è recitabile, lo spazio lo si può recitare. Il precetto che girava nelle scuole e nelle accademie italiane era dire ciò che si pensa, ma ciò che si pensa non lo si può dire. O, peggio ancora, chiedevano di pensare ciò che si dice. Dire e pensare sono due attività completamente differenti. Non ho mai creduto che la lingua sia il veicolo esclusivo della comunicazione; ma allo stesso modo, pur ritenendo il lavoro fisico molto importante nel teatro, non credo che il corpo da solo “dica”. Il corpo comunica in attrito con la lingua e con lo spazio. Il problema del teatro italiano è che c’è pochissima drammaturgia italiana. Gli attori italiani sono costretti a lavorare su testi che implicano un notevole scarto fra ciò che si vorrebbe dire e ciò che effettivamente si dice. Ciò rappresenta una difficoltà e una sfida che vanno affrontate e superate. Il lavoro che stiamo facendo su Troilo e Cressida è soprattutto questo: essere consapevoli se si è governati da ciò che si dice, capire fino a che punto si è in grado di governare ciò che dice e soprattutto perché lo si dice. Perché c’è sorta di “autorità della violenza del linguaggio” sull’individuo.
Un altro aspetto che tende a generare sospetto (anche se non sempre) è la presunta narratività di molta drammaturgia. A proposito di Spettri di Ibsen (1982), che il regista ambienta in una serra (progettata da Mario Garbuglia) dove coabitano i cinque attori e i trecento spettatori.
La maniera, chiamiamola convenzionale, di fare un testo è quella di utilizzare il dialogo in funzione della narrazione di una storia e non, invece, le battute del dialogo come spiragli, come segni e indicazioni di una condizione dei personaggi. Secondo me, quello che può dare oggi unità e consistenza a un testo come Spettri è l’indagine sulla condizione dei personaggi momento per momento, e non usare il dialogo come veicolo di una narratività che in questo testo non esiste. C’è un antefatto sottinteso e ritardato ingiustificatamente: la giustificazione in ritardo di questo antefatto è la trama della commedia. Ci sono dei personaggi che ritardano, non per tirare in lungo, ma perché sono nell’impossibilità psicologica di dire le cose come stanno. E’ chiaro che il tema della rappresentazione diventa l’impossibilità di dire le cose come stanno e non la perveristà nel ritardarle. Basterebbe che certe rivelazioni venissero fatte un attimo prima invece che un attimo dopo e la commedia andrebbe subito al terzo atto. E, in fondo, il rammarico di certa parte del pubblico è che, siccome la maggior parte degli spettatori identifica la commedia con l’ultima battuta, questa arrivi troppo tardi.
(intervista di Maurizio Giammusso, “Rinascita”, 2 luglio 1982)
Anche – anzi, soprattutto – quando si tratta di portare sulle scene il genere narrativo per eccellenza, il romanzo, il taglio narrativo non è l’approccio privilegiato.
Nella mia memoria di spettatore, ci sono tanti romanzi portati sulla scena e sullo schermo. Non considero, quindi, una sfida la ricerca dentro la narrativa. Quello che ho sempre cercato di fare è evitare di snaturare un romanzo per farne un dramma a tutti i costi e, anzi, di mantenerne il carattere di letteratura narrativa. Le realizzazioni sceniche de I fratelli Karamazov e Quer pasticciaccio brutto, ad esempio, sono state un semplice trasferimento della pagina sul palcoscenico, non una teatralizzazione. Per cui è piuttosto improprio parlare di lavoro drammaturgico. Se ho fatto spettacoli dalla letteratura, non è perché ritenga la letteratura un tema indispensabile alla rappresentazione teatrale. Un impulso all’affrontare queste scelte deriva sicuramente dall’insoddisfazione che provo rispetto a ciò che si definisce “drammaturgia contemporanea”. Ritengo che molti testi cosiddetti contemporanei costituiscano un vero e proprio oltraggio alla contemporaneità. E ritengo difficile riversare i temi della contemporaneità in strutture formali legate a una drammaturgia illuministica, ottocentesca. La mia insoddisfazione nasce da questo. Il problema, dunque, è legato alla qualità dei temi e delle strutture. Che si affronti un tema o una struttura, il lavoro deve essere fatto con qualità. Infinities, ad esempio, non è un dramma ma una trattazione scientifica. Il testo è stato scritto da uno scienziato e non da qualcuno che, desiderando scrivere di scienza, fa un corso di cosmologia e applica le nozioni acquisite alla stesura di un copione teatrale. Quando parlo di strutture drammaturgiche formali non voglio dire né che dialogo e personaggio siano elementi obsoleti né, al contrario, che siano insostituibili. Non è una questione di predilezione o insofferenza.
Nonostante questa resistenza nei confronti della narrazione, alcuni spettacoli ronconiani – vedi Strano interludio di Eugene O’Neill nel 1990 e più di recente Il professor Bernhardi di Arthur Schnitzler (2005) – possono avere il ritmo travolgente delle telenovelas, come se si divertisse a contraddirsi, non appena possibile...
Quello che emerge da uno sguardo ravvicinato a lavoro di Ronconi è insomma il rifiuto di un metodo, dei suoi vincoli e delle sue complicazioni, per andare ogni volta a misurarsi con il problema concreto del lavoro in quel preciso contesto (la commissione, lo spazio), su quel determinato testo e con quegli attori. La sua attenzione per la specificità coinvolge ovviamente anche le diverse tradizioni nazionali, a cominciare da quella in cui si trova a operare.
Io sono contrario a un’estetica dell’internazionalismo, anzi alla facilità di quest’estetica. Credo che ogni paese abbia un proprio rapporto fra drammaturgia e pubblico, che va conosciuto e rispettato: però è pure vero che la funzione e l’incidenza del fatto teatrale nella vita culturale di un paese andrebbe rapportata anche a ciò che succede nel resto del mondo. (…) Da noi si è avuto, in passato, questo concetto: il teatro imita [modelli stranieri], e non piuttosto il teatro propone, o inventa, o fa esplodere, o riflette. Oggi, per noi, quel tipo di teatro imitativo non è più possibile, perché siamo in presenza di originali, o di originali culturali, oppure di imitazioni al di fuori del teatro. Oggi ce l’hai sotto gli occhi, non ha più funzione quel tipo di teatro. (…) Ritengo che per noi il teatro sia semmai qualcosa di occasionale, un’interruzione del tempo, non una conclusione di serata, come lo è in altri paesi. Il teatro nella nostra vita culturale è considerato tuttora un evento, un’eccezione senza una sua necessaria continuità.
(Il Patalogo 17, p. 125-126)
Non a caso, questa attenzione al particolare emerge anche quando Ronconi affronta l’attività che forse predilige e affronta con grande passione, quella: la pedagogia teatrale. Ha insegnato a lungo sia all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, sia alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano. A Torino ha addirittura fondato la scuola del Teatro Stabile. In questi anni, al Centro Teatrale Santa Cristina, in Umbria, ospita ogni estate una scuola di alta specializzazione. Nel corso del tempo ha lanciato generazioni d’attori, facendoli spesso debittare nei suoi spettacoli: tra gli altri Massimo Popolizio, Riccardi Bini, Luca Zingaretti, Galatea Ranzi, Michela Cescon...
Il termine pedagogia non è esatto. In realtà, il percorso che faccio con gli attori principianti è esattamente lo stesso che faccio con gli attori formati, il contrario della pedagogia: il confronto con il testo e con problemi interpretativi piuttosto complessi. Un attore di 23-24 anni, anche se può essere professionalmente inesperto da un punto di vista tecnico, possiede una maturità sufficiente per affrontare l’interpretazione. Se non ce l’ha, è bene che se la faccia. La tecnica non esclude le capacità interpretative, le potenzia. Per questo non è esatto parlare di pedagogia. Ciò che mi interessa è sollecitare la fantasia e la curiosità, non trasmettere delle capacità tecniche.
Non si tratta dunque di mettere a punto e imporre un metodo.
No. Quando affronto un testo, mi piace confrontarmi con quel testo e non mettere in quel testo l’esperienza che ho fatto con un altro. Allo stesso modo, di fronte a un gruppo di una ventina di allievi, mi piace pensare a venti persone diverse, con problemi e capacità differenti. Se avessi un metodo, cercherei di formarli e questo non mi piace. Non sono capace e non mi interessa. Ci sono attori simpatici e attori antipatici, persone con cui mi piace lavorare e persone con cui non mi piace affatto. Viceversa, se esistesse un metodo “buono”, si presuppone che tutti quelli che lo adottano diventerebbero bravi e questo non succede mai. Il che vuol dire che non esiste un buon metodo.
Un “metodo teatrale” di Luca Ronconi non esiste e non può esistere, ribadisce con forza l’interessato. Ogni testo – che la scelta giunga da una commissione o che emerga da un’intuizione, da una curiosità, da un’ipotesi di lavoro da verificare – va affrontato per quello che è, per quello che dice, senza facili scorciatoie. Sapendo che ci possono essere discrepanze e fratture tra quello che l’autore scrive e le sue intenzioni, tra le sue intenzioni e il suo linguaggio; tra l’epoca e il luogo in cui è stato scritto e quelli in cui ci troviamo; tra le mille interpretazioni che di quel testo sono state date e la nostra attuale percezione; tra il personaggio e l’attore; tra la consapevolezza dell’autore e quella degli attori o dello spettatore; tra le attese del pubblico e quello che il testo effettivamente dice…
Allora forse un’altra delle intuizioni davvero semplici – originarie - di Luca Ronconi, una folgorazione sulla quale lavora da sempre, è che quello che ci sembra semplice è in realtà piuttosto complicato. Che è la semplicità a essere complicata. E che anzi proprio dietro questa apparente semplicità possano nascondersi le trappole più pericolose, quelle di cui siamo meno consapevoli. Ricordando sempre che per smontare una retorica e creare le condizioni per comunicare di nuovo è necessaria una retorica ancora più sofisticata.
Allora per capire il “metodo Ronconi” – per cogliere la sua “complicata semplicità”, o la sua “semplice complicazione” – è forse opportuno rovesciare la prospettiva. Non esiste un metodo da applicare al teatro, un “sistema” da utilizzare sui testi e con gli attori. E’ l’esatto contrario. E’ il teatro stesso a costituire un metodo per conoscere i testi e la realtà. E noi stessi. Perché solo in teatro tutte queste diverse linee di faglia possono trovare la verifica del corpo, nel tempo e nello spazio.
Molte volte quando scelgo un testo, lo faccio d’istinto e per curiosità, e senza troppa consapevolezza. Cerco di fare in teatro ciò che mi piace. Mi piace ciò che eccede, o può eccedere, le forme consuete del teatro. Ciò che si chiama “teatralità” non è l’eccesso o l’esteriorità. È un’altra cosa: uno schema conoscitivo, un modo di comporre le cose e di rappresentarle.
Questo sposta il problema del teatro dalla rappresentazione alla conoscenza.
La rappresentazione è il modo, non lo scopo. Lo scopo è altro. La rappresentazione stabilisce delle connessioni tra luoghi o concetti diversi. Crea opposizioni, attriti, antinomie che hanno bisogno della rappresentazione per essere comunicate. Ma la rappresentazione è solo un mezzo. Non amo il teatro in cui la rappresentazione è lo scopo.
Il metodo conoscitivo di uno spettatore è diverso da quello di un attore o è analogo? Se ci sono delle connessioni e degli attriti, vengono colte allo stesso modo dall’uno e dall’altro?
E’ il momento del processo a essere diverso. L’attore vive la fase della preparazione dello spettacolo. Se la preparazione entra a far parte del processo, è probabile che a qualche spettatore fra il pubblico arrivino dei riflessi di questo processo.
In ogni caso, è un processo conoscitivo diverso dagli altri, perché agisce attraverso la rappresentazione. Il teatro non è solo linguaggio, è anche altro.
Il linguaggio è il veicolo degli attori, ma per il pubblico il veicolo è il linguaggio più qualcos’altro: la rappresentazione. Naturalmente l’attore non accede alla rappresentazione se non passa attraverso il codice del linguaggio. Non si può rappresentare una trama o una vicenda. Per vicenda non intendo solo la fabula, ma anche il modo in cui la fabula viene organizzata nel processo. Si può rappresentare lo scarto, o la coincidenza, fra la vicenda e il linguaggio del processo che porta allo spettacolo.
Dunque anche il testo è uno strumento.
Il testo è uno spiraglio che apre altri mondi. Se volessi leggere Amleto, la cosa migliore per “conoscerlo” sarebbe prenderlo in biblioteca e leggerlo. Sarebbe il miglior processo conoscitivo, se intendessi Amleto come letteratura. È chiaro che la letteratura è indispensabile perché, se non si rispetta la letterarietà di un testo, lo spettacolo non funziona. Ma non basta, non è sufficiente.
Perché mancano il corpo, il respiro, la carne, la voce. Insomma, gli attori. Allora forse diventa più facile capire perché il teatro di Ronconi è così “semplicemente complicato”: è semplice e complicato come il rapporto tra il pensiero, la parola e la realtà. Lo possiamo vivere con l’innocenza dei bambini, abbandonandoci alla noncuranza della chiacchiera quotidiana, fidandoci dell’efficacia servile della comunicazione. Ma questo rapporto è anche e sempre sospeso sopra un abisso. Da un lato ci sono le voragini metafisiche che separano l’interiorità, il linguaggio e il mondo, e che rendono il senso un mistero insondabile, un interrogativo che ci proietta verso la trascendenza (un tema caro alla cultura della finis Austriae, che il filosofo Ludwig Wittgenstein ha esplorato nelle conseguenze estreme). Dall’altro ci sono mille convenzioni e abitudini, le stratificazioni del passato - nelle parole, nelle arti e in generale nella comunicazione, e pure nel nostro sguardo, e persino nella nostra carne - che s’incrostano e irrigidiscono ogni vera comunicazione (anche per questo il regista ama la drammaturgia elisabettiana, dove certe forme non si sono ancora rinserrate).
Tuttavia Ronconi non ama speculare. Rifiuta le astrazioni. Il suo è un talento empirico, è il mestiere paziente di un artigiano - anche se questo artigiano ha le inquietudini e le ossessioni dello sperimentatore, e la sua bottega è sempre un laboratorio. E così gli snodi tra pensiero, linguaggio e realtà li verifica con i suoi attori, sulla scena. O meglio, li verifica nei suoi attori, facendo teatro, ovvero costruendo una forma per rappresentare la realtà (o meglio, per riflettere sulla natura della realtà) e insieme un mezzo di comunicazione, di scambio. Lavorando con gli attori, interroga minuziosamente il testo e verifica il rapporto tra il suo significato e il tempo e lo spazio (ovvero il ritmo e la gestualità degli attori), come se si trattasse di ricucire uno strappo - ogni volta, in ogni frase, in ogni parola, in ogni sillaba, con la minuzia di un ebanista.
In qualche caso inventa macchine spettacolari di visionaria grandezza e di vertiginosa sofisticazione: quasi a nascondere questa angosciante lacerazione, i vuoti di senso di cui è consapevole e che la sua maieutica cerca di riempire. Oppure – senza che questo diventi una contraddizione - per celebrare allo stesso tempo le gioie di un equilibrio riconquistato e i fasti della teatralità.
Ecco, il genio semplicemente complicato di Ronconi, quello che riverbera nei suoi spettacoli, è insieme quello di un provocatore, che si diverte a demistificare le nostre certezze e a liberare nuove possibilità di senso. Ma è anche quello di un costruttore paziente, che tesse continuamente una tela sottile, fragile: quella della verità. Una verità che a volte si può distillare più facilmente in un’altra realtà, in quel laboratorio di parole e corpi, tempo e spazio che è il palcoscenico.
BIBLIOGRAFIA
In assenza di ulteriori specificazioni, le dichiarazioni di Luca Ronconi sono tratte da alcune conversazioni con Oliviero Ponte di Pino, Milano, Roma e Torino, dicembre 2004-ottobre 2005; trascrizioni di Oliviero Ponte di Pino ed Elena Cerasetti. Per completare la stesura di questo “incontro” ho utilizzato innanzitutto i programmi di sala degli spettacoli del regista e le diverse annate del Patalogo, l’annuario di teatro curato da Franco Quadri (cui è dedicato questo scritto) edito da Ubulibri; e ancora Il laboratorio di Prato, a cura di Franco Quadri con Luca Ronconi e Gae Aulenti, Ubulibri, Milano, 1981.
Qualunque riflessione sul teatro di Luca Ronconi non può prescindere da Franco Quadri, Il rito perduto.Saggio su Luca Ronconi, Einaudi, Torino, 1973; di Franco Quadri vedi anche La politica del regista, 2 voll., Il Formichiere, Milano 1980; e Il teatro degli anni Settanta. Tradizione e ricerca, 2 voll., Einaudi, Torino, 1982.
Inoltre:
AA.VV:, Ronconi: frammenti di storia, Archinto, Milano, 2001.
Alba Andreini e Roberto Tessari (a cura di), La letteratura in scena. Gadda e il teatro, Bulzoni, Roma, 2001.
Livia Cavaglieri, Invito al teatro di Ronconi, Mursia, Milano, 2003.
Rita Cirio, Serata d’onore. Diletto e castigo a teatro, Bompiani, Milano, 1983.
Cesare Garboli, Un po’ prima del piombo. Il teatro in Italia negli anni Settanta, prefazione di Ferdinando Taviani, Sansoni, Milano, 1998.
Isabella Innamorati (a cura di), Luca Ronconi e il suo teatro, Bulzoni, Roma, 1996.
Italo Moscati (a cura di), Luca Ronconi: utopia senza paradiso, Marsilio, 1999
Oliviero Ponte di Pino e Anna Maria Monteverdi, Il meglio di ateatro 2001-2003, il principe costante, Milano, 2004.
Franco Quadri in collaborazione con Alessandro Martinez (a cura di), Luca Ronconi. La ricerca di un metodo. L'opera di un maestro raccontata da lui stesso al VI Premio Europa per il teatro a Taormina Arte, Ubulibri, Milano, 1999.
Luigi Squarzina, Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte, Pacini, Ospedaletto (Pisa), 2005.
Teatro Aperto (a cura di), Il teatro nascosto nel romanzo, il principe costante, Milano, 2005.
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Un sogno editoriale: Rosa e Ballo nella Milano degli anni '40
"L'importante ormai non è di fare, ma di fare bene"
lettera di Emilio Cecchi a Ferdinando Ballo, 1944
Teatro, musica, architettura, arte, letteratura, politica: dal Fondo Rosa e Ballo – conservato presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori – emergono il ruolo della casa editrice e la sua eredità nella cultura del dopoguerra.
In mostra carte e documenti che raccontano l'avventura di una piccola e ambiziosa casa editrice nella Milano degli anni Quaranta, tra guerra e ricostruzione.
Biblioteca Nazionale Braidense
Sala Maria Teresa
Via Brera 28, Milano
Mostra documentaria
a cura di Stella Casiraghi
22 marzo 2006 – 24 aprile 2006
Inaugurazione
21 marzo 2006 ore 18,00
Intervengono
Roberto Cerati
Roberto Di Carlo
Sergio Escobar
Luca Formenton
Luigi Ganapini
Tullio Kezich
Anna Modena
Oliviero Ponte di Pino
Marco Vallora
Qui di seguito, il testo di Oliviero Ponte di Pino per il catalogo della mostra.
C’è qualcosa di misterioso e quasi di commovente nell’affettuosa memoria che i teatranti hanno continuato a riservare a una piccola casa editrice dalla vita assai breve, presto dimenticata dai più, anche per le sfortunate vicissitudini dei suoi artefici. In circa tre anni di attività, tra il 1944 e il 1947, Rosa e Ballo pubblicò tra l’altro una quarantina di volumi in due collane, la Collezione Teatro Moderno e la Collezione Teatro. Un periodo limitato e una produzione esigua in un settore marginale e poco redditizio, allora come oggi. Eppure quei volumetti dalla grafica essenziale e raffinata, color mattone (per la Collezione Teatro Moderno) e grigio (per la Collezione Teatro), hanno lasciato un segno indelebile e qualche seme destinato a fiorire nei decenni successivi. Tra i mille progetti e sogni di quel periodo tragico e fervido, che cosa ha salvato dall’oblio e tenuto vive così a lungo le intuizioni di un marchio a cui le storie dell’editoria dedicano solo poche righe?
Come altre iniziative nate nella vergogna del fascismo e tra i disastri della guerra, e tuttavia proiettate nella speranza di un futuro migliore, Rosa e Ballo – non solo sul fronte della drammaturgia ma nel suo progetto complessivo – si assegnò il compito di aprire l’orizzonte culturale italiano alle esperienze delle avanguardie europee, dopo vent’anni di regime e una censura via via più oppressiva. Era un’intuizione necessaria ma niente affatto facile, in quelle fasi convulse, quando la lotta contro la dittatura viveva la sua fase più cruenta, quando la Repubblica di Salò e gli occupanti nazisti organizzavano l’ultima difesa, quando le difficoltà della guerra si facevano insormontabili, tra ostacoli e impedimenti di ogni genere: la repressione poliziesca, i bombardamenti, i continui trasferimenti di sede, la censura, la mancanza di materie prime (la carta era contingentata), le difficoltà di comunicazione, l’impossibilità di prendere contatto con autori, traduttori, agenti, editori, soprattutto se stranieri.
Luigi Rognoni a Rosa e Ballo.
Per fare una scelta di quel tipo, non bastava l’assoluta certezza della vittoria: bisognava anche accantonare le necessità immediate della lotta – uno scontro mortale – e pensare al “dopo”. Meglio: quel “dopo” si doveva iniziare a costruirlo, subito. O almeno si dovevano preparare gli strumenti per iniziare la ricostruzione. Questo pensiero lo espresse con grande consapevolezza Paolo Grassi in un articolo pubblicato nel giugno 1943, poche settimane prima della caduta del fascismo e dunque in un momento delicatissimo per la storia del nostro paese e per la sua personale evoluzione. Dopo aver dichiarato la propria estraneità al “cosiddetto teatro ‘normale’”, il giovane critico, regista e organizzatore tracciava il suo programma per l’immediato futuro:
Penso che il nostro compito, il compito di noi giovani, sia attualmente quello di immagazzinare libri, notizie, dati, cognizioni, conoscenze, documenti; quello che necessita è un lavoro oscuro, durissimo di studio, di preparazione, di affinamento dei nostri mezzi e delle nostre qualità. (...) Il mio personale voto è che si abbia a formare nel nostro Paese un nucleo vasto di giovani colti, documentati, esperti tecnicamente, sensibili e onesti, che sappiano e vogliano lavorare, per il teatro, solo per esso, senza dilettantismi (...) senza la abituale incoscienza. Mentre i poeti ci danno e ci daranno la parola nuova, noi prepariamo l’apparato entro cui la parola possa a suo agio vivere. (...) Siamo orgogliosi di questo “splendido isolamento”.
(Lettere sul teatro, “Eccoci”, 1° giugno 1943, citato in Meldolesi, Fondamenti, pp. 100-101)
Un giudizio sul presente, un atteggiamento, un progetto che Grassi applicava al teatro, ma validi per altri ambiti, dalla musica all’architettura, e che nel progetto editoriale di Rosa e Ballo avrebbe trovato uno strumento esemplare, persino nelle ambizioni più velleitarie.
Anche nelle scelte culturali, la direzione imboccata dalla casa editrice non era affatto scontata. L’unica avanguardia artistica italiana di respiro europeo, il futurismo nazionalista, affascinato dalla velocità e dalla guerra, aveva affiancato e sostenuto il fascismo fin dagli inizi. Poi, negli anni del consenso di massa, gli eccessi destabilizzanti dell’Accademico d’Italia Filippo Tommaso Marinetti e dei suoi erano stati in parte neutralizzati dal regime, che aveva finito per compensare le accelerazioni moderniste del movimento con il più assimilabile filone “strapaesano”. Sull’altro versante della battaglia culturale, la sinistra – a cominciare dal Partito comunista di Palmiro Togliatti, sempre pronto a intervenire nel dibattito estetico – sosteneva il realismo socialista di ispirazione sovietica (salvo poi riscattarsi nella pratica con i capolavori del neorealismo); la condanna del “formalismo” delle avanguardie da parte di Stalin e Zdanov era già stata decretata – il suicidio di Majakovskij nel 1930 aveva segnato una svolta – e nei decenni successivi avrebbe avuto un peso determinante sulla linea culturale ed estetica della sinistra: emblematica, poco dopo, la vicenda del “Politecnico” di Elio Vittorini.
In questo scenario, nella breve finestra della transizione, Rosa e Ballo offrì una risposta informata e aggiornata – per certi versi anticipatrice – rispetto alla situazione del momento. Cercava l’emancipazione dalle pastoie e dal provincialismo del regime, senza per questo accontentarsi dei diktat estetici imperanti a sinistra. Non a caso l’iniziativa nasceva a Milano, la più moderna città italiana, il cuore pulsante della ricostruzione e del futuro boom economico, proprio quando la resistenza era più accesa e le spinte innovative effervescenti. Malgrado il fascismo, la vita culturale cittadina aveva infatti continuato a manifestare una qualche vitalità, e i frutti di quei fermenti si sarebbero visti al momento opportuno.
Erano gli anni [Venti e Trenta, n.d.r.] in cui la via del Monte Napoleone con le sue quattro librerie, luoghi di incontro di artisti e scrittori, Bestetti e Tuminelli, San Marco, la Libreria Editrice Scolastica dei fratelli Puccini, al n. 18, e le sedi circonvicine di Hoepli in galleria De Cristoforis, Esame in Crocerossa (dove arrivò il giovane Comisso, in fuga dalla provincia, per diventare il più grande libraio di Milano) si identificava a tutti gli effetti con la contrada dell’arte. Si avviava qui quella vocazione degli intellettuali e della borghesia cittadina al libro di cultura e d’arte, che procedeva accanto a quella industriale, e che avrebbe visto in città la nascita di imprese editoriali vive ancora oggi, come Ricciardi e Scheiwiller, e circoscritte nel tempo, ma non effimere, come Rosa e Ballo e Cederna.
(dalla prefazione a Botteghe di editoria, a cura di Anna Modena)
Tra tutte, la casa editrice Convegno – legata alla rivista omonima, animata da Enzo Ferrieri, letterato e uomo di teatro che fece conoscere in Italia la grande letteratura europea del Novecento – aveva pubblicato nel 1921 come primo titolo Risveglio di primavera di Frank Wedekind nella traduzione di Giacomo Prampolini; un paio d’anni dopo la rivista aveva dedicato un numero speciale ad Adolphe Appia.
Nello spirito delle avanguardie – ma senza alcun esplicito intento o manifesto programmatico, piuttosto come prassi inevitabile, come metodo di lavoro quasi naturale – era anche l’intreccio di diverse discipline che avrebbe caratterizzato l’atteggiamento di Rosa e Ballo. Il progetto più ambizioso della casa editrice – destinato a restare tale – era peraltro un Dizionario delle arti contemporanee, che ricorda il progetto di regime del Dizionario dello spettacolo e quello di un amico della casa editrice come Valentino Bompiani, che in quegli anni varava eroicamente il suo Dizionario delle Opere e dei Personaggi.
Massimo Mila a Rosa e Ballo.
A questa impostazione non può essere estranea la formazione di musicologo di Ballo, che certo avrà riflettuto sulle suggestioni wagneriane dell’opera d’arte totale e su Appia. All’inizio degli anni Trenta, Ballo era stato con Luigi Rognoni tra i fondatori della galleria Il Milione, dove esponevano artisti come Max Ernst, Lurçat, Marcoussis, Léger, Pascin (1932) o Seligmann, Kandinskij, Vordemberge-Gildewart, Albers (1934), circolavano riviste come i “Cahiers d’Art”, “Cercle et Carrè”, “Abstraction-Création” e soprattutto i “Bauhausbücher”; lì era possibile ascoltare la musica dodecafonica di Schönberg, di fatto bandita dalle sale da concerto.
Fedele a questa impostazione, caratterizzata dall’apertura al nuovo e dall’interdisciplinarietà, Rosa e Ballo pubblicò in un arco di tempo relativamente breve diversi libri importanti, destinati a essere ristampati per decenni, soprattutto nel campo dell’architettura, della musica e della politica. Già questo fu un risultato eccezionale.
L’avventura teatrale della giovane casa editrice fu ancora più straordinaria e importante. Nei primi anni Quaranta i due aspiranti editori erano entrati in contatto con quello che sarebbe stato il terzo protagonista dell’impresa, uno dei grandi riformatori del teatro italiano – o forse uno dei pochi rivoluzionari delle nostre scene, almeno in quella fase. Paolo Grassi aveva poco più di vent’anni (era nato il 30 ottobre 1919). Suo padre Raimondo era arrivato a Milano da Martina Franca, in Puglia, e lavorava da tempo al quotidiano economico “Il Sole”. Sua madre, Ines Platesteiner, discendeva da una famiglia bavarese ma veniva da Fiorenzuola d’Arda, non lontano da Parma; amava la musica e il teatro.
Grassi era socialista come i due editori. In una Milano “viva e seria” (l’impressione, in una lettera del 29 dicembre 1943, è di Valentino Bompiani, in Cinquant’anni e più. Lettere 1933-1989, a cura di Valentina Fortichiari, Bompiani, Milano, 1995), che già intuiva il tragico sbocco del fascismo, il giovane “vice” (a diciassette anni aveva iniziato a collaborare anche lui con “Il Sole”, affiancando il critico teatrale titolare Angelo Frattini) si era fatto una certa fama.
Paolo era quello che poi ha continuato a essere: una specie di fiume in piena con una grande volontà e molto rigore (...) uno che sapeva molto e che sapeva quello che voleva.
(Ernesto Treccani, “Un’amicizia lunga una vita”, in Il Piccolo Teatro di Milano. Cinquant’anni di cultura e di spettacolo, p. 14)
Nel marzo del 1940, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, Grassi era stato tra i protagonisti di una memorabile serata milanese (nei suoi ricordi, Quarant’anni, p. 100, è la sera del 18 marzo; nell’accurata ricostruzione di Meldolesi, Fondamenti, p. 44, è quella del 28 marzo). Debuttava al Teatro Nuovo di Milano Piccola città di Thornton Wilder e il battagliero Grassi, con gli amici di “Corrente” strategicamente disposti in platea, si era segnalato tra i più accesi sostenitori di una pièce che sfidava la tranquilla convenzionalità degli spettacoli italiani dell’epoca. La gazzarra lasciò il segno, ma non fu certo l’unica nella lunga guerra, ispirata alle riflessioni di Silvio D’Amico, per un teatro d’arte e di cultura, per l’affermazione di una nuova drammaturgia e per l’avvento della figura del regista.
Secondo un racconto diventato leggenda, nel 1938 tra i frequentatori degli “ingressi” dei teatri milanesi Grassi aveva notato un altro spettatore abituale: di un paio d’anni più giovane di lui, ugualmente appassionato, abitava dalle parti di casa sua. Era Giorgio Strehler. Sia la mamma di Giorgio sia quella di Paolo amavano la musica, così i due amici passavano assieme le serate, a casa dell’uno o dell’altro, ascoltando soprattutto Stravinskij.
Ma ascoltano anche Kurt Weil, Malipiero, Satie, Schönberg a casa di Luigi Rognoni, il padre della impossibile dodecafonia italiana, o da Fernando Ballo, al quale piace anche il recupero di Offenbach.
(Grassi, Quarant’anni, p. 97)
Il musicologo Ballo non era solo un fan di Offenbach, oltre che amico e collaboratore di Malipiero (vedi il suo libretto per I capricci di Callot, La Lampada, Milano, 1942): era uno degli animatori della vita culturale della città. Il giovane Grassi se ne accorse subito.
Fernando Ballo è il polo catalizzatore di una certa Milano che, attenta alle cose del mondo, aspira a uscire dai limitati orizzonti provinciali in cui l’ottuso controllo fascista aveva rinchiuso la vita culturale italiana. Nella casa di Ballo si incontravano, tra gli altri, Luigi Rognoni, Edoardo Persico, Giulia Veronesi, Raffaello Giolli, Angelo Saraceno (cognato di Ballo e fondatore, con altri, del Partito della sinistra cristiana), i pittori Umberto Lilloni, Angelo Del Bon, Adriano Spilimbergo (conosciuti come i “chiaristi”). Un gruppo vivo, intelligente, aperto alle suggestioni e alle influenze più positive provenienti da oltre frontiera.
(ivi, p. 118)
Casa Ballo diventò un polo d’attrazione per tutta la “generazione del ’45”, in cui si riconoscevano tra gli altri Carlo Lizzani, Mario Alicata, Vito Pandolfi, Marco Valsecchi, oltre naturalmente a Grassi e Strehler, che nel ’73 ricorderà:
Certo la generazione “del ’45” esiste. Una generazione senza maestri. Questa è una realtà. Andavamo a frugare tra i libri della biblioteca di Nando Ballo, un amico saggio, a scoprire da soli il mondo. Un mondo di cui nessuno ci aveva parlato. Cantavamo l’Opera da tre soldi in segreto come un peccato carnale. E tutto ciò ci è rimasto addosso, ce lo portiamo sulle spalle. La generazione di oggi vive nella dissacrazione del maestro. Noi invece ne sentivamo la mancanza in termini di riferimento. Noi volevamo avere dei maestri. E ce li fabbricavamo, magari. Ce li costruivamo.
(Strehler, Per un teatro umano, p. 21)
E’ bene seguire passo passo, in quei mesi cruciali, le attività di quei ragazzi ambiziosi e sempre in movimento. Fu uno di quei periodi in cui lo sviluppo culturale e artistico sembra subire una violenta accelerazione, in una sorta di esplosione creativa. Solo attraverso i rimandi tra attività editoriale e pratica scenica è possibile cogliere il ruolo centrale della casa editrice, dei suoi artefici e degli autori che ha pubblicato nel rinnovamento del teatro italiano.
I due amici Grassi e Strehler, le loro compagne Enrica Cavallo e Rosita Lupi, entrambe musiciste, i loro coetanei Mario Feliciani (compagno di Strehler all’Accademia dei Filodrammatici) e Franco Parenti, tutti antifascisti, erano i capofila di una nuova scapigliatura milanese che aveva subito legato con il gruppo di “Corrente”, o meglio con quello che ne era rimasto dopo che il regime, nel 1940, aveva chiuso la rivista “Corrente di vita giovanile”. La collaborazione tra Grassi e quel gruppo illumina l’impostazione di una casa editrice come Rosa e Ballo, che per alcuni aspetti ne è l’erede. “Corrente” voleva svecchiare un orizzonte culturale chiuso dalle censure e dall’autarchia del regime, riaprendo i contatti con le tendenze più vive e moderne delle arti e del pensiero contemporanei. Al gruppo facevano riferimento diversi pittori: Birolli, Guttuso, Valenti, Mucchi (che diverrà amico e traduttore di Brecht), De Grada, Cassinari, Morlotti, Sassu, Badodi, Vedova, Migneco e naturalmente Ernesto Treccani, che aveva diretto la rivista del gruppo. Accanto a loro c’erano filosofi come Enzo Paci e Luciano Anceschi, letterati come Vittorio Sereni, Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo, Luigi Rognoni, Alberto Lattuada, Giansiro Ferrata, Beniamino Joppolo, Cesare Zavattini… Questo intreccio di esperienze e discipline diverse avrebbe fecondato la cultura milanese del dopoguerra: basti pensare a due artisti formatisi in quegli anni, un pittore diventato attore e drammaturgo come Dario Fo, o un pittore-critico-drammaturgo-romanziere-poeta come Emilio Tadini. L’impostazione del catalogo di Rosa e Ballo, con le sue aperture multidisciplinari, respira quell’atmosfera.
Dopo essersi fatto le ossa organizzando la fortunata tournée della Cena delle beffe di Sem Benelli per la compagnia Ninchi-Tumiati (Grassi, Quarant’anni, pp. 102-104), Grassi era stato tra i fondatori di “Palcoscenico”, una delle filiazioni di “Corrente”. Attivo alla Sala Sammartini, diretto da Grassi “con sacro furore” (Leonida Repaci, Teatro d’ogni tempo, Ceschina, Milano, 1967, p. 567), era l’unico gruppo teatrale sperimentale esterno ai GUF: “il repertorio è eclettico; ma ci sono i segni di una ricerca e di una problematica lontane dal teatro di consumo”. Nella primavera del ’41 “Palcoscenico” programmò sette serate con 19 titoli (soprattutto atti unici), in cui figuravano diversi autori italiani ma soprattutto “più consolidate (...) scelte di drammaturgia straniera”: tra l’altro La poverella di Yeats, Cavalcata a mare di Synge, e poi O’Neill, Cechov, Evreinov e la scena del balcone da Romeo e Giulietta. Grassi era principale capocomico e regista, tra gli attori figuravano Strehler, Feliciani e Parenti, Giuliana Pogliani e Aegle Sironi (figlia del pittore). Per quei giovani teatranti fu una palestra decisiva: si trattava di riportare la parola poetica al centro della scena, e al tempo stesso rifiutare la trionfalistica retorica del fascismo (Grassi, Quarant’anni, pp. 107-108; Meldolesi, Fondamenti, p. 61).
Sul finire della stagione 1940-41 “Palcoscenico” ebbe la possibilità di produrre uno spettacolo: la scelta cadde su Ultima stazione del siciliano Beniamino Joppolo, che nel 1941 era stato pubblicato proprio dalle Edizioni di Corrente. Paolo Grassi si incaricò della regia, c’erano particine per quattro pittori (Migneco, Valenti, Birolli e Badodi) e un ruolo – quello del capostazione – per Giorgio Strehler.
E’ interessante guardare alla locandina di questo “spettacolo d’arte” che portava una scritta in cui si diceva “tutti gli artisti di tutte le arti devono intervenire”. Questo era un po’ lo spirito di quegli anni in cui cominciavamo. Alberto Lattuada, redattore della rivista [“Corrente”, n.d.r.], scriveva racconti. Guido Morosini, critico d’arte, curava la scenografia dello Spazzino e la luna, l’atto unico che avevo scritto [anch’esso pubblicato da Corrente nel 1941, n.d.r.] e che Franco Parenti interpretava. Un fervore artistico in cui uno si legava all’altro anche perché eravamo tutti così giovani e sentivamo molto fortemente l’interdisciplinarietà. E questo si rifletteva anche nei nostri rapporti, rendeva molto ricco lo scambio di esperienze che non potrei definire come eclettismo, ma piuttosto come interesse globale per la pittura e l’arte tenendo conto che c’era il fascismo e che tutto quello che noi volevamo era proprio il contrario dell’autarchia fascista.
(Treccani, “Un’amicizia...”, pp. 13-14)
Lo spettacolo andò in scena al Teatro dell’Arte il 25 giugno 1941 e fu un successo, anche se procurò al giovane regista l’immediata espulsione dal GUF, perché contro le regole aveva continuato a svolgere attività teatrale fuori dal Gruppo Universitario Fascista (Grassi, Quarant’anni, p. 109; Meldolesi, Fondamenti, pp. 65-66).
Fu l’ennesima feroce polemica prima della partenza di Grassi (che nel frattempo aveva firmato anche la regia di un testo di Benavente) per il servizio militare. Ma anche sotto le armi il teatro rimase al centro delle sue preoccupazioni: collaborava tra l’altro a due riviste universitarie – e dunque legate ai GUF, nell’ambito della fronda che i Gruppi Universitari Fascisti tolleravano più o meno consapevolmente – edite a Forlì, “Via consolare” (poi “Spettacolo – Via consolare”) e “Pattuglia”. Nel luglio-agosto del 1942 quest’ultima pubblicò un numero speciale monografico dal titolo Per il teatro, a cura di Walter Ronchi e Paolo Grassi.(1) Il 1° aprile 1943 l’infaticabile Grassi curò con il suo staff il numero monografico di un’altra rivista “gufina” con cui collaborava, “Eccoci”, intitolato Per un nuovo teatro.
Strehler aveva anche uno sbocco a Novara, all’epoca vivace centro culturale: originari della città piemontese erano, oltre a Ballo, anche i fratelli Bonfantini, in particolare Mario, amico di Ballo e collaboratore della casa editrice. Dall’agosto 1942 a Novara veniva pubblicato il mensile dei GUF “Posizione”, che ospitò diversi significativi articoli di Strehler; sempre a Novara con il teatro dei GUF locali Strehler debuttò come regista con un trittico pirandelliano il 24 febbraio 1943 (Battistini, Strehler, p. 7, pp. 19-25; pp. 29-30).
Dopo l’8 settembre, mentre Strehler si rifugiava in Svizzera (un soggiorno determinante nella sua formazione), Grassi abbandonò l’esercito (all’epoca era sottotenente in Carnia), tornò a Milano sotto falso nome e “su invito di Fernando Ballo entr[ò] a far parte della nuova casa editrice Rosa e Ballo” (Grassi, Quarant’anni, p. 118). Il 10 ottobre del 1943 le Schede contabilità registrano un pagamento a Paolo Grassi (Fondo Rosa e Ballo, Fondazione Mondadori [da ora RB] 1/1, n. 33 verso; la scheda personale di Grassi registra analogo pagamento per “acconto direzione collana”, RB 1/1, n. 3 recto).
Il progetto editoriale era già ben delineato nei primi mesi del 1944, almeno per quanto riguarda il teatro. I collaboratori erano di ottimo livello e potevano fornire materiali e informazioni sui diversi ambiti di interesse della casa editrice. Enzo Ferrieri, intellettuale e regista, fondatore nel 1924 del Teatro del Convegno, direttore artistico dell’EIAR a Milano dal 1929, era come abbiamo visto un animatore della vita culturale della città; avrebbe dato a Rosa e Ballo la sua fortunata traduzione del Gabbiano di Cechov, utilizzata tra l’altro anche da Strehler al Piccolo Teatro nel 1948 (Il Poligono avrebbe pubblicato nel 1946 un volume con altre traduzioni cechoviane di Ferrieri, Le tre sorelle, Il giardino dei ciliegi e Zio Vania); nel dopoguerra avrebbe diretto circa 600 testi per la prosa radiofonica. L’anglista Carlo Linati aveva avuto un ruolo chiave nel presentare nel nostro paese la nuova drammaturgia irlandese di Synge (nell’ormai lontano 1917), Yeats e Joyce. Glauco Viazzi (ovvero Jusik Achrafian), ingegnere chimico ma soprattutto critico letterario e cinematografico,(2) copriva l’area russa. Alessandro Pellegrini, germanista e scrittore, si dedicò a Strindberg, con traduzioni e scritti saggistici. Grassi – traduttore in proprio di Wedekind – coinvolse una pattuglia di germanisti e traduttori dal tedesco come Emilio Castellani, Ervino Pocar e Bruno Revel. Tra i collaboratori di Rosa e Ballo figuravano inoltre alcuni registi (e teorici della regia) che cercavano spazio sulle scene italiane e che con Grassi collaboravano anche sul fronte teatrale: Strehler e Ferrieri (animatore del Teatro del Convegno e dal 1929 direttore artistico dell’EIAR a Milano), naturalmente, e poi Vito Pandolfi e Ruggero Jacobbi (oltre al giovane Luigi Comencini).
La casa editrice si sarebbe dunque occupata soprattutto di traduzioni, e in particolare della traduzione di testi teatrali. Neppure questa era una scelta ovvia. Per quanto riguarda il settore di mercato, gli editori erano ben consapevoli delle difficoltà che avrebbe potuto incontrare la loro proposta, quando avevano presentato la Collezione Teatro Moderno:
Gran parte della storia dell’arte ha la sua vita nel teatro. Il pubblico italiano in generale non legge le opere di teatro, preferisce ascoltarle, rappresentate. Con tanto parlare e scrivere che si è fatto di crisi, di regìe, di problemi scenografici, non sarebbe opportuno conoscere anche le opere che ne hanno motivata la discussione?
Oltretutto la censura fascista faceva di tutto per disincentivare le traduzioni, in base alle precise indicazioni di Benito Mussolini. Anche se il Ministero della Cultura popolare della Repubblica di Salò operava in condizioni difficili e la sua azione incontrava notevoli ostacoli (certo inferiori a quelli che, in una economia di guerra, doveva affrontare una giovane casa editrice...), la vigilanza sulle traduzioni era occhiuta e attenta.
La censura tiene d’occhio la casa editrice. Ballo e Grassi più di una volta devono sobbarcarsi viaggi, per quei tempi assai avventurosi, a Salò, ove hanno sede gli uffici del governo fantoccio, e a Venezia, ove è installato il sempre petulante ministero della Cultura popolare, Minculpop. I negoziati con i funzionari della censura sono laboriosi e delicati: l’ignoranza e la prepotenza mettono a dura prova l’abilità e la pazienza dei due esponenti editoriali. (...) Al ritorno a Milano i resoconti di questi pellegrinaggi in censura sono commentati nell’ambiente della casa editrice, ora con sarcasmo, ora con sdegno. Autori, traduttori, collaboratori, sono tutti fortemente antifascisti, alcuni addirittura partigiani combattenti, come i grafici Luigi Veronesi e Remo Muratore, quest’ultimo comandante di una brigata. Si sa, comunque, che i censori sono destinati a sparire.
(Grassi, Quarant’anni, p. 119)
Nonostante tutto, l’impresa partì subito con un ritmo incalzante e obiettivi ambiziosi. A sospingerla fu una vera e propria urgenza, un disperato entusiasmo che si può capire solo con la gravità del momento. Una serie di appunti dattiloscritti ricapitola tre successivi invii di materiale con la richiesta dei permessi di traduzione al Ministero della Cultura popolare: il 10 marzo 1944 dieci titoli, il 28 marzo altri diciassette e il 10 (o 15) maggio 1944 ancora quattordici, più tre aggiunti a matita (RB 5/26, n. 65; ma vedi anche i fascc. 5/27 e 5/28).(3) In totale, 45 titoli in un paio di mesi: sarebbero stati sufficienti a riempire il programma editoriale di una piccola casa editrice per diversi anni, Rosa e Ballo li pubblicò quasi tutti negli ultimi mesi di guerra e nelle settimane immediatamente successive.
Si trattava in grandissima maggioranza di testi teatrali, che nel loro insieme costituirono l’ossatura delle due collane dirette da Grassi: nei primi due elenchi comparivano già una quindicina di pièce destinate a confluire nella Collezione Teatro Moderno, mentre nel terzo si trovavano l’opera omnia (in pratica) di Büchner (Woyzeck, La morte di Danton e Lena e Leonce, più Lenz, che uscirà nella Collezione Varia) e I corvi di Becque, ovvero quasi la metà della Collezione Teatro, quella dedicata ai classici – ma classici, lo si sarà già capito, eccentrici e anticipatori.(4)
Non tutti i testi ottennero il nulla osta, secondo quei riepiloghi. Wedekind venne bocciato (ma c’era un pizzico di malizia nel sottoporre ai censori un testo intitolato proprio La censura), così come Gide.(5) Kaiser inizialmente aveva passato l’esame ma un telegramma arrivato il 20 agosto lo bloccò, insieme a Büchner:
Comunicasi divieto pubblicazioni opere autori Buchner et Kayser [sic]. non essendo graditi punto pregasi assicurare urgentemente punto
Sottosegretario Cucco
(RB 5/27, n. 2; il telegramma è del 17 agosto; seguì un dispaccio che ribadiva il divieto: vedi RB 5/27, n. 2)
E’ probabile che a questo vaglio non siano stati nemmeno sottoposti alcuni testi che forse rientravano già nel piano iniziale, ma che dovevano essere certamente sgraditi al regime perché “di autori ebrei “, o “di autori appartenenti a paesi nemici o comunque (...) pubblicati in tali paesi e nei loro possedimenti” (Circolare del ministro Fernando Mezzasoma, 24 novembre 1943, in Fabre, L’elenco, p. 482) oppure “sovversivi”. Nell’elenco dei circa 900 “Autori le cui opere non sono gradite in Italia” diffuso dal Ministero della Cultura popolare il 23 marzo 1942, e rilanciato nel maggio del 1944 (ivi, pp. 474-481), figuravano Schnitzler, Toller e Wedekind – però mancava Brecht. Molti dei testi “proibiti” risultano tuttavia stampati ugualmente nel 1944, a cominciare proprio da Kaiser e Büchner.
Va sottolineata la presenza, in questi elenchi, di alcuni progetti variamente legati al teatro, che però non avrebbero potuto trovare posto in una collana di testi: tra gli altri, oltre al Lenz di Büchner (che è una prosa biografico-narrativa), l’epistolario di Ibsen (aggiunto a matita in calce all’elenco del 10-15 maggio 1944) e L’oeuvre d’art vivant di Adolphe Appia.
La scelta dei titoli e degli autori parla da sola. Grande attenzione per l’area tedesca (ovviamente per autori ostili a Hitler e al nazismo), grazie alle competenze linguistiche di Grassi, ma anche per la fascinazione in quel momento di un taglio espressionista (e in qualche modo “pessimista”, di fronte ai trionfalismi mussoliniani): vedi l’inserimento di Brecht, Kaiser, Toller e Wedekind, oltre all’interesse per un precursore come Büchner. Si trattava anche di ricucire i rapporti con la cultura tedesca dopo la frattura hitleriana, con particolare attenzione alla vivace Monaco di Baviera d’inizio secolo; e agli autori che avevano saputo dare forma alla crisi seguita alla Prima guerra mondiale: Toller, Kaiser e Brecht, che si erano già confrontati con la prima grande stagione della regia tedesca. Un altro importante punto di riferimento erano senz’altro i memorabili allestimenti di Erwin Piscator (Oplà noi viviamo di Toller nel 1927 e l’anno successivo lo Schwejk riscritto da Brecht); e soprattutto quelli di Vsevolod Mejerchol’d, che nella Mosca post-rivoluzionaria aveva portato in scena Albe di Verhaeren (1921) e Il magnifico cornuto di Crommelynck (1922), oltre a Mistero buffo (1918 e 1921), La cimice (1929) e Il bagno di Majakovskij (1930). Poi notevole spazio al “rinascimento irlandese” con Yeats, Synge e O’Casey (e naturalmente Joyce).(6)
Ancora, una presenza massiccia di August Strindberg, con ben cinque volumi nelle prime quattordici uscite della Collezione Teatro Moderno; per comprendere il potenziale impatto culturale della proposta, basti il titolo della monografia dedicata allo scrittore svedese da Alessandro Pellegrini, prima uscita della Collezione Il Pensiero: Il poeta del nichilismo.
Per coprire l’area angloamericana, Grassi poteva contare sulla consulenza di Gerardo Guerrieri, prodigo di segnalazioni per il “Carissimo Pablo”:
Ho in macchina Odets, che è una commedia molto importante e che nessuno conosce, e sto lavorando a un saggio su Stanislavschi da premettere alla traduzione che vi manderò a suo tempo. In questa sono anzi molto impegnato, perché con i due saggi su Meyerhold che preparo per Prampolini, e che usciranno nella collezioncina di cui ti ho parlato, sto preparando e studiando per una storia dello spettacolo russo ora che posso servirmi della lingua originale.
(senza data, RB 3/16, n. 3)
In una lettera (probabilmente successiva) del 4 marzo 1944 a Enrica Cavallo, che in quel periodo raccoglieva la corrispondenza di Grassi, Guerrieri specificò le sue proposte.
O’Neill Tutti i figli di Dio hanno le ali
Rice Street Scene
Odets Awake and Sing e (se vi serve)
Till the Day I Die (che ho trovato in questi giorni)
Golden Boy
Connelly Green Pastures
Hughes Theatre
Max Anderson High Tor
una raccolta di 5 atti unici (Odets, Dreiser, Shaw Ir., Susan Glaspell)
Dos Passos Airway’s Inc.
...i due di Auden e Isherwood, Geneva di Shaw ecc. Ho ancora Women di Claire Boothe, e varie altre commedie di gran successo ma minore interesse.
(RB 3/16, n. 5)
Non se ne fece niente. Finita la guerra, quando ripresero i contatti, Grassi – che aveva ormai pubblicato numerosi volumi – ne spiegò i motivi allo stesso Guerrieri in una lettera del 2 luglio 1945.
Sto preparando varie altre cose, ma la difficoltà enorme è nei diritti di Autore, specie di americani e inglesi per cui non sono riuscito ancora a trovare la strada.
(RB 3/16, n. 17)
Così nel repertorio di Rosa e Ballo figurò un solo dramma di un autore nordamericano, William Saroyan; allo stesso modo rimase unica la presenza italiana, quella di un amico della casa editrice come il poeta e pittore Alfonso Gatto, con Il duello.(7)
Il varo delle collane fu un vero tour de force. In quelle settimane febbrili il pragmatismo e l’efficienza del “tedesco-pugliese” Grassi travolsero le titubanze dei due intellettuali “nordici” Rosa e Ballo. Per cogliere il clima in cui nacquero quelle collane – dentro e fuori la casa editrice – è sintomatica la lunga lettera, tre cartelle dattiloscritte fitte fitte (con un post scriptum aggiunto a mano), scritta da Grassi su carta intestata del quotidiano “Il Sole” il 16 aprile 1944 (RB 5/29, nn. 3, 2, 1).
Paolo Grassi a Rosa e Ballo.
Quello esposto da Grassi nella sua travolgente e per certi versi esilarante missiva era un preciso progetto imprenditoriale, anche nei dettagli; non si riferiva solo alle collane teatrali ma investiva l’intera casa editrice. In primo luogo era necessario impiantare un’azienda moderna ed efficiente.
Io propongo URGENTEMENTE: LOCALI, organizzazione PERSONALE, FUNZIONAMENTO PRECISO della casa attraverso le dirette competenze di tutti e il lavoro di tutti. Propongo pure ufficialmente la mia assunzione in breve giro di giorni affinché sia possibile potenziale al 100% la casa e preparare un lancio come si deve. Il mio lavoro dovrebbe essere quello da me proposto tempo fa, più il lavoro della Veronesi appena ella lascerà la casa, ed è logico ch’io chieda ciò date le mie capacità intellettuali.
In secondo luogo, le pubbliche relazioni e il marketing: si trattava di segnalare i volumi alla stampa e ai librai, e dunque ai lettori.
In questo mese del resto io ho mandato via diecine di lettere in tutti i luoghi, ho assunto informazioni preziose, ho tutte le tariffe in mano della pubblicità, ho stabilito contatti utili con librerie, ho assicurato recensioni ai libri, ho preparato quindi un lavoro che, con una dattilografa e con la possibilità economica di mandar via centinaia anziché decine di lettere, avrebbe potuto essere preciso e più completo.
Le difficoltà in cui si trovavano alcune delle case editrici maggiori (dal novembre ’42 la sede della Mondadori si era trasferita ad Arona, un anno dopo lo stesso Arnoldo Mondadori raggiungeva i figli in Svizzera) lasciavano ampi spazi di manovra. Tuttavia andava contrastata la concorrenza di iniziative analoghe.
Voi dovete entrare nell’ordine di idee che a Milano sono in funzione otto nuove case, tutte più o meno forti. Io ho visto firmare contratti amplissimi e impegnativi con opere importantissime, ho visto offrire somme superiori alle nostre e accaparrare testi indubbiamente fondamentali. Non bisogna presumere, ché tutti lavorano bene e la concorrenza si farà sentire in tutti i campi.
La produzione, come abbiamo visto dagli elenchi per la censura, si concentrava sui testi: per dare maggiore visibilità all’impresa era necessario pubblicare “per ora dei lavori tranquilli e rappresentabili”. La messinscena dei testi pubblicati e gli adattamenti radiofonici avrebbero dato visibilità alla collana, lasciando sperare in introiti collaterali. Era dunque ancora più indispensabile mantenere buoni rapporti con il mondo del teatro. Malgrado i teatranti, se necessario.
Ferrieri. Vi sarà antipatico, può essere. Però gli uomini di teatro sono questi e noi abbiamo BISOGNO di rappresentazioni per lanciare la collana. Ora questo è anche il caso di Pandolfi.
Lo stesso Grassi si era riservato un bonus in caso di allestimento di un testo da lui fatto pubblicare. Tanto è vero che quando Il gabbiano nella traduzione di Ferrieri andò in scena al Piccolo Teatro, l’ex direttore di collana, dopo aver calcolato in 158.000 lire i proventi per i diritti d’autore della casa editrice per la rappresentazione, batté cassa presso il “Carissimo Rosa” con una lettera su carta intestata del Piccolo Teatro, datata 19 gennaio 1949.
Mi permetto di chiederti, come da tua promessa di un tempo se io fossi riuscito a far rappresentare testi di edizione Rosa e Ballo, la somma per me di lire 60.000==
Ti faccio notare che avrei potuto benissimo far fare una nuova traduzione apposita, pagarla a forfait e guadagnare il triplo perlomeno, ma non ho voluto tradire uno dei nostri primi volumi e dei nostri impegni reciproci.
(RB 15/8, n. 1)
Nell’occasione Grassi pretese anche una sorta di liquidazione: ricevette le 60.000 lire relative al Gabbiano, ma – a quanto risulta – null’altro. (RB 15/8).
Era inoltre già prevista la possibilità di ampliare il catalogo, con saggi di teoria e storia del teatro (Piscator, Stanislavkij e Bragaglia).
Per la collana TEATRO, torno a proporre DAS POLITISCHE THEATER di Piscator, i testi russi, nonché per ora dei lavori tranquilli e rappresentabili. Proporrei VERSO DAMASCO il capolavoro di Strindberg, un lavoro di Bjornson tradotto da Pocar, nonché qualcosa di Hauptmann e Hofmannsthal.
I testi come Stanislawsky Bragaglia-Pulcinella (8) ecc. propongo di riunirli in una collana di STUDI E INTERESSI TEATRALI che abbia la stessa copertina del TEATRO ma più grande di formato, che non abbia obblighi di uscita, e che sia ovviamente affidata a me come lo è praticamente.
Grassi però considerava i due soci un po’ troppo mondani e chiacchieroni, e cercava di rimetterli in riga.
Da noi è un caos assoluto, c’è un sacco di gente che non combina, ci sono idee, c’è la festa del “faremo” ma non si fa nulla. Ci vogliono MESI per avere clichés, copertine, cartoncini, il tutto a prezzi altissimi. Quando faremo la carta igienica ROSA E BALLO la faremo fare all’Archeotipografia.
Che le accuse esposte dal giovane direttore di collana fossero giustificate o meno, la missiva ebbe effetto. Dal “Libro giornale” della casa editrice, compilato a partire dal 9 ottobre, risulta che Grassi abbia ricevuto uno stipendio, almeno da quello stesso ottobre 1944 fino all’estate 1946, oltre a una serie di rimborsi spese (RB 1/2). La casa editrice cominciò a sfornare testi teatrali a ritmo frenetico. I primi otto titoli (tra cui due opere di Kaiser) della Collezione Teatro Moderno portano il finito di stampare “luglio 1944”, e – se il finito di stampare è credibile – altri dodici (compresi il Wedekind tradotto da Grassi e Yerma tradotto da Bo) vennero stampati prima del novembre del ’44, I giorni della vita di Saroyan nel gennaio del ’45. I primi cinque testi della Collezione Teatro vennero stampati tra il luglio e il novembre del ’44 (compresi i tre Büchner), il sesto, Una donna uccisa con la dolcezza, porta il finito di stampare “20 aprile 1945”. Quasi folle e incredibile, soprattutto se si pensa alle condizioni dell’Italia in quei mesi.
Le collane ideate da Grassi erano un abile mix di testi già tradotti e pubblicati in rivista (a cominciare dal primo titolo della Collezione Teatro Moderno, Esuli di Joyce, pubblicato su “Il Convegno”, nn. 2-3-4, 1920) e di novità. Proponeva autori come Strindberg, ancora poco frequentato ma già destinato a diventare un classico, per i quali si sperava in prossime messinscene (e relativi emolumenti dalla SIAE): per esempio, scrivendo a Enzo Ferrieri il 1° aprile 1944 a proposito della sua traduzione di Crommelynck, gli chiedeva anche di Cocteau, in vista di un possibile allestimento.
Hai letto I PARENTI TERRIBILI? Credo che la Ferrati dovrebbe entrare come in un guanto in Leo. Ma hai Yvonne?
(RB 3/6, n. 1)
(Il testo fu allestito nel 1946 da Luchino Visconti, con Andreina Pagnani e Lea Padovani.)
Alcuni testi erano da tempo al centro dell’attenzione di intellettuali e teatranti, e la loro pubblicazione era assai attesa: all’inizio del 1946, presentando le collane teatrali di Rosa e Ballo alla radio, Silvio D’Amico spiegava: “sono, come si vede, i nomi che in Italia si andavano ripetendo da un pezzo, fra gli amatori, con una curiosità più o meno inappagata. Adesso costoro potranno cominciare a leggerseli, e non più sporadicamente ma con un certo metodo; farsene un’idea consapevole, considerarli con giudizio critico”; nel seguito della puntata, D’Amico si concentrava su Georg Kaiser (Silvio D’Amico, Cronache del teatro drammatico. Commedie in volume, datato 27 febbraio 1946, RB 24/5). Anche le vicissitudini italiane dell’Opera da tre soldi di Brecht sono indicative: travestita da messinscena del testo di John Gay per aggirare la censura, venne allestita da Anton Giulio Bragaglia al Teatro degli Indipendenti di Roma con il titolo La veglia dei lestofanti l’8 marzo 1930 (quindi solo due anni dopo la prima berlinese). Il testo di John Gay andò in scena anche nel febbraio del 1943, protagonisti Gassman, Mazzarella e Albertini, con le scene di Toti Scialoja e la regia di Vito Pandolfi, che “ricollocava il testo negli anni della nascita del fascismo”: si scatenò un putiferio che portò all’arresto di Pandolfi e Mazzarella (Meldolesi, Fondamenti, p. 105).
Il 25 aprile 1945 – la Liberazione – segnò ovviamente un momento di forte discontinuità. Sembrava davvero che i sogni potessero diventare realtà. Tanto per cominciare all’“Avanti!”, il quotidiano del Partito socialista diretto da Guido Mazzali, le rubriche di spettacolo erano state “affidate a Fernando Ballo (musica), Alfredo Panicucci (cinema), Paolo Grassi (teatro)” (Grassi, Quarant’anni, p. 133). Nel frattempo Strehler, tornato dalla Svizzera, era diventato critico teatrale per “Milano Sera”; Pandolfi scriveva da Milano per l’“Unità” e avrebbe partecipato all’avventura del “Politecnico” con articoli sul teatro (e su altro); sul quotidiano del PCI si occupava di teatro anche Virgilio Tosi, che con Grassi, Strehler e Mario Apollonio avrà un ruolo centrale nella fondazione del Piccolo Teatro.
La lotta e le sofferenze dei mesi precedenti non parevano vane. In teatro le antiche battaglie ripresero subito con rinnovata foga.
Il popolo dei ceti medi, degli operai, dei contadini, degli artigiani, degli intellettuali (...) riconoscerà nel teatro di Wedekind (...) e di Saroyan, di Brecht, di Toller e di Sternheim (...) i motivi che lo hanno portato alla lotta contro la borghesia capitalistica.
(Paolo Grassi, Teatro del popolo, “Avanti!”, 30 aprile 1945, in Meldolesi, Fondamenti, cit., p. 156)
Ma il rinnovamento auspicato in tutti i settori della vita civile, politica e culturale non aveva il ritmo sperato. Sui palcoscenici milanesi le compagnie continuavano ad appoggiarsi al solito repertorio, malgrado la ritrovata libertà non si trovava spazio per gli autori proibiti dal fascismo. La rabbia non poteva non esplodere.
Dopo averlo ripetutamente scritto sull’“Avanti!” che il repertorio va rinnovato, che non è con La resa di Titti di Aldo De Benedetti che si cambia la pelle del teatro, Grassi va a dirlo sulla faccia degli attori, al Teatro Nuovo, in un incontro promosso dal Partito socialista e che si svolge nel ridotto. Ci va con Virgilio Dagnino e si infuria. “Ci sono ancora i partigiani e i fascisti fucilati per le strade, il cadavere di Mussolini è a piazzale Loreto, le SS hanno appena lasciato l’Hotel Regina e voi con il repertorio che proponete sembrate non voler capire che qualcosa di storico è avvenuto, che un ciclo è chiuso e un altro atto si apre nella storia del nostro paese”. La passione lo fa trascendere e una pesante allusione ad alcune attrici che notoriamente sono state “protette” da gerarchi, determina una reazione violenta. “Ha offeso le nostre donne”, grida qualcuno, e c’è chi tenta di avventarsi su di lui per vendicare l’onore. Vittorio Gassman è tra i giovani attori uno che condivide le necessità del rinnovamento. Salta su una sedia e dice: “Il teatro è un fatto di cultura; o voi diventate colti o siete destinati a sparire”. E cita, tra gli autori da conoscere e valorizzare, Kaiser e Strindberg, cioè proprio due degli autori di cui Rosa e Ballo ha fatto conoscere più di un testo. Renzo Ricci si avanza dal fondo del ridotto e, come avvolto in un invisibile ferraiolo, guardando Gassman che è suo genero (ha sposato sua figlia Nora) ma rivolgendosi a tutti, declama: “Tu Vittorio parli di Kaiser e Strindberg, ma io ho recitato… Shakespeare!...”. A questo punto l’irruento Grassi si dimentica di essere di fronte al mito teatrale della sua adolescenza e sbotta: “Sì, lei ha fatto Shakespeare, ma lei è un trombone”. Un urlo quasi isterico dei presenti e si trova circondato da mani minacciose, come in una scena corale. E Gassman, saltando dalla sedia, fa scudo col suo corpo atletico.
(Grassi, Quarant’anni, pp. 134-135; vedi anche Meldolesi, Fondamenti, pp. 171-172)
Qualche giorno dopo, auspice il sindaco socialista Antonio Greppi, Grassi presentò le sue scuse a Ricci, che le accettò chiudendo l’incidente. Ma l’episodio resta indicativo sia dell’atteggiamento di Grassi e dei suoi compagni di lotta, sia del ruolo cruciale giocato dalla casa editrice nel rinnovamento del teatro italiano.
In un turbinare di attività (Grassi a quel punto era critico teatrale dell’“Avanti!”, organizzava manifestazioni, concerti, convegni, si occupava del Fondo Matteotti alla Federazione socialista di via Valpetrosa, nel dicembre ’45 lanciava un centro sperimentale con annesso “Studio d’arte drammatica”, nel ’46 fu addirittura responsabile della campagna elettorale del Psi a Milano) la sua collaborazione con Rosa e Ballo – e in particolare con Fernando Ballo – sembrò ampliare gli obiettivi:
Vi continua a dirigere la collana di teatro con maggior vigore, così come si occupa a latere della casa editrice “Il Poligono” dell’ing. Silvio Tanziani (9) e mette le basi per un consorzio di piccoli editori per organizzare in modo razionale la loro diffusione rendendosi autonomi da quei circuiti che privilegiano le grandi case. (...) Alcuni progetti, ovviamente, restano per strada, come la creazione della rivista “Lo Spettatore”, che avrebbe dovuto dirigere con Glauco Viazzi e Fernando Ballo. E, come non bastasse tutto questo, a titolo personale Fernando Ballo e Paolo Grassi danno vita a uno studio, “B. G.”, con il quale tentano di promuovere altre iniziative culturali senza coinvolgere necessariamente la Rosa e Ballo. Sono ospitati (in via Rossini, 4), pagando un affitto simbolico, nello studio di Marcello Nizzoli, un nome fondamentale del design italiano. Fanno stampare carta da lettere con intestazione e indirizzo; l’iniziativa però non decolla.
(Grassi, Quarant’anni, pp. 140-141)
Incredibilmente nel gennaio del 1946 Grassi trovò anche il tempo per tornare a lavorare in palcoscenico: si impose come regista alla compagnia Adani-Gassman-Carraro-Calindri per uno dei testi più discussi del momento, pubblicato nella sua collana di Teatro Moderno (di cui dunque controllava i diritti), Giorno d’ottobre di Georg Kaiser; scenografo il pittore Luigi Veronesi, che sugli intrecci tra il teatro e le altre arti sperimentava dalla metà degli anni Trenta. Critica e pubblico si divisero. Ettore Capriolo, citato da Luigi Squarzina, ricorda che “fu uno spettacolo talmente brutto, nonostante la presenza di attori tra i più importanti di allora, che Grassi decise di non fare più il regista. E diede a Strehler che al GUF era un suo ex attore (...) l’occasione di fare il regista al Piccolo Teatro” (Squarzina, Il romanzo della regia, p. 328). Un intervento del critico del quotidiano liberale “La Libertà”, Enrico Damiani, rilanciò la polemica: “E’ compatibile l’attività del critico teatrale d’un quotidiano abbinata a quella del regista con regolare assunzione a contratto di una compagnia?”. Che fosse per consapevolezza dei propri limiti artistici o per questo conflitto d’interessi da critico militante, Grassi decise di abbandonare per sempre la regia (Grassi, Quarant’anni, pp. 146-147).
Nel frattempo con l’amico Strehler aveva rilanciato gli antichi progetti e ne aveva intrapresi altri.
Grassi e Strehler, ospitati dalla libreria Zanotti, danno vita con l’aiuto di altri critici e di giovani appassionati di teatro e politicamente coscienti, al “Diogene”, un circolo di cultura teatrale che rappresenta lo stimolo di dibattito più vivo di questi mesi nel campo dello spettacolo. Qui si leggono testi italiani e stranieri, nomi nuovi vengono alla ribalta, si dibattono i temi generali del rinnovamento del teatro, si discutono gli spettacoli che le ribalte milanesi offrono.
(Grassi, Quarant’anni, p. 139)
Il Diogene, fondato nell’autunno del 1945 (ma cresciuto l’anno successivo) come centro di lettura di “commedie contemporanee eccezionalmente valide”, “si era guadagnato dei meriti, prefigurando un repertorio di punta nell’impossibilità di immediati allestimenti” (Meldolesi, Fondamenti, p. 173). Ancora una volta, gli autori pubblicati da Rosa e Ballo – per primo il solito Kaiser, ma non solo – ebbero un ruolo cruciale.
Fra la messinscena di Giorno d’ottobre nel gennaio 1946 a Venezia (...) e quella di Mississipi (...) il teatro di Kaiser fu presente nelle riunioni del Diogene con Il soldato Tanaka, L’incendio del teatro dell’opera a cura di Ruggero Jacobbi e Il cancelliere Krehler, interpretato da Vittorio Gassman, Giorgio Strehler e Tino Carraro.
(Battistini, Strehler, p. 47)
Al Diogene furono presentati e discussi anche L’unicorno e le stelle di Yeats, La cimice di Majakovskij e, a cura di Paolo Grassi, La linea di condotta di Brecht. Per la drammaturgia straniera la collana di Rosa e Ballo restava il punto di riferimento, nelle riunioni del Diogene e in generale per il teatro italiano. Altri “teatrini” scelsero infatti di attingere allo stesso repertorio: a Genova lo “Sperimentale” di Gian Maria Guglielmino tra il 1944 e il 1946 presentò, tra gli altri, Esuli di Joyce (che a Milano venne allestito, com'era ovvio, da Enzo Ferrieri, nel 1946), oltre che testi di Synge e Yeats (Meldolesi, Fondamenti, p. 170).
Il soldato Tanaka andò in scena il 7 marzo 1947 al Teatro Olimpia di Milano, con la compagnia Tofano-Randone-Negri: la regia venne curata da Strehler, che però si ammalò, lasciando all’amico Mario Landi il compito di completare la messinscena. Fu l’ultima regia strehleriana prima dell’Albergo dei poveri di Gorki, lo spettacolo che inaugurò il Piccolo Teatro in una serata destinata a passare alla storia, il 14 maggio 1947.
Poche settimane prima, il 1° aprile 1947, entrando ufficialmente a far parte dell’organico del neonato Piccolo Teatro, Grassi aveva chiuso definitivamente con la critica teatrale: dopo due anni di battaglie lasciava il posto all’“Avanti!” a Ivo Chiesa, il futuro animatore dello stabile di Genova.
Nel frattempo, travolta dai mille impegni del direttore di collana da un lato e dalle difficoltà della casa editrice dall’altro, anche la sua collaborazione con Rosa e Ballo si era di fatto conclusa. Non si sarebbe invece concluso il rapporto con l’editoria di Grassi, che negli anni successivi avrebbe curato, oltre alle pubblicazioni del Piccolo Teatro, altre collane: dal 1953 per Einaudi, con Gerardo Guerrieri, la Collezione di teatro, dove sarebbero stati ripresi alcuni dei testi pubblicati da Rosa e Ballo; dal 1959 i saggi Documenti di teatro, insieme a Giorgio Guazzotti, per l’editore bolognese Cappelli; per Feltrinelli avrebbe varato negli anni Sessanta una collana di studi sul teatro.
L’abbandono di Grassi coincise dunque con la crisi della casa editrice. Anche se le collane teatrali avevano avuto un notevole successo di vendite: nell’ultimo listino numerosi volumi figurano esauriti, in particolare buona parte delle prime venti uscite della Collezione Teatro Moderno. Molti di quei titoli vennero poi ristampati da un’altra piccola casa editrice milanese fondata nel 1944 e legata al Partito d’Azione, La Fiaccola, che a quel punto gestiva le collane teatrali di Rosa e Ballo e si avvaleva della consulenza di Grassi (RB 15/8, nn. 1-2): Dibbuk (1948), Il pappagallo verde (1948), Il bagno (1950), Quando noi morti ci destiamo (1955), La sonata dei fantasmi (1956), Esuli (1956), Il magnifico cornuto (1956), Il furfantello dell’Ovest (1956). La Fiaccola continuò per qualche tempo a pubblicare altri testi teatrali, tra cui Mississipi di Georg Kaiser (trad. Carla Bosco, 1949), Paura di me di Valentino Bompiani (1950), Estate e fumo di Tennessee Williams (trad. Gerardo Guerrieri, 1951), Verso Damasco di August Strindberg (trad. Alessandro Pellegrini, 1954). Molti dei testi pionieristicamente pubblicati da Rosa e Ballo vennero – prima o poi – ripresi anche da altre case editrici, fino a diventare dei classici moderni.
L’obiettivo culturale delle collane teatrali dirette da Grassi era a prima vista chiaro: quei testi offrirono un indispensabile aggiornamento culturale e una palestra per i giovani registi con le serate di Palcoscenico e del Diogene; costituirono un’arma polemica nei confronti del teatro “tradizionale”, ancorato al vecchio repertorio. In prospettiva, servirono anche a limitare le ambizioni degli autori italiani (che non a caso trovarono poi così poco spazio nel percorso dei registi). Tuttavia quel repertorio non passò automaticamente al Piccolo Teatro e agli stabili nati sulla sua scia. Sul palcoscenico di via Rovello approdarono – dopo Il gabbiano – solo La morte di Danton, regia di Strehler, il 19 marzo 1951, e Oplà noi viviamo, sempre con la regia di Strehler, il 20 novembre dello stesso anno, “con un occhio sulla famosa messinscena diretta nel 1927 da Piscator” (Giorgio Guazzotti, “l’Unità”, 16 gennaio 1952); negli anni precedenti erano arrivati in scena – ma con testi diversi da quelli editi da Rosa e Ballo – Giraudoux, Becque e García Lorca. Per L’opera da tre soldi di Brecht, fu necessario attendere quasi un decennio.
Certo, nei primi anni del dopoguerra sul fronte della drammaturgia straniera, in quel vorace ampliamento d’orizzonti, ci si rivolse soprattutto a una certa produzione anglosassone e alla letteratura francese engagé di Salacrou, Camus e Sartre; successivamente fu la volta del cosiddetto teatro dell’assurdo (che però negli stabili e soprattutto al Piccolo non ebbe mai particolare fortuna).
L’abbandono dello “sperimentalismo” del periodo dei GUF da parte di Grassi e di Strehler (il quale si era orientato a quel punto – semplificando – più verso Reinhardt, Copeau e Jouvet che verso Piscator e Mejerchol’d) è un nodo sul quale la storiografia continua a dibattere. Perché la svolta di Strehler e del Piccolo Teatro aveva aperto qualche ferita. Nel 1957, dopo un lungo silenzio, Vito Pandolfi tornò sulla vicenda, dichiarandosi
colpevole di estremismo settario, cioè di inconsapevole ottimismo. Pensavo che si potesse e si dovesse osare molto di più sul piano del repertorio, scartando quanto si limitasse a riesumare classici di interesse prevalentemente culturale, e non vitale, non nutriti di un significato che si rivelasse attivo nell’esistenza quotidiana dello spettatore. Ritenevo necessario un repertorio di straordinaria attualità, inscenato in modo critico, che mette a nudo il loro substrato storico, grazie al solvente dei metodi di Meyerhold e di Piscator; tesi, come è noto, a rivoluzionare il testo per scoprirne il tessuto sociale, Meyerhold, Piscator... come erano lontani, inarrivabili! Qui si trattava di affrontare un problema ben diverso: far vivere il teatro con le sovvenzioni ministeriali, con l’appoggio della critica milanese, con il concorso del pubblico. A questo scopo, niente di rivoluzionario: ma brillanti presentazioni registiche, di testi culturalmente inappuntabili, senza punte di particolare audacia in ogni senso.
(Vito Pandolfi, Confidenze di autori, attori, registi, in "Il Ponte", numero speciale "Lo spettacolo in Italia", agosto-settembre 1957, p. 1290, cit. in Marco Martinelli, “In solitudine vitae”, pp. 50-51)
Grassi gli rispose senza nominarlo e a stretto giro di posta, nel volume che nel ’58 celebrò il primo decennio del Piccolo, e nel ’65 Giorgio Guazzotti volle ribadire il concetto.
“Volendo passare dal periodo sperimentale ad una stabilità e continuità di lavoro, dovevamo pensare ad un cartellone con una diecina di opere”: così scrive Grassi nel ricordare il passaggio dalla “fase eroica” alla “fase costruttiva”.
(Guazzotti, Teoria e realtà, p. 59; la frase di Grassi è in 1947-1958: Piccolo Teatro, p. 41)
Di recente Luigi Squarzina ha riassunto:
Se era inevitabile che a Strehler nel corso degli anni venisse addebitata da una parte della critica una astensione precoce e quasi prudenziale dello sperimentalismo che lo aveva caratterizzato ai tempi dei GUF, quantunque non ne mancassero spunti in molti spettacoli di via Rovello, questo rilievo non poteva non sommarsi alla imputazione iniziale, a lui e a Grassi, di una partenza ‘riformistica’ del Piccolo contro un indirizzo ‘rivoluzionario’ ritenuto non impossibile nella Milano postresistenziale del ’47.
(Squarzina, Il romanzo della regia, pp. 328-329)
In ogni caso con l’“istituzionalizzazione” dei nuovi teatri stabili (e della regia) il repertorio si andò orientando principalmente verso i classici. A questo andava aggiunta una certa prudenza politica, soprattutto dopo la sconfitta del Fronte Popolare socialcomunista alle elezioni del 18 aprile 1948, che portava a limitare i testi più controversi. Inoltrandosi negli anni Cinquanta l’orizzonte culturale di Rosa e Ballo parve superato dalle circostanze e dall’avvicendarsi delle mode – con l’eccezione della drammaturgia brechtiana, ma un Brecht lontano dagli esordi espressionistici. L’eredità della casa editrice riemerse però con forza imprevedibile in un altro periodo di violenta crisi, intorno al 1968.
Quello che accadde al Piccolo Teatro, con gli stessi protagonisti d’un tempo, è emblematico: Strehler abbandonò all’improvviso via Rovello, lasciando Paolo Grassi unica guida. Al di là della contrapposizione (vera o presunta) che avrebbe causato la rottura Strehler-Grassi – con il primo più orientato al “teatro d’arte” e il secondo più al “servizio pubblico” – quella frattura offrì l’opportunità per tentare un rinnovamento generazionale, di linguaggio e anche di repertorio. Nel giro di un paio di stagioni andarono in scena la pièce biografica di Tankred Dorst Toller (regia di Patrice Chéreau), Il bagno di Majakovskij (regia di Franco Parenti) e fece il suo debutto al Piccolo Frank Wedekind, l’autore che il giovane Grassi aveva tradotto per Rosa e Ballo: nel 1972 la sua Lulu arrivò in scena nel memorabile allestimento dello stesso Chéreau. Dopo venticinque anni di impegno quotidiano, quello fu di fatto l’ultimo spettacolo del Piccolo Teatro di Paolo Grassi, che stava per assumere la direzione della Scala, lasciando spazio all’inevitabile ritorno di Strehler.
Si era chiuso un cerchio. Gli autori pubblicati da Rosa e Ballo avevano trovato nuova attualità: non tanto per una qualche nostalgia da parte di Grassi, ma proprio perché quei testi parevano rispondere alle esigenze del momento. Strindberg, Wedekind e Majakovskij erano tornati di moda. Si partì alla ricerca di un Brecht più inquieto e inquietante, meno ideologico (e monumentale), anche in polemica con le messinscene strehleriane. Büchner divenne un passaggio obbligato, una prova di iniziazione per tutti i giovani registi. Un esempio tra tutti, alcuni spettacoli degli esordi di Carlo Cecchi: Prova del Woyzeck di Büchner (1969), Il bagno di Majakovskij (1971), Tamburi nella notte di Brecht (1972), Woyzeck (1973), La cimice di Majakovskij (1975).
Forse, come suggeriscono le sue ultime scelte, la prospettiva culturale in cui Grassi si sentiva più a proprio agio era quella sperimentata ai tempi di Rosa e Ballo, e al momento opportuno non ebbe difficoltà ad attingere a quel repertorio. Poco dopo la morte di Grassi nel 1981, Ettore Capriolo ricordava sul Patalogo
le due anime del personaggio (…): quella dell’intellettuale attento al clima del tempo e curioso delle sue manifestazioni e quella dell’organizzatore di cultura che ha il compito di rendere in qualche modo possibile il realizzarsi di sogni e aspirazioni, tenendo conto delle condizioni oggettive e con esse misurandosi quotidianamente. (…) Grassi aveva dato un contributo notevolissimo alla cultura teatrale italiana, come direttore della collana teatrale della casa editrice Rosa e Ballo. Comparivano nel suo catalogo i drammi da camera di Strindberg e le utopie rivoluzionarie di Majakovskij, gli umori sulfurei di Wedekind e le anticipazioni geniali di Büchner, le dolorose riflessioni di Toller e gli irlandesi da Joyce a O’Casey e la prima traduzione italiana dell’Opera da tre soldi: vale a dire, con qualche eccezione, proprio quegli autori cui si rivolse dagli anni Sessanta la generazione teatrale che a quella rappresentata da Grassi più apertamente s’opponeva.
(Ettore Capriolo, “Il manager di un ‘teatro civile’”, in il Patalogo 4, Ubulibri, Milano, 1982)
Claudio Meldolesi pare condividere, quando riflette sull’attività critica di Grassi e la mette in relazione proprio al suo impegno per Rosa e Ballo:
La contraddittorietà delle recensioni di Grassi può spiegarsi con una sorta di scissione fra il piano del giudizio specifico (prevalente in “Cinetempo”) e il piano del giudizio politico (prevalente sull’“Avanti!”); e ancora con un certo attaccamento di pelle ai luoghi comuni del mestiere e un singolare impegno a pensare il teatro oltre il presente, volontaristicamente. In questo senso, Grassi contribuì al teatro post-bellico soprattutto con la sua attività editoriale. (Meldolesi, Fondamenti, p. 157, n. 17)
Sono annotazioni che danno ragione della piccola leggenda fiorita intorno a Rosa e Ballo: la casa editrice ebbe come animatore uno dei fondatori del Piccolo Teatro, la più importante invenzione teatrale del dopoguerra; e al tempo stesso formò il gusto e prefigurò le inquietudini delle stagioni teatrali successive.
RINGRAZIAMENTI E NOTA BIBLIOGRAFICA
Mi piace ringraziare (ma ovviamente la responsabilità di quanto scritto è mia) alcuni amici che mi hanno aiutato. In particolare – oltre alle persone coinvolte nella realizzazione della mostra e del catalogo, di cui ho apprezzato la competenza e la disponibilità – Giorgio Fabre, Mimma Gallina, Marco Martinelli ed Emilio Pozzi. E non posso dimenticare le lezioni di Ettore Capriolo e Giorgio Guazzotti alla Civica Scuola d’Arte Drammatica di Milano, quando per la prima volta sentii con ogni probabilità parlare di Rosa e Ballo.
Per stendere questo testo, ho consultato in primo luogo il Fondo Rosa e Ballo, Fondazione Mondadori, Milano, ma il materiale è tanto e il lavoro da fare è ancora moltissimo.
Ho poi cercato di inserire la vicenda di Rosa e Ballo nel suo contesto storico, culturale e teatrale. La bibliografia sarebbe sconfinata, cito qui di seguito alcuni dei testi che ho utilizzato e citato, raggruppandoli per temi.
Sulla Milano di quegli anni, Luigi Ganapini, Una città in guerra. Lotte di classe e forze politiche a Milano 1939-1951, Franco Angeli, Milano, 1988.
Su Rosa e Ballo nella storia dell’editoria: Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria italiana. 1945-2003, Einaudi, Torino, 2004, pp. 70-71; Anna Modena, “Breve storia (con catalogo) della casa editrice Rosa e Ballo”, in Studi di storia dell’editoria, a cura di Gianfranco Tortorelli, Baiesi, Bologna, 1995; Stella Casiraghi, Rosa e Ballo editori tra spettacolo e poesia, in “Wuz”, n. 4, luglio-agosto 2005.
Sull’editoria teatrale di quel periodo, vedi Giorgio Guazzotti, Teoria e realtà del Piccolo Teatro di Milano, Einaudi, Torino, 1965, pp. 40-41.
Per quanto riguarda l’esperienza di “Convegno” e di “Bottega di Poesia”: Botteghe di editoria: tra Montenapoleone e Borgospesso. Libri, arte, cultura a Milano 1920-1940, a cura di Anna Modena, Biblioteca di via Senato-Electa, Milano, 1998 (catalogo della mostra, Milano, Biblioteca di via Senato, 23 settembre-25 ottobre 1998); il numero di “Convegno” dedicato ad Appia, in occasione della sua regia del Tristano e Isotta alla Scala, direttore Arturo Toscanini, fu il numero 10, ottobre 1923, dove venne pubblicato anche il suo La messa in scena e il suo divenire; quasi contemporanea la pubblicazione su “Bottega di Poesia” di Arte viva o natura morta?; questi rimasero a lungo gli unici testi di Appia in italiano (vedi Adolphe Appia, Attore musica e scena, prefazione e cura di Ferruccio Marotti, Feltrinelli, Milano, 1975).
Su Corrente: Raffaele De Grada, Il movimento di Corrente, Edizioni di Cultura Popolare, Milano, 1975; Franco Catalano, La generazione degli anni ’40, introduzione di Raffaele De Grada, Contemporanea Edizioni, Milano, 1975; Gioia Sebastiani (a cura di), I libri di Corrente, Milano 1940-1943: una vicenda editoriale, Pendragon, Bologna, 1998.
Sul rapporto tra Ballo e Malipiero: Gillo Dorfles-Riccardo Malipiero, Il filo dei dodici suoni. Dialogo sulla musica (Aprile 1984), Scheiwiller, Milano, 1984, pp. 9-10.
Su Enzo Ferrieri, Il Convegno di Enzo Ferrieri e la cultura europea dal 1920 al 1940: Manoscritti, immagini e documenti, a cura di Anna Modena, Università di Pavia, Pavia, 1991 [catalogo della mostra a Pavia, Sala dell’Annunciata, 11-25 maggio 1991] e Enzo Ferrieri, La radio! la radio! la radio!, a cura di Emilio Pozzi con un saggio di Maria Corti, Greco & Greco, Milano, 2002.
Sulla censura libraria nel periodo fascista: Giorgio Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino, 1998; in particolare sul periodo della RSI vedi le pp. 416-425. Le procedure per i nulla osta per le rappresentazioni teatrali e quelli per le traduzioni di testi stranieri seguivano procedure diverse, anche se facevano entrambe capo al Ministero della Cultura popolare (vedi Dizionario del fascismo, a cura di Victoria De Grazia e Sergio Luzzato, Einaudi, Torino, 2002, s.v. Censura). Sulla censura teatrale: Leopoldo Zurlo, Memorie inutili: la censura teatrale del ventennio, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1942; Carlo Di Stefano, La censura teatrale in Italia, Cappelli, Bologna, 1964; Pasquale Iaccio (a cura di) La scena negata: il teatro vietato durante la guerra fascista, 1940-43, Bulzoni, Roma, 1994; Nicola Fano, Tessere o non tessere: i comici e la censura fascista, Liberal Libri, Roma, 1999; Archivio Centrale dello Stato, Censura teatrale e fascismo, 1931-1944: la storia, l’archivio, l’inventario (a cura di Patrizia Ferrara), Mistero per i beni e le attività culturali, Roma, 2004.
Sulle vicende teatrali di quel periodo, è imprescindibile la meticolosa ricostruzione di Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Sansoni, Firenze, 1984, anche nella sua capacità di sviscerare i risvolti problematici, dai rapporti con lo sperimentalismo di Bragaglia alle diverse possibilità della regia – quelle effettive e quelle virtuali – nel dopoguerra; di Rosa e Ballo parla a p. 157, n. 17. Utile la testimonianza di un protagonista di quella stagione come Luigi Squarzina, Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte, Pacini, Ospedaletto (Pisa), 2005.
Su Strehler e sulla nascita del Piccolo Teatro, la bibliografia è relativamente ampia e conosciuta; in particolare ho utilizzato Giorgio Strehler, Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, Feltrinelli, a cura di Sinah Kessler, Milano, 1974; 1947-1958: Piccolo Teatro, Moneta, Milano, 1958; Giorgio Guazzotti, Teoria e realtà del Piccolo Teatro di Milano, Einaudi, Torino, 1965; Ettore Gaipa, Giorgio Strehler, Cappelli, Bologna, 1959; Fabio Battistini, Giorgio Strehler, prefazione di Paolo Grassi, Gremese, Roma, 1980; Il Piccolo Teatro di Milano. Cinquant’anni di cultura e di spettacolo, a cura di Maria Grazia Gregori, fotografie di Luigi Ciminaghi e Gérard Uféras, Leonardo Arte, Milano, 1997.
La figura di Paolo Grassi resta più in ombra, e i suoi archivi sono ancora relativamente inesplorati: Paolo Grassi, Quarant’anni di palcoscenico, a cura di Emilio Pozzi, Mursia, Milano, 1977; Paolo Grassi, Lettere, a cura di Guido Vergani, Skira, Milano, 2004 (dove a p. 12 si legge che Paolo Grassi nel 1944 “fu assunto come direttore editoriale della casa editrice Rosa e Ballo”, mentre in effetti aveva la responsabilità delle sole collane teatrali); e la voce del Dizionario degli italiani, curata da G. Taffon.
Sul ruolo di un altro protagonista di quella stagione, Vito Pandolfi: Marco Martinelli, “In solitudine vitae. Una biografia teatrale”, in Teatro da quattro soldi. Vito Pandolfi regista, a cura di Andrea Mancini, Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1990; la ricostruzione di Martinelli (che tra l’altro ha battezzato il suo gruppo teatrale Le Albe di Verhaeren) documenta la rottura tra Pandolfi e Grassi-Strehler subito dopo la fondazione del Piccolo Teatro; sull’episodio, che aiuta a valutare in prospettiva l’esperienza di Rosa e Ballo, insistono anche Meldolesi e Squarzina.
NOTE AL TESTO
(1) Su quel numero di “Pattuglia” e sui suoi risvolti, vedi Meldolesi, Fondamenti, p. 87-94. Per le due riviste, tra l’altro, Giorgio Strehler scrisse diversi articoli e tradusse testi di Cocteau, Appia (Art vivant ou nature morte?) e Apollinaire. Sul rapporto tra i giovani registi e Appia, vedi Meldolesi, Fondamenti, p. 53-54.
(2) Con Ugo Casiraghi, Viazzi curò nel dopoguerra una collana di saggi sul cinema per “Il Poligono”.
(3) Gli elenchi non sono peraltro completi: per esempio, Valgioconda di Nathaniel Hawthorne non ottenne il permesso e tuttavia non risulta in nessuna di queste liste riassuntive; vedi RB 5/27, n. 33.
(4) Vale la pena di ricordare che l’incompiuto Woyzeck venne pubblicato solo nel 1879, 42 anni dopo la morte dell’autore. A Roma nel 1942, dribblando la censura, c’era stata la prima italiana dell’opera di Alban Berg Wozzeck, che aveva suscitato feroci polemiche (se ne avverte l’eco in Alberto Savinio, Scatola sonora, Einaudi, Torino, 1988, pp. 285-292).
(5) Nel 1936 lo scrittore francese era stato al centro di una complessa vicenda censoria, che aveva avuto tra i protagonisti lo stesso Mussolini: vedi Giorgio Fabre, Il fascismo e la censura delle traduzioni, di prossima pubblicazione.
(6) Erano autori in grado di provocare addirittura una “folgorazione” su un altro giovanissimo scrittore, poeta, pittore e drammaturgo, Pier Paolo Pasolini, amico di Alfonso Gatto dagli anni bolognesi e poi contattato da Paolo Grassi che gli chiese di collaborare alle riviste “Eccoci” e “Spettacolo” (vedi Pier Paolo Pasolini, Lettere 1940-1954, a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino, 1986, p. 174); nello sviluppo della poetica pasoliniana fu determinante soprattutto Synge, che gli era noto grazie alla presentazione di Carlo Linati sul “Dramma”, 1° febbraio 1940, n. 323 (vedi Pasolini, Lettere, p. XXXII; e Stefano Casi, I teatri di Pasolini, Ubulibri, Milano, 2005).
(7) Il rapporto della nascente regia con la drammaturgia italiana è uno dei nodi centrali di quel periodo: “Non si è riflettuto abbastanza sul potere acquisto dalla corporazione degli scrittori di teatro nei secondi anni trenta”, Meldolesi, Fondamenti, p. 37; il tema è uno dei Leitmotiv della ricostruzione di Meldolesi.
(8) La prima traduzione italiana di Stanislavskij arrivò nel 1956, da Laterza, grazie a Gerardo Guerrieri. Per Bragaglia, Grassi si riferisce al progetto di una Antologia di Pulcinella (vedi RB 2/12, dove si trovano anche altri interessanti progetti: uno tra tutti, Lo spettacolo sportivo, RB 2/12, n. 3); Bragaglia raccolse i suoi studi con il titolo Pulcinella, Casini, Roma, 1953.
(9) “Grassi lavora anche per la casa editrice Poligono, e a Gianni Brera dà l’incarico di preparare un volume su Molière. Brera, che è partigiano garibaldino, ha nello zaino, in montagna, L’Avaro, Il Tartufo e Il Misantropo, che traduce tra un’azione e l’altra. La prefazione riuscirà a scriverla soltanto dopo il 25 aprile” (Grassi, Quarant’anni, p. 120); il volume uscì per Il Poligono nel 1947.
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