Sono passati solo pochi giorni dall’uscita di ateatro 92, ma nel frattempo sono successe diverse cose. Dunque ecco questo nuovo ateatro 93 molto natalizio (c’è un bel regalo…) e molto militante.
Tanto per cominciare, Harold Pinter ha diffuso il suo discorso di accettazione del Premio Nobel. Ne abbiamo pubblicato alcuni stralci nelle news. Ci sembra un intervento molto importante perché richiama gli artisti alle loro responsabilità politiche e prima ancora etiche.
In secondo luogo, come potete leggere nelle news, per una serie di difficoltà logistiche abbiamo dovuto rinviare la puntata beneventana delle Buone Pratiche.
Ci spiace ovviamente moltissimo. Per una iniziativa autogestita e autofinanziata come le Buone Pratiche sarebbe indispensabile trovare interlocutori seri e affidabili. Se non li troviamo ricominceremo a fare da soli (anzi, se al Sud nessuno ci dà una mano, le Buone Pratiche 2.2 La questione meridionale ve le facciamo a Belluno!!!).
Perché – malgrado Malevento - le Buone pratiche funzionano: vedi Mira e i materiali che abbiamo messo in rete. E il loro patrimonio è un bene di tutti e non può andare disperso a causa della faciloneria di qualcuno.
Nel frattempo è successa una cosa per noi curiosa ed entusiasmante. Alla fine delle Buone Pratiche 2.1. Il teatro come servizio pubblico e come valore, dopo due giornate dense di riflessioni e spunti, avevamo lanciato una campagna perché l’Italia torni a investire in cultura e spettacolo. Perché è necessario in un mondo globalizzato, perché non si può essere stupidi e ricchi per più di due generazioni, perché la cultura e lo spettacolo sono un valore… La nostra ci sembrava una posizione isolata e persino un po’ velleitaria.
L’1% era uno di questi sogni a occhi aperti che sembrano andare contro lo spirito dei tempi, una provocazione lanciata in uno stagno per noi un po’ troppo stagnante (e piuttosto putrefatto).
Invece pochi giorni dopo anche l’Unione ha rilanciato questo sogno, che finora non rientrava – ci pare – nelle promesse elettorali del 2006.
L’onorevole Vittoria Franco, responsabile cultura dei Ds e dell’Unione, ha infatti rilasciato una importante dichiarazione, che potete leggere nelle news: anche Prodi è d’accordo, l’1% alla cultura (e reintegro del FUS). Poco dopo, persino il ministro Buttiglione ha minacciato di dimettersi se il FUS non verrà reintegrato dalla finanziaria.
A questo punto l’impegno di ateatro cambia (e lo rilanceremo e preciseremo in occasione del prossimo incontro sulle Buone Pratiche, a Gallipoli o a Vipiteno…). In primo luogo, se il FUS non verrà reintegrato chiederemo con forza le dimissioni del ministro Buttiglione.
In un secondo tempo, in caso di vittoria dell’Ulivo, tormenteremo l’onorevole Franco e il Presidente Prodi, affinché rispettino il loro impegno elettorale a favore della cultura: non hanno firmato un contratto, perché tra galantuomini non ce n’è bisogno, conta la parola. Inutile aggiungere che qualche idea sul modo di spendere questo 1% ce l’avremo, con il contributo di tutti. Inutile precisare che lo faremo sapere.
Un’ultima novità, che per noi di ateatro è molto importante.
Come avrete intuito dal banner che lampeggia in testa ad ateatro 93 (lo sappiamo che siete furbi furbi…), è online la ate@tropedia. E’ un nuovo modo di consultare il sito. Abbiamo ora (dopo quattro anni di ateatro, epici, esaltanti, indimenticabili! E persino un po’ sexy, grazie a Perfida de Perfidis) nel database oltre 1000 (sì, mille…) tra articoli, saggi, interviste, notizie, recensioni, tesi di laurea, eccetera eccetera. Questa ricchissima banca dati è una vera e propria enciclopedia del teatro contemporaneo, dove però non è semplice orientarsi.
Così abbiamo attivato una nuova struttura informatica che raccoglie per ora alcune centinaia di voci, relative ad artisti, compagnie, teatri, temi eccetera. Per capire la ricchezza di materiali contenuta in ateatro, provate a cliccare su Living Theatre o William Shakespeare , su Motus o Robert Lepage, su Il Patalogo o Pier Paolo Pasolini (e se siete più maliziosi, provate
Silvio B. oppure Karol W…). Sono vere e proprie monografie con numerosi saggi e articoli (e di ottimo livello). A stamparle, queste monografie, spesso ne verrebbero fuori volumi piuttosto corposi, dove s’intrecciano sguardi e pensieri, prospettive e approfondimenti, curiosità e sistematizazioni.
La ate@tropedia è in una versione ancora provvisoria (l’indicizzazione non è ancora completa, & speriamo che il soft non abbia troppi bachi), ma l’idea è questa. Speriamo vi piaccia e vi serva.
Nota per i teorici del web. La ate@tropedia è un ulteriore format di ateatro: era già sito, portale, webzine, rivista, database, forum, locandina, iperblog, teatrolinks, libro, eccetera, e adesso persino enciclopedia… Oltre che i diversi format sono interessati (ci pare) anche le diverse logiche con cui vengono organizzati e presentati i dati. Noi le cose le facciamo senza pensarci troppo su, e dunque a volte non ce ne rendiamo bene conto, ma forse dovremmo essere un po’ più sbruffoni, visto che siamo così bravi!
Non sappiamo quanto ateatro potrà continuare a essere una webzine. Insomma, ci stiamo stufando, abbiamo altre idee e velleità. Perciò non sappiamo quanto potremo continuare a produrre cultura teatrale in rete a questo ritmo (e con questa qualità).
L’idea era di fermarsi al numero 100, che è un bel numero tondo tondo (siamo a -6…). Sia che la piantiamo lì e dunque smettiamo di sfinirvi con la nostra webzine e le nostre mail, sia che proseguiamo a impestare la rete di nuovi materiali, la ate@tropedia resta e resterà nei secoli (si fa per dire, sciocchini! Mica siamo i carabinieri).
Soprattutto la ate@tropedia c’è ed è a disposizione di tutti.
Per concludere, non festeggeremo la Befana a Benevento ma vi abbiamo fatto – ci sembra – un bel regalo. Usatelo, collaudatelo, dateci suggerimenti e contributi. Trovateci uno sponsor. E godetevi uno strepitoso 2006.
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Ci abbiamo provato in tutti i modi, ad arrivare in fondo e a rimediare, ma alla fine non ce l’abbiamo fatta.
Per il momento le Buone Pratiche 2.2 La questione meridionale è sospeso.
All’ultimo momento, dopo una lunghissima trattativa dove tutto pareva risolto, il nostro partner, il Comune di Benevento, ha iniziato a frapporre una serie di difficoltà e proporre rinvii che ci hanno indotto – molto a malincuore – a sospendere l’incontro.
Non chiediamo molto, ci facciamo un mazzo quadro, non chiediamo gran che. Ma chiediamo di condividere il progetto con un minimo di partecipazione. Se non c’è entusiasmo e condivisione, è inutile cercare di forzare la mano.
Si sa, queste cose succedono soprattutto se, come noi, non abbiamo santi in paradiso. E anche se le nostre richieste sono minime.
Ma lo faremo, le Buone Pratiche 2.2 La questione meridionale, parola d’onore. Passata la buriana natalizia, ricominciamo a lavorare per trovare una sede e una data adatti. Se qualcuno ci dà una mano, gliene saremo grati: con idee, suggerimenti, spazi.
Quando abbiamo deciso il rinvio, eravamo ovviamente abbastanza abbattuti. Invece, appena le ho raccontato le nostre tribolazioni, quella perfida di Perfida ha cominciato a sghignazzare, e ha iniziato a fare le sue solite illazioni.
“Carissimo, era evidente. Voi di ateatro ne combinate troppe. Rompete le palle. Non avete santi in paradiso. E soprattutto non avete più il fisico. E poi quella di Benevento mica è una giunta di sinistra...”
“Ma che c’entra? Le Buone Pratiche non è un progetto di destra o di sinistra, e nemmeno la campagna dell1%. Si tratta solo di valorizzare la cultura e lo spettacolo: è un’idea così di sinistra?”
“Oltretutto voialtri siete nordici, tu e la Mimma, e vi avranno considerato dei colonizzatori…”
“Ma Franco è un terrone d.o.c.! Geneticamente e psichicamente meridionale, anche se padanamente modificato. Era lui il nostro Mastella!”
“Che ne sai? Magari quello sciupafemmine ha lasciato qualche cuore infranto, da quelle parti, e qualcuno non lo gradisce tra i piedi…”
“Ma dai, sarà stato tanto tempo fa! Mi sembra che adesso abbia messo la testa a posto.”
“Beh, però non era male… Anche l’ultima volta che l’ho visto, un pensierino…”
“Perfida, è un bel ragazzo…”
“E qualcuno magari non avrà gradito… Gelosia… O forse qualche teatrante avrà pensato che voialtri Buonipraticanti andaste a pestargli i piedi, in qualche loro feudo.”
“Sai che feudi, a Benevento! Non ce ne sono più dai tempi dei longobardi, mi pare… E non credo che finora le Buone Pratiche abbia pestato grandi piedi. Anzi, per me ne pesta troppo pochi. Il teatro italiano? Tutte ottime persone, tutti ottimi praticanti, tutti geni dell’arte e inventori si forme organizzative innovative e così astute… A guardare le Buone Pratiche, le nostre scene sono molto meglio del Paradiso terrestre, molto meglio.”
“Te l’ho già detto, a me le Buone Pratiche fanno venire il latte alle ginocchia. Mi sembrano i fioretti teatrali.”
“Lo so, lo so, cara Perfida, che preferisci le pratiche un po’ efferate, ma cerca di contenerti. Non vorrei che Tremonti mettesse la pornotax anche su ateatro, per merito tuo.”
“Non ti preoccupare: negli ultimi tempi mi sono mantenuta casta e pura.”
“Oddio, che ti è successo? Ti sei innamorata?”
“Niente paura, ho avuto da fare e mi sono rimessa in forma per scatenarmi a Capodanno… Poi ti racconterò…”
“No, grazie, abbiamo già abbastanza guai…”
“Ma la brutta figura l’ha fatta Benevento! E ha perso anche un’ottima occasione per ospitare una iniziativa che ha sempre buon risalto: delle Buone Pratiche di Mira ne hanno parlato molti giornali e riviste, eccetera.”
“Non mi consolare troppo, Perfida, che mi commuovo.”
“E’ che siete troppo tranquillini, ragazzi. Se a Mira aveste organizzato una bella orgetta finale, di quelle che dico io, con veline e veloni, invece di fare tutti quei fioretti…”
“Beh, a Mira, nella Padania Infelix, nel Veneto teatralmente sottosviluppato, le nostre Buone Pratiche le abbiamo fatte e con gran successo. Certo che su al Nord…”
“Dal mio punto di vista al Sud ci sono risorse umane di ottima qualità. A giudicare dalla mia esperienza erotica…”
“Non mi riferivo a quella, Perfida. E basta dire sciocchezze… Sono incazzato e sto cercando di restare serio.”
“Sì, pensa tutti quelli a cui state sulle balle, e sono moltissimi!!! Chissà come si divertono, quando leggono che non fate le Buone Pratiche Sud!”
“Ma ti diverti a tormentarmi? Io voglio capire. Perché c’è un fatto. Se non siamo riusciti a organizzare questa puntata delle Buone Pratiche forse vuol dire che una questione meridionale esiste davvero… Io che speravo tanto nell’orgoglio meridionalista, in uno scatto di dignità. C’era un grande interesse, per questo incontro, davvero, aspettative…”
“Su su, non ti abbattere. Vedrai, sono sicuro che qualcuno si farà vivo e vi offrirà di ospitare l’incontro.”
“Sì, a Belluno!”
“Dai, piantala. Mi stai rompendo, quando fai così mi diventi noioso. Anzi, vuol dire che provo a metterci una parolina anch’io. Mentre mi dedico alle mie buone pratiche…”
“Perfida, occhio alla pornotax!!!”
“Beh, in queste settimane giro un po’ tra Puglia e Sicilia, ho qualche amico, gli spiego che i miei amichetti di ateatro sono così tristi, e mentre lo consolo…”
“Perfida, ma stai consolando anche me! Lasciami stare, non ne ho voglia!”
“Dai, non fare così… Ti sembra una Buona Pratica? Vieni qui vicino vicino, che ti coccolo un po’.”
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Harold Pinter non ha potuto ritirare di persona il Premio Nobel per la Letteratura, assegnato a Stoccolma negli scorsi giorni. Gravemente malato (nel 2002 gli è stato diagnosticato un tumore all’esofago), lo scrittore inglese non ha infatti potuto lasciare Londra; anche lo scorso anno Jelfriede Jelinek aveva dovuto rinunciare a ritirare di persona il prestigioso riconoscimento per motivi di salute.
Il settantacinquenne Harol Pinter ha inviato a Stoccolma un intervento videoregistrato, diffuso il 7 dicembre. Pinter appare provato nel volto e nel fisico, seduto su una sedia a rotelle e con le gambe coperte da un plaid, vestito di nero, senza cravatta ma elegante, come è suo costume.
Il discorso di accettazione del Premio Nobel, intitolato Arte verità e politica, coniuga consapevolezza artistica e impegno politico. Da questo punto di vista, è stato un intervento assai duro e molto critico della poltica estera degli USA.
L’engagement di Pinter non è del resto una novità. La recente monografia - Harold Pinter. Scena e potere (Garzanti, Milano, 2005) - dedicata all’autore del Compleanno e di Vecchi tempi, firmata da Roberto Canziani e Gianfranco Capitta, ripercorre l’intera carriera dl drammaturgo, ma si sofferma – soprattutto nelle 12 interviste esclusive nella seconda parte del volume – proprio sulla produzione e sulle prese di posizione pubbliche di Pinter in questi anni.
Qui di seguito, il testo originale dell’intervento di Harold Pinter e alcuni brani in traduzione italiana.
Harold Pinter – Nobel Lecture
Art, Truth & Politics
In 1958 I wrote the following:
'There are no hard distinctions between what is real and what is unreal, nor between what is true and what is false. A thing is not necessarily either true or false; it can be both true and false.'
I believe that these assertions still make sense and do still apply to the exploration of reality through art. So as a writer I stand by them but as a citizen I cannot. As a citizen I must ask: What is true? What is false?
Truth in drama is forever elusive. You never quite find it but the search for it is compulsive. The search is clearly what drives the endeavour. The search is your task. More often than not you stumble upon the truth in the dark, colliding with it or just glimpsing an image or a shape which seems to correspond to the truth, often without realising that you have done so. But the real truth is that there never is any such thing as one truth to be found in dramatic art. There are many. These truths challenge each other, recoil from each other, reflect each other, ignore each other, tease each other, are blind to each other. Sometimes you feel you have the truth of a moment in your hand, then it slips through your fingers and is lost.
I have often been asked how my plays come about. I cannot say. Nor can I ever sum up my plays, except to say that this is what happened. That is what they said. That is what they did.
Most of the plays are engendered by a line, a word or an image. The given word is often shortly followed by the image. I shall give two examples of two lines which came right out of the blue into my head, followed by an image, followed by me.
The plays are The Homecoming and Old Times. The first line of The Homecoming is 'What have you done with the scissors?' The first line of Old Times is 'Dark.'
In each case I had no further information.
In the first case someone was obviously looking for a pair of scissors and was demanding their whereabouts of someone else he suspected had probably stolen them. But I somehow knew that the person addressed didn't give a damn about the scissors or about the questioner either, for that matter.
'Dark' I took to be a description of someone's hair, the hair of a woman, and was the answer to a question. In each case I found myself compelled to pursue the matter. This happened visually, a very slow fade, through shadow into light.
I always start a play by calling the characters A, B and C.
In the play that became The Homecoming I saw a man enter a stark room and ask his question of a younger man sitting on an ugly sofa reading a racing paper. I somehow suspected that A was a father and that B was his son, but I had no proof. This was however confirmed a short time later when B (later to become Lenny) says to A (later to become Max), 'Dad, do you mind if I change the subject? I want to ask you something. The dinner we had before, what was the name of it? What do you call it? Why don't you buy a dog? You're a dog cook. Honest. You think you're cooking for a lot of dogs.' So since B calls A 'Dad' it seemed to me reasonable to assume that they were father and son. A was also clearly the cook and his cooking did not seem to be held in high regard. Did this mean that there was no mother? I didn't know. But, as I told myself at the time, our beginnings never know our ends.
'Dark.' A large window. Evening sky. A man, A (later to become Deeley), and a woman, B (later to become Kate), sitting with drinks. 'Fat or thin?' the man asks. Who are they talking about? But I then see, standing at the window, a woman, C (later to become Anna), in another condition of light, her back to them, her hair dark.
It's a strange moment, the moment of creating characters who up to that moment have had no existence. What follows is fitful, uncertain, even hallucinatory, although sometimes it can be an unstoppable avalanche. The author's position is an odd one. In a sense he is not welcomed by the characters. The characters resist him, they are not easy to live with, they are impossible to define. You certainly can't dictate to them. To a certain extent you play a never-ending game with them, cat and mouse, blind man's buff, hide and seek. But finally you find that you have people of flesh and blood on your hands, people with will and an individual sensibility of their own, made out of component parts you are unable to change, manipulate or distort.
So language in art remains a highly ambiguous transaction, a quicksand, a trampoline, a frozen pool which might give way under you, the author, at any time.
But as I have said, the search for the truth can never stop. It cannot be adjourned, it cannot be postponed. It has to be faced, right there, on the spot.
Political theatre presents an entirely different set of problems. Sermonising has to be avoided at all cost. Objectivity is essential. The characters must be allowed to breathe their own air. The author cannot confine and constrict them to satisfy his own taste or disposition or prejudice. He must be prepared to approach them from a variety of angles, from a full and uninhibited range of perspectives, take them by surprise, perhaps, occasionally, but nevertheless give them the freedom to go which way they will. This does not always work. And political satire, of course, adheres to none of these precepts, in fact does precisely the opposite, which is its proper function.
In my play The Birthday Party I think I allow a whole range of options to operate in a dense forest of possibility before finally focussing on an act of subjugation.
Mountain Language pretends to no such range of operation. It remains brutal, short and ugly. But the soldiers in the play do get some fun out of it. One sometimes forgets that torturers become easily bored. They need a bit of a laugh to keep their spirits up. This has been confirmed of course by the events at Abu Ghraib in Baghdad. Mountain Language lasts only 20 minutes, but it could go on for hour after hour, on and on and on, the same pattern repeated over and over again, on and on, hour after hour.
Ashes to Ashes, on the other hand, seems to me to be taking place under water. A drowning woman, her hand reaching up through the waves, dropping down out of sight, reaching for others, but finding nobody there, either above or under the water, finding only shadows, reflections, floating; the woman a lost figure in a drowning landscape, a woman unable to escape the doom that seemed to belong only to others.
But as they died, she must die too.
Political language, as used by politicians, does not venture into any of this territory since the majority of politicians, on the evidence available to us, are interested not in truth but in power and in the maintenance of that power. To maintain that power it is essential that people remain in ignorance, that they live in ignorance of the truth, even the truth of their own lives. What surrounds us therefore is a vast tapestry of lies, upon which we feed.
As every single person here knows, the justification for the invasion of Iraq was that Saddam Hussein possessed a highly dangerous body of weapons of mass destruction, some of which could be fired in 45 minutes, bringing about appalling devastation. We were assured that was true. It was not true. We were told that Iraq had a relationship with Al Quaeda and shared responsibility for the atrocity in New York of September 11th 2001. We were assured that this was true. It was not true. We were told that Iraq threatened the security of the world. We were assured it was true. It was not true.
The truth is something entirely different. The truth is to do with how the United States understands its role in the world and how it chooses to embody it.
But before I come back to the present I would like to look at the recent past, by which I mean United States foreign policy since the end of the Second World War. I believe it is obligatory upon us to subject this period to at least some kind of even limited scrutiny, which is all that time will allow here.
Everyone knows what happened in the Soviet Union and throughout Eastern Europe during the post-war period: the systematic brutality, the widespread atrocities, the ruthless suppression of independent thought. All this has been fully documented and verified.
But my contention here is that the US crimes in the same period have only been superficially recorded, let alone documented, let alone acknowledged, let alone recognised as crimes at all. I believe this must be addressed and that the truth has considerable bearing on where the world stands now. Although constrained, to a certain extent, by the existence of the Soviet Union, the United States' actions throughout the world made it clear that it had concluded it had carte blanche to do what it liked.
Direct invasion of a sovereign state has never in fact been America's favoured method. In the main, it has preferred what it has described as 'low intensity conflict'. Low intensity conflict means that thousands of people die but slower than if you dropped a bomb on them in one fell swoop. It means that you infect the heart of the country, that you establish a malignant growth and watch the gangrene bloom. When the populace has been subdued – or beaten to death – the same thing – and your own friends, the military and the great corporations, sit comfortably in power, you go before the camera and say that democracy has prevailed. This was a commonplace in US foreign policy in the years to which I refer.
The tragedy of Nicaragua was a highly significant case. I choose to offer it here as a potent example of America's view of its role in the world, both then and now.
I was present at a meeting at the US embassy in London in the late 1980s.
The United States Congress was about to decide whether to give more money to the Contras in their campaign against the state of Nicaragua. I was a member of a delegation speaking on behalf of Nicaragua but the most important member of this delegation was a Father John Metcalf. The leader of the US body was Raymond Seitz (then number two to the ambassador, later ambassador himself). Father Metcalf said: 'Sir, I am in charge of a parish in the north of Nicaragua. My parishioners built a school, a health centre, a cultural centre. We have lived in peace. A few months ago a Contra force attacked the parish. They destroyed everything: the school, the health centre, the cultural centre. They raped nurses and teachers, slaughtered doctors, in the most brutal manner. They behaved like savages. Please demand that the US government withdraw its support from this shocking terrorist activity.'
Raymond Seitz had a very good reputation as a rational, responsible and highly sophisticated man. He was greatly respected in diplomatic circles. He listened, paused and then spoke with some gravity. 'Father,' he said, 'let me tell you something. In war, innocent people always suffer.' There was a frozen silence. We stared at him. He did not flinch.
Innocent people, indeed, always suffer.
Finally somebody said: 'But in this case “innocent people” were the victims of a gruesome atrocity subsidised by your government, one among many. If Congress allows the Contras more money further atrocities of this kind will take place. Is this not the case? Is your government not therefore guilty of supporting acts of murder and destruction upon the citizens of a sovereign state?'
Seitz was imperturbable. 'I don't agree that the facts as presented support your assertions,' he said.
As we were leaving the Embassy a US aide told me that he enjoyed my plays. I did not reply.
I should remind you that at the time President Reagan made the following statement: 'The Contras are the moral equivalent of our Founding Fathers.'
The United States supported the brutal Somoza dictatorship in Nicaragua for over 40 years. The Nicaraguan people, led by the Sandinistas, overthrew this regime in 1979, a breathtaking popular revolution.
The Sandinistas weren't perfect. They possessed their fair share of arrogance and their political philosophy contained a number of contradictory elements. But they were intelligent, rational and civilised. They set out to establish a stable, decent, pluralistic society. The death penalty was abolished. Hundreds of thousands of poverty-stricken peasants were brought back from the dead. Over 100,000 families were given title to land. Two thousand schools were built. A quite remarkable literacy campaign reduced illiteracy in the country to less than one seventh. Free education was established and a free health service. Infant mortality was reduced by a third. Polio was eradicated.
The United States denounced these achievements as Marxist/Leninist subversion. In the view of the US government, a dangerous example was being set. If Nicaragua was allowed to establish basic norms of social and economic justice, if it was allowed to raise the standards of health care and education and achieve social unity and national self respect, neighbouring countries would ask the same questions and do the same things. There was of course at the time fierce resistance to the status quo in El Salvador.
I spoke earlier about 'a tapestry of lies' which surrounds us. President Reagan commonly described Nicaragua as a 'totalitarian dungeon'. This was taken generally by the media, and certainly by the British government, as accurate and fair comment. But there was in fact no record of death squads under the Sandinista government. There was no record of torture. There was no record of systematic or official military brutality. No priests were ever murdered in Nicaragua. There were in fact three priests in the government, two Jesuits and a Maryknoll missionary. The totalitarian dungeons were actually next door, in El Salvador and Guatemala. The United States had brought down the democratically elected government of Guatemala in 1954 and it is estimated that over 200,000 people had been victims of successive military dictatorships.
Six of the most distinguished Jesuits in the world were viciously murdered at the Central American University in San Salvador in 1989 by a battalion of the Alcatl regiment trained at Fort Benning, Georgia, USA. That extremely brave man Archbishop Romero was assassinated while saying mass. It is estimated that 75,000 people died. Why were they killed? They were killed because they believed a better life was possible and should be achieved. That belief immediately qualified them as communists. They died because they dared to question the status quo, the endless plateau of poverty, disease, degradation and oppression, which had been their birthright.
The United States finally brought down the Sandinista government. It took some years and considerable resistance but relentless economic persecution and 30,000 dead finally undermined the spirit of the Nicaraguan people. They were exhausted and poverty stricken once again. The casinos moved back into the country. Free health and free education were over. Big business returned with a vengeance. 'Democracy' had prevailed.
But this 'policy' was by no means restricted to Central America. It was conducted throughout the world. It was never-ending. And it is as if it never happened.
The United States supported and in many cases engendered every right wing military dictatorship in the world after the end of the Second World War. I refer to Indonesia, Greece, Uruguay, Brazil, Paraguay, Haiti, Turkey, the Philippines, Guatemala, El Salvador, and, of course, Chile. The horror the United States inflicted upon Chile in 1973 can never be purged and can never be forgiven.
Hundreds of thousands of deaths took place throughout these countries. Did they take place? And are they in all cases attributable to US foreign policy? The answer is yes they did take place and they are attributable to American foreign policy. But you wouldn't know it.
It never happened. Nothing ever happened. Even while it was happening it wasn't happening. It didn't matter. It was of no interest. The crimes of the United States have been systematic, constant, vicious, remorseless, but very few people have actually talked about them. You have to hand it to America. It has exercised a quite clinical manipulation of power worldwide while masquerading as a force for universal good. It's a brilliant, even witty, highly successful act of hypnosis.
I put to you that the United States is without doubt the greatest show on the road. Brutal, indifferent, scornful and ruthless it may be but it is also very clever. As a salesman it is out on its own and its most saleable commodity is self love. It's a winner. Listen to all American presidents on television say the words, 'the American people', as in the sentence, 'I say to the American people it is time to pray and to defend the rights of the American people and I ask the American people to trust their president in the action he is about to take on behalf of the American people.'
It's a scintillating stratagem. Language is actually employed to keep thought at bay. The words 'the American people' provide a truly voluptuous cushion of reassurance. You don't need to think. Just lie back on the cushion. The cushion may be suffocating your intelligence and your critical faculties but it's very comfortable. This does not apply of course to the 40 million people living below the poverty line and the 2 million men and women imprisoned in the vast gulag of prisons, which extends across the US.
The United States no longer bothers about low intensity conflict. It no longer sees any point in being reticent or even devious. It puts its cards on the table without fear or favour. It quite simply doesn't give a damn about the United Nations, international law or critical dissent, which it regards as impotent and irrelevant. It also has its own bleating little lamb tagging behind it on a lead, the pathetic and supine Great Britain.
What has happened to our moral sensibility? Did we ever have any? What do these words mean? Do they refer to a term very rarely employed these days – conscience? A conscience to do not only with our own acts but to do with our shared responsibility in the acts of others? Is all this dead? Look at Guantanamo Bay. Hundreds of people detained without charge for over three years, with no legal representation or due process, technically detained forever. This totally illegitimate structure is maintained in defiance of the Geneva Convention. It is not only tolerated but hardly thought about by what's called the 'international community'. This criminal outrage is being committed by a country, which declares itself to be 'the leader of the free world'. Do we think about the inhabitants of Guantanamo Bay? What does the media say about them? They pop up occasionally – a small item on page six. They have been consigned to a no man's land from which indeed they may never return. At present many are on hunger strike, being force-fed, including British residents. No niceties in these force-feeding procedures. No sedative or anaesthetic. Just a tube stuck up your nose and into your throat. You vomit blood. This is torture. What has the British Foreign Secretary said about this? Nothing. What has the British Prime Minister said about this? Nothing. Why not? Because the United States has said: to criticise our conduct in Guantanamo Bay constitutes an unfriendly act. You're either with us or against us. So Blair shuts up.
The invasion of Iraq was a bandit act, an act of blatant state terrorism, demonstrating absolute contempt for the concept of international law. The invasion was an arbitrary military action inspired by a series of lies upon lies and gross manipulation of the media and therefore of the public; an act intended to consolidate American military and economic control of the Middle East masquerading – as a last resort – all other justifications having failed to justify themselves – as liberation. A formidable assertion of military force responsible for the death and mutilation of thousands and thousands of innocent people.
We have brought torture, cluster bombs, depleted uranium, innumerable acts of random murder, misery, degradation and death to the Iraqi people and call it 'bringing freedom and democracy to the Middle East'.
How many people do you have to kill before you qualify to be described as a mass murderer and a war criminal? One hundred thousand? More than enough, I would have thought. Therefore it is just that Bush and Blair be arraigned before the International Criminal Court of Justice. But Bush has been clever. He has not ratified the International Criminal Court of Justice. Therefore if any American soldier or for that matter politician finds himself in the dock Bush has warned that he will send in the marines. But Tony Blair has ratified the Court and is therefore available for prosecution. We can let the Court have his address if they're interested. It is Number 10, Downing Street, London.
Death in this context is irrelevant. Both Bush and Blair place death well away on the back burner. At least 100,000 Iraqis were killed by American bombs and missiles before the Iraq insurgency began. These people are of no moment. Their deaths don't exist. They are blank. They are not even recorded as being dead. 'We don't do body counts,' said the American general Tommy Franks.
Early in the invasion there was a photograph published on the front page of British newspapers of Tony Blair kissing the cheek of a little Iraqi boy. 'A grateful child,' said the caption. A few days later there was a story and photograph, on an inside page, of another four-year-old boy with no arms. His family had been blown up by a missile. He was the only survivor. 'When do I get my arms back?' he asked. The story was dropped. Well, Tony Blair wasn't holding him in his arms, nor the body of any other mutilated child, nor the body of any bloody corpse. Blood is dirty. It dirties your shirt and tie when you're making a sincere speech on television.
The 2,000 American dead are an embarrassment. They are transported to their graves in the dark. Funerals are unobtrusive, out of harm's way. The mutilated rot in their beds, some for the rest of their lives. So the dead and the mutilated both rot, in different kinds of graves.
Here is an extract from a poem by Pablo Neruda, 'I'm Explaining a Few Things':
And one morning all that was burning,
one morning the bonfires
leapt out of the earth
devouring human beings
and from then on fire,
gunpowder from then on,
and from then on blood.
Bandits with planes and Moors,
bandits with finger-rings and duchesses,
bandits with black friars spattering blessings
came through the sky to kill children
and the blood of children ran through the streets
without fuss, like children's blood.
Jackals that the jackals would despise
stones that the dry thistle would bite on and spit out,
vipers that the vipers would abominate.
Face to face with you I have seen the blood
of Spain tower like a tide
to drown you in one wave
of pride and knives.
Treacherous
generals:
see my dead house,
look at broken Spain:
from every house burning metal flows
instead of flowers
from every socket of Spain
Spain emerges
and from every dead child a rifle with eyes
and from every crime bullets are born
which will one day find
the bull's eye of your hearts.
And you will ask: why doesn't his poetry
speak of dreams and leaves
and the great volcanoes of his native land.
Come and see the blood in the streets.
Come and see
the blood in the streets.
Come and see the blood
in the streets!*
Let me make it quite clear that in quoting from Neruda's poem I am in no way comparing Republican Spain to Saddam Hussein's Iraq. I quote Neruda because nowhere in contemporary poetry have I read such a powerful visceral description of the bombing of civilians.
I have said earlier that the United States is now totally frank about putting its cards on the table. That is the case. Its official declared policy is now defined as 'full spectrum dominance'. That is not my term, it is theirs. 'Full spectrum dominance' means control of land, sea, air and space and all attendant resources.
The United States now occupies 702 military installations throughout the world in 132 countries, with the honourable exception of Sweden, of course. We don't quite know how they got there but they are there all right.
The United States possesses 8,000 active and operational nuclear warheads. Two thousand are on hair trigger alert, ready to be launched with 15 minutes warning. It is developing new systems of nuclear force, known as bunker busters. The British, ever cooperative, are intending to replace their own nuclear missile, Trident. Who, I wonder, are they aiming at? Osama bin Laden? You? Me? Joe Dokes? China? Paris? Who knows? What we do know is that this infantile insanity – the possession and threatened use of nuclear weapons – is at the heart of present American political philosophy. We must remind ourselves that the United States is on a permanent military footing and shows no sign of relaxing it.
Many thousands, if not millions, of people in the United States itself are demonstrably sickened, shamed and angered by their government's actions, but as things stand they are not a coherent political force – yet. But the anxiety, uncertainty and fear which we can see growing daily in the United States is unlikely to diminish.
I know that President Bush has many extremely competent speech writers but I would like to volunteer for the job myself. I propose the following short address which he can make on television to the nation. I see him grave, hair carefully combed, serious, winning, sincere, often beguiling, sometimes employing a wry smile, curiously attractive, a man's man.
'God is good. God is great. God is good. My God is good. Bin Laden's God is bad. His is a bad God. Saddam's God was bad, except he didn't have one. He was a barbarian. We are not barbarians. We don't chop people's heads off. We believe in freedom. So does God. I am not a barbarian. I am the democratically elected leader of a freedom-loving democracy. We are a compassionate society. We give compassionate electrocution and compassionate lethal injection. We are a great nation. I am not a dictator. He is. I am not a barbarian. He is. And he is. They all are. I possess moral authority. You see this fist? This is my moral authority. And don't you forget it.'
A writer's life is a highly vulnerable, almost naked activity. We don't have to weep about that. The writer makes his choice and is stuck with it. But it is true to say that you are open to all the winds, some of them icy indeed. You are out on your own, out on a limb. You find no shelter, no protection – unless you lie – in which case of course you have constructed your own protection and, it could be argued, become a politician.
I have referred to death quite a few times this evening. I shall now quote a poem of my own called 'Death'.
Where was the dead body found?
Who found the dead body?
Was the dead body dead when found?
How was the dead body found?
Who was the dead body?
Who was the father or daughter or brother
Or uncle or sister or mother or son
Of the dead and abandoned body?
Was the body dead when abandoned?
Was the body abandoned?
By whom had it been abandoned?
Was the dead body naked or dressed for a journey?
What made you declare the dead body dead?
Did you declare the dead body dead?
How well did you know the dead body?
How did you know the dead body was dead?
Did you wash the dead body
Did you close both its eyes
Did you bury the body
Did you leave it abandoned
Did you kiss the dead body
When we look into a mirror we think the image that confronts us is accurate. But move a millimetre and the image changes. We are actually looking at a never-ending range of reflections. But sometimes a writer has to smash the mirror – for it is on the other side of that mirror that the truth stares at us.
I believe that despite the enormous odds which exist, unflinching, unswerving, fierce intellectual determination, as citizens, to define the real truth of our lives and our societies is a crucial obligation which devolves upon us all. It is in fact mandatory.
If such a determination is not embodied in our political vision we have no hope of restoring what is so nearly lost to us – the dignity of man.
Extract from "I'm Explaining a Few Things" translated by Nathaniel Tarn, from Pablo Neruda: Selected Poems, published by Jonathan Cape, London 1970. Used by permission of The Random House Group Limited.
Alcuni stralci del testo di Harold Pinter in traduzione italiana
Non ci sono distinzioni rigide tra ciò che è reale e ciò che è irreale, tra ciò che è vero e ciò che è falso. Una cosa non è necessariamente vera o falsa, può essere insieme vera e falsa.
Io penso che questa affermazione abbia ancora senso e si possa ancora applicare alla esplorazione della realtà attraverso l’arte. Lo posso fare come scrittore, ma come cittadino non posso! Come cittadino devo chiedermi cosa è vero? Cosa è falso?
La maggioranza di coloro che fanno la politica non è interessata a questo tipo di problemi, né alla verità, ma al potere e al suo mantenimento. Per mantenerlo è essenziale che la gente rimanga nell'ignoranza, ignoranza della verità, della verità della vita stessa. Un arazzo di bugie ci circonda. Di esse, noi ci nutriamo.
(…)
L'invasione dell'Iraq è stato un atto banditesco, un atto di volgare terrorismo di Stato, che dimostra un disprezzo assoluto per il concetto di diritto internazionale. L'invasione è stata un'azione militare arbitraria ispirata da una serie di bugie e da una grandiosa manipolazione dei mezzi di informazione e dunque del pubblico… Abbiamo portato la tortura, le bombe a frammentazione, l'uranio impoverito, innumerevoli atti di omicidio casuale, miseria, degrado e morte al popolo iracheno e abbiamo chiamato tutto questo “portare la libertà e la democrazia”.
In Iraq abbiamo invece portato tortura, bombe a frammentazione, uranio impoverito, innumerevoli e casuali atti omicidi, miseria, degrado e morte e abbiamo chiamato tutto questo “portare la libertà e la democrazia".
L'invasione dell'Iraq è stato un atto banditesco, un atto palese di terrorismo di Stato, che dimostra assoluto disprezzo per il concetto di diritto internazionale. L'invasione è stata un'azione militare arbitraria ispirata da una serie di bugie e da una gigantesca manipolazione dei mezzi di informazione e quindi del pubblico.
(…)
Quante persone dovrete uccidere prima di essere considerati gli autori di un massacro o criminali di guerra? Di conseguenza è giusto che Bush e Blair siano portati davanti a un tribunale internazionale di giustizia.
(…)
Serve una salda determinazione intellettuale per definire ciò che è vero nelle nostre vite e nelle nostre società. Si tratta di un mandato cruciale.
Se questa determinazione non si incarna nella nostra visione politica, non abbiamo nessuna speranza di recuperare ciò che altrimenti è definitivamente perso: la dignità dell'uomo.
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Triangolo scaleno teatro
Via dei Latini,4
00185 Roma
tel/fax: 06/444.12.18
teatrinvisibili
convegno
11,12,13 gennaio 2006/teatro palladium
tre giorni di incontri, discussioni, scambi tra/con/sul teatro indipendente di Roma e Provincia
L’idea di condurre un’azione di monitoraggio del teatro indipendente di Roma e della Provincia, di gettare uno sguardo attento a questo territorio, di rivolgere lo sguardo del teatrante, spesso e troppo spesso volto all’interno della sua soggettività, al panorama artistico, non a quello visibile e scoperto (che pure sarebbe interessante andare ad indagare a livelli diversi) ma a quello che lavora e produce nella quasi più totale invisibilità, è frutto di componenti diverse:
- l’appartenenza a questo territorio:
il triangolo scaleno è “invisibile” su Roma dal 1991;
- la gestione di uno spazio teatrale:
nell’ultimo triennio il triangolo scaleno ha portato la quasi totalità della sua progettualità all’interno dello Strike spazio pubblico autogestito, conducendovi un’attività di produzione, ospitalità per prove e spettacoli di altre realtà, romane e non, e didattica, promovendo i propri laboratori e ospitando altri nell’ottica di un incrocio sempre desiderato e mai possibile tra allievi e maestri;
- l’incontro con l’Assessorato alle Politiche giovanili della Provincia di Roma:
la partecipazione ai focus group dell’Assessorato alle Politiche Giovanili e ad alcuni incontri ha stimolato la trasformazione di un ragionamento in progetto, nella speranza che proprio l’istituzione potesse diventare referente di una battaglia per i diritti di un’intera fascia di popolazione.
Queste tre componenti sono risultate determinanti e, nel tempo, si sono intrecciate con le esigenze più personali, con la necessità del cambiamento, con la necessità che il nostro lavoro si andasse ad incrociare con la società civile e svolgesse un compito capace di collaborare alla ricostruzione di una speranza.
L’Assessorato ha deciso di finanziare il nostro progetto e noi abbiamo cominciato la ricerca.
L’intento non era, fin dall’inizio, statistico. Volevamo sentire il polso del teatro, incontrare i progetti, le idee, i desideri, le persone… capire se davvero questo nostro territorio è così consunto e sterile come ci è capitato di sentir sostenere da chi lo osserva da fuori. Roma, la metropoli che suscita esigenze e moltiplica le reazioni; non potevamo credere che proprio qui, nel pieno della nostra contemporaneità, caotica e dispersa, proprio qui il teatro soffrisse della mancanza di idee degne di una vita più ampia. Non potevamo credere alle selezioni degli ultimi premi nazionali in cui le realtà romane erano sempre pochissime e in generale girava voce che fosse meglio presentarsi come appartenenti ad una qualsiasi provincia, anche del sud, piuttosto che dichiarare di essere di Roma. E facevamo bene a non crederci perché in realtà questo territorio è ricchissimo. Solo che qui saltare la soglia dall’invisibilità alla visibilità è decisamente molto più difficile che altrove.
Una ricerca affannosa quella che ha caratterizzato il nostro lavoro nel periodo marzo-giugno 2005, una ricerca che ha portato alla conoscenza di realtà radicate, operanti da anni e del tutto ignote, a noi, ad altri e ai più, di realtà nuove, di singoli artisti, di spazi privati. Insomma di un mondo teatrale sommerso produttivo, operante, che crea, alimenta e costruisce la cultura dell’intera città.
Un vero viaggio di scoperta. Spesso ci siamo persi nella lettura delle presentazioni e delle storie che ognuna di queste realtà ha ritenuto di doverci raccontare, un pezzo della loro vita artistica nella sintesi di poche cartelle scritte con cura, foto, elenchi di progetti, desideri, idee, programmazioni, curricula…
La scoperta più sconvolgente è stato constatare il fluire di un’enorme quantità di idee. Idee, un bene prezioso che nel teatro ufficiale sta scomparendo. Il teatro invisibile ha un’infinità di idee. A volte non ha soldi né strumenti per realizzarle, a volte le realizza con i soldi e gli strumenti che ha e quindi difficilmente le realizza in pieno. E anche quando avviene il miracolo e le realizza in pieno, poche centinaia di spettatori potranno godere dell’elaborazione minuziosa, colta, spesso capillare che il teatro invisibile, con una generosità e una vera urgenza di raccontare se stesso e il mondo, produce.
Parlando con critici, teatranti affermati spesso è venuto fuori che il mondo teatrale sommerso è bene che rimanga sommerso perché di fatto porta avanti poetiche, elaborazioni e produce spettacoli inutili, nel senso che non portano nulla di nuovo nel panorama teatrale. Se qualcuno di loro conduce realmente una ricerca innovativa prima o poi emerge. Come se non fosse noto a tutti che le condizioni in cui il processo di crescita di un artista, di un gruppo determinano il suo futuro artistico. Spesso non è il valore artistico a determinare l’emersione di un artista o di un gruppo. Lo stato di totale disattenzione in cui un intero territorio produttivo opera e produce non può essere avallato da un semplice principio estetico, traballante anch’esso. Uno stato democratico deve garantire pluralismo, deve concedere occasioni e opportunità di crescere e confrontarsi e soprattutto un’amministrazione cittadina, provinciale o regionale che sia deve valorizzare ciò che il tessuto artistico del suo territorio produce.
L’attenzione da parte delle istituzioni è, nel migliore dei casi, stagionale: vedi la stagione di Enzimi. Più spesso sono strutture private, vedi Cometa off, Colosseo, Orologio e più di tutti il Teatro Furio Camillo che si aprono al territorio offrendo loro occasioni.
L’indagine
Avremmo dovuto limitarci alle zone indicate nel primo progetto. Non è stato così. E non poteva essere così. Il teatro ha una natura liquida, collocarlo in una zona o in un’altra non è solo difficile, è riduttivo. La città sta viaggiando verso nuove forme, assume nuove facce e le reti, ormai consolidate non soltanto nei movimenti ma anche nell’ambito artistico e teatrale nello specifico, trasformano la possibilità di lettura di un territorio. Avremmo voluto dividere in categorie gli artisti che hanno voluto darci i loro materiali. Ma ci siamo resi conto che dividere e categorizzare un territorio che è in continuo mutamento, che di progetto in progetto, modifica l’ensemble, il cast, che scambia collaborazioni e materiali, che ricicla se stesso e diventa creatore e organizzatore e promotore, offre una fotografia poco aderente alla situazione reale.
Cosa dimostra questa nostra ricerca? Apre domande e chiede a gran forza l’inizio di una nuova epoca.
Da dove nasce tutto questo teatro? Dal desiderio di altro, ma quasi sempre, anche se è un processo che collettivizza gli individui, nasce da un individuo o da due che non riescono più a tenere per sé le immagini e le storie che hanno in testa. In tutte le realtà monitorate c’è sempre un regista, o un drammaturgo è con lui/lei che parli, è lui/lei che ti spiega su cosa lavorano. Ti raccontano la loro urgenza. Dietro di loro una moltitudine. Questo popolo invisibile che opera nella cultura della nostra città, lo fa non perché pagato, lo fa senza uno stipendio e senza un riconoscimento per anni, a volte per decenni. Lo fa perché non può non farlo. E con il loro lavoro arricchiscono il tessuto culturale della città e affrontano le selezioni di sporadici premi, le lunghe anticamere nei teatri ufficiali, sognando il salto in avanti (nel circuito ufficiale?), e continuano a lavorare, progettare, a cercare poche risorse che possano dare forma e vita al teatro che amano.
Abbiamo incontrato tante persone, abbiamo parlato con loro, scambiato impressioni.
Roma e la sua provincia sono un cantiere infinito, un cantiere aperto di gente che lavora sui suoi limiti perché un giorno possa meritare di poter essere visibile, dimenticando che siamo la nazione in cui la meritocrazia ha la percentuale più bassa in Europa. Ci offende da vicino l’immagine che, nel resto del Paese, si ha del nostro territorio: “un buco nero in cui nulla si muove e da cui nulla emerge”. Sappiamo che a Roma, più che altrove, emergere è difficile e in alcuni tratti storici, come l’attuale, praticamente impossibile. Inutile dilungarsi sulle responsabilità e sulla disattenzione che ha condotto a tale situazione. Utile invece confermare la volontà, come Triangolo scaleno, di dare il nostro contributo per contrastare lo stato delle cose e suscitare attenzione intorno al mondo teatrale sotterraneo di Roma e provincia e fare quanto è in nostro potere per sostenerlo.
Il colonialismo della demeritocrazia ha percepito il talento come elemento pericoloso e sovversivo, quindi da esautorare, da distruggere. Respinti dall’ambiente e allontanati dal mestiere, coloro che nella testa portavano effettivamente una parola nuova sono scomparsi e ormai irrecuperabili. Questo è il risultato di una terribile e alla lunga autolesionistica operazione di macelleria generazionale e di un attacco alla democrazia che s’è rivelato alla fine più efficace dello stesso ventennio fascista. La scarsità di talenti nel teatro italiano, anzi per meglio dire la loro invisibilità, è speculare alla crisi di tutta la nostra società, delle fabbriche di automobili, della scuola, delle università, della ricerca scientifica e tecnologica, della vita politica, dei mass-media e dell’informazione, del tessuto industriale, del sistema infrastrutturale, dell’organizzazione statale e chi più si guarda intorno più ne metta. Per questo lo studio commissionato dalla Provincia è un’ottima cosa: per ricominciare, per ricostruire una vita teatrale degna, bisogna pur individuare dove stanno i sopravvissuti e i nuovi nati.
MARCANTONIO LUCIDI
Roma, luglio 2005
teatrinvisibili
convegno
Il progetto teatrinvisibili, azione di monitoraggio del teatro indipendente di Roma e Provincia, realizzato dal triangolo scaleno teatro con il contributo dell’Assessorato alle Politiche Giovanili della Provincia di Roma, ha portato al censimento di circa 130 realtà teatrali del territorio e ha messo in luce le difficoltà e le condizioni in cui tali realtà operano, sopraffatte dall'assenza di risorse, dalla carenza di spazi, dall'impossibilità di emergere dall'invisibilità. Il progetto ha prodotto, oltre ad una rassegna teatrale, contesto vitale in cui abbiamo potuto incontrare gli altri artisti, un libro/guida, in cui ognuna delle realtà ha scelto la modalità di raccontarsi e un dvd che raccoglie ed intreccia alcune interviste. L'immagine che emerge denuncia una situazione allarmante, una chiusura che impedisce la crescita e la circolazione della cultura teatrale e al tempo stesso indica la nascita di un nuovo tessuto culturale e sociale che inventa modelli e, attraverso la sperimentazione, modifica il tradizionale modo di concepire la produzione e la distribuzione teatrale. Il triangolo scaleno teatro con il sostegno della Provincia di Roma - Assessorato alle Politiche Giovanili e Assessorato alle Politiche culturali, intende rilanciare l’iniziativa.
Avevamo concluso la prima fase del lavoro sul teatro indipendente del territorio di Roma e Provincia chiedendo attenzione.
Proponiamo ora di creare uno spazio e un tempo di discussione: un convegno di tre giorni in cui far incontrare i soggetti, le istituzioni, gli uomini che lavorano, vivono, operano, fanno teatro e cultura nel territorio, un momento politico che possa suscitare attenzione sulla situazione della politica culturale nella città di Roma.
Incontrarsi e parlarne non è la soluzione ma è la prima occasione di riconoscimento di esistenza per tutti noi teatrinvisibili.
calendario
11 gennaio ore 16,30
apertura della Vice Presidente-Assessore alle Politiche Giovanili Rosa Rinaldi
Vincenzo Vita (Assessore alla Cultura della Provincia di Roma)- intervista video
triangolo scaleno teatro: presentazione dell’indagine teatrinvisibili: tematiche e problematiche
proiezione video
Interventi
Luisa Severi (Rialto Santambrogio)
Graziano Graziani (ZTL)
Andrea Felici (Teatro Furio Camillo)
Giovanna Marinelli Comune di Roma – Assessorato alla cultura
Giovanna Pugliese – Comune di Roma
Ciarravano – Assessorato alla Cultura Regione Lazio
Alessandra Tibaldi – Assessorato alle Politiche Giovanili Regione Lazio
Luigi Nieri (Regione Lazio)
Giuliana Pietroboni (Assessorato alla Cultura-Provincia di Roma)
Rem&Cap (compagnia romana storica del teatro di ricerca)
Marcantonio Lucidi (critico teatrale)
Teatrinvisibili prima generazione Andrea Cosentino e Roberto Biselli
Patrizia Sentinelli
Umberto Marroni (Consigliere Comunale)
Area 06
Roberta Agostini (Commissione Cultura della Provincia di Roma)
Presidente Caradonna (V Municipio)
Rosa Rinaldi (Vice Presidente-Assessore alle Politiche Giovanili della Provincia di Roma)
Partecipanti alla discussione
Le compagnie, i gruppi e gli artisti del teatro indipendente del territorio di Roma e Provincia
Assessori alla Cultura e Assessori alle Politiche Giovanili dei Comuni della Provincia di Roma
Direttori dei Teatri dei Comuni della Provincia di Roma
Assessore alla Cultura del Comune di Roma
ore 20,00 aperitivo
ore 21,00 spettacolo “Il castello” compagnia teatrale Triangolo scaleno teatro
12 gennaio ore 16,30
apertura della Vice Presidente-Assessore ala Politiche Giovanili Rosa Rinaldi
Interventi
Presidente Smeriglio (XI Municipio)
Oberdan Forlenza - Teatro di Roma
Alessandro Berdini - ATCL
Massimo Paganelli - Armunia
Pietro Valenti – Ert
Onofrio Cutaia (progetto Sud – Teatro Mercadante di Napoli)
Maurizio Barletta (Assessorato alla Cultura della Provincia di Roma)
Giorgio Barberio Corsetti
Giuseppe Ferrazza Marco Giorgetti – ETI
Giancarlo Nanni - Teatro Vascello
Ulisse Benedetti – Beat 72
Direttrice Artistica della Fondazione Romaeuropafestival
Danilo Eccher (Macro)
Paolo Colombo (Maxi)
Auditorium (Gaia Morrione)
Partecipanti alla discussione
Le compagnie, i gruppi e gli artisti del teatro indipendente del territorio di Roma e Provincia
Presidenti e responsabili cultura dei Municipi di Roma
Responsabili alla Cultura dei Comuni della Provincia di Roma
ore 20,00 aperitivo
ore 21,00 spettacolo “Il castello” compagnia teatrale Triangolo scaleno teatro
13 gennaio ore 16,30
Interventi
Prof. Franco Ruffini (Università degli Studi di Roma Tre- DAMS)
Prof. Giancarlo Sammartano (Università di Roma Tre - DAMS)
Oliviero Ponte di Pino (Redazione di ateatro)
Direttrice Artistica della Fondazione Romaeuropafestival
Arch. Alessandro D’Onofrio
Prof. Canevacci
Luca Vitone (Lima – Xing)
Fondazione Olivetti
Cecilia Casorati (Accademia di Belle Arti)
Fiorella Mannoia
Assessorato alle Politiche Giovanili: una rassegna per i teatrinvisibili
discussione aperta con le compagnie teatrali indipendenti del territorio di Roma e Provincia
ore 20,00 aperitivo
ore 21,00 spettacolo “il castello” compagnia teatrale Triangolo scaleno teatro
in collaborazione con
ZTL
Teatro indipendente
Il fermento c’è, progressivo ed incessante. Si fa largo chiedendo permesso, in modo non rumoroso ma deciso. E’ la risposta tangibile ed autentica che un certo modo di gestire il teatro e lo spettacolo ha fatto il suo tempo, non piace più, è deleterio, ha l’obbligo, per forza di cose e di natura, di lasciare spazio ed aria a chi ha nuove idee, da dire o da ribadire. Come avviene per gli accadimenti importanti, il fenomeno cresce a dismisura, nonostante l’apparente indifferenza che lo circonda, per poi, una volta gigantesco, obbligare a tenerne conto. Tutto questo è TEATRO INDIPENDENTE. Poco incline al certo e al dato, più propenso a lasciare voce e spazio a chi sente qualcosa da dire e da rappresentare.
Francesca Pistoia
www.visum.it
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