Teatro del terrore teatro dell'amore L'editoriale di ateatro 89 di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and1 La proposta di legge fai-da-te per il teatro Una Buona Pratica di ateatro in vista delle Buone Pratiche 2/2005 di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and3 Il fotoromanzo della Buone Pratiche 2.1 Tutto quello che dovete sapere sull'incontro di Mira (e non avete mai osato chiedere) di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and4 Libera nos alle Buone Pratiche 2.1 La scheda dello spettacolo di Antonia Spaliviero http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and5 Reality show con terrore: risorge a Milano il teatro di massa L'esercitazione anti-terrorismo del 24 settembre coinvolge centinaia di attori e l'intera cittadinanza di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and7 Tom, Ilion, Malina e Hanon sulla tomba di Julian Beck (con una poesia di Dacia Maraini) Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Hanon Reznikov http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and8 Il corpo gioioso del Living Theatre... ...e il corpo ologramma del Terzo Millennio di Cathy Marchand http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and9 Entrare in scena Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Fernando Mastropasqua http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and10 L'archivio del Living all'ORSA di Torino. Una intervista a Edoardo Fadini Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and11 La visione di Antigone Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Laura Sansalone http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and12 Enigmas del Living Theatre Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Carola Savoia http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and13 Judith Malina e Hanon Reznikov in Italia per celebrare Julian Beck Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#14 Kol Beck – Living Strings: un omaggio radiofonico al Living Theatre Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Roberto Paci Dalò http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and15 Cinque foto di Julian Beck (& il Living Theatre nell'Enciclopedia di ateatro) Dedicato a Julian Beck di Redazione ateatro (& manythanks to Dirk Szousies) http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#16 Italiani cìncali: Mario Perrotta tra narrazione e personaggio Una mail di Oliviero Ponte di Pino http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and31 Una via d'uscita dalla narrazione? Una riposta a Oliviero Ponte di Pino su Italiani cìncali di Mario Perrotta http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and32 La narrazione teatrale Una breve nota di Nevio Gàmbula http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and33 Teatro Madre nel Tardo Mafioso Impero Nino Gennario nella lettura-spettacolo di Massimo Verdastro di Andrea Balzola http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and40 Le recensioni di ateatro: i finalisti del Premio Scenario 2005 “Altre scene 05 - lampi di teatro e danza” a Roma di Elena Lamberti http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and46 La meglio gioventù della drammaturgia italiana? I vincitori della 48a edizione del Premio Riccione di Chiara Alessi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and47 Le recensioni di ateatro: Tre pezzi facili per l'Accademia degli Artefatti La trilogia di Martin Crimp di Elena Lamberti http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and48 Beckett&Puppet Il bando di concorso di CTA Gorizia http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and80 I teatri delle diversità, sesta edizione A Cartoceto il 15 e 16 ottobre di Teatri delle diversità http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and81 L'Odin Teatret a Gallipoli Dal 30 settembre al 13 ottobre di Odin Teatret http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and82 Teatro: il caso Milano Un incontro in occasione della pubblicazione di Il teatro possibile di Mimma Gallina di Ufficio Stampa FrancoAngeli http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and83 Il Malafestival a Torino Due tornate a ottobre e novembre di Malafestival http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and86 I nuovi talenti del Premio Riccione I vincitori della edizione numero 48 di Riccione Teatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and87 I corpi finti Le "sculture di tessuto" in mostra a Palermo di Elisa Nicolaci http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and90 Remondi & Caporossi a Torino Me & Me al Teatro Juavarra di Teatro Juvarra http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and92 Il teatro e le guerre di religione In convegno a Roma di Centro Studi sul Teatro Medievale e Rinascimentale http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro89.htm#89and99
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Teatro del terrore teatro dell'amore L'editoriale di ateatro 89 di Redazione ateatro |
E’ successo un po’ per caso, mentre impaginavamo ateatro 89. Una foto delle esercitazioni anti-terrorismo che angosciano in queste settimane le nostre città (con centinaia di comparse, decine di truccatori e mirabolanti effetti speciali). E una foto con Julian Beck e Judith Malina, “Make Love Not War”. Lo spettacolo della paura e lo spettacolo dell’utopia. Lo spettacolo dell’amore e lo spettacolo della violenza. Tra quelle due foto ci sono quarant’anni, più o meno. Dovrebbe essere lo stesso mondo. Doveva essere un mondo migliore. Invece è un altro pianeta. E’ da questo pianeta è come se fosse scomparso uno degli elementi chimici che compongono le nostre anime. Quell’elemento che si chiama (o forse si chiamava) speranza.
Anche per questo – per ricordare che la speranza esiste e resiste – siamo orgogliosi di aver dedicato questi due numeri di ateatro a Julian Beck e al Living Theatre. E siamo ancora più orgogliosi perché Fernando e Anna Maria, che hanno curato questo speciale “Dedicato a Julian Beck”, hanno anche organizzato un piccolo tour di Judith Malina e del suo Living. Un tour, va sottolineato, auto-organizzato e auto-finanziato con alcuni amici e organizzazione (compreso ateatro: possiamo garantire che siamo tornati all’era della colletta) – e finora, per esempio, senza che le università italiane ci abbiano messo una lira (anche se il nome amano metterlo, pare).
Avrete già capito che in questo ateatro 89 c’è molto Living Theatre: con diversi testi dei membri del gruppo e due meticolose analisi di spettacolo, l’antico (ormai) Antigone e il recente Enigmas.
Ma c’è molto altro, in questo ateatro 89. Tanto per cominciare, nuove imperdibili info sulle Buone Pratiche 2.1, che si terranno a Mira il 13 e 14 novembre (e cominciate a iscrivervi e a mandare le vostre Buone Pratiche, se ne avete). Online, a proposito di BP2, trovate già due servizi-culto. Per cominciare il Fotoromanzo delle Buone Pratiche 2.1, con tutte le indicazioni pratiche (e molto altro…) E poi Il progetto di legge per il teatro di ateatro, al quale potete partecipare anche voi. Anzi, qualcuno ha già mandato i suoi articoli ed emendamenti: li potete leggere nell’effervescente Forum di ateatro Fare un teatro di guerra? Nuovo Teatro Vecchie Istituzioni, con gli ultimi aggiornamento sui tagli del FUS e sulle mobilitazione del mondo dello spettacolo e della cultura. Insomma, come resistere alla tentazione di fare il legislatore? Naturalmente senza fare troppo sul serio…
E poi…
E poi, andatevelo a leggere, questo ricchissimo ateatro 89, pieno di notizie, segnalazioni, recensioni, anticipazioni.
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La proposta di legge fai-da-te per il teatro Una Buona Pratica di ateatro in vista delle Buone Pratiche 2/2005 di Redazione ateatro |
Sono sessant’anni che il teatro italiano aspetta una legge che regoli il settore.
Ah, se ci fosse una legge per il teatro! Così necessaria, e dunque puntualmente promessa dai politici, legislatura dopo legislatura...
Ah, se ci fosse una legge per il teatro! Anticipata da decine di progetti, che vengono annunciati in roboanti convegni, articolati e declinati, e poi affinati in estenuanti mediazioni tra forze politiche ed enti locali… E infine tutti ¬- quello dell’oscuro deputato e quello del grande teatrante, quello del burocrate del partito di massa e quello della soubrette prestata alla politica -¬ invariabilmente abortiti e ignominiosamente sprofondati nell’inferno delle buone intenzioni…
Ah, se ci fosse una legge per il teatro! Surrogata anno dopo anno dalla famigerata circolare e dagli ancora piu malfamati regolamenti, terreno di scontro e mercanto nei corridoi del ministero…
Ah, se ci fosse una legge per il teatro!
(A proposito: bisogna davvero approvarla al più presto, una bella legge per il teatro, adesso che le competenze in materia stanno passando alle Regioni: altrimenti sarà davvero un gran casino!!! Ma i nostri politici forse sperano di finire nei guai per omissione di atti d’ufficio.)
Beh, se ce la facessimo noi, la nostra legge? Noi di ateatro, insomma. Tutti noi, che frequentiamo il sito: proprio come la vogliamo noi, la legge. Titoli, articoli e comma compresi. Potrebbe essere davvero una Buona Pratica, una legge per il teatro popolare e autogestita, mettendo insieme le nostre mille competenze.
Beh, ma non ci riusciamo di sicuro! Una legge fai-da-te? Ma come si fa!
Beh, almeno possiamo provarci. A modo nostro, naturalmente. Cercando di farci venire qualche idea, tutti insieme, aprendo uno spazio nel forum. Mettendo insieme gli articoli, discutendone pubblicamente...
Cioè… insomma… diciamo che potremmo fare così.
Chi vuole (chi tra noi ha ancora un paio di neuroni funzionanti) propone un articolo o due, su un tema che gli sta particolarmente a cuore. Lo posta nel forum (possibilmente non anonimo); può aggiungere qualche breve spiegazione, se pensa che sia utile (ma se bisogna spiegarlo, vuol dire che l’articolo non è gran che!). Chiaramente sui singoli articoli tutti quanti possiamo dire la nostra, postando commenti, approvazioni e dissensi. Emendamenti!!!
(Nota per i megalomani: non mandateci progetti di legge completi. Siamo megalomani, ma non così gravi.)
Dopo di che, vediamo che ne viene fuori. Sarà divertente (abbiamo già in mente un paio di proposte birichine). E magari la mettiamo insieme davvero, questa benedetta Legge per il teatro di ateatro. Probabilmente non sarà gran che, lo sappiamo già. Sembrerà scombinata e utopica, un po’ come ateatro. Ma di certo non sarà molto peggio di quello che è stato proposto e praticato finora.
Per renderci il compito più facile, ecco alcuni dei criteri finora utilizzati nella regolamentazione del nostro teatro.
1. Principio dei principi fondamentali
E’ ovvio che una legge ambiziosa come la nostra deve basarsi su alcuni principi fondamentali. Il progetto di legge Rositani, attuale base di discussione insieme al progetto di legge delle Regioni, è intitolato proprio “Principi fondmentali in materia di spettacolo dal vivo”. Eccone un paio, di questi principi davvero fondamentali:
“Nelle esecuzioni dal vivo è vietato l'utilizzo anche parziale di supporti o di apparecchiature che contengano musica preregistrata.”
“L'insegnamento della danza, limitatamente ad allievi d’età inferiore agli anni 14, è riservata a chi è in possesso di specifico titolo di studio o di adeguato titolo professionale.”
2. Principio del faccio quel cazzo che mi pare
In diverse circolari si è ribadito che i contributi “possono non essere inferiori” a quelli dell’anno precedente (che se ci pensate solo un attimo, capite che non vuol dire proprio niente). Nell’ultimo regolamento, quello che ha portato all’azzeramento dei contributi FUS a diverse compagnie, “la valutazione qualitativa può determinare una variazione in aumento fino al doppio, ovvero in diminuzione fino all'azzeramento dei costi ammessi ai sensi dell'articolo 5”: tradotto in italiano, abbiamo stabilito alcuni criteri oggettivi, che portano a un certo risulato, ma noi ce ne freghiamo e se lo vogliamo azzeriamo tutto.
3. Principio della regola su misura
Si tratta di una variante raffinata del principio precedente. Gli esempi più recenti e clamorosi di provvedimenti ad personam arrivano dai piani più alti del palazzo, ma i regolamenti teatrali (e i concorsi universitari e le gare d’appalto) lo usano da sempre. Per esempio, si legge che “E' riconosciuta ai soggetti che gestiscono una sala teatrale con una capienza non superiore a duecentocinquanta posti ed in presenza dei prescritti requisiti connessi all'agibilità, un’ulteriore valutazione per un progetto di produzione realizzato nella stessa, purché non superiore al trenta per cento del totale delle giornate recitative programmate e secondo i criteri stabiliti per gli organismi di cui all'articolo 14”. Insomma, per fare ricerca bisogna avere meno di 250 spettatori. Ma perché proprio 250, e non 200 o 300? Il sospetto c’è: forse qualche amico del giaguaro ha la sala della misura giusta, e qualche nemico invece…
4. Principio del su-do-ku, o del libero mercato
Si tratta di un capolavoro di enigmistica, furtto senza dubbio frutto di faticose trattative notturne tra eroici operatori, dotati di robuste scorte di Moment®: “Per la quantificazione dei costi di produzione ed ospitalità sono prese in considerazione solo le recite che prevedono compensi a percentuale sugli incassi o per le quali sia corrisposto, nella misura massima, un compenso fisso risultante dalla somma dei compensi lordi, fino al massimale annualmente definito dall'ENPALS, moltiplicata tre volte, con un incremento del 10% per la commedia musicale. Concorrono alla formazione del foglio paga, con esclusione della moltiplicazione di cui sopra, anche le spese delle diarie nella misura massima di euro centoventi pro-capite”. Per la stesura del testo, sospettiamo che i nostri amici abbiano avuto come consulente un esperto di su-do-ku.
5. Principio dello specchietto per le allodole
Beh, la legge eterrnamente promessa e mai approvata sarebbe l’esempio più classico di acchiappagonzi ornitologico. Ma lo sono anche quegli organi istituiti e mai diventati operativi (o grottescamente disfunzionali), come la Consulta dello Spettacolo dele Ministero, e la Consulta territoriale e Consulta tecnico-artistica previste dal nuovo statuto dell’ETI: viste mai?
Del resto provate voi a individuare, assoldare, convocare e mettere d’accordo:
“il Segretario Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali;
il Direttore Generale dello Spettacolo dal Vivo;
il Direttore Generale dell’Ente;
un rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca;
quattro rappresentanti delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, di cui due per l’attività di produzione e due per l’attività di distribuzione sia teatrale che di danza;
un docente universitario di discipline teatrali;
due rappresentanti della critica teatrale e di danza;
un rappresentante degli attori ed un rappresentante dei danzatori
un rappresentante dei registi;
un rappresentante dei coreografi;
due rappresentanti degli autori;
quattro rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori”.
Ci permettiamo di aggiungere all’elenco un rappresenante delle webzine teatrali, che magari – visto che siamo i migliori - incameriano un paio di gettoni di presenza e il rimborso del viaggio nella capitale…
6. Principio del “Se l’ho fatta giusta mi smentisco subito”
Se per errore l’avete fatta giusta, come rimediare? Anche in questo caso sfortunato, abbiamo una soluzione. Un esempio: il principio della triennalità. Ottima idea, da neutralizzare al più presto. Infatti dopo i primi tre anni ecco il pentimento: “in caso di programmazione triennale, la valutazione qualitativa viene compiuta annualmente”. La triennalità? Fatta! E subito disfatta!
Il numero tre eccita con ogni evidenza la fantasia del legislatore: in passato per incentivare la continuità occupazionale si è prescritta persino la “biennalità nel triennio”;
7. Principio della gran cazzata
Riteniamo inoltre opportuno suggerirvi di proporre qualche palese cazzata. Si sa, le leggi sono una faccenda molto noiosa, e ogni tanto una bella risata allenta la tensione e mette la combriccola di ottimo umore. Per esempio, nel già citato progetto Rositani, fa capolino il meraviglioso Festival degli eponimi:
“Lo stato, in collaborazione con le regioni, incentiva l'istituzione di festival intitolati a:
a) grandi musicisti italiani, autori di musica lirica, sinfonica, leggera e popolare;
b) grandi personaggi del teatro, della danza, del circo;
c) generi musicali, teatrali o tersicorei.”
(Giuro, non l’abbiamo inventato noi, non siamo mica così perversi: a nessuno di noi sarebbe venuto in mente di abbinare l’emissione filatelica obbligatoria alla prima edizione di ciascun festival eponimo, come prevede la proposta.)
POST SCRIPTUM
Per la cronaca, a rileggere i documenti del passato, la legge sul teatro sarebbe già in vigore da tempo.
Se non ve ne siete accorti, è in vigore dal 1979…
“Le funzioni delle Regioni e degli enti locali in ordine all'attività di prosa, musicali e cinematografiche, saranno riordinate con le leggi di riforma dei rispettivi settori entro il 31/12/1979.” (DPR n. 616, 24/7/77)
Ah, no, è in vigore dal 1985:
Infatti la Circolare del 31/7/1985 “si configura quale ultimo intervento organico che lo stato opera in via amministrativa prima dell'entrata in vigore della disciplina organica del settore”.
No, scusate, ci siamo sbagliati, è in vigore dal 2003:
“Il presente decreto ha carattere transitorio, in attesa che la legge di definizione dei principi fondamentali di cui all'articolo 117 della Costituzione fissi i criteri e gli ambiti di competenza dello Stato, delle Regioni e delle autonomie locali in materia di spettacolo ed il conseguente trasferimento della quota del Fondo unico per lo spettacolo riservata alle attività di prosa”. (D.M. 27/2/2003, regolamento attualmente in vigore)
Anzi, no:
perché proprio nelle scorse settimane il ministro Rocco Buttiglione ha deciso di non diramare una nuova circolare per la stagione in corso: infatti entro la fine dell’anno, faranno la legge! Senz’altro!
Insomma, se vogliamo dare il nostro contributo questa nostra legge dobbiamo farla in fretta, molto in fretta…
Proponi il tuo articolo della Legge per il teatro fai-da-te nel FORUM DI ATEATRO.
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Il fotoromanzo della Buone Pratiche 2.1 Tutto quello che dovete sapere sull'incontro di Mira (e non avete mai osato chiedere) di Redazione ateatro |
Ebbene sì! (cominciamo con il gossip...)
Il sogno di Mimma Gallina è sempre stato quello di diventare fotografa (purtroppo ce la siamo beccata in teatro).
Ebbene sì! (continuiamo con il gossip...)
Il sogno di Oliviero Ponte di Pino è sempre stato quello di diventare una star del fotoromanzo democratico e progressista (ma per fortuna c'erano Massimo Ciavarro e Alessandro Preziosi...).
Però, almeno una volta nella vita, bisogna provarci.
Ecco dunque nello splendido scenario della Riviera del Brenta (caro alla gang Maniero), grazie all'acuto obiettivo di Mimma e alla intensa interpretazione di Oliviero Il fotoromanzo della Buone Pratiche.
E 1000 grazie al Comune di Mira che rende possibile la realizzazione delle Buone Pratiche 2!
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Perché si chiama Villa dei Leoni?
Beh, perché ci sono i leoni, no?
Sono bellissimi e non mordono. A volte fanno le fusa. Finché non si arrabbiano! (fanno parte del servizio d'ordine...)
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LE BUONE PRATICHE 2.1
Per questa tornata 2005 delle Buone Pratiche, abbiamo pensato di raccogliere una serie di sguardi esterni sul teatro: filosofi, letterati, economisti, manager, sociologi, futurologi, studiosi dei media, eccetera, ci diranno che cosa ci possiamo (e potremo) aspettare dal teatro. A questi "non-esperti" di teatro stiamo chiedendo una breve relazione.
La nostra idea è provare a incrociare questi sguardi con la nostra esperienza interna al teatro. Visto anche il momento difficile che sta attraversando il nostro teatro, siamo certi che la vostra presenza sarà numerosa. Se volete partecipare (ma partecipare!!!), vi preghiamo di confermare la vostra presenza al più presto a info@ateatro.it
Ovviamente all'interno delle BP 2.1 sarà aperto uno spazio alla presentazione di nuove Buone Pratiche (dopo quelle presentate l'anno scorso). Le modalità sono le stesse dell'anno scorso: dovete inviare una breve relazione (max due cartelle) a info@ateatro.it e provvederemo a pubblicarla sul sito al più presto.
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Che cosa c'è a Mira?
Di là dal Brenta, c'è la Mira Lanza: l'Arcadia e la Chimica uno accanto all'altro.
Insomma, se i metropolitani hanno una overdose di ossigeno, possono inspirarsi alle ciminiere. Perché qui s'intrecciano tradizione e modernità, arte e scienza, economia e cultura...
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Ma la Villa è molto più bella!
Qualcuno dice persino che Porzia, sotto questo loggiato, attendesse il suo Bassanio. Molto romantico...
Insomma, a Mira portateci il fidanzato/fidanzata; ma se volete Danny Rose può organizzare un servizio di dating. (poi, se piove, lì forse si può anche fumare, se proprio non potete farne a meno...)
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BP 2.1 INFOLINE
Per tutte le info logistiche che non trovate in questa pagina (e problemi, comunicazioni o altro), ecco i recapiti della Cooperativa Danny Rose
tel. 3351752301
e-mail info@dannyrose.it
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Ma noi dove ci riuniamo?
Il luogo del delitto!
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IL PROGRAMMA
Per le partecipazioni e gli interventi annunciati interni al teatro, vedi www.ateatro.it
Domenica 13
ore 15,30 -19,30
relazioni, dibattito
ore 20
buffet
ore 21,30
Libera Nos
rappresentazione riservata ai partecipanti alle Buone Pratiche
Lunedì 14
ore 9,30 -13
relazioni, dibattito
ore 13
pausa lunch
ore 14,30 -18
Conclusione dibattito e presentazione "progetto di legge" di www.ateatro.it
Coffee break previsti in tutte le sezioni
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Ecco l'ingresso del teatro
Quando abbiamo fatto il sopralluogo, lì davanti era pieno di soprani coreani e tenori giapponesi: pensiamo di portare le Buone Pratiche anche laggiù...
Ma intanto, sospinti da Franco "Cassa del 1/2giorno" D'Ippolito, stiamo pensando di invadere il Sud, con BP 2.1...
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Ma quanti saremo? E se siamo troppi?
Per stabilire l'ordine degli interventi ed evitare contestazioni, attiveremo un distributore di tagliandi tipo salumeria (preso dal mercatino lì di fronte).
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In ogni caso, siccome la pausa caffè è un rito...
Abbiamo pensato utilizzare un pittoresco luogo di culto per i coffee break.
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E al posto del mitico peperone, le campane!
Insomma, chi supera il tempo assegnato per il proprio intervento, verrà interrotto dall'argentino suono delle campane.
Stiamo cercando volontario campanaro, in grado di zittire i relatori sbrodoloni al ritmo della salsa o della mazurca.
PS Così possiamo rilanciare l'asta per il peperone, così ripianiamo un altro pezzetto del deficit di BP1...
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QUOTE ADESIONE
Proprio per evitare un altro passivo (siamo poveri...), chiediamo quote di partecipazione (molto popolari!!!).
Euro 10,00
(studenti euro 5,00)
La quota contribuisce ai costi organizzativi, dà diritto alla cartella con i materiali predisposti, al coffee break, alle facilitazioni concordate presso gli alberghi e il self service per il lunch del 14.
Buffet del 13 sera e accesso allo spettacolo Libera nos: euro 10,00
(si prega di confermare la partecipazione contestualmente all'adesione)
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Ci potete arrivare anche a nuoto!
Ma forse per raggiungere Mira è più pratico usare altri mezzi di trasporto!
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AUTOBUS
Il Teatro, situato a Mira lungo la Riviera del Brenta all’interno dei Giardini Pubblici di Villa dei Leoni, è facilmente raggiungibile in autobus utilizzando i mezzi ACTV, che partono circa ogni 15-20 minuti da Venezia (piazzale Roma, bus n. 53, partenze ai minuti 25’ e 55’ di ogni ora), Mestre (Piazza XXVII Ottobre, partenze ai minuti 10’ e 40’ di ogni ora), Padova (Stazione Corriere, Piazzale Boschetti, ai minuti ’25 e ’55 di ogni ora). Si scende proprio davanti all’ingresso dei Giardini di Villa dei Leoni, all’altezza del Centro Commerciale “Mirasole” (sì, c'è persino il centro commerciale per le vostre spesucce...).
AUTO
Il Teatro è raggiungibile dall’autostrada A4, uscita Dolo o Mestre, seguendo poi le indicazioni per Mira e imboccando dalla S.S. 11 Riviera Silvio Trentin.
TRENO
Stazione Venezia Santa Lucia, Stazione Mestre –Venezia, Stazione Mira-Mirano (treni locali da Padova e Venezia).
AEREO
Aeroporto Marco Polo - Tessera (VE)
Collegamento da/per Piazzale Roma (Venezia) e Mestre (stazione FS) con autobus urbano ACTV (linee 5 e 15), e da bus navetta ATVO (linee Air Terminal e Fly Bus).
www. actv.it
www. atvo.it
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C'è persino una mensa: comoda, ottima ed economica
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DOVE DORMIRE
Cominciamo dall'ostello (ma in questio caso è meglio avere la macchina):
OSTELLO DI MIRA
Via Giare, 169
30030 Loc.tà Giare di Mira Venezia
Tel. 041 5679203
Fax 041 5676457
mira@casasoleluna.it
PREZZI A PERSONA:
€ 18,50 in camera doppia con bagno
€ 14,00 in camerata
E poi gli alberghi, spesso convenzionati con le Buone Pratiche.
HOTEL ISOLA DI CAPRERA
Riviera Silvio Trentin 13
Mira (VE)
tel. 041-4265255
(€ 50 singola - € 70 doppia – con colazione)
HOTEL RIVIERA DEI DOGI
via Don Minzoni
Mira (VE)
tel. 041-424466
(€ 50 singola - € 70 doppia – con colazione)
HOTEL LA RESCOSSA – VECIA BRENTA
via Nazionale 403
Mira (VE)
tel. 041/423637
(€ 50 singola - € 70 doppia – con colazione)
HOTEL VILLA GOETZEN
30031 Dolo (VE)
VIA MATTEOTTI 6
tel: 041 412600, 041 5102300
singola € 55; doppia € 80,00; € 100,00 tripla; 130 quadrupla; con 1°colazione
HOTEL VILLA DUCALE
Riviera Martiri della Libertà, 75
Località C. Musatti
30031 Dolo, Venezia
Tel / fax + 39 041 560 80 20
Singola small: € 75,00 standard € 85; king € 100
Doppia: 110 small; 135 standard; 150 king
RELAIS ALCOVA DEL DOGE
bed & breakfast
Via Nazionale, 39/40 Mira - Venezia
Tel. 041424816 – FAX. 0415609373
www.alcovadeldoge.it
doppia € 55,00 con colazione; € 65,00 tripla; doppia uso singola € 50,00 con colazione;
CASA MALVINA
bed & breakfast
Via Nazionale 247
30034 MIRA [VE]
Tel. 0414265976 - Fax 0415625251
www.casamalvina.it
B&B MIRA BUSE
via della Ferrovia 34 – 30034 Mira (VE)
tel/fax 041421392 cell. 3479125950
www.bbmirabuse.venezia.it
info@bbmirabuse.venezia.it
ALLA RIVIERA bed & breakfast
app. con 1 camera matr. con terzo letto + sogg con divano letto doppio
€ 50,00 con colazione; € 40,00 senza
Via Lanza n°1
30034 Mira Porte - Venezia
Tel/fax: +39(0)41 420585
www.allariviera.com
singola € 25.00
doppia € 45.00
"VILLA FELETTO" - BED & BREAKFAST
Via città giardino, 24/26 – 30034 VENEZIA (Mira Porte )
Tel./Fax: 041 4265835
Cell.: 347 8895654, 347 2558221
E-mail: info@villafeletto.com
appartamento con 2 camere - € 60 a camera
FARONHOF BED & BREAKFAST,
Via seriola veneta sx 51, Oriago di Mira, Venezia
Tel. 041 428363 - Fax 041 563 9755 –
E-MAIL: info@faronhof.it
doppia bagno in comune € 35,00 – doppia bagno privato € 45,00 con colazione
B&B VILLA OLANDA,
Riviera Silvio Trentin, 50 - Mira - Venezia
tel. e fax 041 423427
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Libera nos alle Buone Pratiche 2.1 La scheda dello spettacolo di Antonia Spaliviero |
Domenica 14 novembre, alle Buone Pratiche 2.1 a Mira - grazie al sostegno del Comune - sarà possibile assistere allo spettacolo Libera nos. Qui di seguito, qualche info sul lavoro.
ITC 2000 E FONDAZIONE TEATRO STABILE TORINO
Presentano
NATALINO BALASSO
in
LIBERA NOS
Suggestioni dall’opera letteraria di Luigi Meneghello
Testi di Antonia Spaliviero, Gabriele Vacis, Marco Paolini
con
Natalino Balasso e Mirko Artuso
Regia di Gabriele Vacis
Scene di Lucio Diana Scelte musicali di Roberto Tarasco
Libera Nos nasce in forma di spettacolo teatrale nel 1990 come produzione di Teatro Settimo con Marco Paolini e Mirko Artuso.
L’idea e l’opportunità del riallestimento per la Stagione teatrale 2005/2006, nasce dall’incontro, nell’ambito della seconda edizione di “Domande a Dio” a Torino, tra lo scrittore vicentino Luigi Meneghello e Natalino Balasso dove, insieme a Gabriele Vacis furono letti brani dalla sua opera più amata: “Libera Nos a malo”.
L’accoglienza calorosa del pubblico e l’intesa dell’inedito cast, ha fatto sì che prendesse corpo l’idea di riallestire uno spettacolo che fu molto amato da pubblico e critica, affidando a Natalino Balasso, in una sorta di passaggio del testimone, il ruolo che fu di Marco Paolini.
Libera Nos, cogliendo la fisicità e la poetica della parola meneghelliana, ripercorre attraverso il dialetto vicentino, ma anche con la raffinatezza della lingua italiana scritta, il lieve e terribile tempo in quel paese della vita che è l’infanzia. Ed è proprio il piccolo paese con i suoi esilaranti e talvolta tragici personaggi, la vita paesana, il duro lavoro, le bande, le bambine poi donne, le zie e gli zii, i matti, i professori, le generazioni che arrivano e quelle che vanno, il vecchio ed il nuovo che si affrontano, il luogo in cui prende vita lo spettacolo.
Il dialetto, per chi lo ha posseduto come prima lingua, è anche il riappropriarsi dell’infanzia come momento centrale per decodificare il senso della vita. Trattato in quanto linguaggio che prima di tutto si vede e si sente, quando si incontra con la lingua scritta del vocabolario, ne scaturisce un delirio comico in fondo al quale si finisce inevitabilmente per scoprire che la scomparsa di certi modi di dire le cose, altro non è che la scomparsa di quelle stesse cose.
Lo spettacolo racconta i momenti fantastici e lievi dell’infanzia, della giovinezza, della crescita, con la consapevolezza di maneggiare, insieme al dialetto ed alla lingua scritta, grammatiche ineluttabili, robe che nessun museo può conservare. Si possono solo nominare, finchè qualcuno le ricorda.
Antonia Spaliviero
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Reality show con terrore: risorge a Milano il teatro di massa L'esercitazione anti-terrorismo del 24 settembre coinvolge centinaia di attori e l'intera cittadinanza di Redazione ateatro |
Il bozzetto di Yuri Annenkov per Assalto al Palazzo d’Inverno (1920).
“Il celebre regista Nikolaj Evreinov mise in scena lo spettacolo Assalto del Palazzo d’inverno con la collaborazione del regista Nikolaj Petrov e del critico teatrale Alexander Kugel, in occasione del terzo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre.
Una delle rare immagini del più celebre spettacolo di massa post-rivoluzionario, Assalto al Palazzo d’Inverno (1920), che coinvolse 8000 attori, 500 musicisti e circa 100.000 spettatori. Anche Mussolini, qualche decennio dopo, fece un esperimento in questa direzione, con BL 19, che aveva per protagonista un camion dell'esercito.
L’artista Yuri Annenkov allestì due piattaforme collegate da un ponte ad arco, nella piazza antistante il Palazzo: i ‘Bianchi? Erano sistemati su una piattaforma, i ‘Rossi’ sull’altra. All’azione parteciparono circa 100.000 tra soldati e marinai, per combattere una seconda volta la battaglia del Palazzo d’Inverno tra ‘Bianchi’ e ‘Rossi’”.
(Konstantin Rudnitsky, Russian and Soviet Theatre, Thames & Hudson, 1988, p. 44).
L’attacco simulato alla Stazione Nord di Milano (1985).
“Alle 12 in punto avverranno i due simulati attacchi dinamitardi (con candelotti fumogeni) alla stazione delle ferrovie Nord di Cadorna: una sul Malpensa Express, la navetta di collegamento con l'aeroporto internazionale, l'altra alla fermata della linea 2 della metro. Per entrambi interverranno i reparti di tutte le forze dell'ordine, di soccorso e di protezione civile impegnati nell'operazione. Intanto, all'aeroporto di Linate, un finto terrorista metterà in atto il dirottamento di un autobus aeroportuale carico di passeggeri, per poi essere catturato dai reparti speciali del Gis dei carabinieri.”
(“la Repubblica”, 22 settembre 2005)
Una delle 230 comparse viene truccata in vista dell’esercitazione.
“«Le simulazioni devono mettere alla prova nervi e stomaco dei soccorritori». Il film non può essere solo una sceneggiata. Deve sembrare vero, terribile. Lo sarà, grazie al lavoro dei 40 truccatori della Croce Rossa, artigiani specializzati in finte carneficine. Hanno un diploma. Studiano come i tecnici del cinema. E usano gli stessi prodotti, costosissimi. Venerdì mattina, giorno della prima esercitazione antiterrorismo d'Italia, lavoreranno divisi in due squadre. Una alla stazione Cadorna, l'altra venti metri sotto, nel mezzanino del metrò. Dovranno trasformare in morti e feriti circa 230 comparse. I figuranti, una volta sul set, cominceranno a recitare. «Devono comportarsi come farebbe una vittima — spiega Alberto Bruno, commissario provinciale della Croce Rossa — riprodurre anche le condizioni emotive dei feriti. Spesso quelli meno gravi, nella realtà, creano problemi, perché sono sotto choc e tendono a intralciare i soccorsi. È fondamentale che gli operatori si trovino davanti a una situazione quanto più possibile simile a quella che potrebbero affrontare in caso di un attentato reale». È una specialità mutuata dai tedeschi, quella dei truccatori. La Croce Rossa milanese diplomò il primo gruppo nel 1992. Li ha utilizzati in decine di esercitazioni, anche più complesse, per numero di feriti, rispetto alla simulazione di venerdì. Per addestramento, sono state ricreate scenografie perfette di terremoti, trombe d'aria, crolli di palazzi per fughe di gas, maxi incidenti stradali. Obiettivo: «Abituare i soccorritori a scenari di catastrofe — continua Bruno — e addestrarli al triage, la selezione dei feriti in base alla gravità, da suddividere in codici verdi, gialli, rossi. In situazioni critiche, con molte persone coinvolte, l'economia e l'ordine dei soccorsi diventa fondamentale»”.
(“Corriere della Sera”, 22 settembre 2005)
Inizia il reality show del terrore.
“Una specie di buffonesca corte dei miracoli: infermi, zoppi, mendicanti, segue una barella su cui giace un uomo di grande corporatura, coperto di piaghe e ferite, in punto di morte se non già cadavere. La miserevole processione, racconta un testimone fedele al re, entra nella Convenzione:
‘Scorgiamo il cadavere sulla barella, che i portatori dispongono al centro della sala, davanti al banco dei segretari. Là, messe a nudo le piaghe, un oratore prende la parola e pronuncia un discorso adatto alla circostanza, cercando di impietosire i deputati e il pubblico delle tribune; poi declama con furore un’invettiva contro Luigi XVI. Dopo questo infame intervento, i portatori, altrettanto disgustosi quanto lo stesso cadavere, alzano la barella e, procedendo piano piano, la depongono a un capo della sala, dove rimangono fermi per qualche istante, in modo da permettere sia ai deputati che al pubblico di osservare meglio, e gridano con voce lugubre: guardate! guardate!... Questa scena orribile, di cui non ho mai visto l’uguale, avviene nel più grande silenzio. Dopo aver attraversato la sala due volte lentamente, fermandosi ad ogni passo, i portatori sollevano infine il miserabile, coperto di false ferite, il disgustoso convoglio si ritira, esce dalla sala e comincia a percorrere le strade di Parigi per irritare gli animi del popolo contro lo sfortunato monarca. Portano questa specie di cadavere in tutti i quartieri e pronunciano ogni volta discorsi contro il re, mentre mostrano al pubblico il brigante mutilato…’
A voler dare completa fiducia a questo testimone, gli zoppi e gli infermi erano stati reclutati dai sanculotti tra i mendicanti dei faubourgs e l’attore che faceva il morto era stato comprato con una forte somma di denaro: per rendere la scena verosimile gli avevano versato addosso soda caustica piagandogli il corpo. Date le simpatie monarchiche del testimone, non è improbabile che ci sia stata una certa malafede nel dipingere così crudeli i sanculotti del faubourg Saint-Antoine, famosi per la loro spregiudicatezza e la violenza. Più verosimilmente o si tratta di una scena molto ben recitata con attori ben truccati, oppure i sanculotti riuscirono a trascinare nella manifestazione di protesta i disoccupati e i mendicanti e magari utilizzarono un vero cadavere (il testimone sostiene di avere le prove che il cadavere era un uomo vivo con ferite provocate dalla soda caustica). La cosa non scandalizza, tanto più che esporre i cadaveri in pubblico, i morti di morte violenta con le ferite in mostra, sarà presto una moda.”
(Fernando Mastropasqua, Le feste della Rivoluzione Francese 1790-1794, Mursia, Milano, 1976, pp. 26-7, a proposito della dimostrazione antimonarchica organizzata dai sanculotti del faubourg Saint-Antoine durante il processo del re nel dicembre 1792)
L’arresto del finto terrorista.
“'Per cinquant’anni, le nazioni occidentali hanno tenuto i loro cittadini in uno stato di paura costante. La paura del diverso. La paura della guerra nucleare. La minaccia comunista. La Cortina di Ferro. L’impero del Male. E all’interno del blocco comunista, è avvenuto lo stesso, ma al contrario. La paura dell’Occidente. Poi, improvvisamente, nell’autunno del 1989, tutti finì. Sparì, svanì. Si volatilizzò. La cadura del Muro di Berlino ha lasciato un vuoto di paura. La natura aborre i vuoti. Qualcosa doveva riempirlo.'
Evans si accigliò. 'Sta dicendo che l’emergenza ambientale ha preso il posto della Guerra Fredda?'
'E’ un dato di fatto. Naturalmente, ora ci sono il fondamentalismo radicale e il terrorismo post 11 settembre a spaventarci, e questi sono certamente motivi reali per cui aver paura, ma questo non è il punto. Il punto è che la paura ha sempre una causa. La causa può cambiare nel corso del tempo, ma la paura è sempre con noi. Prima del terrorismo, avevamo paura dell’inquinamento. Prima di questo c’era la minaccia comunista. Il punto è che malgrado la causa specifica della nostra paura possa cambiare, questa non ci abbandona mai. La paura pervade la società in ogni suo aspetto. Continuamente.'”
(Michael Crichton, Stato di paura, Garzanti, Milano, 2005, p. 524-525)
Le telecamere della polizia al lavoro per documentare lo spettacolo del terrore.
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Tom, Ilion, Malina e Hanon sulla tomba di Julian Beck (con una poesia di Dacia Maraini) Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Hanon Reznikov |
Ieri, 14 settembre 2005, era il ventennale della morte di Julian Beck. Ecco un brano della mail che ci ha mandato Hanon Reznikov (dove tra l’altro cita il “beautiful website” - questo sito!!! - che ha dedicato uno speciale all'anniversario).
We are thinking of Julian today, on the twentieth anniversary of his departure from our midst. We remember in living color his voice, his vision, his poetry and the theater he enlarged with them. Tom, Ilion, Malina and myself drove out to Cedar Park Cemetery this morning and gathered at his grave. Judith read Shelley's The West Wind, which they used to read aloud together and I read the poem below, by Dacia Maraini.
Now Julian, You Walk Barefoot
To Julian Beck
Now Julian, you walk barefoot
Now Julian, you eat frozen roses
Now Julian, all the cats have fled
your lap, not even a flea
would take you for its father
In a hall in Cinecittà
you ate pasta and beans
on a plastic plate
Julian, your fingers dirty with green lacquer,
you spoke of liberty,
your mouth full, your eyes laughing
so white
and so full of air
Julian, what was the theatre
under your thin feet
divided in hot and bitter zones
between gushes of an imaginary reality
the geometry of your intelligence
your colorless ascetic's tongue
made you seem a ferocious monk
but you liked touching walls,
bodies, machines, the earth.
Julian, with your face of a predatory bird,
you smoked like an old Turk,
sliding in your black trousers
along the paths of thought
and Judith with her hair swelled
like a wild owl's wing
gold prospectors you and she bent
under the stage's boards
digging for treasure, so she was born
like a mouse between flying stagelights
and you behind
with an acrobat's grace
in winter's glittering evenings between glass panels
and Dutch linens, between taffeta flowers
and paper crowns, Julian when you will look at us
we will already be faraway
and you, great archer in your world
of ringing silences will look at us
through your reversed binoculars
and we will salute each other as from distant ships
raising our arms and a white rag
translation by David Platzer
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Ora Julian cammini senza scarpe
a Julian Beck
ora Julian cammini senza scarpe
ora Julian mangi rose ghiacciate
ora Julian tutti i gatti sono scappati
dal tuo grembo, neanche una pulce
ti prende più per padre
in un salone di Cinecittà
mangiavi pasta e fagioli
su un piatto di plastica
Julian le dita sporche di lacca verde
parlavi di libertà
la bocca piena, gli occhi ridenti
quasi bianchi tanto
erano colmi d'aria
Julian che cos'era il teatro
sotto i tuoi piedi secchi
diviso in zone calde e amare
fra fiotti di una realtà immaginaria
le geometrie della tua intelligenza
la lingua incolore dell'asceta
sembrava che fossi un monaco feroce
ma ti piaceva toccare i muri
e i corpi e le macchine e la terra
Julian con la tua faccia di uccello rapace
fumavi come un vecchio turco
scivolavi nei tuoi pantaloni neri
lungo i sentieri del pensiero
e Judith che si gonfiava i capelli
come un'ala di gufo inselvatichito
cercatori d'oro tu e lei curvi gobbi
sotto le assi del palcoscenico
a furia di scavare, cosi è nata lei
come un topo fra riflettori volanti
e tu dietro con la grazia
di un saltimbanco nelle scintillanti
sere d'inverno fra pannelli di vetro
e tele d'Olanda, fra fiori di taffetà
e corone di carta, Julian quando ci guarderai
noi saremo già lontani
e tu grande tiratore d'arco dal tuo mondo
di silenzi squillanti ci osserverai
attraverso il binocolo rovesciato
e ci saluteremo come da una nave lontana
alzando il braccio e uno straccio bianco
Dacia Maraini
Viaggiando con passo di volpe, Milano, Rizzoli, 1991
Se amando troppo, Milano, Rizzoli, 1998
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Il corpo gioioso del Living Theatre... ...e il corpo ologramma del Terzo Millennio di Cathy Marchand |
quanto sta succedendo succede perché il nostro teatro
accetta le modalità di procedura di una società omicida
e le fa apparire meravigliose
fa gran caso di banalità
in una vita di tribolazioni
fa apparire tollerabile l’intollerabile
fa sembrare la vita piacevole e divertente e dà facili risposte
e quando chiedo perché il pubblico permetta a ciò di accadere
mi accorgo tristemente che è davvero
perché questa vita che meniamo sta diventando insopportabile
e l’inganno delle scene
è una consolazione
anche se nessuno ci crede
ma la gente preferisce far finta che sia vero perché allora le cose
forse non sono tanto brutte
così il teatro del nostro tempo diventa un luogo di frode e travisamento
quel che succede lì è inganno
per chi ama essere ingannato
se vuoi vedere la verità devi essere pazzo abbastanza pazzo
da affrontare l’orrore
Julian Beck, Meditazione 11, 1963
Da quando Julian Beck se n’è andato da questo pianeta per me attrice del Living è diventato importante trasmettere la base della ricerca teatrale di questo gruppo che portò la rivoluzione nel teatro del Novecento esibendo il “corpo gioioso” con quel felice ascetismo che lo ha caratterizzato negli anni.
Lavorando da anni alla formazione dei giovani attraverso seminari e stage in varie scuole d’arte drammatica ed università europee, il mio sguardo è molto sensibile all’evoluzione che il “corpo gioioso” ha subito nel terzo millennio. Si può dire che si è passati dal corpo come strumento di poesia, dal quale il gesto e l’architettura dei corpi esaltava una possibile via di liberazione dalle sovrastrutture dell’artificio, a un “corpo ologramma” dove l’ostentazione di muscoli scolpiti, nudo glamour portano alla costruzione di un dandismo falsamente rilassato, strumento di un “ologramma” che esiste nel momento e sparisce quando non è più visibile. Lavorare con gli strumenti della memoria diventa per me un’urgenza di esistere e dunque di rappresentare attraverso il linguaggio del corpo la “traversé à travers le miroir”.
Portare nel presente il Living Theatre come forma pedagogica mi dà la possibilità di sperimentare ed esplorare un mondo di azione fisica che passa sì per la memoria ma si concentra su un lavoro dell’istante dove il corpo sente “l’autorità” di essere lì in un momento preciso. Partendo sempre dall’improvvisazione libera come fonte di ispirazione, si fanno esercizi senza forzature: non si mira alla perfezione meccanica ma al rigore tragico della materia fisica. Muoversi nell’istante ma con la consapevolezza del limite e della “divina perfezione” mi porta a ritrovare il “corpo gioioso” e farlo passare attraverso lo specchio del terzo millennio.
E’ evidente che i giovani, per esempio gli studenti delle scuole d’arte drammatica o classiche, abbiano delle resistenze ad avvicinarsi a queste tecniche perché l’esperienza richiede uno sforzo totale e le abitudini sono già abbastanza radicate anche nei giovani attori. Ma quando lavori diverse ore al giorno insieme con il rigore del muoversi nell’istante ci si lascia indietro l’artificio e il fluire del corpo trova naturalmente la sua origine. L’urgenza è il rappresentare una partitura collettiva dove il creare da se stessi assieme agli altri è un unirsi in tanti impulsi che ballano e battono insieme. Non partendo mai dal fatto che voglio intrattenere il pubblico ma comunicare con esso. Dunque il lavoro pratico diventa un viaggio estatico perché il tempo passato insieme porta a essere profondi, sinceri, onesti, nell’istante del movimento.
Non si può far altro. Si coniuga perfettamente il sole d’Oriente del rituale con l’urgenza di Piscator dell’essere presente, questo è il mio personale percorso nella memoria del corpo Living. Trovare oggi l’entrata per attraversare lo specchio grazie al corpo con la sua essenzialità rigorosa.
Quando facevo la scuola di teatro con Jean Louis Barrault, cercavo disordinatamente questa entrata magica che mi portasse la vivere il corpo in modo diverso dal clichè; il Living mi ha fatto trovare l’entrata segreta dello specchio con la sua poca scenografia, il poco make-up, con il corpo messo a nudo come un Cristo iconoclasta. Voler redimere il mondo con il suo sacrificio sulla scena mi ha fatto superare le mie sovrastrutture meccaniche. Oggi il mio lavoro è far entrare nel corpo ologramma “una bottiglia in mare...” con il messaggio che l’attraversamento dello specchio è un ponte per trovare la creazione di un nuovo corpo gioioso che possa trovare la sua immagine attraverso una memoria evolutiva come uno spazio vitale.
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Entrare in scena Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Fernando Mastropasqua |
Entrare in scena è l’atto con cui si dà inizio allo spettacolo. Un semplice passare dal non visto al guardato, dalla confortevole tenebra delle quinte alla luce priva di ripari del palcoscenico, un passo, un semplice passo e si scavalca un confine, quella soglia di morte, la cui presenza i Greci avvertivano nel suono della parola skené. Per entrare dove? Nel teatro inutile direbbe Julian Beck:
“E’ questo forse un posto per esseri umani, questa insinuazione di lusso e ori, la pompa di queste scale, l’ingannevole grandiosità di questo candelabro, questo moderno teatro un’opera d’arte? O architettura dei potentati! O puzza di denaro! E’ qui che ha volato l’Uccello dello Spazio? Dove sono i facchini, gli operai tessili, i meccanici? Non ci sono contadini qui, nessuno di coloro che costruirono questo edificio, nessuno che abbia coltivato alimentari, qui non ci sono neri, nessuno che pulisca le fogne, nessuno che cucia nei laboratori. Per chi è questo palazzo? Dov’è il popolo? Che cosa si fa qua dentro che non li riguarda? Il tappeto è fatto per pallidi piedi patrizi, le poltrone procurano una comodità che aliena all’azione, che ostacola la partecipazione, che indulge alla passività del corpo. Muri di separazione! O possa questa nostra sonora arringa far tremare e cadere i muri, crollare prigioni, abbattere le fortezze della falsa industria, e tutte le case di divisione. Unità. La si ha, quando le persone stanno insieme e non si mettono una contro l’altra, esiste quell’armonia che dissipa la disperazione, estende l’essere e rende possibili tutte le speranze più impossibili. Quando mi siedo nella poltrona di velluto, circondato da fibre acetiche, se una persona grida, se un uomo muore è solo un’interruzione. Non sono preparato a reagire alla vita. Osservo soltanto. Circondato da gelidi compagni in un’atmosfera d’inganno, siedo nella fastosità. Son venuto qui per morire congelato? Come posso prorompere in emozioni? Investito di una regalità di rayon. Come posso trascendere in un ambiente di velluto, come posso trovare la chiave nell’oscurità di questa sala? Solo sognando. Ma questo sogno è menzogna, non sento nulla. E’ tutto menzogna, non ho carne, sono essenzialmente asessuato. E tutto avviene a causa della mia presenza qui.” (J.Beck, La vita del teatro, Torino, Einaudi, 1975, pp.13-14).
L’attore entrando in scena entra nell’orrore del mondo, in quegli inferi che sono la vita stessa, e di fronte a sé trova gelidi compagni, ombre esangui, pronte a cibarsi di lui risucchiandogli la linfa vitale con gli occhi, appuntiti vogliosi taglienti come i canini di un vampiro. Il passo che ha scavalcato il confine rivela quanto questo fosse irrilevante, come un abisso dipinto. Dal mondo di morte quotidiano a quel cimitero imbellettato che è il luogo teatrale. Entrare in scena deve dunque voler dire di più, non passare un confine, ma definire un confine, perché solo tracciandolo può esserne disarmata la funzione menzognera: si può oltrepassare e lasciarselo alle spalle. Si apre, per virtù dell’attore, un luogo che è oltre la tetra esistenza di lutti presenti e di inferni promessi, nel quale il pubblico di insaziati dormienti dalla vista assassina possa balzare dalle non più comode poltrone e accogliere il respiro dell’attore:
“Ansimando in cerca d’aria – è così che il pubblico viene a teatro, rigidamente avvolto dal corsetto della convenzione (legge e conformismo). Il pubblico può respirare a malapena. Si sente morire. L’intero atto teatrale è un rituale concepito per rinnovare la nostra vitalità, per liberarci dalla morte, e ciò si compie con un respiro. Questo respiro comincia come un ansito, come quello di un bambino appena nato. Il teatro senza questo ansimare ci soffoca, poco importa che ci possa divertire, lasciamo sempre il nostro spirito ancora più fiaccato dalla delusione. Insisto sul teatro. Insisto su di esso perché lo riconosco come un rituale senza cui la nostra sopravvivenza perde terreno davanti ai confini della morte, sempre invadente, la morte che cala su di noi con il suo silenzio senza respiro. Insisto che si vada a teatro in cerca di rivitalizzazione, le renouveau, sì, come pazienti che vanno all’ospedale. Stiamo morendo e andiamo a teatro in cerca d’aria fresca all’interno di un’atmosfera sempre più contaminata. Lo scopo dell’arte è far ansimare il pubblico.” (J.Beck, Theandric, Roma, Socrates, 1994, p.24)
Considerando i primi spettacoli del Living, come un solo lungo spettacolo, potremmo riconoscere l’entrata per eccellenza nell’incipit dell’Antigone e l’uscita per eccellenza, come viaggio oltre il confine designato e distrutto, l’esodo di Paradise Now: il teatro è nella strada. Come si può stabilire il confine? Nell’Antigone l’attore invece di offrire la gola allo sguardo dello spettatore gli pianta gli occhi in faccia, come Amleto per scrutare il comportamento del re davanti allo spettacolo che rivela il suo delitto [Amleto, III,2, 85], sguardo contro sguardo, nemico contro nemico. Judith Malina ricorda che ogni attore aveva il compito di individuare il nemico in un determinato spettatore e che questo serviva ad incrinare l’unità della massa del pubblico (v. a questo proposito C. Valenti, Dove gli dèi ballano, in F. Mastropasqua, Maschera e rivoluzione, Pisa, BFS, 1999, p.38, nota 24). L’entrata degli attori in scena obbliga ad avere la consapevolezza che tutti si è entrati in un luogo sospeso, dove non hanno più senso le convenzioni abituali, del teatro come della vita. Anche il pubblico si trova al di là del confine che gli attori hanno tracciato proprio là dove non era pensabile, e i corpi – non più le ombre infere della consuetudine – si impossessano dell’antico respiro perduto e diventano presenze, non per dimenticare il mondo, ma per rovesciarlo. Perché si entra nel teatro attraverso il mondo. Virtù anche questa dell’aver determinato il confine e averlo scavalcato. Il passo che ha permesso di superare quella soglia, si è lasciato alle spalle il mondo dell’orrore, ma non lo ha cancellato. Ognuno di noi se lo porta dentro. Risuona l’insegnamento di Amleto: l’orrore che vediamo intorno a noi è dentro di noi: “Che ci sta fare uno come me a strisciare fra cielo e terra?” [III,1,129]. Ed è proprio questa coscienza che permette ai corpi entrati in scena (attori e spettatori) di rovesciare la bruttezza in bellezza, la malvagità in pietas, il dolore in gioia:
“Si entra nel teatro attraverso il mondo, mondo che è sacro, mondo che è imperfetto, si entra nel teatro attraverso la consapevolezza di una bruttezza indistruttibile. La bruttezza della vita. Si abbraccia questa bruttezza e si dimentica ciò che è bello. […] Non vorrei dare pièces di dolore, di problemi, di idee difficili, ma di gioia, piacere, riso, esultanza, non risate crudeli, niente satira, ma gioia. Ma è faticoso provare gioia, e quindi ancora più faticoso conoscere la gioia, quando si è pallidi e il mondo è estraneo e moribondo. Desiderio di un teatro diverso, che valga ciò che siamo realmente, speranza che il teatro cambierà, ma quel che vogliamo davvero è cambiare noi stessi, cambiare tutti insieme, e che cambiando cambi il mondo.” (J.Beck, La vita del teatro, cit., p.11, 15).
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L'archivio del Living all'ORSA di Torino. Una intervista a Edoardo Fadini Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Anna Maria Monteverdi |
Non si chiama più Cabaret Voltaire ma di questo storico (e per certi aspetti mitico) spazio dell'avanguardia teatrale e artistica degli anni Settanta a Torino l'attuale ORSA mantiene i fantasmi, magari in forma di vhs o di libro o di racconto da parte del fondatore, Edoardo Fadini. Il teatro di Wilson, del Bread and Puppett, l'amato Bene dentro gli scaffali dell'Associazione in via Botero. “Ma all'epoca non si usava registare gli spettacoli. Nessuno lo faceva: né Carmelo Bene né Leo De Berardinis, né Memé Perlini. Il primo a registrare fu Quartucci”.
Firmatario del Manifesto del Convegno di Ivrea, per molti anni critico titolare dell'”Unità”, Edoardo Fadini è stata una delle personalità che negli anni Sessanta e Settanta ha dato maggiormente vita al vivace dibattito sull'avanguardia. Con Quadri, Bartolucci, Capriolo tra cantine e infernotti stavano dando vita a quella critica militante che seguiva il nuovo teatro.
Sei atti pubblici a Catania (l'immagine ci è stata gentilmente fornita da Cathy Marchand).
Quale era allora il ruolo della critica?
Qualcuno sostiene che un vero critico non dovrebbe farsi influenzare dall'artista e dovrebbe scappare dal teatro dopo lo spettacolo. Io scappavo subito in palcoscenico invece e dopo andavamo a sbronzarci insieme con gli artisti. Il grande movimento dell'avanguardia era proprio questo mescolarsi di critica e artisti. Era un'avanguardia “coordinata” che aveva coscienza di sé. Assistevamo a spettacoli che avrebbero segnato un'epoca: Fire di Peter Schumann, l'uomo che si immola nel fuoco usando solo scotch rosso, accartocciandosi ricoperto di pezzetti di adesivo rosso. Noi tutti uscimmo ammutoliti. Lo conoscemmo in una brasserie dopo lo spettacolo, lui stava parlando con Jack Lang e io ero con Mario Ricci, Leo e Perla, ci avvicinammo e lo incantammo con un suono di flauto. Abbiamo vissuto un romanzo!
Fadini ha organizzato sin dagli anni Sessanta incontri eccezionali: John Cage, Peter Schumann, Carmelo Bene (e recentemente il grande convegno a lui dedicato di cui sono in corso di stampa gli atti), il Living Theatre, l'Institutet for Scenkonst, e lo scorso anno il primo spettacolo dopo la morte di Grotowski: Dies irae di Thomas Richards del Workcenter di Jerzy Grotowski, presentato da Antonio Attisani. Dopo il ritorno a New York di Judith Malina, Hanon Reznikov e Thomas Walker, la sua associazione culturale ORSA ospita l'archivio del Centro Living Europa fino a qualche anno fa depositato a Rocchetta Ligure. Un archivio nato con la collaborazione degli stessi fondatori del Living, con Tom Walker, Gary Brackett, e con l'aiuto di Fernando Mastropasqua che da sempre ha mostrato un'attenzione particolare al gruppo newyorchese nei suoi studi e negli spazi del Dams di Torino, dedicando loro incontri e laboratori (con Cathy Marchand e Gary Brackett, in attività in Italia).
Attualmente è in corso la catalogazione e la digitalizzazione per la conservazione del materiale in film e in video grazie ad accordi con la Fondazione San Paolo e Regione Piemonte. Gli originali rimarranno nella Cineteca di Ivrea, mentre sarà possibile consultare le copie in formato dvd. Si può rimanere colpiti dalla quantità di scatole, cronologicamente catalogate, dalle “pizze” in 35 mm ancora chiuse con vecchi nastri adesivi, video dai formati ormai desueti, tesi di laurea, fotografie. Tra i titoli delle videocassette alcune rarità: il documentario Être libre che testimonia il Living ad Avignone nel '68 (con frammenti di Paradise Now e registrazioni della rivolta del maggio con le assemblee, le azioni di strada, gli interventi del Living nel movimento politico, le riunioni, le feste), un'inconsueta versione di Mysteries a doppio palcoscenico del 1967, le Sette meditazioni in varie situazioni, dalla Biennale di Venezia del 1975 a Francoforte e Amiens nel 1978, l'Oratorio in appoggio a uno sciopero nel 1976, la lettura di Julian Beck del monodramma di Beckett That Time al Café La Mama il 4 aprile 1985 per la regia di Gerald Thomas; ed ancora, audiocassette con vari interventi, interviste, letture di poesie, incontri e il sonoro di vari spettacoli. E' inoltre documentato tutto l'ultimo Living, da Utopia a Waste a Zero Method, basati su testi di Hanon Reznikov, e varie azioni di strada, performance tra cui spicca senz'altro Equinox rite. Shamanizing Julian, un rito sciamanico con canti, danze e poesie per la guarigione di Julian Beck (1983).
“Ho aperto la prima scatola e ho trovato subito una locandina del Cabaret Voltaire. Questo è il motivo per cui l'Orsa era il luogo naturale per raccogliere il loro materiale: il Living qua ha sempre trovato ospitalità. L'avventura con il Living è di lunga data. Abbiamo fatto Mysteries nel '64 all'Unione Culturale, lo spazio che avevamo prima del Cabaret Voltaire, una sala per 50 spettatori. Ricordo la folla e l'attesa degli attori: il gruppo era a sedere in attesa del pubblico. E ti guardavano.... Avevano un modo di guardare... E di alzare il pugno! E poi ricordo un OM del gruppo in cerchio che saliva al cielo e lo slogan “Stop the war” di Beck. E poi Antigone, Paradise Now. Non portammo invece The Brig: costava troppo. Vidi a Berlino Paradise Now e subito lo programmammo per Palazzo Carignano: 300-400 persone si accalcarono dentro e all'uscita ci aspettavano 25 gazzelle della Polizia”.
Fadini è un fiume in piena quanto a ricordi. E non si risparmia sui dettagli.
“Abbiamo ospitato 419 spettacoli di cui il più tradizionale è stato Caligola di Aldo Trionfo. Venne da noi perché era stato rifiutato dal Teatro Stabile. Ospitammo Richard Schechner in Dyonisus in '69. Ricordo il lavaggio del sangue in scena. Siamo stati noi poi, a produrre Antigone del Living. La prima fu fatta qua, si legge anche in Theandric. Per l'Antigone ho visto come Judith dirigeva il gruppo: nella prima fase del lavoro tutti erano in fila attaccati al muro, lei ordinava di alzarsi, di allontanarsi, regolava scrupolosamente questi movimenti, singoli e di massa. Quando si passava alla voce questa era all'inizio, rigorosamente senza testo. L' Antigone fu un grande evento. Mi telefonarono dalla segreteria particolare di Gianni Agnelli. Volevano dodici biglietti per lo spettacolo. Venne la famiglia Agnelli al completo”.
Un modello quello del Cabaret Voltaire improponibile oggi, quando gli spettacoli della cosiddetta ricerca sono per lo più prodotti cuciti a misura di Festival, di direttori amministrativi, occhieggiando magari ai gusti della critica. Ma cos'è esattamente un Cabaret Voltaire?
“Non lo si inventa, si vive. Un Cabaret Voltaire vive con gli artisti. Se vuoi è un modello di programmazione alternativa allo Stabile, uno spazio che ha sempre avuto riguardo e attenzione per la grande stagione della ricerca teatrale internazionale. Noi lo fondammo nel 1975 ed è rimasto aperto fino al 1994. Idealmente oggi stiamo continuando quella straordinaria esperienza”.
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La visione di Antigone Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Laura Sansalone |
Leggi il saggio di Laura Sansalone sullo spettacolo del Living Theatre.
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Enigmas del Living Theatre Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Carola Savoia |
Leggi il saggio di Carola Savoia sullo spettacolo del Living Theatre.
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Judith Malina e Hanon Reznikov in Italia per celebrare Julian Beck Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Anna Maria Monteverdi |
Nel ventennale della morte di Julian Beck (1985-2005) L'ASSOCIAZIONE ORSA di Torino, CUT UP DELLA SPEZIA, LA CITTA' DEL TEATRO DI CASCINA (PISA) hanno invitato JUDITH MALINA E HANON REZNIKOV in Italia per ricordare Julian Beck e il Living Theatre con un reading poetico dal titolo LOVE AND POLITICS e con la presentazione del film documentario RESIST! sulla storia della compagnia (13-17 ottobre 2005).
The Legacy of Julian Beck: Judith Malina e Hanon Reznikov del Living Theatre in Italia
Organizzazione:
Anna Maria Monteverdi-Fernando Mastropasqua-Edoardo Fadini
Giovedì 13 ottobre - TORINO
Love & Politics - testi di J. Malina, H. Reznikov e J. Beck
presentato Fernando Mastropasqua
Università di Torino - Facoltà di Scienze della formazione - via S. Ottavio 20 - ore 17
info: 011-5174409
Venerdì 14 ottobre - TORINO
Resist - film documentario sul Living di Dirk Szuszies presentato da Malina & Reznikov
L'Orsa - via Botero 15 - ore 17, replica ore 21
info: 011-5174409
Sabato 15 ottobre - LA SPEZIA
Love & Politics - testi di J. Malina, H. Reznikov e J. Beck
Auditorium Dialma Ruggiero - ore 16
Introduce Anna Maria Monteverdi
info: annamonteverdi@tin.it
Lunedì 17 ottobre - CASCINA
Resist - film documentario sul Living di Dirk Szuszies presentato da Malina & Reznikov
La Città del Teatro Cascina - ore 17
In collaborazione con Università di Pisa e Forum degli allievi della Scuola Normale Superiore,
Introduce: Fabrizio Cassanelli e Alessandro Garzella (La città del Teatro), Ines Aliverti e Anna Monteverdi (CMT, Università di Pisa)
info: antonellamoretti@lacittadelteatro.it
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Kol Beck – Living Strings: un omaggio radiofonico al Living Theatre Dedicato a Julian Beck (1925-1985) di Roberto Paci Dalò |
For Judith Malina and Hanon Reznikov
Long Life Living!
“Anarchismus, warum nicht?! Anarchy, why not?!”
È con queste parole che la voce di Julian Beck chiude Kol Beck – Living Strings, opera radiofonica commissionata dallo Studio Akustische Kunst della WDR di Colonia che andrà in onda in prima assoluta il 24 settembre 2005 (1).
In queste immagini, Judith Malina e Julian Beck in visita alla tomba di Mikhail Bakunin a Berna. Immagini tratte dal video girato da Nam June Paik.
Kol Beck – Living Strings sviluppa i materiali di Beck/ett installazione suono/video creata presso The Western Front Society di Vancouver e presentata a Napoli nel 2003 all’interno della mostra “Living Theatre, labirinti dell’immaginario” (2).
La voce di Julian Beck e i silenzi di Beckett creano l’ambiente di Beck/ett. Il visitatore entra nello spazio acustico fatto di fonemi e parole. L’immagine è creata attraverso un uso del video in quanto pura luce in movimento. L’installazione vede così due livelli percettivi di eguale importanza e strettamente intrecciati: acustico e ottico.
Un anno dopo Napoli, a Riccione per “TTV / Expanded Theatre”, ho realizzato una presentazione site specific dell’opera utilizzando l’intero giardino di Villa Lodi Fè. Suoni e luci in movimento sono stati distribuiti in tutta l’area del parco trasformandolo in un luogo misterioso abitato dalla voce di Beck e dove la luce ha disegnato nuovi sentieri tra le costruzioni preesistenti.
“We should be free to do what we want to do.” (Julian Beck)
Ho pensato al colore nei suoi aspetti più puri e meno interpretativi (il Colorfield Painting e anche The Rothko Chapel di Mark Rothko, l’opera di James Turrell). Una pratica del monocromo applicata all’immagine in movimento e al cinema in generale. Silenzi e ombre per uno spazio che viene ricomposto dal visitatore come in un film di David Lynch: “In questo spazio visivo e sonoro si conoscerebbe qualcosa o si proverebbe una sensazione che non si potrebbe provare se non ci fosse il cinema”.
Dove l’utilizzo delle tecnologie video gioca con la tecnologia della “camera oscura” seicentesca. Dal diario di un cartografo olandese dell’epoca: “ti porterò in casa notizie piacevoli; non diversamente in una camera buia l’azione del sole attraverso un vetro fa vedere tutto ciò che accade all’esterno (benché rovesciato)”. E ancora: “Ho in casa mia l’altro strumento di Drebbel, che produce meravigliosi effetti di immagini riflesse in una camera buia. Non mi è possibile descriverne la bellezza a parole: ogni pittura è morta in confronto, perché qui è la vita stessa, o qualcosa di ancora più mobile, se soltanto non mancassero le parole. La figura, il contorno e i movimenti vi si fondono con naturalezza, in un modo assolutamente piacevole”. È così che la camera obscura viene ricreata in Beck/ett attraverso l’utilizzo delle tecnologie digitali. Un ponte tra il XVII secolo e i nostri giorni per una notturna avventura nel mondo della percezione.
Judith Malina dopo aver visitato l’installazione a Napoli insieme a Hanon Reznikov ha detto commossa: “è stato emozionante, come entrare nella testa di Julian”. Nell’estate 2003 abbiamo passato delle giornate bellissime a Napoli parlando di anarchia, di Julian e di più di 50 anni di resistenza. E Judith mi ha chiesto di presentare questa installazione per l’inaugurazione del nuovo spazio del Living a New York che sarà pronto, ritardi permettendo, nel 2006.
Tutto questo ha creato il terreno per un ulteriore sviluppo (questa volta esclusivamente acustico) del mio viaggio nella testa e nella grana della voce di Julian.
Nel 2004 Markus Heuger mi ha invitato a pensare a una nuova opera per la WDR di Colonia. Quando gli ho parlato di questo mio desiderio di proseguire il viaggio con Julian Beck immediatamente mi ha ricordato il bellissimo brano For Julian di Alvin Curran. Anch’esso prodotto dallo Studio Akustische Kunst e ugualmente basato sulla voce di Julian. Mi sono idealmente collegato a questo lavoro pensando a una sorta di dittico creato a distanza da due autori diversi (e amici da quasi vent’anni grazie a un incontro ordito da Pinotto Fava e Filiberto Menna presso il Lavatoio contumaciale di Roma). Con Alvin c’è sempre stata un’intesa sottile e per me è fondamentale pensare al mio lavoro in relazione al lavoro altrui. Un gioco infinito di rimandi, di echi, di riverberi nel tempo e nello spazio in un mondo fatto di persone. Non solo di cose.
Il suono di Beck/ett si affidava alla nuda voce di Julian Beck elaborata attraverso l’elettronica e trasformandola in certi momenti in pura pulsazione. In Kol Beck è creato un contrappunto a questi suoni con un quartetto d’archi (vero e proprio archetipo della musica occidentale). Così come Beck/ett era un ambiente immersivo e un lavoro sullo spazio, ora Kol Beck è un più classico pezzo radiofonico che però dilata molto i materiali originari. Da 9 a 40 minuti di durata scavando le parole di Beck, i suoi silenzi e le sue rotazioni attorno a una parola ricorrente: anarchia.
Sono cresciuto alla scuola anarchica e gentile di John Cage e il fatto che tre tra le più importanti voci e corpi del Novecento (Cage, Beck e Noam Chomsky) non manchino e non abbiano mancato di sottolineare l’importanza del pensiero anarchico nella loro vita pubblica e privata, ebbene questo mi pare particolarmente significativo.
“Come descriverebbe la sua politica?”
“Sono un anarchico.”
(John Cage)
Kol Beck ruota attorno a tutto questo. Un’unica voce che evoca molte voci per una polifonia dell’utopia vivente.
Il brano termina sospeso e le parole di Beck si intrecciano a Abide With Me, un corale di William H. Monk scritto nel 1861 su un testo di Henry F. Lyte che ho ascoltato la prima volta in un disco di un altro Monk: Thelonious. Un brano che mi ha accompagnato fin dall’adolescenza e che qui è ritornato (quasi di sua iniziativa) per intrecciarsi alla voce di Julian.
Sono felice di avere l’età che ho. Ho avuto la fortuna di parlare, camminare, bere con persone come John Cage, Michael Kirby, Beppe Bartolucci, Filiberto Menna. Attraversare New York nelle notti gelide di inverni rigidissimi e Roma nel suo splendore primaverile. Tutto questo è esistito! È esistito davvero... Allora posso pensare a un mondo altro dove la caducità delle cose e la morte delle persone non evoca tristezza o rassegnazione. Al contrario, genera vita nuova e amore.
Kol Beck – Living Strings non “risolve”, l’accordo resta sospeso in una “floating tender anarchy”. E allora: “Anarchy, why not?!”
14 settembre 2005
Ascolta un frammento di Kol Beck – Living Strings
NOTE
1. La messa in onda è prevista alle 23.00 del 24 settembre 2005 su WDR 3.
2. L’installazione Beck/ett è stata creata in occasione della mostra Living Theatre: labirinti dell'immaginario, a cura di Lorenzo Mango e Giuseppe Morra, presentata al Castel S. Elmo di Napoli nell’estate 2003; Beck/ett è una coproduzione Giardini Pensili/Fondazione Morra.
3. Album registrato nel 1957 a New York e intitolato semplicemente Monk’s Music. Tra i musicisti dello straordinario settetto vanno ricordati almeno John Coltrane, Coleman Hawkins e Art Blakey.
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Cinque foto di Julian Beck (& il Living Theatre nell'Enciclopedia di ateatro) Dedicato a Julian Beck di Redazione ateatro (& manythanks to Dirk Szousies) |
In questa pagina, troverete (qui sotto) un comodo link ai testi di ateatro in cui si parla del Living Theatre, di Juluan Beck, di Judith Malina...
Ma prima, cinque stupende foto di Julian Beck e del Living che ci ha fornito Dirk Szousies (manythanks).
Se vuoi trovare nel poderoso Archivio di ateatro tutti gli articoli che parlano del Living Theatre, di Julian Beck, di Judith Malina, clicca qui.
Se ci fai caso, è un vero è proprio Libro del Living, ricchissimo e articolato: testimonianze, ricordi, incontri, ma anche analisi di spettacoli e di singole scene, e poi poesie e immagini. Merito, in particolare, di Anna Maria Monteverdi e Fernando Mastropasqua, studiosi e amici del Living. E naturalmente grazie a tutti quelli che hanno collaborato!!!
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Italiani cìncali: Mario Perrotta tra narrazione e personaggio Una mail di Oliviero Ponte di Pino |
Caro Mario,
mi hai chiesto con grande cortesia qualche mia impressione sul tuo Italiani cìncali. Purtroppo (o per fortuna) non riesco a scrivere subito, a caldo, di tutti gli spettacoli che vedo. Un po’ perché a volte non ne ho il tempo materiale, un po’ perché non mi pare di aver niente di interessante da dire (né nel bene né nel male), un po’ perché certe idee e riflessioni hanno bisogno di qualche tempo per maturare.
Italiani cìncali per certi aspetti rientra in queste tre casistiche. Mi sei sembrano molto bravo, nel senso che padroneggi quelle che sono ormai diventate le tecniche e le retoriche standard del narratore (e qualche volta te ne compiaci, quasi virtuosisticamente), ma questo non c’è bisogno di scrivertelo, lo sai già da te, e te l’hanno sicuramente già detto in molti. E la tragedia dei minatori italiani in Belgio è sicuramente un tema perfetto da teatro civile, politicamente corretto e vergognosamente rimosso (fino al recente sceneggiato tv…). Dunque tutto bene, e tutto – in qualche modo – prevedibile: memoria rimossa e ritrovata, atroce ingiustizia che porta alla tragedia, conspevolezza e indignazione da parte del pubblico. Che cosa potrei aggiungere?
Invece nel tuo spettacolo, mentre lo guardavo, c’era un aspetto che mi ha incuriosito e mi ha fatto riflettere. Perché uno dei nodi chiave del recente teatro di narrazione made in Italy, e uno degli ingredienti del suo successo anche televisivo, è una sorta di ostentata “sincerità” - diciamo una sostanziale coincidenza tra l’attore e il personaggio, tra l’individualità e la personalità del narratore e quello che dice, tra il punto di vista di chi parla e quello che viene detto. E’ stato anche questo corto circuito a dare forza di testimonianza politica a molto del teatro civile di questi anni e a trasformare alcuni dei nostri migliori narratori in autorevoli portavoce della nostra sbrindellata memoria e coscienza collettive, in personalità legittimate a prendere pubblicamente la parola per affrontare i nodi irrisolti della nostra convivenza (in)civile. Ma proprio questo aspetto - la presunta innocenza del narratore - è quello che irrita e scandalizza alcuni spettatori eccellenti: Luca Ronconi per esempio considera questo corto circuito “osceno”, lui che da sempre lavora post-modernamente sullo scarto tra quello che viene detto e chi lo dice (sia l’autore sia l’attore). Dal suo punto di vista, quello della convenzionalità di ogni comunicazione, quella della narrazione è una scorciatoia profondamente sospetta.
Ecco, in Italiani cìncali le tre figure principali sono nella sostanza dei bugiardi dichiarati, mentitori programmatici, mistificatori per vocazione o per necessità. E la verità di cui è portatore il tuo testo – le ingiustizie, le sofferenze, il martirio subito da quei poveri emigranti nel ventre della terra belga – può emergere sono attraverso questa rete di menzogne (di matrice peraltro letteraria, a mio modo di vedere: non a caso nel tuo intreccio la scrittura - le lettere - hanno un ruolo determinante) di questi tre embrioni di personaggi. Per cominciare ci sei tu, o il tuo alter ego bambino, ovvero il punto di vista che filtra l’intera vicenda: quel tuo doppio infantile non fa altro che raccontare petulanti frottole ai suoi compagni di vaggio, sul treno che sale al nord, inventando la propria identità e le proprie ambizioni; e dunque pone fin dall’inizio l’intero raconto in una prospettiva sospetta, dando il tono a quello che seguirà. Poi ci sono i minatori saliti al nord (a cominciare dal tuo primo eroe), che nelle loro lettere sono costretti a mentire per non far sapere ai loro cari e ai loro paesani l’inferno in cui sono finiti. E infine c’è il postino, il secondo eroe della vicenda, che mente per non dover raccontare la tragica verità ai compaesani, per lasciare vivo un brandello d’illusione, un qualche briciolo di speranza (e in questo bilancio ci sarebbe da tener in conto anche chi sceglie di credere alle sue menzogne…).
Questo non è né un elogio né una critica del tuo lavoro, semplicemente una constatazione da cui forse varebbe la pensa di far partire qualche considerazione. Sul tuo spettacolo (che è senz’altro efficace e riuscitom nel senso che raggoinge gli obiettivi che si era prefisso, mi pare), e in generale sul format del teatro di narrazione e sulla sua attuale impasse.
Certo, bisognerebbe anche riflettere sulla effettiva credibilità “fattuale” di una vicenda così inventivamente e immaginosamente stratificata, che alla fine gioca quasi sui toni della commedia degli equivoci, seppur intrisa di venature patetiche. Insomma, mi pare che alla fine, al di là delle ambizioni documentarie, in Italiani cìncali finisca per prevalere la dimensione romanzesca su quella, diciamo così, epica. Questa può forse essere una via d’uscita dalle strettoie della narrazione, ma pone inevitabilmente altri problemi, di tenuta letterarua e scenica. Ma per il momento, nel tuo spettacolo, l’equilibrio – seppure fragile, a mio avviso - c’è.
Caro Mario, non so se è la risposta che ti aspettavli, ma è quella che sono riuscito a mettere insieme in questo agosto. E spero nauralmente di rivederti presto in scena, e vedere che cosa stai facendo, dopo Italiani cìncali.
Cordialmente
Oliviero Ponte di Pino
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Una via d'uscita dalla narrazione? Una riposta a Oliviero Ponte di Pino su Italiani cìncali di Mario Perrotta |
Caro Oliviero,
ti ringrazio per la tua risposta, che è esattamente ciò che mi aspettavo in quanto sollecita riflessioni ulteriori sul mio lavoro e sul contenitore (spesso generico) della narrazione, conferma la validità di alcune premesse adottate nel processo creativo e mette in crisi altri “punti fermi” che fermi non sono.
Procedo per ordine sparso:
le tue preziose annotazioni sono le ultime arrivate nel tempo e sembrano chiudere il cerchio, legandosi alle prime in assoluto espresse due anni fa, al primissimo debutto salentino, da Elio De Capitani (era casualmente lì in vacanza e dopo è entrato nel quintetto di voci che accompagnano Italiani cìncali).
Tra Elio e te, una marea di commenti, recensioni, suggerimenti, proposte di tagli, di aggiunte, targa delle Camera dei deputati, finale al premio Ubu, paragoni e paroloni indebiti (il nuovo Paolini, il nuovo Celestini… Ma dove siamo se si ha già bisogno di un nuovo Celestini?), interviste tipo: che cosa ha preso da Celestini? (Ascanio mi ha suggerito di rispondere: “Er caffè!”), ma nessuno che abbia centrato come voi due il nucleo fondante di tutto lo spettacolo che è appunto la menzogna. Ed è stato un punto di partenza voluto con forza da me e da Nicola Bonazzi.
Infatti, se è vero che ciò che accomuna tutto il calderone della narrazione è l’identificazione tra narrato e narrante e, come tu dici, la sua presunta e ostentata sincerità, allora cìncali non è narrazione. Lo dico in modo provocatorio, cosciente che, invece ne ha tutte le premesse formali e contenutistiche, ma le riflessioni che continuo a fare su ciò che è accaduto a questo lavoro mi hanno riportato indietro nel tempo, quando nasceva l’idea, e mi pare di aver individuato dei nuclei fondanti che, forse, lo tengono ai margini del contenitore “narrazione”.
Sicuramente, come ho detto, abbiamo scelto in partenza di destabilizzare tutto il contenuto “storico e civile” con la menzogna programmatica e la trasfigurazione involontaria adottata dal narrante Pinuccio.
Abbiamo scelto appunto che a tenere le fila del racconto fosse un vecchio trasognato, di pochi mezzi lessicali ma sagace e che non avesse vissuto in prima persona le cose che racconta: in sostanza un personaggio e non Mario Perrotta.
Ancor di più: io ho raccontato a Nicola di un postino incontrato in un’intervista e di altri episodi raccontati da minatori e Nicola si è lasciato suggestionare da pochi spunti e poi ha scritto liberamente; poi io ci ho rimesso mano e ho riscritto cose scritte da Nicola e puramente inventate.
Insomma, senza tanta retorica, un processo di costruzione prettamente teatrale: idea, progetto, attore e dramaturg che scrive per quell’attore specifico. Questo perché l’esigenza prima era restare ancorati al teatro e, come dice Enia, portare a casa uno spettacolo, magari anche bello, ma soprattutto necessario. E la necessità era tutta mia: tornare alla mia terra, raccontarla dopo averla rifiutata, ricostruire un rapporto con una matrigna che avevo amato in segreto protetto da 800 chilometri di distanza. E quale sguardo migliore di chi era stato rifiutato da quella terra (gli emigranti) per raccontarla senza presbiopie? Così e solo così è nato questo progetto, poco mi importava della sua valenza civile. E’ stata una fortuna che la necessità mia, coincidesse con una valenza teatrale e, fortuna maggiore, con una valenza civile.
Ora mi chiedo e ti chiedo: forse è questa un’altra via d’uscita? Evitare che il presupposto di un progetto sia solo una qualsiasi delle tragedie italiane (tra l’altro poche ne sono rimaste: Piazza Fontana, l’Italicus e qualcuna minore) e chiedersi quanta necessità individuale, che segno ha lasciato nel proprio vissuto quell’evento?
Sia chiaro che non sto giudicando il risultato del mio percorso (che anche quello penso sia una fortunata alchimia di più ingredienti), ma sto riflettendo sulle premesse.
Del resto mi piace dirti che la storia della nostra compagnia è segnata da tanti spettacoli nei dieci anni di vita, il cui impianto è assolutamente “classico” (quarta parete, etc…) con la differenza, semmai, che il caso ci ha regalato tre drammaturghi molto capaci (io non sono uno di loro quindi mi permetto di dirlo) che hanno consegnato agli attori per cui scrivevano “oggetti teatrali” efficaci da agire sulla scena: e questa è stata un’altra fortuna. Per una serie di scelte legate al radicamento sul territorio non avevamo mai portato i nostri spettacoli fuori da Bologna; aver fatto questo passo con il mio progetto ha creato all’esterno un fraintendimento e un’identificazione tra l’intera compagnia e me, e tra il lavoro della compagnia e la narrazione. Ti dico questo perché un altro nostro lavoro, che ha seguito lo stesso percorso di cincali (presentazione a Roma e conseguente tournée), ha tutte le caratteristiche del teatro civile e della narrazione (altra identificazione su cui ragionare), soprattutto nel processo creativo (interviste, documentazione sul campo…) e nel contenuto (si tratta del progetto T4 impiantato dai nazisti per l’eliminazione sistematica dei disabili mentali e fisici. Fu, in sostanza, la prova generale dell’Olocausto). L’impostazione dello spettacolo però, è appunto classica, con un rapporto di pura invenzione tra un’infermiera e una ragazza disabile (scritto e diretto da Pietro Floridia che è un altro dei nostri drammaturghi) ma questo sembra non togliere forza alla brutalità dei fatti che sostengono l’invenzione e al valore di documentazione storica dello spettacolo. Infatti lo spettacolo ha ricevuto commenti e recensioni addirittura entusiastiche e, nella prossima stagione, girerà un bel po’ passando anche da Milano.
Anche qui il percorso personale di Pietro lo ha condotto verso questo spettacolo e ciò che lo rende avvincente è che se ne respira la necessità, aldilà della forma che lui gli ha voluto dare.
Sicuramente questo spettacolo come il mio, predilige la dimensione romanzesca rispetto a quella epica, ma questo, forse deriva dal fatto che l’obiettivo che ci poniamo da sempre è soprattutto il teatro: farlo e cercare di farlo bene, che lasci una traccia, un invito a documentarsi e niente più. E’ anche un modo per dire la propria, ma sempre attenti che quel che si ha da dire sia necessario anche per altri e non solo per se stessi (in questo siamo a volte eccessivamente esigenti passando al vaglio dell’intera compagnia i progetti dei singoli)
Non so se è una dimensione riduttiva ma, in sintesi, questo è. Tutto ciò che è seguito a questo, per quanto riguarda cincali, certamente mi fa piacere e mi gratifica ma è anche un peso, “un fardello” che non so se vorrò sempre portare avanti. Mi spiego: adesso debutta la seconda parte del progetto sull’emigrazione in Svizzera ma già so che dopo questo spettacolo avrò voglia di altro, magari di mettere le mani sul Misantropo di Moliére (progetto che inseguo da tempo) perché ho bisogno delle cose dette in quel testo, oppure tradurre in teatro un romanzo francese dell'Ottocento, insomma non è detto che abbia altro di strettamente “civile” da raccontare. Ma poi mi chiedo (ed è una domanda sincera e non provocatoria): non può essere profondamente “civile” una messa in scena di un classico? E il teatro tutto, non è “civile” quando è necessario?
E questo porta a un’ultima considerazione su tua sollecitazione. Tra tutte le cose dette, che fibrillano nei pensieri e quindi non sono punti fermi, un solo punto fermo c’è e riguarda ancora l’equazione narratore (o teatro civile) = verità (o legittimazione a dissertare sulla verità irrisolta di un evento). Ho cercato e cercherò di evitare questo binomio pericoloso, in quanto fondato su un’autorità che non ho e che non cerco: faccio teatro e basta, spero di porre domande cariche di suggestioni e di non dare mai risposte definitive.
Ecco qua, sono giunto al termine di questi pochi pensieri ma confusi, sperando a mia volta di aver saputo esprimere efficacemente quel che volevo dire (mediamente sono un disastro con la parola scritta, per questo ho scelto quella detta).
Ti ringrazio ancora per la lucidità di alcune annotazioni da “critico” che, come è giusto che sia, svelano a chi fa teatro ciò che voleva dire e ha saputo soltanto “agire”.
Un abbraccio,
Mario Perrotta
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La narrazione teatrale Una breve nota di Nevio Gàmbula |
«La verità non consiste sempre nel mettere a posto subito tutti gli elementi del puzzle, ma nel sapersi fermare al frammentario, nel riconoscere opacità e lacune, nel sacrificare l’armonia, la coerenza e l’evidenza perfette in favore dell’acquisizione di qualche parziale e provvisoria conoscenza».
Remo Bodei, Le logiche del delirio, Laterza.
Il termine “narrazione” è fortemente ambiguo. Accostarlo a quello di “teatro” è, sotto diversi aspetti, operazione ambigua quanto il termine stesso. Per come viene comunemente usato, l’insieme dei due termini – teatro (di) narrazione – indica un “attore” che racconta una “vicenda” entro uno spazio particolare, teatro o piazza non importa. Prevede un “personaggio” (che può essere anche collettivo o, addirittura, lo stesso attore che si fa parlante in prima persona) e un modo particolare di ordinare gli elementi nella struttura, funzionale all’esposizione di istanze storico-civili. L’enunciazione può basarsi tanto sullo “scioglimento dell’enigma” che su una dinamica di accumulo di elementi da scoprire volta per volta, in cui conta non tanto l’esito, ma l’«eroe» e la sua «vita particolare»; mentre l’istituto del dialogo e l’interpretazione del personaggio sono sostituiti da «sequenze discorsive» che espongono il contenuto narrativo nel senso del tempo. Ora, l’ambiguità dell’accostamento tra i due termini qui considerati sta tutta qui: a) le caratteristiche proprie della narrazione possono essere ravvisate anche nel teatro propriamente detto, il quale ha sempre fatto i conti con un certo modo di dislocare la fabula nell’incedere dello spettacolo, per quanto secondo concezioni diverse e risultati persino opposti (la tecnica narrativa di Beckett, ad esempio, è tutt’altra cosa da quella di Brecht o di Koltès o di Schwab); b) teatro e narrazione hanno sempre convissuto, fin dal sorgere del teatro stesso, i cui impulsi primari sono, come disse più volte Grotowski, «la narrazione, il gioco, il rito» … Insomma, non è vero che il teatro di narrazione rappresenti in sé una novità; è vero piuttosto che è sorta una vera e propria tendenza, un “genere” fatto di punte notevoli e di discendenze poco onorevoli; così come è vero che il teatro di narrazione ha creato un humus di attese da cui è difficile stare fuori: ormai puoi stare sul mercato solo se ti atteggi a grande conoscitore e narratore di storie. Un genere importante, di rilievo anche sociale, che non può essere respinto in modo futile, così come non va esaltato acriticamente; bisogna analizzarlo con uno sguardo distaccato, riconoscendone la parzialità e inquadrandolo, per quanto possibile, nel contesto in cui è sorto. E studiarlo soprattutto cominciando col verificare se la modalità narrativa messa in gioco possa essere parte di una concezione altra della scena, sottraendosi quindi ai meccanismi e ai modi ideologici dell’epoca, oppure soltanto un artificio capace di ovviare all’emarginazione mercantile dell’evento teatrale. La questione è essenziale. Si tratta di verificare se il teatro di narrazione è stato capace di produrre eventi teatrali in grado di mettere sotto scacco le norme e le abitudini espressive dominanti; e ciò non per mero vezzo contestativo, ma perché l’adeguamento ai modelli prevalenti è, sempre e comunque, adesione ad un ordine sociale.
Dalla fine degli anni Ottanta ad oggi, una serie di esperienze di quello che veniva definito “teatro di ricerca” comincia a recuperare il racconto a teatro, di solito fatto coincidere con la riscoperta di modalità popolari di impostare la narrazione. Marco Paolini, Baliani, il Teatro Settimo, sino ad arrivare a Celestini e Davide Enia, sono le punte di un fenomeno che attesta la narrazione come una esposizione di spinte che hanno sede fuori dal linguaggio: istanze etico-civili, recupero di una memoria perduta, riscatto della facile comunicazione, rispetto delle attese del pubblico. Alla base di questo recupero della narratività ci sono diversi elementi, e in particolare la consapevolezza che il racconto apre la possibilità di “fare comunità”, ossia di aggregare individui altrimenti isolati. La «nostalgia di un senso» produce la volontà di ricercare «un nuovo senso». Sono, questi, gli anni del “rinculo mentale”, dove è ormai evidente, e per certi versi anche interiorizzata, la sconfitta di ogni istanza di trasformazione radicale della società. Nell’assenza di luoghi in cui fare circuitare significati diversi da quelli dell’effimero e dell’edonistico esaltarsi nell’intrattenimento, pian piano emerge la necessità di creare legami sociali di tipo nuovo, nuove modalità di stare insieme e di ripensare la socialità. Una affermazione eminentemente politica. Solo che l’ambito “naturale” di questa esperienza è, per così dire, bloccato; ancora troppo forti sono i rumori dei colpi di coda del “terrorismo” e della repressione statale: ed ecco che l’ambito della politica si trasferisce in un suo surrogato, l’assemblea teatrale. È in questo contesto che si apre la strada alla possibilità di raccontare vicende esemplari. Questo livello sociale, che esula dall’ambito del teatro, è parallelo ad una trasformazione interna al teatro stesso. Si è infatti al culmine di due percorsi emancipativi che hanno attraversato le scene italiane; da una parte c’è il recupero dell’autorialità del lavoro dell’attore, dall’altra l’acquisizione dell’idea che il teatro non sia più (non sia mai stato) la trasposizione sul palcoscenico di un testo che gli pre-esiste. Entrambe queste esperienze, spesso coincidenti in un’unica persona o gruppo, hanno minato la convenzione della parola come primus movens della scena, come elemento che «anticipa, predispone e dirige la struttura dell’accadimento teatrale». La parola diventa una funzione tra le altre e, nei casi più interessanti, è sempre piegata al rapporto conflittuale con la voce, nella esaltazione di una phoné non naturalistica. La parola non era più la base letteraria dello spettacolo, ma elemento materiale e corporeo dell’evento.
Il recupero della scena come «regno dell’attore» è un processo frastagliato, contraddittorio, che ha evidenziato due diverse tendenze, due percorsi che, alla prova dei fatti, divergono radicalmente, sia per gli esiti che per le premesse. Da una parte, lo sbocco rappresentato dall’esperienza del teatro di narrazione, dall’altra quanti hanno agito l’autorialità d’attore perseguendo una radicale messa in crisi del concetto stesso di recitazione. Potremmo dire che mentre il primo va in direzione della “prosa”, i secondi si attestano sulla vocazione poetica dell’attore. Ciò che certifica questa diversa funzione è l’atteggiamento nei confronti della lingua. In un certo senso, il teatro di narrazione accetta la lingua esistente, mentre i poeti della scena tentano di forzare dall’interno «il sistema gerarchico delle funzioni linguistiche». Nel primo caso si può parlare di assimilazione, nel secondo di rottura epistemica. Vediamo perché. Sul piano tematico, il teatro di narrazione «racconta ciò che gli spettatori già sanno (le fiabe, un fatto di cronaca) e fa emergere delle opinioni già condivise» (P.G. Nosari, I sentieri dei raccontatori di storie, in Prove di drammaturgia, n. 1, annoX, luglio 2004, interamente dedicato alla «nuova performance epica»). Una funzione del teatro di narrazione è infatti quella di «istruire e consolare» la comunità di riferimento, contribuendo con ciò a stabilizzarla. È proprio questa tendenza dell’attore ad assumere «le indicazioni che emergono dal pubblico» (G. Guccini, Il teatro narrazione, in Prove di drammaturgia, n. cit.), in pratica questo suo adeguarsi al senso comune, che meglio mostra i limiti del fenomeno, rendendolo, di fatto, strumento di conformismo. Il meccanismo percettivo attivato è basato sul riconoscimento, e non, come invece accade nella «parola ebbra» del poeta di scena, sulla deviazione tra attese del pubblico e performance. Questa predisposizione implica il rispetto di una codificazione linguistica precostituita, che è poi la stessa usata normalmente dallo spettatore, limitando al minimo la sperimentazione. Il funzionamento della struttura linguistica, insomma, ne lascia inalterata la sua logica di base, e difatti la funzione semantica prevale su quella espressiva. Nell’opera narrativa, quindi, quello che ha maggiore pregnanza è il referente: si recupera l’attenzione ai significati della lingua, soggiogando il ritmo affabulatorio ai canoni di una esposizione tranquillizzante, che deve mirare a coinvolgere lo spettatore, piuttosto che a metterlo in crisi. Le strutture orali sono perciò lineari, l’esposizione segue un andamento progressivo, per accumulo di particolari: è basata, come ogni buona narrazione “tradizionale”, su una sequenza di parole che, in un continuo crescendo, rendono via via più intensa l’esposizione di una vicenda, come se tutti i particolari debbano alla fine giungere alla chiusa finale, che deve essere “buonista”, espunta cioè da ogni crudeltà (crudeltà in senso artaudiano) ... La lingua del teatro di narrazione è una lingua statica, normalmente funzionante: il repertorio dei segni linguistici non vive di accostamenti inaspettati, di scarti tra ciò che è “tema” della narrazione e le fisionomie del dire. Viene a mancare tutto ciò che è deforme, grezzo, corrosivo; in una parola, viene soppresso uno degli impulsi più importanti della ricerca teatrale – e non solo teatrale – dell’ultimo secolo, la tensione al grottesco come «espressione del mutamento, del rinnovamento e dell’alternativa a un mondo statico e determinato» (Paola Cristina Fraschini, Le metamorfosi del corpo, Mimesis). Nel teatro di narrazione, l’esposizione (la dizione, i ritmi, le tonalità) non conosce eccesso, è narcotizzante: non solo perché è, alla lunga, mono-tona, ma anche perché, nel momento in cui è basata sul riconoscimento, da parte dello spettatore, di qualcosa che già conosce, rende incapaci di reazione: si sopprime la capacità di nascere un’altra volta, che è poi la caratteristica principale della relazione tra scena e platea. In un certo qual senso, si può dire che l’esposizione nasconde, o meglio sottrae alla percezione dello spettatore la contraddizione tra la libertà del corpo in azione sulla scena e le convenzioni; è come se dissimulasse la lotta necessaria, quell’«attacco della lingua consolidata condotto allo scopo di farsene una propria» che ha fatto di Leo De Berardinis, ad esempio, un grande poeta della scena ... In sintesi, l’atteggiamento del teatro di narrazione nei confronti della lingua è basato sul recupero del contenutismo simil-zdanoviano, certo meglio adatto ai tempi, dunque cassato da ogni impurità totalitaria, però, ad una seria e rigorosa analisi delle sue strutture reali - e dico reali, dunque esulanti le intenzioni dei singoli – , le sue strutture, dicevo, sono di vago sapore “neo-realista”, addirittura recuperano certo mimetismo della parlata quotidiana (l’accento romanesco di Celestini, il palermitano di Enia, così come le ripetizioni di parti di discorso come imitazione dell’incapacità, tutta proletaria, di articolare sequenze logiche), e per giunta quasi tutte rivolte al passato, nel senso che raccontano un mondo che non esiste più (una sorta di realismo della memoria). Lo spettacolo è così trasformato in un «rituale pedagogico» (G. Guccini) e non, come dovrebbe, in un rito teatrale; e proprio in quanto “pedagogico” non può che ottenere un «effetto placebo» ...
È per tutto ciò che il teatro di narrazione non ha niente a che vedere con quanti, sicuramente in minoranza, hanno mirato a «ricondurre il teatro alla sua essenza poetica» (Antonio Attisani, L’invenzione del teatro, Bulzoni). L’attore poeta fa deflagrare i significati entro complesse strutture che sono anzitutto teatrali, il cui scopo originario non è proporre modelli – civili, etici, storici – bensì inventare una teatralità “altra”, dove la critica all’epoca passa da una diversa strutturazione dei materiali. La recitazione è qui il riscatto del corpo, è la vertigine della parola-coltello ... Segni in negativo, verità appena intraviste ... Sovversione militante, disumana ... Un gorgo erotico, senza identità ... Questa è la poesia dell’attore: una pantagruelica bisboccia, è un baccanale traboccante di fioriture oscene e tenere, è un bivacco esposto agli attacchi, è una grande allegoria della libertà possibile … È, più che adeguamento, una interferenza nella lingua …
Aggiunta storica
Si è detto che teatro e narrazione si compenetrano uno nell’altra, da sempre. Anche l’avanguardia teatrale italiana non ha disdegnato l’utilizzo della narratività, come bene dimostra il lavoro di Carlo Quartucci. Il regista siciliano teorizza in diverse occasioni sulla figura dell’attore-narratore; comincia a farlo a metà degli anni settanta, dunque ben prima che sorgesse il teatro di narrazione per come oggi lo conosciamo, nato, secondo gli studiosi che seguono più da vicino il fenomeno, intorno al 1989 (Stabat Mater del Teatro Settimo, secondo Gerardo Guccini, è la prima «fonte»). Le considerazioni di Quartucci si possono leggere nel volume Viaggio nel camion dentro l’avanguardia, scritto insieme a Edoardo Fadini (Studio Forma Editore, 1976). A pagina 48 è riportata, a firma di Carla Tatò, una dichiarazione che fa luce sulla reale primogenitura di questa ricerca attoriale:
«Dico questo per cercare di definire in qualche modo la figura del narratore. La fonte a cui attingono tutti i narratori è il racconto di un’esperienza tramandata di bocca in bocca; in passato l’esperienza veniva fatta da mercanti-viaggiatori e ascoltata dai contadini e dagli artigiani sedentari. In questo senso il racconto era uno scambio di esperienza. Storicamente c’è anche un’altra dimensione del narrare: il racconto tragico legato alla persona di un viaggiatore che ad ogni tappa arricchisce la storia di nuova esperienza. Come attrice-narratrice io devo raccontare, invece di interpretare la psicologia di un personaggio; non ho quindi nulla con cui confrontarmi se non il bagaglio storico del racconto».
Ovviamente, il narrare dell’attrice Carla Tatò è inserito da Quartucci in un congegno esploso, essendo il suo programma quello di “distruggere” la macchina scenica. Il racconto, allora, nel suo continuo dipanarsi tra personaggio e narrante, è trasmesso «attraverso un linguaggio sonoro dai ritmi spezzati, violenti e contradditori» (C. Tatò, op. cit.); l’enunciazione è sconnessa, vive di una serie di lacune tra un momento e l’altro, e il racconto non segue un filo lineare, mentre la voce narrante esce dal paradigma del rispetto dell’aderenza ai significati del detto per farsi poesia della voce. Questa impostazione franta della narrazione è stata successivamente confermata dagli studi più interessanti sul fenomeno dell’oralità. Walter Ong, ad esempio, scrive che «una cultura orale non conosce trama lineare che tende al climax» (Oralità e scrittura, Il Mulino). Anche Paul Zumthor afferma che la poesia orale mira alla rottura del discorso: «frasi assurde, accumulo di ripetizioni fino all’esaurimento del senso, sequenze foniche non lessicali, puri vocalizzi» (La presenza della voce, op. cit.). L’esito più efficace della ricerca di Quartucci sulla “narrazione” è lo spettacolo Canzone per Pentesilea, del 1983. Il testo di Kleist viene raccontato da un “cantore” (la stessa Tatò), che procede nella vicenda dando voce ai diversi personaggi, all’interno di una complessa struttura musicale (composizioni di Giovanna Marini) di scambio tra solista e orchestra, tra canto registrato e recitante. Un esito che è radicalmente diverso dalle esperienze che sarebbero poi maturate entro quel composito e variegato universo del teatro di narrazione. Il racconto di Quartucci è un non-racconto, forme rigorose che si disseminano per frammenti, ma che conservano un piacere della compiutezza. Non c’è trama; non ci sono valori positivi; non ci sono motivazioni che abbiano sede al di fuori dell’esigenza di cercare altre direzioni al teatro; c’è piuttosto un dipanarsi poetico del gioco teatrale: una sorta di operazione meta-teatrale, una dissertazione sul “modo di procedere”, che certo non tralascia l’attenzione ai significati (il tema della crudeltà dell’amore tra Achille e Pentesilea, ad esempio), ma li piega in funzione di una certa idea di teatro e di attorialità, dove la poesia – che è, come diceva Valery, «l’esitazione prolungata tra suono e senso» – è l’elemento principale. La funzione della narrazione, allora, non è più volta a dare soluzione scenica ad una serie di vicende e contenuti, quanto piuttosto a ripensare radicalmente il teatro.
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Teatro Madre nel Tardo Mafioso Impero Nino Gennario nella lettura-spettacolo di Massimo Verdastro di Andrea Balzola |
Un libro e una lettura-spettacolo di Massimo Verdastro dedicati al drammaturgo e poeta siciliano Nino Gennaro (1948-1995), al Teatro Garibaldi di Palermo. Con un’intervista a Massimo Verdastro.
Il 9 e 10 settembre Palermo (la città vera, non quella delle istituzioni, che hanno negato il loro sostegno) si è ricordata di Nino Gennaro, uno dei più originali e vivaci protagonisti della sua vita teatrale e politica negli anni Settanta-Ottanta. grazie a un progetto ideato e fortemente voluto da Massimo Verdastro e Goffredo Fofi nel decennale della morte del poeta-drammaturgo. Al Teatro Garibaldi, si sono svolti due appuntamenti: la presentazione del libro Teatro Madre, che raccoglie i testi teatrali e altri scritti di Nino Gennaro, a cura di Massimo Verdastro, appena uscito per i tipi dell’Editoria & Spettacolo di Roma (a cui hanno partecipato oltre al curatore e all’editore Maximilian La Monica, Goffredo Fofi, il regista italo-argentino Silvio Benedetto, Francesca Della Monica, Maria Di Carlo, Giusi Gennaro, Simona Mafai, Marco Palladini, Dino Paternostro, Lina Prosa, Nino Rocca, Umberto Santino del Centro P. Impastato) e la lettura-spettacolo O si è felici o si è complici, su testi di Gennaro, a cura di Massimo Verdastro, con Nando Bagnasco, Francesca Della Monica (che ha curato anche le musiche), Sabina De Pasquale, Silvia Martorana, Massimo Milani, Marco Palladini.
Nino Gennaro, nato e cresciuto a Corleone e poi costretto nel 1977 a spostarsi a Palermo, a causa dell’ostilità dell’intero paese per il suo anticonformismo e il suo impegno politico antimafia, è una figura eclettica e geniale che ha sempre deliberatamente scelto la libertà, a prezzo della marginalità che essa spesso comporta soprattutto in realtà ancora molto chiuse come quella siciliana degli anni Sessanta-Settanta. Prima animatore di un circolo giovanile socialista, poi dopo la chiusura di questo fondatore di un circolo indipendente dedicato al sindacalista Placido Rizzotto ucciso dalla mafia (che solo in tempi recenti è stato ricordato, attraverso il film di Scimeca), Nino Gennaro raccoglie intorno a sé un gruppo di giovani tra cui, con grande scandalo e ostilità dei parenti, alcune ragazze minorenni, così per la prima volta a Corleone viene celebrato l’8 marzo e arrivano libri, temi di discussione proibiti o sconosciuti, e con essi il vento di un desiderio di libertà e di cambiamento che nel resto d’Italia e del mondo già spirava da un decennio. Grazie al suo sostegno e a una audace sentenza del giovane pretore Giacomo Conte, Maria Di Carlo (poi compagna del poeta fino alla morte) vinse la sua battaglia contro il padre padrone che la picchiava selvaggiamente e la chiudeva in casa per impedirle di frequentare le “cattive compagnie” di Gennaro, “sciupafamiglie e frocio”. Negli stessi anni in cui Peppino Impastato conduceva la sua coraggiosa battaglia, che gli fu fatale, contro i capi mafia di Cinisi, Nino Gennaro invitava i conterranei a ribellarsi al “Tardo mafioso impero”, dichiarando che Corleone non era una “repubblica indipendente” e i corleonesi non erano tutti “gregari del boss Luciano Liggio”. Il messaggio di Nino ha ancora un’attualità straordinaria: c’era e c’è un’altra Sicilia che non va sotto i riflettori dei media, che fa fatica a campare ma che è una grande risorsa di idee, creatività e umanità, ed è un’arma fondamentale per battere il sopruso criminale e la rassegnazione. Arrivato a Palermo, Nino continua il suo impegno politico nel movimento universitario, per il diritto alla casa e i diritti degli omosessuali, e incontra il regista e pittore italo-argentino Silvio Benedetto che gli insegna l’arte di recitare. Da quel momento inizia la sua avventura teatrale, e all’inizio degli anni Ottanta crea il “Teatro Madre”, un gruppo “nomade” di amici, attori e non, che metteva in scena in modo assolutamente spartano testi scritti da Nino stesso, portandoli nei luoghi extrateatrali di Palermo: università, biblioteche, locali e nelle case (a partire dalla casa stessa che Gennaro condivideva con Nino Rocca, luogo aperto alle relazioni umane e culturali). Una scrittura frammentaria, visionaria ed esasperata per un teatro impegnato, arrabbiato e provocatorio – Fofi lo ha definito “teatro in-civile” (cioè “iper-civile”) per distinguerlo ironicamente dall’inflazionato e talvolta un po’ scontato “teatro civile” di questi anni – che aveva Genet come modello più evidente e che raccontava l’altra Sicilia degli “emigrati, dei disoccupati, degradati di ogni specie, dagli intellettuali ai sottoproletari”. Temi molto sentiti anche nel lavoro di altri protagonisti del teatro siciliano contemporaneo come Franco Scaldati, Emma Dante, Davide Enia. Nell’ultima performance del Teatro Madre, del 1984, il testo “Tardo mafioso impero” si concludeva con il violento paradosso: “Prima che vi uccidano uccidetevi!” Così scrive Gennaro al suo amico Palladini, riassumendo il proprio pensiero e la propria poetica: “Tutta la mia vita, tutta la mia produzione, vogliono dire e dicono dei nostri territori-corpi colonizzati da fascismi, mafie, clericalismi, oppressioni-repressioni e di lotta senza quartiere per dis-interiorizzare, non collaborare. Perché il capolavoro di ogni potere è rendere labile o annullare i confini tra vittima e carnefice, farti complice del suo dominio, della sua logica di dominio. Mondo di lutto, di sottomissione, di psicofarmaci, di miseria e di morte. Ripeto, io dico no, a questa morte…”
L’attore-regista romano Massimo Verdastro conobbe Nino nel 1978, quando si trasferì a Palermo per recitare con Silvio Benedetto e frequentare la scuola di teatro di Michele Perriera (ex Gruppo ’63). Divennero subito amici, frequentandosi assiduamente durante tutta la permanenza palermitana di Verdastro (fino al 1985). Si incontrarono nuovamente nel 1991, quando ormai Nino era già malato e aveva lasciato il teatro per dedicarsi esclusivamente all’impegno sociale e alla scrittura, Verdastro voleva invece riportare alla luce della scena i suoi scritti, convinto della loro forza teatrale e dell’importanza del loro messaggio. Quell’incontro fu così l’inizio di una straordinaria collaborazione artistica che idealmente continua ancora adesso e che appunto è stata celebrata a Palermo con la presentazione del libro e dello spettacolo O si è felici o si è complici. Gennaro prepara per Verdastro alcuni “mix” (così lui li chiamava) di suoi testi per il teatro: Una Divina di Palermo, La via del Sexo, Rosso Liberty, Teatro Madre (ora tutti raccolti nel volume citato) e il diario dell’ultimo periodo Alla fine del Pianeta. Che diventano nel corso degli anni successivi, grazie alla fedele determinazione e all’eccellente capacità interpretativa di Verdastro, degli spettacoli di notevole impatto e valore, e attraversano tutta l’Italia, facendo finalmente conoscere il talento di Gennaro al di fuori della sua terra. In particolare Teatro Madre, con drammaturgia di Verdastro e Nico Garrone, una compagnia di otto attori e il sostegno artistico-organizzativo di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi, presentato nel 1999 ai nuovi Cantieri culturali della Zisa (oggi chiusi dalla giunta di destra), rappresenta una sintesi emblematica e di grande intensità espressiva del “difficile rapporto tra genitori e figli, tra mondo contadino e mondo metropolitano”.
Massimo, come nasce la tua passione umana e artistica per Nino Gennaro?
La mia amicizia con Nino Gennaro nasce a Palermo nel 1978 quando con il regista e pittore Silvio Benedetto mi trovavo all' Hotel Centrale ai Quattro Canti dove in cambio dell'ospitalità facevamo teatro. Nino, transfuga da Corleone, si unì a noi condividendo quell'esperienza unica ed irripetibile. Rimasi subito folgorato dalla bellezza e dalla forza delle sue poesie che nella loro semplicità e immediatezza rivelavano il coraggio e la determinazione di un giovane che rivendicava il diritto a una vita libera da soprusi, inganni e omologazioni. Sicuramente fu questo uno dei motivi che mi hanno spinto, all'inizio degli asfittici anni '90 a portare in scena la sua opera.
Ci puoi brevemente raccontare le caratteristiche drammaturgiche e interpretative degli spettacoli che hai messo in scena sui testi di Nino, da Una Divina di Palermo fino all’ultima lettura-spettacolo O si è felici o si è complici?
L'opera di Nino Gennaro, tutta rigorosamente stesa a mano, si compone di una scrittura fatta di parole che reclamano subito un corpo e una voce in cui incarnarsi. Spesso, come nel caso di Una Divina di Palermo, siamo colpiti da una scrittura teatralissima, vertiginosa, piena di escamativi, invettive, contaminazioni dialettali, parole inventate. A Gennaro, pur restando profondamente legato alle sue radici, non interessava operare recuperi dialettali, arcaismi linguistici o una ricerca formale del verso poetico ma, piuttosto, registrare trasformazioni e nuove voci della contemporaneità. Lo spettacolo Una Divina di Palermo, il primo dei lavori che ho messo in scena e che ha rivelato alla critica e a un pubblico più vasto la presenza di questo autore, è da considerarsi assieme a La Via del Sexo e a Rosso Liberty un recital, un concerto. L'attore deve frantumarsi in schegge di pensieri, personaggi, storie. Invece la messinscena di Teatro Madre, proprio per la sua natura di testo teatrale drammaturgicamente definito, richiede la relazione tra più attori e lo sviluppo di una vicenda ( conflitto genitori-figli ) di forte impatto emotivo. O si è felici o si è complici è stato lo spettacolo che ha ricordato Nino a dieci anni dalla morte. Un lavoro per me molto importante. Questa volta in scena non c'erano soltanto gli attori ma anche gli amici più vicini che con rigoroso impegno hanno interpretato le pagine di Nino Gennaro.
Il libro Terra Madre, che tu hai curato e che raccoglie scritti teatrali e poetici, foto degli spettacoli e importanti contributi di Goffredo Fofi, Lina Prosa, Maria Di Carlo, Ivana Conte, Marco Palladini, Tiziano Fratus e Nico Garrone, che ritratto vuole ricostruire della figura e dell’opera di Nino?
Credo che il libro oltre a voler restituire una parte dell'esperienza poetica e umana dello scrittore sia anche la testimonianza di un progetto teatrale voluto e condiviso da me e Nino. Infatti la trilogia composta da Una Divina di Palermo, La Via del Sexo, Rosso Liberty e Teatro Madre sono quattro dei cinque spettacoli dai testi di Gennaro che ho portato in scena nel corso degli anni '90. I preziosi contributi danno ognuno una visione differente ma allo stesso tempo corrispondente alle caratteristiche poliedriche dello scrittore. Fondamentale è il racconto di Maria Di Carlo che per venti anni ha vissuto accanto a Gennaro. Compagna di vita, di lotte politiche e di avventure teatrali, Maria lo ha seguito sempre fino all'ultimo giorno. Importante il contributo del giovane scrittore e drammaturgo Tiziano Fratus che pur non conoscendo Gennaro personalmente, lo ha amato attraverso la lettura dei suoi testi e ha così voluto dedicargli un suo scritto.
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Le recensioni di ateatro: i finalisti del Premio Scenario 2005 “Altre scene 05 - lampi di teatro e danza” a Roma di Elena Lamberti |
Hanno debuttato in forma di spettacolo l’1 e 2 ottobre 2005 al Teatro Furio Camillo di Roma, a conclusione della rassegna “Altre scene 05 - lampi di teatro e danza”, organizzata dall’ETI - Ente Teatrale Italiano in collaborazione con ARCUS spa, i progetti ultimati - il vincitore e i tre segnalati della X edizione del Premio Scenario promossa dall’Associazione Scenario e realizzata con il sostegno di ETI - Ente Teatrale Italiano, Festival di Santarcangelo dei Teatri e con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Città di Torino.
Il primo dei tre spettacoli presentati è stato ’O mare di Taverna Est di Napoli, ideazione e regia di Sara Sole Notarbartolo, lavoro di un gruppo di artisti di nazionalità diverse. Un viaggio verso il mare di una piccola comunità di immigrati che parlano lingue diverse e dialogano attraverso la musica e le arti di strada. Nato all’interno di un centro sociale napoletano, ’O Mare cerca di elaborare nel linguaggio drammaturgico gli accenti, le abilità e i linguaggi scenici differenti propri di ciascuno dei componenti del gruppo, per narrare una storia picaresca, intrisa di amore, tradimenti, morte e avventura. Basato sui temi della marginalità sociale e della contaminazione culturale, con evidenti citazioni al cinema di Kusturica e di Fellini e al teatro di Emma Dante, ’O Mare è uno spettacolo gradevole ma non particolarmente originale.
Di tutt’altro stile 11/10 on apnea, della Compagnia Teatro Sotterraneo di Firenze, un lavoro brillante, fra i più originali visti in questa edizione del Premio Scenario, che indica nella sua perfetta sintonia la metodologia di lavoro collettivo dei sei giovanissimi componenti del gruppo, segno di una generazione che sente forte il bisogno di una comunicazione, della possibilità di esperienze e azioni comuni. Ambientato in un interno, forse una comune, il lavoro della compagnia fiorentina, solcato da un profondo disagio esistenziale, mostra quattro ragazzi alle prese con monomanie individuali, schegge di follia collettiva, tentativi di suicidio di gruppo che assumono l?apparenza di un balletto allucinato e poetico, ansie di fuga e desideri frustrati. I primi trenta minuti dello spettacolo sono segnati da un ritmo vorticoso, perfetto, e da una scrittura drammaturgica felice e originale, nella seconda parte, tuttavia, il lavoro soffre per eccesso. La compagnia fiorentina deve eseguire un lavoro di sintesi e limatura sulle numerosissime idee drammatugiche che affollano l’ultima parte di questo lavoro, per renderlo calibrato ed efficace nel suo insieme.
Il percorso di selezione dei progetti presentati all’edizione attuale del Premio Scenario ha evidenziato un significativo elemento di differenziazione rispetto alle passate edizioni, vale a dire la presenza di artisti di livelli professionali diversi. Accanto a giovani attori provenienti da laboratori, seminari, scuole e accademie, si sono affacciati a Scenario artisti provenienti da esperienze professionali maturate nel teatro “ufficiale”.
È il caso del lavoro di Francesca Proia, un assolo di classe per un?artista ormai affermata. Segnato da una profonda maturità artistica il raffinato e intenso assolo della danzatrice ravannate Francesca Proia, autrice ed interprete di Qualcosa da sala, su musica del compositore Oskar Sala.
Nella sua performance di grande rigore formale Francesca Proia costruisce una dimensione di assoluta solitudine, in cui esplorare le dinamiche della danza butoh in un?atmosfera rarefatta e allucinata nella sua astrattezza.
L’ultimo spettacolo presentato è stata la performance nata dal progetto vincitore, Il deficiente di Gianfranco Berardi e Gaetano Colella di Taranto, un progetto di forte intensità, una riflessione sulla percezione e sui suoi limiti. Sotto il segno di un’apparente linearità narrativa, si strutturano in una fitta rete di relazioni diverse e niente è ciò come appare. Colella e Berardi, due giovani artisti tarantini, hanno realizzato lo spaccato di «tragedia in un interno»: tre fratelli, di cui uno non-vedente (il «deficiente»), convivono in una casa in una situazione di evidente marginalità e povertà. Schermaglie verbali, giochi di potere, scontri fisici, piccoli e grandi tensioni si intrecciano in un delicato a fragilissimo equilibrio, definitivamente infranto dall?entrata nel gioco a tre di una quarta presenza, la fidanzata incinta del “deficiente”, che si rivelerà ben diversa da ciò che appare. Lo spettacolo, portatore di un’amara ironia, ha i suoi momenti migliori nel rapporto fra i tre fratelli, nei loro dialoghi cinici e crudeli, e si avvale dell?ottima interpretazione dei due autori registi e della buona prova di Pietro Minniti (il fratello non vedente). Meno convincente la prova di Francesca Russo nel personaggio ambiguo e complesso di Franca, la fidanzata del “deficiente”.
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La meglio gioventù della drammaturgia italiana? I vincitori della 48a edizione del Premio Riccione di Chiara Alessi |
Si discute spesso sulla vecchiezza del nostro teatro, sulla senilità delle programmazioni, la decrepitezza dei nostri palcoscenici-musei, in particolare, quando si fa riferimento alla drammaturgia e si scomodano repertori, maestri, abitatori defunti di cartelloni immortali che a ogni stagione ripropongono “i soliti sospetti” imperituri. Dall’altra parte – e non solo nella generazione teatrale - i trentenni o tardo ventenni sono abitualmente incriminati di far parte di un’ondata abulica, anonima, affatto indegna e ripudiante il nome dei padri. E’ vero: l’epoca degli autentici fenomeni della storia teatrale e non, degli eccezionali enfant prodige, che forse nulla hanno a che fare con quelli che ci ostiniamo a chiamare i “giovani emergenti”, si può dire estranea alla nostra realtà. Eppure va almeno constatato che qualcosa di buono davvero, se non straordinario, sta accadendo proprio nella drammaturgia, proprio per riportare la scrittura teatrale a un luogo di familiarità e concretezza palpabili. E gli esiti di questa 48a edizione del “Premio Riccione” ne sono la prova: cinque premiati, quattro dei quali nati negli anni Settanta, tre di cui under trenta.
Il primo premio addirittura a un ventiseienne, il napoletanissimo barocco Mimmo Borrelli, che cede il “Tondelli” al trentenne fiorentino Stefano Massini, interprete penetrante delle deliranti proiezioni di un Van Gogh maniacodepressivo in L’odore assordante del bianco. In questa ricostruzione sinestetica dei dialoghi sospesi dell’artista fiammingo con gli avventori reali e immaginari delle quattro mura bianche del manicomio, sono davvero le parole a “spezzare il filo”, fare da detonatore alle pochissime azioni e dipingere infine quell’ospedale muto di tinte colorate. Mentre per scagliare una lancia in favore del coinvolgimento di questa generazione considerata disinteressata ai fermenti sociali e ignorante di storia politica, il riconoscimento speciale della Cgil (“destinato all’autore che si distingua nell’approfondire argomenti e tematiche di carattere sociale e concernenti al mondo del lavoro”) va alla giovane romana Laura Buffoni per il testo Silenzio, la straziante rievocazione di una malata terminale e degli ex compagni partigiani riuniti dopo anni di mutismo colpevole al suo capezzale, in cui la Storia e le storie fanno da protagoniste, alternandosi su piani diversi, come a diversi livelli agiscono parola e silenzio.
Così, se ogni edizione la giuria lamenta giustamente il rincorrersi stantio e a tratti pedissequo dei soliti ritorni tematici e contenutistici, rievocazioni mitiche o trattamenti diversamente tragici, è da notare che tutti questi testi colpiscono per eterogeneità, per l’impossibilità di individuare un filone uniforme o, come si dice, un’ondata comune, per quanto sempre nella famiglia e nella problematicità del suo nucleo sia riscontrabile un filo rosso insostituibile. E’ forse questa la croce-delizia che fa discutere inarrestabilmente di drammaturgia: l’impossibilità di stabilirne i generi, di prestabilirne i percorsi; il che riemerge problematizzato in questi esiti migliori.
Ulderico Pesce, forse il più noto dei premiati per le sue esperienze di cosiddetto “teatro civile”, con FIATo sul collo, vincitore del Premio “Marisa Fabbri”, propone ad esempio un trattamento inedito della modalità narrativa cui siamo forse abituati dai recenti “cantastorie” di successo che popolano i nostri palcoscenici, cedendo la ricostruzione storica dettagliata alla soggettiva tragicomica di un operaio lucano sgrammaticato. Così, in Nzularchia, primo “Premio Riccione”, si rinviene senz’altro un attaccamento, peraltro felicemente riuscito, alla ricerca linguistica, traccia saliente dei prodotti drammaturgici più interessanti della nuova drammaturgia. Eppure questo giovane autore-attore tratta il dialetto flegreo, non quindi un napoletano qualsiasi, in maniera ardita, scavando appassionatamente nelle piaghe nascoste, ricavandone termini ambigui e bivalenti, spingendo a esiti ancora più ardimentosi le imprese dei nobili maestri partenopei di cui forse è erede, nell’intensa trattazione del lato “buio e tempestoso” del capoluogo campano. Coraggiosa quindi anche la scelta di premiare un testo non certo buono per tutti gli usi, di laboriosa costruzione e lettura impegnativa, se non altro per la necessità costante di ricorrere al glossario di cui è sistematicamente premunito, ma che ripaga infine pienamente per l’armoniosità intrinseca che si intreccia alla drammaticità tematica.
Ma l’incognita della messinscena, l’augurio di trovare un regista, innanzitutto lettore, che ne sappia sviscerare la trama, anche sintattica, senza snaturarne l’opera, che possa mantenersi fedele alle indicazioni drammaturgiche, non solo esplicative, che fanno dello sfondo il vero protagonista, riguarda tutti questi testi. Si tratta evidentemente di autori, sebbene per lo più sconosciuti, che hanno esperienza di teatro visto (in alcuni casi agito), lo si nota ad esempio nella consapevolezza didascalica, nelle indicazioni sceniche o le previsioni recitative, ma quella stessa esperienza ci ha insegnato che ciò non garantisce di per sé una soluzione. L’ha intuito bene Alessandro Genovesi, trentaduenne, attore, vincitore del “Premio Speciale” della giuria con Happy family, un testo di marca notevolmente letteraria, agile e piacevole, fluido alla lettura, che testa arditamente la resistenza teatrale e al contempo la attrae, sperimentando una ricerca forse più sulla scrittura che sulla laboriosa e provocante performatività implicata: “come ci si renderà conto leggendo, nel testo non sono presenti didascalie o indicazioni per la rappresentazione delle scene. Vi sono invece descrizioni e suggestioni che il regista potrà utilizzare a suo piacimento… per questo testo che, tengo a precisare, non è altro che materiale per la creazione di uno spettacolo”.
Fa piacere infine riscontrare come dopo tanti remake un po’ castranti e claustrofobici di macchiette beckettiane rinchiuse a coppie in ambienti e atti unici, torni l’azzardo a scene “maggiori”, con diverse ambientazioni locali e storiche, e personaggi che arrivano a sfiorare numeri più impegnativi (fino a 11 nel testo di Genovesi); non siamo forse di fronte a quelle imprese corali, con cui ci aveva fatto emozionare Tarantino nel suo Materiali per una tragedia tedesca (vincitore nel ’97), però, speriamo, almeno il sintomo che qualcosa di nuovo e di diverso si può, si deve, ancora tentare.
E forse spetta proprio ai più giovani, in minoranza nel complesso dei concorrenti ma effettivamente predominanti nel vaglio finale della giuria, tentare un decentramento non innocuo della scrittura drammaturgica nei luoghi tematici alternativi di una quotidianità rivisitata da personaggi comuni, ma allo stesso tempo davvero altri, che se in parte evocano l’autorialità da cui provengono, bene recidono il cordone ombelicale con il padre-autore per aprirsi alla scena.
Testi calati in ambienti che forzano le strutture tradizionali, o in quelli linguistici di recente esplorazione (su diciannove testi finalisti non a caso ben tre sono di impronta napoletana, tre siciliani, due dei quali di Adele Tirante e Nello Calabrò, giovani della compagnia di Tino Caspanello, messinese vincitore del “Premio Speciale” la scorsa edizione, e un monologo, L’ultimo Sarto di Francesco Gabellino, segna il ritorno del dialetto romagnolo) coinvolgono anche la ricerca instancabile di meno giovani, almeno per il teatro, che si riscontra nella segnalazione ripetuta nella rosa dei finalisti degli ultimi anni di Antonio Syxty (già segnalato nel ’99 con il Paradiso dei gangsters e vincitore nel ’91 con L’aquila bambina), Mario Gelardi (nella rosa del ’99 con Così leggero) e Massimo Salvianti (segnalato la scorsa edizione per Il permesso).
E anche quando la giovinezza degli autori ammicca a giovanilismi, è solo la conferma di una ricerca generazionale, non modaiola, scontata e destinata a passare il turno, o anche fosse, capace comunque di rivolgersi al presente, restituirlo e interrogarlo.
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Le recensioni di ateatro: Tre pezzi facili per l'Accademia degli Artefatti La trilogia di Martin Crimp di Elena Lamberti |
Teso, lucido, raggelante. La prima tappa del progetto che l’Accademia degli Artefatti dedica al drammaturgo inglese Martin Crimp lascia spazio a pochi altri aggettivi. Esponente tra i più rappresentativi della drammaturgia inglese contemporanea, Crimp riesce a comunicare allo spettatore un senso di disagio quasi insostenibile grazie ai gelidi ritratti dei suoi personaggi e a dialoghi stranianti costruiti sul non detto, sulle ripetizioni, sui cliché imposti dalle regole sociali contemporanee.
Per Tre pezzi facili, tre pieces brevissime scritte da Crimp fra il 2000 e il 2002, il regista Fabrizio Arcuri ha voluto una scenografia ridotta all?essenziale. Una stanza dalle pareti bianche, spoglia, tre attori schierati di fronte al pubblico, seduti su sedie di legno dipinte di bianche, il teschio di un cavallo esposto come in un museo alle loro spalle, uno stereo con una piccola pianta grassa. Un ambiente alienante, algido, perfettamente aderente al testo e alla recitazione dei tre bravissimi attori.
Nella prima pièce, Meno emergenze, tre uomini si raccontano, in un dialogo denso di pause di sospensione e di attese, come le ?cose stiano migliorando?, un vero peccato che questo “miglioramento”, raccontato con leggerezza ed eleganza, sveli una realtà fatta di gite in barca, omicidi e abbandoni. Un autentico tocco di classe la citazione mutuata da Velluto blu di David Lynch del balletto che interrompe per un breve momento il dialogo, trascinando i tre personaggi in una visione trasognata, una pausa dalla realtà che li circonda..
Il secondo brano, tratto da un articolo di giornale, s’intitola Avviso alle donne irachene: una sorta di conferenza alle madri irachene, in cui un medico spiega come tenere al sicuro i bambini, basandosi sulle manie salutiste delle madri occidentali: la cura per l'igiene, la paura delle malattie, gli incidenti? La casa, la macchina, il giardino sono «campi minati» per i bambini, ma niente paura, basta chiamare un medico, che sta aspettando da tutta la vita la vostra telefonata, e tutto si risolve.
La terza piece, forse la più intrigante, Faccia al muro, racconta la strage in una scuola elementare da parte di un folle. L’interesse maggiore di questo pezzo è costituito dall’alternanza fra «soggettiva» e narrazione, in cui le tre persone che raccontano la strage sembrano in realtà essere attori che provano una messinscena teatrale, fino ad arrivare ad un finale spiazzante.
La performance dell’Accademia degli Artefatti è un lavoro intelligente, che coinvolge lo spettatore in una riflessione impietosa ma necessaria sulla follia e il vuoto della società attuale, in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 16 ottobre.
Tre pezzi facili (ballate sul collasso del mondo)
Meno emergenze - Avviso alle donne irachene - Faccia al muro
di Martin Crimp
traduzione di Pieraldo Girotto
regia Fabrizio Arcuri
con Matteo Angius, Fabrizio Croci, Pieraldo Girotto
scene e costumi Rita Bucchi
colonna sonora d.j. Rasnoiz
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Beckett&Puppet Il bando di concorso di CTA Gorizia |
Beckett&Puppet 2005- 2006
Bando di concorso rivolto agli artisti e alle compagnie teatrali dei paesi della Comunità Europea.
scadenza: 31 dicembre 2005
premio al miglior progetto: 7.000 €
eventuale ospitalità al Puppet Festival per progetti segnalati dalla commissione giudicante
1.
Il CTA – in collaborazione con l’Ente Regionale Teatrale del Friuli – Venezia Giulia - indice, nell’ambito dell’Alpe Adria Puppet Festival, il premio Beckett&Puppet per un progetto di messinscena di uno spettacolo di Teatro di Figura ispirato all’opera e alla figura di Samuel Beckett nel centenario della sua nascita (2006).
2.
Possono partecipare i progetti relativi a spettacoli da realizzare nei linguaggi specifici del Teatro di Figura (burattini, marionette, ombre, pupazzi, oggetti, ecc.) o tramite una commistione di linguaggi che sia riconducibile tuttavia all’ambito e all’orizzonte artistico del Teatro di Figura contemporaneo.
3.
Il progetto dovrà pervenire alla commissione giudicante in forma dattiloscritta e dettagliata in lingua italiana o nelle lingue ufficiali della Comunità Europea entro e non oltre la data del 31 dicembre 2005.
Per le spedizioni farà fede il timbro postale. Si esclude l’invio per posta elettronica. I progetti inviati non saranno restituiti. Il CTA declina ogni responsabilità per disguidi o smarrimenti.
4.
Il progetto (in sette copie dattiloscritte) dovrà contenere:
1. la presentazione del progetto (max 2 cartelle) o/e un “abstract” in italiano o in inglese
2. il curriculum dell’artista o della compagnia
3. il piano esecutivo del progetto
4. la scheda di adesione compilata in tutte le sue parti, che potrà essere richiesta in fax agli uffici del CTA (0039 0481 537280) o scaricata direttamente dal sito www.ctagorizia.it
Potranno essere allegati ulteriori materiali che vengano reputati utili per la presentazione del progetto (DVD, VHS, CD, foto, disegni, ecc.)
5.
Verranno esclusi d’ufficio i progetti che siano già stati rappresentati integralmente o in parte davanti ad un pubblico e che non restino inediti fino alla loro presentazione durante il Puppet Festival 2006.
6.
Il premio consiste in un contributo (€ 7.000 ) all’allestimento dello spettacolo proposto che sarà presentato in prima assoluta a Gorizia nell’ambito della quindicesima edizione del Puppet Festival, che si terrà nell’ottobre-novembre 2006.
7.
L’assegnazione del premio, a insindacabile giudizio della commissione, avverrà entro la data del 28 febbraio 2006. Il premio potrà anche non essere assegnato.
8.
La Commissione giudicante, presieduta dal presidente del CTA, sarà composta da personalità del mondo teatrale e universitario. I nomi dei membri della commissione saranno annunciati tramite stampa e leggibili sul sito www.ctagorizia.it
9.
L’artista o la compagnia vincitrice s’impegnano a inserire in tutti i loro materiali illustrativi di presentazione dello spettacolo (sia cartacei che digitali) la formula “in coproduzione con il CTA - progetto Beckett&Puppet 2005-2006”
10.
Il CTA s’impegna inoltre a dare la massima visibilità al progetto vincitore, nelle forme e nei modi che riterrà opportuni, e di promuovere lo spettacolo, in accordo con l’Ente Regionale Teatrale del Friuli – Venezia Giulia, nei teatri della regione; oltre che promuoverlo nei festival di Teatro di Figura nazionali ed europei.
Gorizia, 30 settembre 2005
per informazioni
CTA - Centro Regionale di Teatro d’Animazione e di Figure
Via Cappuccini, 19/1 – 34170 Gorizia
Tel. 0039 0481 537280
Fax 0039 0481 545204
info@ctagorizia.it
www.ctagorizia.it
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I teatri delle diversità, sesta edizione A Cartoceto il 15 e 16 ottobre di Teatri delle diversità |
I TEATRI DELLE DIVERSITÀ
Sesto Convegno Internazionale di Studi
CARTOCETO (Pesaro e Urbino)15-16 Ottobre 2005
L’evento
Nei giorni 15 e 16 ottobre prossimi, presso il Comune di Cartoceto (Pesaro e Urbino), con il sostegno dell’Amministrazione Municipale, si terrà il Sesto Convegno Internazionale di Studi “I teatri delle diversità” promosso dall’Associazione “Nuove Catarsi”-Editrice della rivista europea “TEATRI DELLE DIVERSITA’” che dal 1996 ha inaugurato una ricerca scientifica sulle esperienze di espressione creativa con finalità artistiche e/o socio-terapeutiche nei territori dell’handicap, disagio mentale, carcere, tossicodipendenze ed in altri settori del sociale.
Con il Patrocinio e la compartecipazione di
Regione Marche - Provincia di Pesaro e Urbino – Comune di Cartoceto
Con il Patrocinio di Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
ed (in attesa di conferma) E.T.I. (Ente Teatrale Italiano) A.M.A.T. (Associazione Marchigiana Attività Teatrali)
Con la collaborazione di Università degli Studi di Malta - Fondazione Museo del Balì (Science Centre) – Teatro Aenigma di Urbino – Teatro Scalo Dittaino di Catania - Cooperativa Sociale Labirinto di Pesaro- Cooperativa “Conte Camillo” di Lucrezia di Cartoceto
Con il sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio di Fano – Banca di Credito Cooperativo di Fano
Programma preliminare
Sabato 15 ottobre - Convento di Santa Maria del Soccorso (Cartoceto)
ore 10.00 - Apertura dei lavori
Saluti istituzionali
ore 10.30 - Il Laboratorio delle idee
Incontro con il Comitato Scientifico della Rivista Europea “TEATRI DELLE DIVERSITÀ” composto da Andrea Canevaro, Sisto Dalla Palma, Piergiorgio Giacchè, Claudio Meldolesi, Piero Ricci, Guido Sala, John Schranz, Daniele Seragnoli, Luigi Squarzina, Vezio Ruggeri, Gianni Tibaldi
a seguire
Dimostrazione di Lavoro del workshop rivolto ad artisti, educatori ed operatori del sociale diretto dal regista Piero Ristagno e dagli attori del Teatro Scalo Dittaino (Cartoceto 10 /14 ottobre 2005) in collaborazione con il Teatro Aenigma (Urbino)
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Museo del Balì (Saltara)
ore 15.00 - 30 anni di burattini in contesti di cura a Reggio Emilia -
Inaugurazione della esposizione La parentesi a cura di Mariano Dolci - testimonianze
a seguire documentazioni da altre significative esperienze di Teatro Educativo e Sociale
Pausa pranzo
Teatro del Trionfo (Cartoceto)
ore 18.00 - L’angelica battaglia
Inaugurazione della mostra fotografica a cura di Luciano Sampaoli
Ut pictura poesis I foto di Rosangela Betti e Ut pictura poesis II foto di Andrea Samaritani
testi poetici e voci recitanti in mostra di Mario Luzi e Alda Merini
ore 21.30 L’angelica battaglia
L’eroismo della donna nell’opera di Luciano Sampaoli e nel melodramma romantico
Soprano Angelica Battaglia – pianista Rossella Spinosa
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Domenica 16 ottobre - Convento di Santa Maria del Soccorso (Cartoceto)
Ore 9.00 – 14.00 Poesia, Teatro, Diversità - Tavola Rotonda
Saranno ricordate le figure di Julian Beck, Carmelo Bene, Pierpaolo Pasolini. Tra gli altri, interventi di Maria Luisa Bene, Claudio Meldolesi, Luigi Santoro, Cathy Marchand, Marcello Camilli, Enzo Toma. Coordina Gualtiero De Santi.
Pausa pranzo
Teatro del Trionfo (Cartoceto)
ore 18.00 - L’ombra delle Parole
Spettacolo del Teatro Scalo Dittaino (Catania) ispirato a ‘Elegie Duinesi’ di Rainer Maria Rilke
con la partecipazione dello scultore Felice Tagliaferri (Bologna). Regia di Piero Ristagno e Monica Felloni.
I lavori del Convegno sono coordinati da
Emilio Pozzi, docente di Teatro e Spettacolo, Facoltà di Sociologia
Vito Minoia, docente di Teatro di Animazione, Facoltà di Scienze della Formazione
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
Per chi non lo sapesse…
Cartoceto dista: 15 km da Fano, 28 km da Pesaro, 40 km da Urbino. La via più breve per raggiungere la sede del Convegno è l’autostrada A14, uscita Fano (12 km). Immettendosi sulla superstrada per Roma uscire a “Lucrezia-Cartoceto”. Per chi arriva da Roma, invece, l’uscita è a “Calcinelli” e poi proseguire per “Saltara-Cartoceto.”
Cartoceto non è ben collegata con i mezzi pubblici. Occorre arrivare a Fano in treno (Ferrovie dello Stato - linea adriatica Ancona-Bologna) e poi proseguire in bus (linee AMI o BUCCI).
Informazioni dettagliate da e per tutte le sedi ferroviarie possono essere cercate sul sito delle ferrovie dello stato: www.trenitalia.com
BUS da Fano a Cartoceto [non in servizio domenica 16] – Linee AMI
FANO (stazione autocorriere) 7.30 11.30 12.40 16.30 18.30 19.00
CARTOCETO 8.05 12.05 13.15 17.05 19.10 19.45*
* Non linea diretta ma Fano-Calcinelli ore 19.00 cambio ore 19.30 con Calcinelli-Cartoceto.
CARTOCETO 6.50 8.10 12.05 14.50
FANO 7.25 8.50 12.40 15.25
Da Pesaro a Fano la linea Ami effettua il servizio ogni 30 minuti. il sabato e ogni ora la domenica.
Per informazioni e iscrizioni:
Associazione Culturale “Nuove Catarsi” – Via San Nicola, 7 - 61030 Cartoceto (PU)
Tel. 0721 898406 - Tel./fax 0721 893035 – cell. 320 8006742 – e.mail: nuove.catarsi@libero.it
Per gli spettacoli “L’angelica battaglia” e “L’ombra delle parole” l’ingresso è limitato (prenotazione al tel. 0721898406)
Ospitalità (vitto e alloggio a prezzi convenzionati in Convento, bed and breakfast, agriturismo, albergo)
Informazioni e prenotazioni: Conte Camillo P.S.C. a r.l. – Via Flaminia, 315 – 61030 Lucrezia (PU)
Tel. 0721.877272 – fax 0721.876671 e.mail: info@contecamillo.it
Considerando le distanze dalle sistemazioni alberghiere è consigliabile giungere a Cartoceto con mezzi propri.
Profilo del Teatro Scalo Dittaino (Associazione Culturale Neon)
Ad oggi i ‘luoghi’ in cui l'associazione Neon svolge le sue attività sono quelli nati dall’incontro con persone che vivono normali metamorfosi. I luoghi di confine sui quali ci si incammina scorrendo con gli occhi i bordi estremi, quotidianamente: i ragazzi nelle scuole, i loro insegnanti, gli ospiti delle comunità, i ragazzi down, i non udenti, gli extracomunitari, persone curiose, incoscienti, saggi, bambini, anziani, madri e padri; con tutti loro facciamo il teatro, scoprendo ogni volta il valore poetico, la potenza delle immagini intrinseche ad ognuno, che si fanno parola ‘originale’ mai detta prima, gesto ‘originale’ mai compiuto prima, mito…
Questo è il nostro straordinario lavoro, la proposta che lanciamo al mondo…
Dopo avere maturato, a partire dal 1983, varie esperienze di ricerca nel campo poetico e teatrale, Monica Felloni e Piero Ristagno fondano, insieme a Ninni Gravagna, nel gennaio 1989 l’Associazione Culturale Neon. In seguito l’Associazione costituisce il "Teatro Scalo Dittaino".
Parallelamente alla produzione di spettacoli svolge attività di formazione per docenti, Laboratori teatrali e di scrittura poetica nelle scuole e nelle diverse strutture degli enti pubblici (comuni, province, regioni). Di rilievo la collaborazione da diversi anni con l'E.N.S. (Ente Nazionale Sordomuti) che ha portato alla costituzione della compagnia "Teatro del Sole E.n.s" interamente composta da attori sordi; con l'A.I.P.D. (Associazione Italiana Persone Down), compagnia "Bagnati di luna A.I.P.D.".; con l'AIAS-CSR di Nicosia (En) e di Catania; la CTA (Comunità Terapeutica Assistita) S. Antonio di Piazza Armerina (En), compagnia “Lune inopportune”; le comunità alloggio coop. sociale 'Insieme' di Catania; la CTR 'La Grazia' di Caltagirone. (si veda anche il sito internet www.artneon.it).
Il laboratorio: poetica di un lavoro
Il lavoro che propone Piero Ristagno e gli attori del Teatro Scalo Dittaino all’interno dei laboratori, non è la semplice partecipazione ad un incontro o stage o seminario di teatro, ma la creazione di un incontro, in cui i partecipanti “convengono” fisicamente, mentalmente e spiritualmente, mettendo in gioco non solo un ascolto richiesto, ma un dire offerto, e offerto con grande pienezza e divertimento.
Chi conduce il laboratorio indicherà un possibile percorso, una traccia, sulla base di un desiderio di bellezza, un riconoscere “poesia” nell’altro. Quello che accadrà sarà tutto da scoprire, e la curiosità sarà tutta rivolta non alla poesia del Teatro, ma alla poesia di ogni partecipante che fa il teatro, che agisce immagini in uno spazio e che incontra le immagini dell’altro; tutto questo liberi dall’esigenza dell’interpretabilità, liberi di incontrarsi senza minimamente aver bisogno di capirsi, liberi di giocare.
In questa prospettiva il gruppo diventa laboratorio culturale dove ogni partecipante può costruire significati, può diventare protagonista del proprio cambiamento, può sviluppare un proprio carattere, una propria capacità, una propria visionarietà. Il laboratorio diventa un luogo in cui appassionarsi alle capacità dell’altro, rimirarle, scoprire una nuova forma di sé attraverso l’incontro, luogo operativo nel quale è possibile “l’incontro tra l’universo dell’individuo e l’universo della cultura entro le trame della lingua”. (G. Boselli)
Allora il percorso che si compirà (chiari nel rischio di essere fraintesi dal lettore), riguarderà lo sviluppo del desiderio intimo ad ognuno di noi di dedicarsi con cura e passione alla vita dell’altro in quanto opera d’arte unica e irripetibile. In questo le fonti scoperte, - tanto profonde che hanno fatto nascere, fuori da ogni consapevolezza, questo pensiero sul teatro,- sono da rintracciare in grandi della cultura; il Teatro Scalo Dittaino riconosce la propria incoscienza nel coraggio della poesia di Walt Withman, l’altezza di una profondità del sentire e quindi dell’operare, nel vertiginoso lirismo di Rainer Maria Rilke (Elegie duinesi). Adesso parlando direttamente in prima persona, diciamo che rinunciando totalmente all’esigenza di un’originalità fine a se stessa, al bisogno di creare un distinguo fra un noi e il pensiero del mondo, ci siamo ritrovati nelle fantastiche realtà possibili di Italo Calvino “Le Città Invisibili”, siamo totalmente compresi nel pensiero e nel piacere di pensare di James Hillman (L’anima del mondo e il pensiero del cuore), così come il nostro procedere nel lavoro dal punto di vista pedagogico (lì dove pedagogicamente il pensiero pedagogico non esiste) è una perfetta risonanza della voce di Danilo Dolci “Il Dio delle zecche” e di Tsunesaburo Makiguchi “La creazione di valore”.
Fonte inesauribile d’acqua e vino per noi sempre la poesia di Roberto Roversi “Rendiconti”, che direttamente ispira la nostra azione poetica, scintilla che ha incendiato i nostri cuori e che instancabile continua a scoccare con un seguito di cuori abbrustoliti.
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L'Odin Teatret a Gallipoli Dal 30 settembre al 13 ottobre di Odin Teatret |
PROGRAMMA
30 settembre-13 ottobre 2005
30-09
Ven
21:00 IL SOGNO DI ANDERSEN Istituto Nautico “ Amerigo Vespucci “ - Via Gramsci
01-10
Sab
17:00 La longevità dell'infanzia - conferenza Eugenio Barba Teatro Garibaldi -Via Garibaldi
21:00 IL SOGNO DI ANDERSEN Istituto Nautico “ Amerigo Vespucci “ - Via Gramsci
02-10
Dom
11:00 Il Tappeto Volante - dimostrazione di lavoro con Julia Varley - Teatro Garibaldi - Via Garibaldi
21:00 IL SOGNO DI ANDERSEN Istituto Nautico “ Amerigo Vespucci “ -Via Gramsci
03-10
Lun
21:00 IL SOGNO DI ANDERSEN Istituto Nautico “ Amerigo Vespucci “-Via Gramsci
04-10
Mar
21:00 IL SOGNO DI ANDERSEN Istituto Nautico “ Amerigo Vespucci “-Via Gramsci
05-10
Mer
17:00 presentazione del libro di Franco Perrelli “ Gli spettacoli di Odino “ La storia di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret Teatro Garibaldi –Via Gramsci
19:00 Proiezione del filmato del DAMS dell’Università di Torino sull’Odin Teatret “ Lo splendore delle età “ Teatro Garibaldi – Via Gramsci
06-10
Gio
20.30 ODE AL PROGRESSO/BARATTO Piazza Aldo Moro
07-10
Ven
21:00 LE GRANDI CITTÀ SOTTO LA LUNA Teatro Garibaldi -Via Gramsci
08-10
Sab
21:00 LE GRANDI CITTÀ SOTTO LA LUNA Teatro Garibaldi –Via Gramsci
10-10
Lun
21:00 SALE Sala S. Lazzaro - Via Pisa -
11-10
Mar
21:00 SALE Sala S. Lazzaro - Via Pisa -
12-10
Mer
21:00 SALE Sala S. Lazzaro - Via Pisa-
13-10
Gio
21:00 SALE Sala S. Lazzaro - Via Pisa-
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Teatro: il caso Milano Un incontro in occasione della pubblicazione di Il teatro possibile di Mimma Gallina di Ufficio Stampa FrancoAngeli |
Giovedì 29 settembre, ore 18.00
Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi
Via Salasco, 4 Milano
IL TEATRO: NOVITA’ E SCENARI
Il caso Milano
In occasione della pubblicazione del volume
Il teatro possibile. Linee organizzative e tendenze del teatro italiano
di Mimma Gallina
Prefazione di Oliviero Ponte di Pino
Contributi di Anna C. Altieri, Claudio Augelli, Franco D’Ippolito, Serena Deganutto, Erika Manni, Michele Trimarchi
Leggi la Prefazione a Il teatro possibile di Mimma Gallina.
DIBATTITO SULL’EVOLUZIONE DEL TEATRO MILANESE
Coordina Oliviero Ponte di Pino
Sarà presente Mimma Gallina con alcuni dei collaboratori al volume
SEGUE COCKTAIL
Unico volume del genere nel panorama editoriale italiano, il testo si presenta come una vera e propria inchiesta estremamente aggiornata (inizio 2005) sullo stato del teatro in Italia, da un lato fotografando una situazione in rapido movimento, dall’altro scoprendo i segnali di trasformazione che emergono.
Dopo il fortunato Organizzare teatro – giunto alla sesta ristampa – l’Autrice, molto nota in ambito teatrale, delinea il quadro economico, normativo e organizzativo del teatro con particolare attenzione alle evoluzioni che si registrano nelle capitali italiane, fermando l’attenzione sulle novità in controtendenza e su fenomeni e casi come la fusione fra teatri, i circuiti regionali, i nuovi spazi teatrali, lo spettacolo nei centri sociali, i nuovi mercati, l’affermazione europea.
In questo viaggio sui palcoscenici e dietro le quinte dei teatri d’Italia una lunga sosta merita la città con l’offerta teatrale più ricca e articolata e il consumo più intensivo: Milano. Qui le trasformazioni, in corso o già attuate, sono radicali. Alla storica vocazione delle compagnie a stabilizzarsi e gestire i teatri si accompagnano oggi nuovi fenomeni: i nuovi spazi teatrabili, un nascente sistema di sale periferiche, la trasformazione ed espansione delle strutture, lo sviluppo dello spettacolo commerciale d’evasione. Una situazione certamente vivace ma – avverte l’Autrice – molto a rischio sul piano della qualità e delle gestioni.
Si ringrazia la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi che ha collaborato all’organizzazione dell’evento
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Il Malafestival a Torino Due tornate a ottobre e novembre di Malafestival |
CALENDARIO
Festival Internazionale di Arti Performative
MALAFESTIVAL - Ars In Mala Causa
IV° EDIZIONE 2005
TORINO
SALA ESPACE – Via Mantova, 38
Ingresso intero € 12, ridotto (soci, utenti svantaggiati, educatori, operatori sociali, studenti, over sessanta, under dodici) € 9, abbonamento intero € 30, abbonamento ridotto € 24.
7 OTTOBRE dalle ore. 20.00
PIEMONTE SHARE FESTIVAL
“PIK NIK” + “LA VIOLENZA E LA NOIA”
Nicus Lucà + The pop club
Video e performance
SERVI DI SCENA OPUS RT
“NON MI DIR DI NO (mai mai mai…)”
Con gli utenti/attori del Centro Torinese Solidarietà (Comunità Residenziale Saint Pierre)
Performance teatrale
TEATRO OUT OFF (ITALIA)
PRESENTA
“NAUFRAGI DI DON CHISCIOTTE”
Di Massimo Bavastro
Regia di Lorenzo Loris
con Gigio Alberti e Mario Sala
Spettacolo teatrale
8 OTTOBRE dalle ore. 20.00
ELENA FONTI/INCUBATOR PROGETTO ATELIER
PRESENTA
“NARKE’”
Istallazione interattiva
LILITH STA SOPRA
PRESENTA
“ALIENO. ONTOLOGIA DI UN NAUFRAGIO”(PERFORMANCE)
Di Sonia Olga Camerlo, regia di Noemi Binda
Performance teatrale
H. 21.45
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI CARRARA
PRESENTA
“BOTTOMLESSBOX”
Di e con Gabriele Bartolucci e Simona Marziani
Performance teatrale
LEO BASSI (SPAGNA/FRANCIA)
PRESENTA
“VENDETTA”
Di Leo Bassi, regia di Leo Bassi
Spettacolo teatrale
9 OTTOBRE dalle ore. 20.00
ELENA FONTI/INCUBATOR PROGETTO ATELIER
PRESENTA
“NARKE’”
Istallazione interattiva
GIACOMO VERDE e LELLO VOCE (Lucca)
PRESENTANO
“EROINA + FASTBLOOD”
Con Lello Voce
Video di Giacomo Verde
Performance teatrale di videopoesia
L’OISEAU-MOUCHE E TEATRO LA RIBALTA (FRANCIA/ITALIA)
PRESENTANO
“PERSONNAGES”
Di Julie Stanzak e Antonio Vigano
Regia Antonio Vigano
Con Martial Bourlard Aurélie Bressy Anita Délepine Thierry Dupont Frédéric Foulon Valérie Szmigielski Valérie Vincent
Spettacolo teatrale
AVIGLIANA (TO) Malateatro ragazzi
SPAZIO PERFORMATIVO “Opus RT”
Ingresso gratuito
15 OTTOBRE 2005 ore 16.00
GIANLUCA DI MATTEO
PRESENTA
“Racconti di Pulcinella”
Di e con Gianluca di Matteo
Spettacolo teatrale
ALMESE (TO) Malateatro ragazzi
AUDITORIUM “Cavalier Mario Magnetto”
Ingresso € 4
16 OTTOBRE 2005 ore 16.00
COMPAGNIA REATTO (ITALIA)
“IL CASO E’ SEMPLICE, DUPIN!”
Regia di Enrico Campanati
con Riccardo Monopoli e Marco Sani
Spettacolo teatrale
TEATRO della CASA CIRCONDARIALE “LORUSSO E CUTUGNO”
via Pianezza, 300 (TO)
Ingresso Gratuito – prenotazione obbligatoria
5 NOVEMBRE 2005 ore 21.30
COMPAGNIA CULTURAL ODYSSEY - RHODESSA JONES (U.S.A.)
"IN SEARCH OF HUMAN CULTURE"
SPETTACOLO TEATRALE con Rhodessa Jones, Idris Ackamoor e la partecipazione delle utenti della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”/SCA Arcobaleno di Torino.
DAL 2 AL 9 NOVEMBRE 2005
MALAFESTIVAL OSPITA
“C.S./CREATIVE SURVIVAL” – PROGETTO DI TEATRO E CARCERE
con la Compagnia Cultural Odyssey - Rhodessa Jones (San Francisco - U.S.A.)
Realizzato da
Servi di Scena opus rt, Coop. Atypica, Alma Teatro, Associazione Asylum
Spettacoli, workshop, conferenze, reading presso:
Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” e SCA Arcobaleno di Torino
Villa 5 di Collegno
Università degli Studi di Torino
Teatro Baretti di Torino
Info e prenotazioni:
Servi di Scena opus rt (TORINO)
Tel. e fax. 011/19707362 - cell. 339/59.39.711
mailto: servidiscena.to@fastwebnet.it servidiscena@tiscali.it
sito web: www.opusrt.it
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I nuovi talenti del Premio Riccione I vincitori della edizione numero 48 di Riccione Teatro |
Premiati autori di Napoli, Firenze, Milano, Potenza e Roma
A Paolo Terni il Premio Speciale “Aldo Trionfo” fuori concorso
Sabato 1 ottobre 2005 la giuria della 48^ edizione del Premio Riccione per il Teatro ha annunciato i vincitori del concorso di drammaturgia. Questi gli autori premiati nelle singole categorie:
- Premio Riccione di 7.500 euro a:
Mimmo Borrelli, ‘Nzularchia, (Itterizia) Napoli 1979.
Alla compagnia scelta da Borrelli per la messinscena del suo testo verrà conferito il Premio di produzione di 30.000 euro per partecipazione alle spese di allestimento;
- Premio Pier Vittorio Tondelli di 2.500 euro a:
Stefano Massini, L’odore assordante del bianco, Firenze 1975;
- Premio Speciale della Giuria “Paolo Bignami e Gianni Quondamatteo” a:
Alessandro Genovesi, Happy family, Milano 1973;
- Premio Marisa Fabbri a:
Ulderico Pesce, Fiato sul collo, Potenza 1963;
- Premio CGIL di 4.000 euro a:
Laura Buffoni, Silenzio, Roma 1977;
- Premio Speciale “Aldo Trionfo” assegnato fuori concorso a:
Paolo Terni
L’edizione 2005 del Premio si è contraddistinta per la giovane età dei vincitori, in primis i 26 anni di Mimmo Borrelli “Premio Riccione”, e a seguire i 28 anni ancora da compiere di Silvia Buffoni “Premio CGIL”, i 30 compiuti a settembre di Stefano Massini “Premio Pier Vittorio Tondelli”, e i 32 di Alessandro Genovesi “Premio Speciale della Giuria”. Un dato positivo visti i successi ottenuti dai giovani talenti emersi nelle precedenti edizioni, riconosciuti ora anche dal "Premio ETI - Gli Olimpici del Teatro" 2005 (30 settembre, Teatro Olimpico di Vicenza), che nella sezione “Autore di novità italiana” ha visto vincitore Davide Enia, “Premio Tondelli 2003”, e finalisti Fausto Paravidino “Premio Tondelli 1999”, e Ascanio Celestini “menzione speciale della giuria al Premio Riccione 2001”. Alla rosa dei giovanissimi premiati di Riccione si aggiunge il quarantaduenne Ulderico Pesce, Premio “Marisa Fabbri”, che ha dedicato la vittoria agli operai della Fiat di Melfi indossando in loro onore la tuta amaranto. Il Premio Speciale “Aldo Trionfo” è stato infine attribuito fuori concorso al maestro compositore Paolo Terni.
Queste le motivazioni espresse dalla giuria composta da Franco Quadri, presidente, Roberto Andò, Sergio Colomba, Luca Doninelli, Edoardo Erba, Mario Fortunato, Maria Grazia Gregori, Renata Molinari, Ottavia Piccolo, Giorgio Pressburger, Ludovica Ripa di Meana, Luca Ronconi, Renzo Tian:
Premio Riccione di 7500 euro
’Nzularchia di Mimmo Borrelli
Nel buio ossessivamente martoriato da un’affettata oscurità squarciata dai lampi di una casa invasa da rumori e da una muffa che penetra nei corpi, ‘Nzularchia - ovvero “itterizia” - svolge una sfida al labirinto, ovvero a un luogo d’origine sfigurato e illeggibile, un gioco d’orientamento e disorientamento nell’ansia topografica della mappa per rintracciare il colpevole. L’autore, giovanissimo e forsennato nella sua ambiziosa loquacità da inferno, uno scrittore furibondo, fluviale, forte, già importante, con un’acuta sensibilità linguistica e un coraggio da leone, riesce a muovere le veglie di una inquieta, informe coscienza retroattiva alle prese con un’indagine impossibile, dove l’indiziato è un padre camorrista che toglie la vita ai figli, impedendone la nascita. Testo sul padre-assassino di una società invertebrata e deviante, seducente per il gioco a nascondere di una lingua che incessantemente osa sfidare i suoi inabitabili cul de sac, inseguendo il vorticoso e inane percorso di una identità mai veramente nata: è quella di un figlio che non ha altre armi se non ricomporre la lingua dei padri, barocca, lampeggiante e a tratti violenta, di quella violenza che è “piatto prelibato nel pranzo succulento della vita”.
Il Premio Pier Vittorio Tondelli di 2500 euro per il testo di un giovane autore sotto i trent’anni
L’odore assordante del bianco di Stefano Massini
Nel silenzio e nella cancellazione assoluta del colore ritorna la tragedia di Vincent Van Gogh, rinchiuso nel manicomio di St. Paul, e ricrea con grande nitore e capacità di concisione, aldilà della profluvie di dati scontati, il disperato bisogno di vita del grande pittore grazie a una scrittura limpida, tesa, di rara immediatezza drammatica, in grado di ridarcene anche visivamente il tormento con feroce immediatezza espressiva nel confronto quotidiano coi suoi persecutori e con l’ambiguità del fratello Theo. La grande invenzione del testo sta nel condurci quasi inavvertitamente da una realtà che ci era apparsa oggettiva ma risultava sottilmente costruita al sospetto di trovarci invece di fronte al vissuto del supposto degente, introducendoci alle prospettive di una psichiatria dal volto umano e facendoci guardare il fratello ricomparso in visita come una possibile proiezione mentale, nel bianco assoluto della tortura.
Il Premio speciale della Giuria, intitolato a Paolo Bignami e Gianni Quondamatteo
Happy Family di Alessandro Genovesi
Sei personaggi con l’autore, il quale non coincide col giovane attore che firma il testo, ma ha scritto il romanzo che vediamo evolversi via via sotto i nostri occhi e di cui il protagonista frammischia la lettura di interi brani all’azione liberamente messa in discussione dai suoi interpreti, in un felice gioco leggero, dai toni insoliti per questo concorso, di una commedia fuori dai canoni, dove i destini di due famiglie s’intrecciano e, per quanto i personaggi siano fortemente legati al presente, tutto va sempre nel migliore dei modi possibili, ma con forti dosi d’ironia, quasi si trattasse della riuscita parodia di una fiction televisiva.
Il Premio Marisa Fabbri, all’opera particolarmente impegnata nella ricerca di un linguaggio aperto e poetico
FIATo sul collo di Ulderico Pesce
Dal cuore della Basilicata, il racconto irridente e appassionato, in forma di monologo e nel solco del teatro di narrazione, di una vita costruita sulla speranza di un lavoro che mina ogni legame e sicurezza. Voci, pensieri e sentimenti intrecciati in una scrittura che parte da una base leggera e ironica per affondare nella crudezza cronachistica degli scioperi alla Fiat di Melfi e nella disperazione delle prospettive future. Il testo s’infiamma per via e sarebbe piaciuto a Marisa Fabbri per il suo impegno e il gusto con cui s’inventa parole e personaggi, tanto da supporre che le sarebbe piaciuto interpretarlo in abiti maschili.
Il Premio CGIL di 4000 euro per celebrare il centenario della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, destinato al testo teatrale che si segnali nel trattare argomenti di carattere civile, sociale o di tematiche inerenti il mondo del lavoro e le lotte sindacali
Silenzio di Laura Buffoni
Dopo cinquant’anni, un gruppo di partigiani invecchiati si ricompone attorno a una poderosa figura di donna, rimasta arroccata nel silenzio di un sofferto isolamento durato una vita con l’unica compagnia delle tombe della sua Resistenza, compiendo un gesto di solidarietà estrema volto a recuperare la quiete della morte, che appare l’unica ormai possibile. Un testo di forte passione civile, un tributo al recupero delle origini della nostra democrazia, dovuto a una giovane penna che oscilla tra l’ideale e lo scoramento, snodando il suo racconto tra rivelazioni, credute colpe e slanci della giovinezza lontana, con lunghe didascalie mute, volte a colmare frammenti di vita che non trovano senso se non nella ricomposizione della memoria.
Ha consegnato il premio Guglielmo Festa, segretario dell’Associazione Centenario CGIL.
La Giuria del Premio Riccione per il Teatro, integrata per l’occasione da Fabio Bruschi, direttore artistico di Riccione Teatro, e da Giorgio Panni, Tonino Conte ed Emanuele Luzzati per il Teatro della Tosse ha attribuito inoltre l’ottavo Premio Aldo Trionfo, destinato a quei teatranti - artisti della scena o della pagina, singoli o gruppi, studiosi o tecnici - che si siano distinti nel conciliare gli opposti, coniugando la tradizione con la ricerca a Paolo Terni, per essersi dedicato con profonda intelligenza e passione a coniugare il teatro e la musica con un’arte raffinata accompagnata dalla gioia della ricerca di chi sa di scoprire nuove via alla ricerca dalla lunga collaborazione creativa con Aldo Trionfo alla continuatività del lavoro con Luca Ronconi, per citare solo due terminali di un’intensa attività di studio che va dalla preziosa opera d’insegnamento all’Accademia d’Arte drammatica alle molte esperienze radiofoniche.
Il verbale della giuria ha inoltre sottolineato l’ascesa del prestigio del concorso, provato dal successo dei drammaturghi scoperti negli ultimi anni, giovani in primis, e dalla forte adesione riscontrata: 473 copioni iscritti nuovo record del Premio con autori provenienti da tutta Italia: il 36% dal nord Italia, il 12% dal centro e il 52% dal Sud. Eterogenee le età dei partecipanti compresi tra i 15 e gli 86 anni e in aumento anche gli under 30 in corsa per il Tondelli. Numerosi i copioni in dialetto, in particolare napoletano, siciliano, ma anche lombardo e romagnolo. Oltre agli scrittori di testi già affermati abbondano i teatranti, suddivisi tra registi e attori. Giudicato pericolosamente alto il numero dei monologhi, affiancato da un inedito gusto per il “corto teatrale”. L’allargamento della gamma tematica è stata la caratteristica generale dei testi di quest’anno. Sottolineata anche la presenza della musica come necessità espressiva (Chet Baker, al centro di due pièce). Unanimemente la giuria ha comunque denunciato il basso livello della scrittura e dello sviluppo espressivo delle opere con pochissime eccezioni, isolando il suo interesse su una rosa di diciannove titoli oggetto di dettagliate analisi, astenendosi per questo dall’aggiungere le consuete segnalazioni ai premi. Un ricordo affettuoso è stato dedicato a Elena De Angeli, scomparsa nello scorso autunno, per il contributo prezioso dato per anni alla ricerca di nuove voci drammaturgiche.
Approfondimenti e interviste ai protagonisti della 48^ edizione del Premio Riccione per il Teatro sul sito www.riccioneteatro.it a cura della redazione Altre Velocità, diretta dal giornalista e critico Massimo Marino.
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I corpi finti Le "sculture di tessuto" in mostra a Palermo di Elisa Nicolaci |
Dal 20 al 30 ottobre 2005, nell'ambito di "Anteprima. sequenze contemporanee" (a cura di Simone Mannino), il Teatro Garibaldi alla Kalsa di Palermo, in collaborazione con la Galleria Prati, ospita una personale di Elisa Nicolaci, Finti teatri. Qui di seguito un testo in cui l'autrice illustra la ngensi delle sue opere. (n.d.r.)
Ho iniziato a realizzare le sculture di tessuto nel 2001.
Tengo sempre molto a precisare a proposito di queste sculture, che la figura, sempre presente, non è in alcun modo il risultato di un percorso ‘rappresentativo’. Sembra strano che la rappresentazione, necessaria come mezzo, possa essere spesso, tanto facilmente, confusa con il fine.
Queste sculture, nelle loro sagome statiche, nell’apparente rigidità delle posture, hanno come riferimento, piuttosto, il mondo immoto dell’inanimato, il mondo degli oggetti. I volti sono congelati in una fissità autoreferenziale e ostentata, con la quale contrasta l’identità molto espressiva dei tessuti.
L’espressione della scultura risulta integralmente affidata alla ‘personalità’ della materia di cui essa è fatta. Mi sembra di poter dire che la qualità della presenza di queste figure sia presa in prestito direttamente dall’identità del tessuto (trama, consistenza, colori, disegni) che le costituisce. L’identità forte di ogni tessuto rappresenta una qualità dell’esistenza stessa: vi sono tessuti che sanno di bosco, tessuti che sanno di memoria, che indicano la nostalgia, che indicano il tempo, che indicano il sangue, che indicano il mito…
Scoprire i tessuti ha voluto dire, per me scultrice, abbandonarsi all’illusione di poter superare la barriera della percezione per immagine, scoprendo l’immensa capacità plastica di materie infinitamente diverse fra loro, ma dotate tutte della singolare virtù di far scivolare dolcemente e inesorabilmente nella percezione sinestetica.
Se, come mezzo, si deve fare necessariamente uso di rappresentazione, non è sbagliato, dal mio punto di vista, definire il fine come “astratto”. Guardare un tessuto significa per me avere delle sensazioni immediatamente tattili, del gusto, dell’odorato, trovarmi all’istante nelle suggestioni mentali e prive di forma riconoscibile della memoria, degli affetti, del piacere, del piacere conosciuto nel tempo attraverso i sensi.
Dunque i tessuti indicano violentemente la realtà della materia di cui le sculture sono fatte. L’intera sagoma trasmette un senso di leggerezza decisamente sproporzionato rispetto alla propria dimensione. Generalmente dagli occhi o da altri particolari del viso si affaccia un interno cavo e nero, fatto di sola aria. La presenza di queste sculture mi piace definirla come presenza di superficie, presenza lieve e fiorata di una identità/baratro, ed infatti credo che esse evochino nella loro suggestione qualcosa della ambigua espressività delle maschere.
Queste sculture sono fatte da un manto che le mostra nello stesso tempo racchiudendole, nascondendole. Un velo che, nell’atto di coprire, scopre se stesso. Si allude certamente alla presenza impossibile di un’ anima: le cose non hanno anima!
Ed infatti qui tutto è vuoto, un vuoto che gli occhi sinceramente mostrano, gli occhi sembrano dire: credimi, io non sono! Così facendo quegli occhi alludono.
Qui tutto è finto e il corpo, svilito dalla presenza di lacerazioni e cuciture che indicano ancora una volta l’evidenza di non aspirare ad altro, se non alla natura di cose, risulta tragico. Le sculture vuote e leggere, inconsistenti, dentro non hanno niente, c’è solo un vuoto buio dove non ci può essere anima. La maschera del volto esprime incredulità, sgomento eppure accettazione di questa mancanza . Tutto è pietrificato, è reso finto, dall’idea stessa di non poter essere. C’è un momento preciso della realizzazione delle sculture, che io considero quasi un rito e che chiamo del “tirare l’espressione”. E’ il momento in cui un occhio realizzato con la cucitura o con una perforazione del tessuto, viene mosso, tirato in varie direzioni e, al momento opportuno, sospeso, fissato. Il risultato è un’ autoreferenzialità inquietante dello sguardo che esprime una sorta di ‘dramma barocco’, dove la materia fiorata e ridondante appare ‘congelata’ nella propria assenza di vita.
Nel caos vago e futile degli arabeschi si vede allora violentemente affiorare un’espressione ‘nera’ e profonda che buca i fiori, che macchia i merletti che sfonda, attraversa e tradisce la piatta superficie del corpo di stoffa, del corpo finto.
I tessuti, i drappi sono elementi fortemente intrisi di un certo sapore teatrale ed in effetti a me piace paragonare le mie sculture ad una messa in scena teatrale: la più ‘barocca’ delle messinscene. Queste sculture non sono soltanto grandi, sono precisamente a grandezza naturale. Portano in superficie i loro corpi, in particolare i loro volti: vedo la superficie di questi corpi come un palco, la scena vi si svolge, si sporge, per così dire, sull’ultima soglia (la pelle) che separa il palco dal pubblico: oltre questa soglia la maschera della scultura si ritrova poggiata sul volto degli spettatori, ed essi conoscono la misteriosa esistenza del simulacro.
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Remondi & Caporossi a Torino Me & Me al Teatro Juavarra di Teatro Juvarra |
Teatro Juvarra, da venerdì 7 a domenica 9 ottobre ore 20.45
ME & ME
Scritto e diretto da Claudio Remondi e Riccardo Caporossi
Con Claudio Remondi, Riccardo Caporossi e Davide Savignano
Club Teatro - Rem & Cap Proposte
Da venerdì 7 ottobre a domenica 9 ottobre arrivano al Teatro Juvarra Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, i due attori romani padri della ricerca teatrale italiana.
Me & Me nasce nel 2001 come performance, ma nel corso del tempo assume e matura connotazioni più specificatamente teatrali. Sulla scena si muove una individualità sdoppiata in due persone, opposte e complementari, due signori che si trovano costretti a compiere un’azione che li porta a confrontarsi e che accende non pochi diverbi. Il contrasto nasce dalle differenze, rese esplicite da alcuni particolari fisici: uno parla facilmente e l’altro è taciturno, uno è vestito in nero e l’altro in bianco.
Claudio Remondi e Riccardo Caporossi lavorano insieme da ventisei anni; sono autori e registi dei loro spettacoli nei quali partecipano anche come attori. Abitualmente preferiscono esprimersi creando situazioni senza parole, facendo comunicare gli oggetti, distorcendone l'uso e il significato e più in generale, cercando di inventare nuove possibilità di comunicazione.
L'uso ingegnoso di macchine e la ricerca espressiva di materiali poveri sono la caratteristica del loro lavoro.
Teatro Juvarra, venerdì 7 ottobre ore 17
LA DRAMMATURGIA COME PROGETTO
Claudio Remondi e Riccardo Caporossi discutono della propria storia teatrale in relazione al metodo di scrittura drammatica
Interverranno Vincenzo Lombardo, Antonio Pizzo, Alberta Spezzaferro
A cura del CIRMA in collaborazione con DAMS e M.a.s.Juvarra
ME & ME Di Claudio Remondi e Riccardo Caporossi
Teatro Juvarra, via Juvarra 15 Torino
Per informazioni e prenotazioni: dal lunedì al sabato dalle 15 alle 19 tel.011.540675 www.masjuvarra.it
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Il teatro e le guerre di religione In convegno a Roma di Centro Studi sul Teatro Medievale e Rinascimentale |
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA CULTURALI
Direzione Generale per lo Spettacolo dal vivo
Direzione Generale per i Beni Librari gli Istituti Culturali e l’Editoria
Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale
XXIX Convegno Internazionale
Guerre di Religione Sulle Scene
del Cinque-Seicento
Teatro Politecnico
Via G.B. Tiepolo 13a, Roma
da giovedì 6 a domenica 9 ottobre 2005 - ore 21.00
Wunderkammer
presenta
Il Bragadino
(1580)
di Don Valerio Fuligni
prima rappresentazione assoluta
regia di Giuseppe Rocca
Una novità della fine del ‘500 che narra del conflitto fra Cristianità e Islam, messa in scena da una compagnia di giovani talenti, la Wunderkammer: questo in sintesi il contenuto della proposta che il Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale diretto da Federico Doglio, accosta alle giornate di studio del XXIX Convegno Internazionale, dedicato quest’anno al tema “Guerre di religione sulle scene del Cinque-Seicento”.
Il testo di Don Valerio Fuligni, scritto ad appena nove anni di distanza dalla tragica conclusione dell’assedio di Famagosta (1571), che vide il sacrificio e il martirio del senatore veneziano Marcantonio Bragadin, governatore della città, affronta con l’abilità di una professione letteraria onesta, assidua e consapevole, un argomento che conteneva in sé la matrice di un potente contrasto drammaturgico.
Famagosta, ultima roccaforte veneziana a Cipro, s’era opposta per oltre un anno all’assalto dell’esercito e della flotta del sultano Selim II, figlio di Solimano il Magnifico. Alla resa della città, giunta allo stremo delle forze, nonostante gli accordi stipulati da Bragadin con il comandante turco Mustafà Pascià, i turchi trucidarono gli ufficiali e ridussero in schiavitù i soldati veneziani superstiti, fecero strage degli abitanti della città mentre lo stesso Bragadin – che non aveva voluto firmare la resa presagendo il peggio – fu scorticato vivo, e la sua pelle “empita di paglia, l’han fatta vedere per tutte le riviere della Soria portata da una galeotta attaccata a un antenna”.
Già nel 1579 Vincenzo Giusti aveva affrontato il tragico epilogo dell’assedio di Famagosta nella tragedia “Irene”. Evitando però di affrontare il nucleo di tematiche relative alla mancata difesa di Cipro da parte del governo veneziano e degli altri governi cristiani – in primo luogo la Spagna – e spostando l’accento dal martirio dell’eroe Bragadin alle sofferenze della moglie, Irene, appunto.
Di segno opposto l’opera del Fuligni – dedicata a Francesco I Della Rovere, Duca di Urbino e combattente nella vittoriosa battaglia di Lepanto – che imbriglia ogni vocazione al patetico, escludendo ogni figura femminile e procede incalzante sul filo della storia, quasi della cronaca, echeggiando, come una premonizione, gli attuali réportage di guerra. I suoi dialoghi appaiono fondati su circostanziate testimonianze e la sua fatica letteraria, di complessa resa scenica ma vibrante di autentica angoscia, meritava d’esser sottratta al plurisecolare oblio.
Giuseppe Rocca, di origini partenopee, vanta una trentennale esperienza di collaborazione con i servizi radiofonici della RAI, per i quali ha scritto e diretto innumerevoli radiodrammi, al punto da meritare una voce nell’Enciclopedia Garzanti della Radio. Ha inoltre al suo attivo la direzione di numerose pièce teatrali, opere liriche, serate musicali. E’ docente di Storia dello spettacolo presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Per il Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale ha diretto con successo la compagnia dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica ne “La rappresentazione di Santo Alesso” (Anagni, 2000).
Degli esiti che i conflitti religiosi che insanguinarono l’Europa nel corso del Cinquecento e del Seicento, trovarono nella drammaturgia europea coeva si parlerà dal 6 al 9 ottobre, nel corso del XXIX Convegno Internazionale del Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale. “Guerre di religione sulle scene del Cinque-Seicento” si intitola infatti l’incontro ideato come tutti i precedenti da Federico Doglio. Esso sarà ospitato nella Sala Costantiniana della Parrocchia Santa Croce a Via Flaminia. Questa edizione del convegno, che prelude all’importante scadenza del trentennale, prevista per il 2006, ospita relatori e studiosi provenienti dalle Università di Roma, Torino, Bologna, Venezia e Firenze, dalla Pontificia Università Gregoriana, dalla Scuola Normale di Pisa e dalle Università di Parigi, Barcellona e Kiel.
Federico Doglio, laureato nell’Università Cattolica con Apollonio, dal 1949 opera in vari settori del teatro. Dal 1955 al 1987 ha lavorato in RAI con diversi incarichi. Dal 1965 insegna Storia del Teatro e dello Spettacolo nell’Università di Roma. Dal 1968 al 1972 è stato condirettore del Teatro Stabile di Torino. Dal 1975 dirige il Centro Studi sul Teatro Medievale e Rinascimentale. Dal 1981 al 1990 è stato consigliere d’amministrazione dell’Ente Teatrale Italiano. Dal 1994 al 2000 è Direttore artistico del Festival Internazionale del Teatro Medievale e Rinascimentale di Anagni. Dal 1997 è stato Presidente della Commissione Internazionale del Premio di drammaturgia religiosa per l’Anno Santo 2000.
Tra le numerose opere: Il teatro tragico italiano (Guanda, 1960,1972); Teatro e Risorgimento (Cappelli, 1961, 1972); Televisione e spettacolo (Studium, 1961); Il Teledramma (Ed. dell’Ateneo, 1963); Il teatro pubblico in Italia (Bulzoni, 1969); Il teatro postconciliare in Italia (Bulzoni, 1978); Teatro in Europa (4 voll., Garzanti, 1982-89); Il teatro scomparso (Bulzoni, 1990); Teatro americano (Garzanti, 1990); Il teatro in Italia, 1.Medio Evo e Umanesimo (Studium, 1995).
Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale: V. del Nuoto 13 00194
Sala Costantiniana - Parrocchia Santa Croce a Via Flaminia - Via Guido Reni 2/d - Roma
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