Buone e cattive pratiche L'editoriale di ateatro 72 di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and1 L'incontro Le vie possibili del nuovo teatro Napoli, 16 luglio 2004 di Franco D'Ippolito http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and10 L'arte dell'organizzazione La relazione per l'incontro di Napoli di Franco D'Ippolito http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and11 Dalla parte dei formatori Un esempio di formazione teatrale in Toscana: Alessio Pizzech e il Cantiere teatrale di Cascina di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and25 Con Gulliver un progetto teatrale e terapeutico Una esperienza romana di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and30 Coordinate di viaggio Note di regia (& altro) per I viaggi di Gulliver di Alessandra Panelli http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and31 Diario gulliveriano di bordo Note sull’adattamento drammaturgico del romanzo di Swift di Andrea Balzola http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and32 Profughi del sogno La nona edizione di Lavori in pelle di Agnese Doria http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and3 Catastrofi e squilibri Dal Festival Inequilibrio di Castiglioncello di Erica Magris http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and34 Pasolini nel carcere di Volterra Lo spettacolo della Compagnia della Fortezza (e la performance delle Ariette da Marguerite Duras) di Oliviero Ponte di Pino http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and35 Le recensioni di "ateatro": Felicità da La morte felice di Albert Camus Edgarluve e il terzo (e ultimo) atto della trilogia dell’Io a "Inequilibrio" di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and40 La scomparsa di Umberto Artioli Lo studioso stroncato a Mantova da un malore di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and80 Il nuovo cinema che viene dal teatro: sei compagnie emiliano-romagnole e un inedito progetto per il cinema italiano Fanny & Alexander, Motus, Societas Raffaello Sanzio, Teatro delle Albe, Teatrino Clandestino, Zapruder, Downtown Pictures e Regione Emilia-Romagna di Associazione Luz http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and81 Biennale di Venezia: il programma definitivo Saltano le Eumenidi di Cadren Mason di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and82 A Torino la terza edizione del Malafestival Il programma di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro72.htm#72and83 Giorgetti nuovo direttore dell'ETI, De Fusco allo stabile del Veneto fino al 2009 La giostra delle nomine di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro80.htm#80and84
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Buone e cattive pratiche L'editoriale di ateatro 72 di Redazione ateatro |
Tra qualche corrispondenza festivaliera, questo nuovo ateatro 72 – un po’ per caso un po’ perché nulla accade per caso – si muove ai confini del teatro. O meglio, incrocia un teatro che non ha come obiettivo «l’art pour l’art», ma che serve (anche) a qualcos’altro. Insomma, un «teatro come mezzo» fatto (anche) da non professionisti – almeno in una fase iniziale: vedi il recente riconoscimento «professionale» alla Compagnia della Fortezza. Su questo versante l’interesse può essere, oltre che estetico, anche sociologico, terapeutico, politico. Ma sono soprattutto interessanti gli intrecci del teatro con quello che sta fuori dalla scena, e quello che il teatro può prendere e dare a quello che chiamiamo «realtà». Il teatro incrocia il carcere, l’handicap, la formazione, ma anche l’impegno politico, nella dimensione più ampia del «teatro civile».
Anche queste sono, a modo loro, «buone pratiche»: un tema su cui ateatro ritorna con due interventi di Franco D’Ippolito, in attesa di definire al meglio l’incontro su questo tema. A proposito, nel frattempo stiamo raccogliendo suggerimenti, proposte, adesioni.
Mentre nel frattempo in nostro teatro vede l’inarrestabile diffondersi delle «cattive pratiche» (di cui trovate qualche traccia qua e là nel sito)....
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L'incontro Le vie possibili del nuovo teatro Napoli, 16 luglio 2004 di Franco D'Ippolito |
Ho partecipato all'incontro del 16 luglio a Napoli Le vie possibili del nuovo teatro (annunciato su ateatro 71 del 12/07/2004) con oltre sessanta fra operatori ed organizzatori dell'innovazione e ne ho ricavato una volta di più la necessità di far circolare in maniera virtuosa, senza preconcetti o preclusioni, i pensieri e le esperienze che attraversano teatri e compagnie. I Teatri di Napoli sono una di quelle "buone pratiche" da conoscere, su cui riflettere, da cui ricavare indicazioni sulle relazioni fra le compagnie ed i teatri di un territorio e fra questi e le istituzioni locali. Il progetto si identifica come modello partecipato pubblico privato con una sua originale strutturazione (spazi condivisi da più compagnie, localizzazione periferica, collegamento allo Stabile Pubblico, direzione artistica coordinata su alcuni segmenti di programmazione). Nelle giornate napoletane sono state presentate le produzioni delle 8 compagnie che partecipano al progetto (Casc, I Teatrini, La Riggiola, Le Nuvole, Libera Mente, Libera Scena Ensemble, Rossotiziano e Scena Mobile) e 8 spettacoli invitati uno da ognuna delle citate compagnie. Degli spettacoli visti, non tutti degni di nota, mi sembra che sia doveroso citare l'ultimo lavoro di Davide Iodice La bellezza, splendido esempio di ricerca sugli attori e di capacità di comunicare forti emozioni poetiche, davvero un grande spettacolo. L'incontro è ruotato intorno ad alcune questioni focali: il rapporto con le istituzioni della politica; il sistema delle regole; le relazioni fra i soggetti dell'innovazione e il rapporto con le nuove generazioni del teatro; un patto teatrale fra gli innovatori. Le riassumo a mò di puzzle senza poterne raccontare i colori, dovuti soprattutto alla bella ed organizzata accoglienza di Lella Serao e Luigi Marsano.
Se la coperta è corta e nessuna nuova maggioranza potrà allungarla (Adriano Gallina), allora il confronto/scontro con i palazzi della politica deve andare a toccare i nodi dei criteri, delle modalità e dei tempi di assegnazione delle risorse a disposizione. O il teatro sceglie da che parte stare (Fabio Abagnato) o lascia colpevolmente al solo dibattito della politica la sua riforma, che non è più rinviabile, né evitabile viste le ultime decisioni della Corte Costituzionale in ordine alle attività culturali come materia concorrente fra Stato e Regioni e le posizioni espresse dalla politica e dal teatro al convegno di Bologna del 9 luglio. Ma per partecipare al dibattito con una visione forte del futuro, il teatro deve sollecitare la complicità di altri settori del pensiero (Lello Serao), dall'economia alla filosofia della scienza, dalla sociologia alla biologia, stimolando punti di vista che nulla hanno a che fare con il teatro ma che al teatro possono indicare nuovi approcci per risolvere i problemi. Significativo in questo senso sono stati i ripetuti riferimenti alla lucidità dell'elaborazione di Michele Trimarchi sul cambiamento istituzionale e normativo del sistema teatro.
A volte i teatranti danno l'impressione di essere la retroguardia del cambiamento della società italiana (Fabio Abagnato), specie quando chiedono che qualunque cosa accade sia subito tradotto in ura norma di tutela dell'accaduto. Si è venuto così generando un sistema di regole che definisce la natura giuridica di quasi tutti e ad ognuno affida la sua categoria artistica. Manca nel nostro sistema di regole un riferimento ai valori del fare teatro ed ai principi a cui ispirare la contribuzione pubblica del teatro. La valutazione quantitativa è fatta in massima parte sui costi delle attività e solo marginalmente sui ricavi e sulla loro composizione, quasi a perpetrare l'idea di assistenza/dipendenza dal sistema politico, di qualsiasi orientamento sia. Tutti gli interventi hanno evidenziato come oggi le regole non favoriscano il ricambio, non fondano le decisioni sulla valutazione dei risultati e non si pongano il problema di misurare la qualità. Se c'è bisogno allora che il teatro, soprattutto il settore dell'innovazione, metta in atto pratiche di autoselezione, non bisogna aver timore della selezione affidata a soggetti politico-istituzionali (Ninni Cutaia) purché sia fatto attraverso regole chiare che individuino precisamente la responsabilità a cui poter riferire le scelte operate.
L'AGIS non può essere (Adriano Gallina) il palazzo da dove far partire una "vertenza per il teatro d'arte", che va evidentemente pensata, articolata ed organizzata fuori dall'AGIS, laddove questa Associazione presenta (Tiziana Pirola) così evidenti difetti di autonomia di rappresentanza dal punto di vista politico e sindacale. L'ETI, che riceve dal FUS più di tutta la stabilità di innovazione e quasi quanto tutte le attività del teatro di prosa del Sud, isole escluse, deve tornare a svolgere il suo ruolo di promozione e di diffusione del teatro avendo come indirizzo non la "tutela e lo sviluppo del teatro privato di eccellenza" (come ha dichiarato recentemente il suo Presidente) ma il riequilibrio territoriale della distribuzione e il sostegno progettuale della ricerca, del teatro per l'infanzia e la gioventù.
Il sistema di distribuzione che governa le stagioni teatrali italiane non si fonda sugli spettacoli, bensì sui soggetti produttori e questo distorce l'ascolto del pubblico, criticizza la formazione di nuovo pubblico. Il "giro" può essere condizione di cambiamento o di ingessamento del teatro italiano a seconda di quali criteri e meccanismi si attuano nell'intervento pubblico di Eti e circuiti regionali, ma anche di quali relazioni più o meno virtuose si instaurano fra produttori, programmatori ed esercizio teatrale. Si possono distinguere i produttori (Fabio Abagnato) fra quelli che prima producono uno spettacolo e poi lo distribuiscono e quanti prima lo vendono e poi lo producono: nasce allora l'esigenza di affrontare la questione di un limite condiviso all'autonomia artistica da parte dell'istituzione che finanzia l'attività, per bilanciare esigenze artistiche e difendere i diritti dei cittadini-spettatori ad una effettiva pluralità dell'offerta. Nel mio intervento ho fatto un esercizio statistico per misurare in percentuale le relazioni di scambio fra 30 teatri stabili (9 pubbici, 6 privati e 15 di innovazione), ricavandone una maggiore "complicità" fra gli stabili pubblici. La "pratica degli scambi" può essere ricondotta (Adriano Gallina, Lello Serao) ad una capacità del teatro di innovazione di costruire un nuovo mercato, di scegliere gli spettacoli e non le compagnie, ammettendo come normale sbagliare uno spettacolo ma altrettanto normale non far girare uno spettacolo che tanti hanno giudicato brutto. E se il mercato rappresenta oggi la reale possibilità di emancipazione dalla dipendenza della politica, scegliersi fra affini per percorsi artistici e per relazioni con i cittadini-spettatori è quasi doveroso.
L'indagine avviata dalla TEDARCO (Lello Serao) ha interessato 36 imprese di produzione, quindi circa un terzo delle imprese iscritte. Queste programmano o gestiscono un totale di 47 sale teatrali per 10.911 posti vendibili che sono stati messi a disposizione nella scorsa stagione di ben 677 compagnie per 1.204 recite programmate. Si tratta forse di uno spaccato particolare di un nuovo mercato, sicuramente di un modello nuovo di relazione fra compagnie, teatri e territori che fa pensare a "compagnie a stabilità leggera" (Lello Serao) o a "compagnie di progetto territoriale" (Luciano Nattino).
Nelle relazioni con le nuove generazioni del teatro sta la possibilità del sistema di disingessarsi, di abbattere i meccanismi bloccati e bloccanti in entrata ed in uscita dal FUS, dall'ETI, dai circuiti distributivi, dai Festival, dai finanziamenti degli Enti Locali, dalla gestione di nuovi spazi, ecc... Ho proposto che sia data trasparenza e dignità organizzativa alla pratica oggi così diffusa del "dare agibilità", per andare oltre il semplice utilizzo dei numeri delle recite e delle giornate lavorative e farne parte dell'identità artistica dei soggetti più forti, più visibili nelle relazioni con il pubblico e con il territorio. Come per le complicità/scambio, anche questa proposta ha certamente bisogno di ulteriori approfondimenti ed ha suscitato consensi ma anche riserve e avvisi di involuzione autocertificante (Fabio Abagnato, Fabio Naggi). C'è poi quel teatro che nasce, si sviluppa e agisce fuori dal sistema (Gian Maria Tosatti), nei centri sociali ma anche nelle attività di comunità di recupero e di integrazione del disagio, ed è tutto "giovane" perché quando non è più giovane non ce la fa più a stare fuori del sistema. Non vi è dubbio che la ricerca (Ninni Cutaia) sia una funzione matura e non giovanilistica del fare teatro, ma non vi è altrettanto dubbio che sia la parte più debole del sistema, quella che ha per vocazione e per obbligo di rischio più bisogno di tutela e di investimenti.
E' forse giunto il tempo di un nuovo Patto di co-evoluzione (Adriano Gallina) fra le generazioni del teatro italiano, fra i produttori, i programmatori e l'esercizio, pubblico e privato, per immaginare il futuro senza paure o timori. Un patto per il repertorio, che consenta di uscire dagli standard quantitativi dell'usa e getta delle produzioni che risponde alle continue richieste di novità e sacrifica il tempo della ricerca, dell'approfondimento, del perfezionamento. Da Napoli mi pare sia emersa una lucida analisi di come si possano e si debbano affrettare i tempi di un confronto leale e spietato prima di tutto fra operatori, programmatori, produttori, artisti. Potrebbero essere decisi subito, fin dalla ripresa di settembre, tre o quattro gruppi di lavoro sui temi che hanno appassionato il dibattito per arrivare al confronto prossimo con la politica con posizioni chiare, articolate, non semplicemente rivendicative. L'assenza dei politici all'incontro di Napoli, pure in presenza di un progetto fortemente voluto dall'Ente Locale come I Teatri di Napoli, segnala la necessità di rafforzare il potere di interlocuzione con la politica che il teatro (e non solo singoli teatri o compagnie) deve conquistare al più presto.
Franco D'Ippolito
Hanno partecipato all'incontro Renata Coluccini, Sergio Longobardi, Alessandro Lay, Maria Luisa Garofalo, Tiziana Irti, Nico Mucci, Vincenzo Modica, Alessandra Maculan, Mario Crasto De Stefano, Silvana Denaro, Michele Raffa, Antonello Cossia, Roberto Sala, Roberto Genovesi, Anna Damiani, Stefano Cipiciani, Flavia De Lucis, Michele Lanza, Paolo Comentale, Maria Carla Spagnol, Stfania Bonso, Nuccia Pugliese, Espedito Giaccio, Nicolaeugenia Prezzavento, Marzia D'Alesio, Sista Bramini, Patrizia Chiatti, Mario Pierotti, Agostino Rutano, Roberto Corradino, Fabio Abagnato, Monica Abbiati, Tiziana Pirola, Stefano Bosco, Valeria Ottolenghi, Gian Maria Tosatti, Nicola Viesti, Claudia Brunetto, Paola Elettro, Fabio Naggi, Luigi Zanin, Mario Bianchi, Marino Pedroni, Clara Cottino, Adriano Gallina, Paolo Piano, Antonio Tancredi, Angela Santucci, Alessandra Belledi, Giulio Accettella, Fabio Ghisalberti, Cecilia Cangelli, Rosa Maria Leone, Antonio Salvagni, Stefania Evandro, Ninni Cutaia, Mimmo Basso, Francesco Mattioni, Labros Mangheras, Daniela Nicosia, Lucio Colle, Luigi Marsano, Giovanna Facciolo, Bruno Leone, Stefania Caudullo, Raniero Marcolini, Giovanni Petrone, Morena Pauro, Davide Iodice, Francesco Coda, Lello Serao, Renato Carpentieri, Enzo Salomone, Alessia Sirano, Gaetano Piscopo, Alfonso Postiglione, Francesco Saponaro, Peppino Mazzotta, Emanuele Quilici, Carlo Galati.
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L'arte dell'organizzazione La relazione per l'incontro di Napoli di Franco D'Ippolito |
Franco Quadri afferma in una recente intervista a Luca Ronconi che "il teatro italiano è in crisi non solo di interpreti e di idee, ma soprattutto di organizzatori" ed io condivido questa sua affermazione. Nell'ultimo decennio noi organizzatori, mi pare, non siamo riusciti a sviluppare un'idea progettuale forte, non abbiamo trovato il modo di modificare i disequilibri dell'attuale sistema e di ridare concrete possibilità alle tante potenzialità che si sono espresse. Abbiamo sofferto un doloroso appiattimento sui parametri ministeriali, che hanno monopolizzato il dibattito ed il confronto con i nostri interlocutori nonché determinato in massima parte la nostra progettualità, sempre a metà fra il management e l'impossibilità quotidiana di pagare stipendi e fornitori. Il problema dei costi di uno spettacolo o della gestione di qualità di uno spazio teatrale incombe con forza su tutto il sistema, è un condizionamento che impedisce qualunque sviluppo, a volte addirittura mette in discussione il mantenimento degli standard quantitativi e qualitativi raggiunti negli ultimi anni. Ma siamo poi così sicuri che non ci sia alternativa? Dobbiamo per forza continuare a garantire o addirittura aumentare gli standard quantitativi della nostra attività o non possiamo, invece, salvaguardarne i livelli di qualità artistica ed organizzativa anche a scapito della quantità? Dappertutto, con poche eccezioni, viviamo un impoverimento degli allestimenti, dell'accoglienza nei teatri e nei festival. Dilaga sempre più, a mio avviso, la scarsa attenzione ai valori del nostro mestiere, ai valori del fare teatro. Tutto ciò mi sembra insopportabile e credo che stia rendendo impraticabile la ricerca di nuovo pubblico, la capacità di interessare al nostro teatro nuove fasce di spettatori.
Esiste un problema generale di risorse pubbliche, di difesa dei livelli storici del FUS e della quota di sovvenzioni regionali e di comuni e province, così come è sempre più urgente un franco ed aspro confronto sull'utilizzo discrezionale di queste risorse, sulla totale mancanza di verifiche su come i diversi soggetti utilizzano i finanziamenti pubblici, sui tempi di erogazione, sulle sperequazioni non solo quantitative fra regioni ricche e regioni povere. Il welfare nel nostro Paese va ridisegnato per ricomprendervi in maniera ed in misura diversa la cultura e lo spettacolo. L'attuale impianto di welfare è nato negli anni '60 e allora, in un Paese che presentava ancora sacche di analfabetismo, dovette modellarsi sulla necessità di assicurare a tutti l'accesso all'istruzione di base. Oggi un nuovo welfare deve fare i conti con la ricerca e con l'innovazione e non può prescindere dalla difesa, dal sostegno e dal rilancio delle attività culturali e dello spettacolo, elementi decisivi della crescita civile del Paese. Lo spettacolo produce benessere intangibile, complemento indispensabile del benessere materiale di ogni comunità ed è il nostro compito di organizzatori tenere alta la domanda di cultura del Paese.
Parliamo di crisi del teatro ma sappiamo che quello che veramente ci opprime è l'estrema difficoltà di pensare alla vita di uno spettacolo. Ogni artista e ogni organizzatore ha in testa o nel cassetto almeno tre progetti produttivi, coerenti con la propria missione e con il proprio pubblico, ma chissà perché incoerenti con il sistema italiano di distribuzione degli spettacoli. Potremmo forse cercare di aumentare la tenitura degli spettacoli nelle città, potremmo anche provare ad organizzare spostamenti di pubblico in ambiti territoriali intercomunali, ma nell'Italia dei mille campanili non potremo mai fare a meno del "giro". Mi sembra che sia questo sistema distributivo che deve accontentare il mercato senza cercare di interpretarlo criticamente e farlo crescere culturalmente, che ingessa i palcoscenici, divenuti luoghi più a disposizione degli ultrasettantenni che dei trentenni, spazi più per il conformismo della tradizione che per il rinnovamento della scena.
Mi piacerebbe ci fosse, invece, un mercato aperto e plurale, dove il teatro commerciale non monopolizzasse il pensiero degli organizzatori e dove fossero garantiti dalle leggi, dalle risorse e dagli stessi organizzatori, gli spazi fisici e culturali al rischio del nuovo, alla scoperta delle giovani generazioni, dove si facesse selezione non solo sulla quantità di biglietti venduti ma anche sulla capacità di instaurare nuove relazioni con un nuovo pubblico. E per farlo c'è assolutamente bisogno di un certo tipo di intervento pubblico, di una politica culturale che riconosca il teatro d'arte fra le priorità dei finanziamenti. Il teatro, tutto il teatro, deve essere sostenuto dalla fiscalità generale, attraverso strumenti di defiscalizzazione e con sovvenzioni alle imprese e contributi ai progetti, ma il nuovo teatro, il teatro delle giovani generazioni, il teatro per l'infanzia deve esserlo di più, non soltanto per una scelta di politica culturale e sociale, ma anche per un semplice principio di equità. Chi rischia non assecondando il gusto corrente o chi promuove nuovo pubblico anche attraverso biglietti di ingresso a pochi euro (come nel caso del teatro ragazzi ma anche della prima fase della ricerca di un artista, di un gruppo) ha più diritto ad essere sostenuto, sovvenzionato, aiutato perché sta lavorando per il miglioramento delle condizioni di convivenza civile. Da questo principio non possiamo e spero che non dovremo allontanarci. Perciò non possiamo rimanere semplici ascoltatori/lettori delle dichiarazioni reiterate dal Presidente Galdieri sull'obiettivo delle linee d'intervento dell'Eti. Si tratta dell'Ente pubblico nazionale di promozione e di distribuzione del teatro, che riceve dallo Stato più di tutta la stabilità di innovazione, quanto tutto il Sud teatrale d'Italia (per produzione, distribuzione ed esercizio) e che ha avvertito negli ultimi due anni, per dirla con le parole del Presidente, "la necessità di difendere e supportare il teatro privato di eccellenza e qualità".
Ho cercato di semplificare un pezzo di mercato e così, consapevole delle approssimazioni di tale procedimento e delle inevitabili generalizzazioni, ho provato a tradurre in numeri le programmazioni dell'area della stabilità (pubblica, privata e di innovazione) nella stagione appena conclusa, 2003/2004. Dal campione preso in esame senza alcuna pretesa e distribuito sul territorio nazionale fra nord, centro e sud, composto da 30 teatri stabili (9 pubblici, 6 privati e 15 di innovazione), mi sembra di scorgere un orientamento abbastanza chiaro di quali siano state le relazioni di mercato che si instaurano in questa area.
Se gli stabili pubblici e quelli di innovazione programmano rispettivamente nei propri teatri il 21 e il 24 per cento di spettacoli di propria produzione (la percentuale varia di molto all'interno di ogni settore fra grandi capoluoghi e città medio-piccole) sono gli stabili privati a dedicare il 37 per cento della loro programmazione alla propria produzione.
Di contro, mentre stabilità pubblica e privata dedicano il 28 ed il 30 per cento della programmazione agli spettacoli prodotti da compagnie e da teatri privati, la stabilità di innovazione riserva loro il 56 per cento (quasi il doppio).
Complessivamente il 59% (21+38) della programmazione dei teatri stabili pubblici è frutto di spettacoli prodotti dalla stabilità pubblica, mentre questa percentuale scende al 41% (37+4) nella programmazione della stabilità privata e al 35% (24+11) nella programmazione della stabilità di innovazione.
Appare chiaramente che c'è più reciprocità e maggiore complicità fra gli stabili pubblici di quanta ce ne sia all'interno degli altri settori della stabilità. Questo è dovuto a una loro maggiore forza produttiva e distributiva, ma non solo. Mi pare di poter ipotizzare che il settore della stabilità pubblica (anche perché storicamente è partito per primo) sia quello che più degli altri ha cercato, con alterne vicende nel corso degli ultimi decenni, di fare "sistema", di promuoversi e, insieme, di tutelare i propri spettacoli, a volte riuscendo anche a fare lobby.
La pratica, voluta da Paolo Grassi e Ivo Chiesa, di mettere a disposizione degli altri teatri stabili il proprio palcoscenico e il proprio pubblico nacque per proteggere il teatro d'arte e fu anche codificata: gli spettacoli si scambiavano a rimborso del foglio paga e con gli aiuti tecnici a carico del teatro ospitante. La forza e la consapevolezza di rappresentare un nuovo teatro per un nuovo pubblico (come storicamente è stato, ma come si è poi perso), gli stabili pubblici la seppero addirittura tradurre in norme ministeriali, laddove fino al Regolamento Forlenza, cioè fino al 2002, sono state considerate rappresentate in sede anche le rappresentazioni presso altri stabili pubblici. Non so se l'attuale crisi dell'idea di stabilità pubblica possa essere in parte frutto di quella sorta di protezionismo, nato per garantire lo sviluppo e trasformatosi in garante delle rendite di posizione. Penso però che dalle esperienze della storia si possano trarre quantomeno dei suggerimenti.
Il nuovo teatro, di ricerca e per l'infanzia e la gioventù, ha provato nell'ultimo decennio a fare "sistema"? e come ha cercato di promuoversi e di tutelare i propri spettacoli? è mai riuscito a fare lobby nell'ultimo decennio? Questo incontro potrà dare delle risposte su cui impegnare il lavoro dei prossimi mesi. E ad ottobre a Milano contiamo di incontrarci ancora per provare a mettere in piedi una sorta di "banca delle idee" delle buone pratiche che pure ci sono e che possono essere allargate, adattate alle buone volontà di molti.
Fare i conti con la realtà organizzativa del mercato, far quadrare i conti delle nostre attività non significa subire passivamente le leggi del consumo di spettacoli. Non credo, almeno, che sia questo l'obiettivo e la missione del teatro di innovazione, del teatro che oggi discute sulla crisi e sul proprio futuro.
Far quadrare i conti delle nostre attività deve significare, invece, provarsi ad inventare nuovi modelli di produzione in una rinnovata complicità fra artisti, tecnici e organizzatori. E personalmente ritengo che sia ormai tempo di mettere in discussione la natura giuridica del rapporto di lavoro in teatro e di conseguenza l'impianto tecnico-teorico dell'inapplicato e inapplicabile Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro.
Fare i conti con questo mercato deve significare, inoltre, cercare di mettere in atto nuovi modelli di circuitazione e per farlo non si può prescindere dalla reciprocità e dalla solidarietà fra produttori dell'innovazione nonché da modalità diverse di organizzazione del giro per abbatterne gli insostenibili costi generali. Costi di ospitalità e schede tecniche, per esempio, potrebbero essere ridotti o addirittura azzerati in un'ipotesi di convenzione fra teatri e compagnie, così come innovativi progetti di co-produzione, ma anche di co-programmazioni, potrebbero scardinare le attuali rigidità del giro.
In questa assunzione di nuove responsabilità organizzative da parte del teatro italiano, diventa secondo me decisivo il rapporto con le nuove generazioni del teatro. Si devono poter offrire ai nuovi gruppi occasioni ed opportunità di misurarsi con il pubblico, di mettere alla prova la propria idea artistica con il fare teatro. Non credo sia utile ed opportuno continuare a gemmare gruppi da gruppi, spesso deboli e disorganizzati, che a volte non riescono a durare più di una stagione. Bisogna invece favorire la crescita artistica di nuovi gruppi e di giovani talenti all'interno delle strutture consolidate, in buona autonomia artistica, senza che questo offenda l'ego di nessuno, dei più grandi come dei più giovani. Come il teatro privato ha saputo nell'ultimo DM inserire la norma per cui sono valutati come propri gli oneri versati da terzi impiegati nell'attività, il teatro di innovazione deve sapere farsi riconoscere con pari dignità i propri modelli di produzione e di distribuzione. Diamo trasparenza e dignità organizzativa alla pratica del "dare agibilità", chiedendo che venga contemplato nella normativa ministeriale (e domani in quella regionale) per il teatro di innovazione il valore del sostegno alle nuove formazioni ed ai nuovi talenti, senza costringere chiunque a dover formare una propria compagnia, ad avere una propria organizzazione aziendale per cercare, infine, di ottenere il riconoscimento ministeriale o regionale.
Oggi, nella migliore delle ipotesi, il mercato guarda ai giovani soltanto per consumare in cartelloni indefiniti un nuovo talento, magari proponendo ogni suo spettacolo come fosse un marchio sicuro da consumare in fretta, prima che ne venga fuori un altro, santificato in qualche festival. E' l'intero sistema che sta dichiarando la propria obsolescenza, che sta cercando di sopravvivere a se stesso negli uomini, nei modelli, nelle pratiche. Bisogna reagire in positivo, subito, attuando pratiche fuori dagli schemi legislativo-amministrativi perché il principe di turno si accorga dell'enorme, straordinaria importanza vitale del nuovo teatro.
Negli ultimi anni anche molto teatro nuovo ha confuso la propria sopravvivenza con la propria missione originaria e, pur continuando a dichiarare la necessità di cambiamento, le azioni teatrali e politiche di qualcuno hanno cominciato a valere più di quelle di altri. Si è generato così un processo di isolamento, a difesa e tutela di una identità artistica avvertita sempre meno come determinante. Si è perso il senso dell'agire in un contesto di forti e solide aggregazioni e si è diventati tanto gelosi dei propri spazi che la relazione con gli altri o è stata totalizzante o si è limitata al rapporto economico-finanziario. Si sta facendo strada, in maniera abbastanza diffusa, la nostalgia per certe pratiche del passato, per un certo "nuovo" senza se e senza ma, per il mito del "non professionismo" capace di sgominare la banda del "vecchio". Mi viene il dubbio che questo guardare indietro sia legato al mantenimento dello status quo, sia dovuto a una specie di incapacità ad immaginare il futuro del sistema teatrale italiano. Non è che il lungo cammino del cambiamento ci terrorizza al punto che molte direzioni di compagnie e teatri di agiscono di fatto come i centri della resistenza al nuovo?
Senza organizzatori che scelgono l'arte del teatro piuttosto che il teatro del botteghino non c'è futuro per nessuno. E scegliere vuol dire anche prendere atto con ragionevole presunzione che alcune esperienze artistiche ed organizzative non possono più dire né dare nulla e che la difesa a priori di tutti blocca il sistema, impedisce il ricambio, marginalizza i nuovi talenti e le nuove professionalità. Bisogna che ci decidiamo a discutere laicamente dell'abbattimento dei blocchi in entrata e in uscita dal sistema, dell'intangibilità dei teatri e delle loro direzioni artistiche e organizzative. Il cambiamento necessario prima per sopravvivere e poi per rilanciarsi va anticipato e governato da noi, artisti e organizzatori, ma per governarlo davvero sarà indispensabile un passo indietro rispetto alle posizioni conquistate che non possiamo difendere tout court. Uniamo piccole forze artistiche e organizzative per costruire più grandi soggetti plurali, consorziati, che siano più forti nel rapporto con le istituzioni e con il mercato.
Quanto sta nascendo a Napoli con Teatri di Napoli è una risposta concreta che va sostenuta e presa a "buona pratica" sia rispetto alle relazioni fra teatri e istituzioni, che al rapporto fra soggetti teatrali diversi che condividono un progetto e condivideranno presto uno spazio fisico nel rispetto della storia e dell'identità di ognuno. Vi è un altro aspetto della futura, ormai prossima esperienza napoletana che mi sembra assai rilevante: stanno definendosi quattro residenze teatrali plurali che modificheranno il mercato dell'area metropolitana napoletana. Si sta costruendo una rete di teatri che custodiranno il proprio progetto ed il proprio pubblico senza gareggiare fra loro. Anzi questi teatri potrebbero non disdegnare, quando ne varrà la pena, di programmare lo stesso spettacolo nei loro spazi, proponendo così alle compagnie una tournée nell'area metropolitana. Napoli con il suo forte tessuto culturale, arricchitosi dell'impulso importantissimo e delle preziose relazioni del Teatro Mercadante, potrebbe così candidarsi a modello di area metropolitana di distribuzione e rinforzare la grande tradizione del legame fra i suoi teatri e la sua popolazione.
Per concludere, io avverto il bisogno di un "patto fra le generazioni del teatro italiano", che lungi dall'essere un patto di non belligeranza o un armistizio per lo status quo, si fondi sul riconoscimento dei valori e delle ambizioni dell'una generazione nei confronti dell'altra, laddove per generazione non si intenda soltanto il dato anagrafico. Un patto in cui ciascuno si assegni un compito semplice e preciso e in cui tutti concorrano alla sua realizzazione.
Il nuovo teatro pratichi il diritto alla libertà degli artisti, cioè il diritto alla libertà dal mercato dei biglietti venduti, imponga il diritto alla libertà degli organizzatori dalla intromissione della politica nella gestione delle attività e difenda e tuteli il diritto alla libertà del pubblico, cioè alla libertà di avere curiosità e di poter scegliere davvero fra tradizione e innovazione.
Noi organizzatori impegniamoci ad affermare la pari dignità dei progetti artistici e organizzativi, senza steccati o graduatorie artificiali, indipendentemente dalle dimensioni quantitative del progetto che sappiamo e possiamo portare avanti. Ci può e ci deve essere rigore, professionalità e qualità al San Carlo come nei nuovi spazi periferici dei Teatri di Napoli. E' questa la scommessa da vincere per uscire dalla crisi di immobilismo in cui ci ha ridotto la restaurazione dell'Eti, l'arretramento mercantile degli stabili pubblici, l'incomunicabilità fra i soggetti dell'innovazione. Non penso che ci sia ancora molto tempo per farlo e se non lo facciamo noi qualcun altro, che non condivide la nostra missione, lo farà, forse lo sta già facendo in vece nostra. Con i risultati che non oso immaginare.
Napoli, 16 luglio 2004
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Dalla parte dei formatori Un esempio di formazione teatrale in Toscana: Alessio Pizzech e il Cantiere teatrale di Cascina di Anna Maria Monteverdi |
Alessio Pizzech, regista teatrale e d’opera presente in vari Festival della Toscana (quest’anno ad Inequilibrio di Castiglioncello con Parole di sale e a Piccoli fuochi a Buti con Il sangue del poeta da Cocteau), da anni lavora come educatore in vari laboratori teatrali da lui stesso creati. Ha coordinato il progetto "Teatro ed etica" di Castiglioncello (Armunia) rivolti ad insegnanti delle scuole elementarie e medie con la presentazione di spettacoli ed incontri presso Castello Pasquini e dislocati in vari Comuni della Costa degli Etruschi. Suo è soprattutto il progetto Cantiere Teatro che ha dato vita a Pilade da Pasolini, un bell’esempio di spettacolo realizzato con non professionisti ma ricco di notevoli spunti artistici (e di reale passione e convinzione da parte degli allievi). Abbiamo incontrato Alessio Pizzech a Cascina, presso il Politeama insieme con i suoi collaboratori.
Parole di sale, regia di Alessio Pizzech (foto Chiara Sbrana).
Puoi parlarci della tua esperienza all’interno dei laboratori di formazione teatrale a Cascina e a Castiglioncello?
Pizzech: Il Cantiere teatrale raccoglie l’eredità dei corsi di servizi del Politeama di Cascina diretto da Alessandro Garzella. Nel raccogliere l’esperienza passata si è voluto togliere la dimensione del servizio e del corso fine a se stesso e riformulare una nuova proposta. In precedenza avevo avviato a Rosignano un Cantiere teatrale dove avevo sperimentato il mio rapporto da professionista con non professionisti. Cercavo di capire cosa poteva nascere dal punto di vista poetico in questo approccio al teatro che rispondeva a una dimensione personale del mio far teatro e quello che ritengo un principio di utilità sociale, anche se di fatto non riesco a scindere questi due aspetti. Il principio guida è stato: Teatro non come un fine ma come un mezzo. Chiudendo i Cantieri a Rosignano li ho fatti confluire ad Armunia a Castiglioncello e li ho portati a Cascina, al Politeama.
Cosa intendi per "teatro come mezzo"?
Teatro è utile per ritrovarsi, per rispondere a delle domande, alla rincorsa del tempo, a una perdita di senso. Da parte degli allievi c’è l’incoscienza, arrivano cercando qualcosa e sedotti da qualcosa, o anche solo dal bisogno di ritrovarsi, dal bisogno di una nuova dimensione, da un’aspirazione vaga, comunque da una dimensione della domanda. Credo che nella normalità viviamo nel mondo delle risposte. La responsabilità che ti assumi è quella di cercare di trovare le giuste distanze.
Da dove partono queste esigenze da parte di chi si iscrive e quale è l’impegno che gli si chiede?
Sono risucchiati da questa dimensione quotidiana, tutte le esperienze individuali nascono da esigenze che trovano forse una risposta inadeguata. La qualità proposta nel laboratorio non è minore rispetto a quella di un percorso istituzionalizzato o ufficialmente riconosciuto. Richiede ugualmente impegno e dedizione. Bisogna provare ad addentare l’essenza di questo interesse per il teatro. Tutto vogliono fare teatro e nessuno va a teatro diceva Savelli. Bisogna creare un pubblico e lo crei se susciti interesse per il teatro, e fai capire l’essenza degli intrecci, dei legami. E riconquistare un tempo, il tempo dell’ascoltare e ascoltarsi.
La qualità dell’attenzione a noi stessi ha bisogno di un tempo speciale...
Per questo devi fare un lavoro di didattica. Nel cantiere ci sono non professionisti e poi tu che vedi i problemi con maggiore concretezza di chi hai di fronte. E spesso abbiamo di fronte un’umanità cui non piace il proprio lavoro. Perdono tempo, si ritrovano in un tempo che non corrisponde ai sogni, all’illusione. Ambizioni, vite affettive spesso vissute male anche a causa del lavoro, delle insoddisfazioni, senza un’idea di quello che potrebbe essere il futuro. E’ un’intelligenza creativa mancata, la vita va vissuta in termini di creatività. Pensarci diversi: in questi anni le persone hanno perso questa possibilità. Questi discorsi li mettono in crisi, ma non ti senti solo perché fai un’esperienza collettiva. Siamo pieni di solitudine, il teatro gli dà la possibilità di sentirsi meno soli anche nei propri dolori, ci sentiremo meno soli se solo accettassimo di più noi stessi.
Parole di sale, regia di Alessio Pizzech (foto Chiara Sbrana).
Non c’è il rischio di cadere nello psicodramma collettivo?
C’è il pericolo di scendere sulla zona personale, nel biografico. E’ l’aspetto più intrigante, in cui tutto esce, tutto questo silenzio prende forma. Ma non ha solo il segno del pianto, ha altre espressioni. Rispetto a questo darsi però c’è l’aspettativa dell’arrivare a darsi. C’è questa dimensione dell’attesa, di attendere il tempo per essere, per fare, e questo sposta le dinamiche relazionali.
Come funziona il "gruppo di ingresso"?
C’è un lavoro che si fa sul corpo, poi si prosegue sulla memoria storica. Tutto si coagula in una direzione di ricerca...Il fatto è che non si lavora al buio, ma sempre cercando di capire qual è la direzione concreta e artigianale del lavoro. Bisogna superare questa dimensione del non sapere dove si arriva. Io dico sempre che celebro la fine per avere il senso di una ricerca. E’ una sicurezza per chi fa il percorso. Dare un punto significa dare forma all’informe: questa rabbia-dolore-sessualità non ha forma e dopo comincia a prendere forma, la mia intelligenza creativa si sviluppa e io muovo il mio cervello per questo, sono più felice, sono più rassicurato. L’approdo alla vocalità, al dire, arriva alla fine di un percorso lunghissimo.
Nel gruppo di ingresso non partiamo dal testo, partiamo spesso dal dialetto, ma senza una necessità di giustificare a livello drammaturgico ciò che succede nello spazio; tutta la drammaturgia si sviluppa su scene frutto del lavoro di improvvisazione fatto nei mesi precedenti. Il problema è come trattenere l’attenzione sulla drammaturgia che oggi non si legge più. Riuscire a suscitare un interesse verso il testo è già un risultato. La partitura è centrata di fatto sul corpo e alla fine del percorso di anni di lavoro, tu gli dai in mano un testo: la stessa libertà che ci siamo conquistati col corpo, con le emozioni, con noi stessi, proviamo ad averla con un testo.
Interviene Antonio Perrone ( assistente di Alessio Pizzech )
"Con il gruppo di ingresso, si trattava di confrontarsi con un dialetto fossile, antico. Non veniva svelata la traduzione, era difficile dirla e agirla contemporaneamente, ed è stato importante per poi arrivare a un ambito teatrale vero e proprio, per arrivare a un’idea di drammaturgia".
Continua Pizzech:
E’ stato un lavoro a gradoni, graduale, arrivare a dargli le possibilità di far capire come il mondo, le cose, possono essere diverse, Pasolini era importante per questo lavoro di trasformazione della persona. Mi spaventa molto una formazione che non guidi verso la libertà.
Luca Ronconi parlava della difficoltà di allestire i testi pasoliniani perché "c’è troppo autore". Come farli accettare e interpretare dai non professionisti?
Credo che Pasolini abbia bisogno di essere ripulito da questa dimensione intellettuale e abbia bisogno di tornare a essere parola che si fa carne, che vibra, e per affrontarlo a teatro li ha aiutati molto il non partire dal "cosa significa" ma dal "cosa significa per me" e trovare quel ponte che unisce Pasolini a questa dimensione autobiografica, dopo che ho scavato dentro di me; insomma un ponte ideale fra questo magma personale e la persona che ha dato vita a potenti immagini letterarie. Scoprire che ognuno può fare un percorso creativo. Un lavoro che significa confronto, coraggio di andare fino in fondo, in profondità con un autore. L’energia che ho visto ci ha aperto alla capacità catartica del teatro, ciò che la parola riesce a esorcizzare, una parola sguaiata, urlata. Urlare è l’unico modo per provare a parlare perché alcuni di loro per anni avevano solo "chiacchierato", credo che qualcuno a teatro abbia scoperto davvero cosa significhi parlare, caricare le parole di sensi, di significati e di emozioni. Dobbiamo "ribaricentrarli" sull’emozione. Il Teatro deve tornare a parlare della vita. Personalmente intendo sempre il teatro come energia, come esemplificazione della parola quale portato energetico infinito, la parola deve esplodere fuori di te e dentro di te. La ragazzina che nelle improvvisazioni parlava piano poi ha iniziato a urlare, con una gran voglia di urlare... Siamo tutti molto incazzati con questo mondo che non è il nostro mondo, che non ci appartiene, c’è una rabbia negli esseri umani che non è mai tirata fuori. Molti hanno fatto dei cambiamenti in questo senso.
Come funziona il training?
Interviene Grazia Minutella (assistente di Alessio Pizzech).
Generalmente sono molto numerosi e con varie esperienze; si fanno 3 giorni per compattare i gruppi. Nel training si vuole puntare l’attenzione al respiro, al controllo del respiro e alla figura del cerchio, anche con i bambini. Quindi si parte da un ascolto di base del proprio respiro, dalla posizione, dal sentire le varie parti del corpo che vibrano, si lavora sulla sonorizzazione. E’ fondamentale arrivare a creare un gruppo compatto e dinamico. A volte loro stessi se vedono che la cosa non funziona come vorrebbero, o che non soddisfa le loro aspettative, rinunciano.
Chi non partecipa attivamente al gruppo viene comunque integrato?
Interviene Pizzech:
E’ una forma di democrazia intervenire se qualcuno mi ha chiesto di lavorare su se stesso. Ognuno dà un contributo a partire dall’obiettivo che lui stesso si pone, ma noi bisogna creare le condizioni per cui tutti siano messi in condizione di stare dentro un gioco e per cui siano loro a decidere di lasciare e di assumersi la responsabilità se sono fuori dalla tribù. E’ in fondo qualcosa di educativo oltre il teatro. Ma in genere è il gruppo che decide, tu induci certe cose poi il gruppo si stabilizza su particolare livelli energetici. Pasolini ha funzionato benissimo in questo senso, per esempio col tema dell’accettazione della diversità: qualcuno che sembra non aiutarmi poi alla fine mi aiuta se posso utilizzare anche la sua energia.
Parole di sale, regia di Alessio Pizzech (foto Chiara Sbrana).
Quale era la composizione del gruppo con cui hai realizzato il Pilade?
Si tratta di un gruppo vario con background diversi, con 4 o 5 nuovi ingressi. Alcuni di loro avevano blocchi fisici e psichici. A metà febbraio ho lavorato con loro su mappe di scena, ai tagli, leggendo il testo, in realtà non in modo sistematico, ma su temi a cui poteva ruotare il Pilade pasoliniano mescolando la loro esistenza e i temi della sessualità, della politica, della libertà. Abbiamo definito i campi di interesse su cui tutti potevamo lavorare per l’improvvisazione: la nudità, la sessualità, temi già usciti attraverso il training e che avevano bisogno di essere buttati fuori... Interessante in questo senso il testo, perché si pensava alla Storia, all’epoca in cui è stato scritto, a quale è stato il passaggio storico, alla vicenda politica italiana, alla differenza rispetto al contesto di oggi, toccando temi miei, che interessavano anche a me, il tema dell’omosessualità, della famiglia, cosa significa oggi essere di sinistra. Avevano fatto una specie di diario di lavoro su Pasolini e Pilade, si lavorava dalle 8 di sera alle 3 del mattino. Contemporaneamente ero io che proponevo delle situazioni, che lavoravo da regista: da una parte il lavoro di improvvisazione e di immaginario che appartiene a loro e dall’altra Alessio Pizzech rispetto al mondo di Pasolini, che era un mio studio antico. Ho proposto loro i film di Pasolini e la mia voglia di raccontarlo in un certo modo. Mi sono trovato a mettere insieme questi punti di vista in una certa estetica che io ritenevo più opportuna. E cercando di capire perché da parte mia affrontare Pasolini attraverso loro, perché io cercavo Pasolini nel loro modo "strano" di dire le battute, perché mi interessava questa "sporcatura".
Quali sono state le maggiori difficoltà?
La loro diffcioltà è stata quella di affrontare sì Pasolini ma poi si sono scontrati con Alessio, e hanno cercato di dialogare con il regista, non subirlo. Un lavoro così concepito diventa ancora più interessante, loro lo vivono con grande ammirazione, con il giusto abbandono, ma anche con le giuste domande di chiarezza. Ho inseguito questa, se vuoi, "rifondazione etica" del ruolo del regista: devi avere le risposte giuste quando le domande sono serie, non abbandonare l’attore a se stesso.
Cosa ti ha lasciato in eredità questo lavoro su Pasolini con i non professionisti?
Lavorare con loro è stato un modo per ripuntualizzare le cose a me come regista, mi chiamano a delle responsabilità, e se hanno comunicato questo testo è grazie al fatto che si sono posti delle domande e io mi sono posto eticamente in una certa condizione. Se potessi farlo in un contesto professionale forse si potrebbero allargare le problematiche.....
Pasolini è vicino alla grandi drammaturgie contemporanee, quella di Koltés autori che hanno bisogno di essere manipolati, che hanno bisogno di qualcuno che gli trovi una forma, in cui la poesia scollina con la prosa. Autori che hanno bisogno di essere traditi. Forse siamo riusciti a non annoiare le persone perché si è rivitalizzato la drammaturgia...
Pilade parla di mitologia e di Novecento, di guerre e faide antiche e recenti...
E’ stato per me un lavoro sui riferimenti classici, un lavoro di resa di Pasolini che viene da una personale ricerca sull’Orestea, sul modello classico. La domanda è: cosa mette del Novecento e cosa della mitologia?. Cosa mette della propria storia, dell’antifascismo, del fallimento di un certo Sessantotto...Io ho fatto due tradimenti grossi, il primo è Pilade che se ne va dalla città e va a mettere in piedi la rivoluzione con i contadini. Ho scelto di tagliarla, Pilade sceglie il nulla, la negazione, sceglie il mondo delle Eumenidi, sceglie l’amore. Poi la morte suicida di Oreste, non c’è nella storia, non si sa niente di lui. Sappiamo che Elettra e Oreste si incontrano al cimitero. Citazioni da Shakespeare. Oreste fallisce la sua idea di ricchezza, dell’ottimismo a tutti i costi. Il suicidio di Oreste è la fine di un mondo. Pilade vince nel momento in cui decide di staccarsi da questa realtà. Ho deciso di finire così: "Non esistono nemici, i nemici sono amori sconosciuti". E’ il non riconoscimento del legame. Tutto si riduce in questa intuizione: se non siamo in grado di riconoscere i legami non riusciamo a vivere la nostra esistenza. E’ un messaggio trasversale anche per noi come educatori. C’è l’idea di una politica non più basata sulla rissa, su fazioni.
Dove avete inserito il tuo/vostro contemporaneo?
Il contemporaneo era il Testo che lo richiamava e loro stessi, gli allievi sono il contemporaneo attraverso il loro vissuto. Ho proposto temi e immagini su cui lavorare, da riempire per poi procedere per intuizioni. Immagini che poi per tentativi, hanno preso un corpo; volevo raccontare questo cambio di traiettorie: non possiamo aderire a qualsiasi dettato politico. Nel mio non darmi questo obiettivo, ovvero l’autore che impone delle ideologie, ho ascoltato il testo, e ho cercato di mettere insieme un nuovo testo parlando con loro.
Dimitri nella parte di Pilade è davvero straordinario con la sua forza fisica. Qual è la sua storia?
Dimitri è stata una scoperta, ha talento, aveva problemi sull’equilibrio, non stava in piedi a causa di un brutto incidente, adesso grazie al training, grazie al lavoro a teatro un po’ sì; prima non muoveva il bacino e ho cercato di farlo lavorare sul fargli sentire il diaframma. La sua energia è il risultato della forza che esercita contro la sua condizione, perché non deve accettarla, gli ho insegnato a reagire e ad arrabbiarsi, e questo ha fatto scattare in lui dei meccanismi, non aveva appoggio, e metteva la sua forza, la sua rabbia dentro. Alla fine di ogni prova era stravolto, stanco, c’è un fuoco personale in lui che è questo scoglio che ha da vivere. Ognuno lo ha.
ALESSIO PIZZECH
Nato a Livorno nel 1972 frequenta l’Accademia d’arte drammatica "Silvio D’Amico" di Roma e la Scuola Europea per l’Arte dell’attore dove studia con Marisa Fabbri, Domenico Polidoro e Marco Sciaccaluga. Importanti gli incontri con Jacques Fornier, Michel Azama, Jean-Claude Carrière, Dario Marconcini e Paolo Billi. Direttore artistico del Teatro Marchioneschi di Guardistallo, lavora al radicamento dell’evento teatrale nel territorio. Cura nel 1996 il progetto "Il teatro della fiaba" per la Fondazione Collodi. Intensa l’attività didattica nelle scuole, per allievi e insegnanti in Italia e all’estero, legata a un’idea di teatro sociale. Dal 1997 collabora con Armunia-Festival Costa degli Etruschi per progetti di formazione ed è in questo ambito che incontra Marion D’Amburgo, Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, cominciando un percorso prima sul piano del lavoro sul territorio poi sulla produzione.
Tra gli spettacoli in prosa presentati nei più importanti Festival teatrali della Toscana (Montalcino, Castiglioncello, Buti):
La parrucca di Natalia Ginzburg (1991); Lezioni d’amore di Dacia Maraini (1992); Dolore sotto chiave di Eduardo De Filippo (1993), Kreisleriana (1993), Le serve di Jean Genet (1995), Caffé Greco di Patrizia Monaco e Fiori di acciaio (1996), Zoo di notte di Michel Azama (1998). Nel 1999 allestisce il Caligola di Camus e Le sang du poète di Cocteau presso il Teatro della Limonaia di Firenze, ripreso nel 2004 per il Teatro de poche di Napoli e per Inequilibrio- Armunia festival. Mette in scena (e in forma di drammaturgia radiofonica per RadioRai) Savinio puer aeternus; ed inoltre Lotta tra negro e cani di Koltès per il Teatro Rifredi di Firenze (2000). E’ del 2001 la sua prima regia di un testo di Lorca, Yerma per il Teatro Verdi di Pisa a cui segue nel 2002 la regia di Nozze di sangue presentato durante il Festival teatrale di Rudolstadt (Germania).
Ha diretto attori come Elena Croce, Marion D’Amburgo, Antonio Piovanelli, Martine Brochard, Bob Marchese, Beppe Ghiglioni. Si dedica anche alla regia lirica dal 1997 . a.pizzech@libero.it
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Con Gulliver un progetto teatrale e terapeutico Una esperienza romana di Redazione ateatro |
Il 15 giugno è andato in scena al Teatro Cometa Off di Roma lo spettacolo I viaggi di Gulliver liberamente tratto dal romanzo di Jonathan Swift, con regia di Alessandra Panelli e adattamento drammaturgico di Andrea Balzola, in scena un gruppo misto (A.Alessi, L.Angelilli, P.Bellardini, V.Bonanni, C.Brazzi, F.Carlevaro, C.Castracane, S.Diaz, L.Di Iorio, O.Graziano, W.Zennaro) di giovani attori professionisti e attori non professionisti che hanno frequentato tre anni di laboratori presso il Centro Igiene Mentale Asl del quartiere Laurentino di Roma, gestiti dalla Compagnia Teatrale integrata “Diverse Abilità”. Scenografie realizzate da Antonio Grieco, progettazione del suono di Hubert Westkemper e disegno luci di Roberto De Rubis. Lo spettacolo è dedicato a Igor Cossetto, prematuramente scomparso, autore dei video dello spettacolo (insieme a Lorenzo Baruffi) e collaboratore del progetto artistico. I tre temi chiave del progetto drammaturgico e registico sono l’incontro con il diverso (i lillipuziani, i giganti, i “folli” inventori), il viaggio come distacco dalle convenzioni e dall’automatismo delle abitudini, e la trasformazione culturale e spirituale che l’esperienza di spaesamento e di ricerca dell’ignoto induce. Rispetto all’opera di Swift, più che la satira contro l’arrogante civiltà occidentale, sono i temi della relatività (grande/piccolo; vicino/lontano) e del diverso che si manifesta come molteplicità e come specchio della nostra identità, che interessano gli autori e fanno da timone per il viaggio dello spettacolo, attraverso una scelta inevitabilmente radicale di brevi frammenti degli episodi e dei personaggi della ricchissima, complessa e straordinariamente attuale narrazione swiftiana (troppo spesso ingiustamente relegata nella letteratura infantile). La scelta registica di Alessandra Panelli è stata di creare un serrato ritmo narrativo, spogliando e semplificando il più possibile l’azione, che diventa protagonista e si integra con i rumori e le voci sempre off del protagonista e degli altri personaggi, con un uso efficace e originale delle marionette (lillipuziane e giganti) e di sequenze video che rimandano al quartiere Laurentino (visto con occhi gulliveriani), a frammenti dei laboratori e all’idea del viaggio come esperienza che unisce reale ed immaginario.
Per entrare nelle motivazioni e nel processo creativo di questo lavoro, atipico nel nostro panorama teatrale e frutto di un generoso impegno pluriennale nelle strutture pubbliche di Igiene Mentale, pubblichiamo due interventi, il primo della regista Alessandra Panelli, che racconta sia la genesi dei laboratori e del progetto sia le scelte registiche, e una breve nota di Andrea Balzola sulle differenti fasi e scelte dell’adattamento drammaturgico del romanzo di Swift.
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Coordinate di viaggio Note di regia (& altro) per I viaggi di Gulliver di Alessandra Panelli |
Come nasce la collaborazione con il Cim
Il Cim (Centro Igiene mentale) intendeva offrire ai suoi ospiti un’alternativa alle solite attività proposte (calcetto, ceramica, ecc.), a seguito di un progetto europeo “Horizon” di tre anni. Nell’ultimo anno, che prevedeva la loro partecipazione e una serie di lezioni tenute da me con alcuni loro utenti, il Cim aveva riscontrato come questo tipo di attività incuriosisse molto i suoi pazienti e fosse ricca di opportunità anche terapeutiche. Si decise perciò di dare seguito all’iniziativa proseguendo il lavoro nella loro sede. ”Diverse Abilità” (nel frattempo divenuta Compagnia teatrale integrata – cooperativa e associazione culturale) scelse il laboratorio di “Danza/Movimento Terapia” condotto da Anna Di Quirico e il mio di “Formazione dell’attore” come i più adatti, date le ristrettezze logistiche ed economiche del Cim, e si pensò di dare al progetto la cadenza di due incontri settimanali, di due ore l’uno, per tre anni.
Laboratorio teatrale e lavoro terapeutico. Il passaggio dai laboratori allo spettacolo
“Diverse Abilità” fin dall’inizio della sua attività si è posta come obbiettivi quelli di lavorare, attraverso lo strumento laboratoriale, sulla relazione tra le persone, l’individuazione di potenzialità espressive nascoste o bloccate, e sulla crescita psicofisica dei suoi attori. Questi obbiettivi, per altro necessari da raggiungere anche per attori in formazione cosiddetti “normali”, costituiscono anche un obbiettivo terapeutico. Insegno recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia, applicando gli stessi esercizi. Il nostro modo di procedere prevede inoltre il collegamento con il personale medico e il procedere del lavoro è in continuo ascolto delle piccole e grandi difficoltà di ognuno. La parte artistica e quella terapeutica attivano a loro volta una sorta di integrazione. A mio avviso, perché il processo di integrazione possa considerarsi tale a tutti gli effetti, quando un gruppo è maturo sia psicologicamente che artisticamente, è necessario un momento di verifica: un incontro con il mondo esterno, con il mondo “reale” del lavoro che permette di lasciare il contesto protetto del laboratorio interno a favore di una visibilità più aperta e ampia. Questa è l’occasione per confermare la forza sintonica del gruppo, dei vari operatori, e monitorare contemporaneamente la coscienza del pubblico. E’ l’occasione per vedere come la parte teorica di un lavoro e di una relazione fra persone diviene pratica.
La scelta del romanzo di Swift
Il romanzo di Swift a un certo punto del percorso laboratoriale si è rivelato molto utile per il rafforzamento del nostro lavoro. I temi del viaggio intesi come impulso alla scoperta-presa di coscienza e come relatività dei punti di vista, sono serviti da canovaccio.
IL VIAGGIO. Il viaggio è di per se un percorso esperienziale, prevede un prima e un dopo che lascia aperta la strada del cambiamento. Il viaggio più importante che noi facciamo è quello della nostra vita, ma durante il cammino, consapevoli o inconsapevoli, ne intraprendiamo molti altri. Ogni volta che scegliamo di seguire una strada, che sia essa affettiva o professionale, ci mettiamo di nuovo in viaggio. Sappiamo da dove partiamo ma non sappiamo quando, come e se arriveremo alla meta. Alle volte il viaggio ci spiazza, ci sorprende per bellezza o dolore. Esistono viaggi di piacere, d’avventura, ai limiti del possibile così come le fughe da realtà troppo strette e viaggi che non sceglieremmo mai, come la malattia.
IL LIBRO. Ricco di ironia sul potere e i politici dell’epoca. Gulliver non riesce a sostenere una vita familiare tradizionale e coglie ogni occasione per rimettersi in viaggio. Il mare diventa il suo elemento mediatore. La sua ironia ed intelligenza gli fanno da filtro e lo rendono emotivamente immune da sconvolgimenti interiori anche durante gli incontri più inusuali. Ogni approdo su nuova isola è preceduto da una tempesta come se, metaforicamente, per poter scoprire qualcosa di nuovo fosse costretto ad abbandonare le sue salde certezze e porsi nudo difronte all’ignoto. Ogni viaggio è un incontro e un confronto con la diversità fisica e culturale di popoli nuovi. Durante ogni viaggio, Gulliver è costretto a mettere in discussione le regole della sua società, la morale e i pregiudizi ai fini della sua stessa sopravvivenza, educandolo alla tolleranza ed al rispetto. Gulliver è lo spettatore stesso che intraprende un viaggio difficile e a tratti sgradevole o affascinante fra corpi e voci espressivi e dissonanti, suadenti e respingenti.
Modalità e difficoltà nel rapporto tra progetto teatrale e psicoterapia.
Le difficoltà in questo lavoro sono molte così come le ricchezze. I Cim non sono teatri e i medici non sono teatranti, così gli insegnanti di arti varie e i registi non sono psicoterapeuti. Esistono luoghi in cui le due realtà si fondono dando vita alla Teatro-Terapia, ma non è il nostro caso. La convivevnza dei reciproci mestieri è una grande ricchezza, l’ascolto reciproco delle esigenze, la fiducia di base, la collaborazione, sono fondamentali e se tutto ciò avviene il lavoro di ognuno può arricchirsi immensamente. Importante è ricordare sempre che i nostri attori prima che “pazienti” sono persone, e nonostante siano seguiti, guidati e “curati”, non appartengono a nessuno se non a loro stessi. Sono persone che hanno vissuto o stanno vivendo un momento difficile che esige rispetto. Questo vale per il teatrante che in nome della sua arte, specie nella fase imminente lo spettacolo, può rischiare di concentrarsi troppo su di sé, ma anche per lo staff medico che, specie nell’andata in scena, può faticare a vedere il suo pupillo come un professionista a tutti gli effetti. Partendo da questo presupposto e modificando eventualmente il piano di lavoro, in base alle esigenze del gruppo, è possibile vedere il raggiungimento di una meta condivisa. Il linguaggio espressivo, la chiave di racconto è così in continuo mutamento e lo stato d’animo migliore è quello di considerare la difficoltà riscontrata in corso d’opera non come un muro insormontabile ma come una prerogativa caratterizzante. Spesso si parte da un’idea drammaturgica più articolata, ricca di dettagli e colpi di scena, che però risulta difficile per alcuni e si scopre che la semplicità richiesta perché possa essere compresa da tutti è la chiave più interessante, quella che permette la sintesi, la visione profonda delle cose.
Note di regia
Lavorare con persone che non hanno come scopo quello di diventare attori è davvero molto stimolante, perché sono in partenza già aboliti molti luoghi comuni. Il desiderio di riuscita di un’operazione ha perciò meno il sapore di un bisogno narcisistico e individuale di successo. Il gruppo di Gulliver aveva il problema opposto, temeva il pubblico, il confronto, il giudizio. Alcuni, provenienti da passate esperienze evidentemente mal gestite, avevano paura a parlare in pubblico, paura di scordare la parte, paura di non capire e di sbagliare. Siamo quindi partiti dal presupposto che ogni gesto o azione dovessero essere condivisi e compresi da tutti. Personalmente avevo un’idea dello spettacolo finale legata anche a concetti difficili quali: l’equilibrio e il bilanciamento come metafora delle relazioni umane, che possono nel loro eventuale sbilanciamento equivalere ad un naufragio, l’incontro con il diverso che ci sorprende e ci costringe a relativizzare il nostro usuale punto di vista, il gigante che ci sovrasta che non è necessariamente quello delle fiabe ma alle volte è parte del mondo in cui viviamo o delle cose che ci succedono, come il nostro quartiere opprimente o il malessere che affrontiamo. Ogni esercizio durante il laboratorio e ogni scena poi montata per lo spettacolo sono state discusse con il gruppo, alle volte ho dovuto “pretendere” fiducia quando la strada sembrava tortuosa, ma ho sempre cercato un percorso per arrivare insieme alle cose. Trovo questa strada la più interessante da percorrere. Ho sentito il bisogno di usare il suono, il video, le luci e la scena attuando anche con questi elementi narrativi un gioco d’integrazione. I suoni e le immagini, più che raccontare qualcosa e vivere di vita propria, volevano essere un sottofondo all’azione scenica, una sorta di suggerimento - agendo quasi a livello subliminale - in grado di indirizzare il pubblico verso una percezione più istintiva della messinscena. Era una grande scommessa, in quanto l’insieme poteva rischiare di risultare scollegato o dissonante. Credo che alla fine anche questi elementi apparentemente più legati al mondo tecnologico, debitamente “sporcati” e resi imperfetti, come la parte più interessante di noi, nelle mani di collaboratori sensibili abbiano contribuito all’amalgama del tutto.
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Diario gulliveriano di bordo Note sull’adattamento drammaturgico del romanzo di Swift di Andrea Balzola |
La mia avventura gulliveriana è cominciata alla fine del 2002, quando Alessandra Panelli, Anna Di Quirico e Ivana Conte, anime della Compagnia Diverse Abilità mi hanno parlato dei laboratori teatrali creati e gestiti nell’ambito di un Centro d’igiene mentale della Asl di Roma (al Laurentino) e di una prova non aperta al pubblico realizzata nel 2002 ispirata a un frammento dei Viaggi di Gulliver e senza testo. La loro idea era di trasformare, al termine del primo ciclo triennale di laboratori, con il consenso e la collaborazione terapeutica degli operatori psichiatrici del Cim, questo primo rudimentale abbozzo teatrale in uno spettacolo vero e proprio, da presentare al pubblico. Per questo mi richiedevano di proporre una chiave di lettura drammaturgica del testo e di elaborarne una versione estremamente ridotta e semplificata da mettere alla prova durante i laboratori e poi da finalizzare allo spettacolo. Per prima cosa mi hanno fatto conoscere la realtà di quei laboratori, attraverso la visione di alcuni filmati e soprattutto mediante la partecipazione diretta – come spettatore - ai due laboratori gestiti da Alessandra Panelli (“Formazione dell’attore”) e Anna Di Quirico (“Danza e Movimento Terapia”). Parallelamente, in una serie di incontri di lavoro, si sono identificate le delicate condizioni di lavoro (il disagio e le problematiche psichiche dei partecipanti, l’impatto emotivo con un eventuale pubblico esterno, le indicazioni degli psicoterapeuti, la scarsità di tempo e di mezzi di sostegno, la povertà del budget, ecc.)
Il mio primo approccio è stato quello di ricavare dal testo di Gulliver una serie di frasi e di parole chiave (soprattutto legate al tema del viaggio come bisogno ed esperienza di cambiamento, come occasione di incontro/scontro con il diverso e l’ignoto e quindi come occasione di ridefinizione della propria identità) da sottopporre alla riflessione del gruppo all’interno dei laboratori. Volevamo scoprire cosa evocavano in ognuno quelle parole o quelle frasi, Alessandra e Anna poi stimolavano gli elementi del gruppo a somatizzare, mediante movimenti, gesti, vocalizzazioni, quelle suggestioni. Il senso di tutto questo era di fare in modo che il viaggio di Gulliver non fosse qualcosa di esteriore che si sovrapponeva all’esperienza soggettiva, ma che fosse usato come metafora per interpretare, comunicare, liberare i propri percorsi emotivi ed esistenziali. Partendo da questa dinamica psico-fisica di interiorizzazione e dall’abbozzo di un episodio gulliveriano (quello del disequilibrio e del naufragio) già sperimentato l’anno precedente, si sono gradualmente introdotti nuovi episodi. Il mio metodo di riscrittura è stato quello di trovare primariamente un’idea scenica come sintesi metaforica e metamorfica del testo (come ad esempio la trasformazione iniziale del lenzuolo sul letto di Gulliver nella vela della sua zattera).
All’inizio il mio progetto drammaturgico comprendeva quattro parti (corrrispondenti alle quattro parti del libro: il paese dei lillipuziani, il paese dei giganti, l’isola sospesa e l’accademia dei folli inventori, il paese dei cavalli sapiens), un prologo e un epilogo. Collocando la vicenda in una dimensione atemporale, ed evitando sia i riferimenti storici del romanzo sia eventuali riferimenti alla nostra attualità. La forza corrosiva della satira swiftiana non è infatti tanto diretta a una categoria di uomini e di politici (anche se nell’Inghilterra dell’epoca l’avevano considerata tale perseguitando lo scrittore), ma alle ipocrisie e alle meschinità dell’essere umano, capace di produrre immani tragedie come i genocidi, le guerre civili, le persecuzioni e gli stermini razziali. Era questa universalità della satira swiftiana, sempre attuale, che ci interessava cogliere. Così, ad esempio, il tema dell’intolleranza verso il diverso o il vicino che conduceva alla guerra faceva parte della prima versione teatrale dell’episodio dei lillipuziani, oppure il tema dell’incomunicabilità delle lingue che diventava l’occasione di una discriminazione dello straniero. Poi la scelta di eliminare tutto il dialogo in scena e limitare il testo alle registrazioni, conseguente ai problemi emotivi degli attori , spaventati di dover ricordare le battute e di doverle ripetere in pubblico, ci ha indotto a una drastica riduzione dei dialoghi. Anche la complessità della struttura in quattro parti è stata ridimensionata sia riducendo le scene in ogni parte sia abolendo la quarta parte dell’incontro di Gulliver con i cavalli sapiens. Il testo è quindi diventato soprattutto diario di Gulliver, letto sia dalla voce del personaggio sia da altre voci, a testimonianza che ciascuno degli attori era una parte di Gulliver. La parola si fa contrappunto dell’azione, vera protagonista dello spettacolo, interagendo con una texture sonora sapientemente elaborata da Hubert Westkemper. Il lavoro registico di Alessandra ha trovato nell’integrazione tra i diversi linguaggi, nella semplicità e nel ritmo le chiavi risolutive per fare emergere con nitidezza il complesso percorso laboratoriale e drammaturgico che era stato intrapreso, valorizzando l’intesa e la coesione espressiva del gruppo. Un elemento caratterizzante di questa esperienza – e la sua sfida - è stato proprio quello di trasformare i molteplici limiti oggettivi e soggettivi in una risorsa creativa, in uno stimolo a lavorare non per rinuncia ma per sottrazione consapevole, crcando l’essenza della relazione tra soggetti-attori e nucleo simbolico del testo. Una sfida, credo, vinta, grazie a un impegno umano prima ancora che “teatrale”. Come diceva Jung : “Gli atti semplici rendono l’uomo semplice. E quanto è difficile essere semplici.”
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Profughi del sogno La nona edizione di Lavori in pelle di Agnese Doria |
Da nove anni ormai l’Associazione Culturale Cantieri organizza il festival Lavori in Pelle, che promuove sempre nuove riflessioni riguardo alla giovane danza d’autore. Si è conclusa da poco l’ultima edizione di questa vetrina che sempre più risulta essere punto di riferimento e incontro per la valorizzazione della nuova danza italiana: rispetto alla tecnica, privilegia e incoraggia i tentativi di ricerca personale, snodando la propria linea artistica attraverso diverse sezioni che hanno la capacità di avvicinare compagnie del territorio a compagnie provenienti da tutta Italia. La piccola città di Alfonsine si apre alla danza dedicando quattro fitte giornate alla fisicità e alla poesia del corpo: i corpi scultorei e plasticamente ridisegnati in Interplay 008 del Gruppo S.A.N di Genova si alternano alle tre variazioni sulla figura di Biancaneve del Teatro delle Moire, l’esuberanza della capoeira dialoga con il gesto naïf di Silvia Bugno e Domenico Santonicola nella loro ultima creazione Spifferi.
Violently Snow White ovvero Biancaneve secondo il Teatro delle Moire.
Interessante e curiosa la serata di giovedì 15 luglio dedicata programmaticamente o casualmente alle eredità (riconosciute o meno) dei Sosta Palmizi. Quattro tra i sei appuntamenti serali (Amina Amici, Ambra Senatore, Compagnia Agatharandagio, Silvia Bugno e Domenico Santonicola) provenivano da esperienze diverse come approccio ma tutte dedicate ai rapporti con quel che rimane dell’antico collettivo. Se la filiazione è chiara nello spettacolo Spifferi, che unisce la leggerezza e la poesia della danza di Giorgio Rossi alla dichiarata volontà di toccare universi onirici alternandoli a materici momenti quotidiani, in tutti è presente la volontà di rigenerare e, rigenerando, rigettare tradizioni apprese e memorizzate. Ma la strada non è immediata, il ventaglio di scelte alle quali aderire immenso, e passa dalla non-danza a-disciplinata al rigore tecnico di corpi colti nel momento del crollo e della distruzione. Osservando i percorsi di questi giovani salta all’occhio una diversità generazionale rispetto ai Sosta Palmizi: quasi tutti lavorano da soli, non investendo più nella forma del gruppo, che si muoveva tra le pieghe di una collettività creativa che negli anni Ottanta era stata novità e forza d’espressione a più voci. Ritornano a loro stessi connotando la loro indagine verso l’affermazione identitaria di un sé perduto che viene rintracciato sia dalla Compagnia Agatharandagio sia dal gruppo di giovane formazione Le-gami in un testo (per entrambi La trilogia della città di K di A. Kristof) in un’immagine o un ricordo ben precisi per Amina Amici e Ambra Senatore.
Una delle incursioni di Lavori in pelle: la danzatrice Amina Amici in un supermercato di Alfonsine.
Sembra che il filo rosso che li unisce sia la volontà di svelare e scoprire piuttosto che costruire e mascherare, privilegiando, come si esplicita nello spettacolo Esercizi, una «regola molto semplice: il tema dev’essere vero». Accurati nell’adesione al tema scelto e alla condizione scenica derivante, rischiano a tratti di perdere una più globale visione d’insieme. In divenire ma con alcune pregiate punte, la riflessione musicale raggiunge il suo vertice con l’assolo Come una ruga di Amina Amici bagnato dalla musica di Bruno De’ Franceschi e alle ardite, ingenue ma originalissime sperimentazioni di Riccardo Senatore per Eda, primo lavoro coreografico firmato dalla sorella Ambra. Felicemente disorientato dai numerosi e brevi spettacoli, dalle inaspettate incursioni urbane e dall’ampia offerta di laboratori, il pubblico di danza si perde nelle figure archetipiche suggerite, senza aggrapparsi per forza alla narratività di una danza che si crea dei pretesti per andare oltre, per attraversare delle condizioni che appartengono ai danzatori tanto quanto agli spettatori.
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Catastrofi e squilibri Dal Festival Inequilibrio di Castiglioncello di Erica Magris |
Le giornate di apertura del festival organizzato da Armunia si sono caratterizzate per una bella atmosfera festiva e una buona affluenza di spettatori nei diversi luoghi teatrali disseminati nell'affascinante cornice del Parco di Castello Pasquini.
Di grande richiamo per un pubblico ampio e vario è stata sicuramente la riproposizione (in prima nazionale il 9 e il 10 luglio), da parte di Alessandro Benvenuti e Bobo Rondelli, del monologo di Roberto Benigni e Giuseppe Bertolucci Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, che fece da spunto alla realizzazione del film Berlinguer ti voglio bene. Dalle cantine romane degli anni '70, dove Benigni mosse i suoi primi passi1, Cioni Mario sbarca trent'anni dopo nel teatro tenda di Castiglioncello, impersonato da Bobo Rondelli, acclamatissimo dagli spettatori. La situazione politica e sociale è da allora cambiata radicalmente ma il monologo, con qualche aggiustamento in chiave attuale (inenarrabile la fine che fa il Presidente nei sogni del Cioni...) e con la trasformazione del toscano di Benigni in un livornese duro e greve, resta fortemente dissacratorio e irriverente. Il rischio che comporta questo tipo di operazione è l'eccessiva solidarietà fra pubblico e attore nel riconoscere valori comuni e nell'accontentarsi quindi di irridere il potere e le convenzioni sociali, in un troppo facile contesto di autocompiacimento generale.
Il cielo degli altri
Di tono completamente diverso ma ancora nel segno della riflessione su dinamiche collettive, è un altro degli spettacoli prodotti da Armunia, Il cielo degli altri della Compagnia Teatro Setaccio, con testo e regia di César Brie (l'8 e il 9 luglio). Lo spettacolo, risultato di un lungo percorso laboratoriale, affronta il problema dei profughi e degli immigrati, di coloro che lasciano il loro paese per sfuggire la guerra, la persecuzione, la povertà. Come afferma Brie nel programma, "nel cielo degli altri non riconosci le stelle che vedevi da bambino, quando avevi curiosità e tempo per guardarle. Il cielo degli altri è il cielo della nostalgia, della solitudine, della perdita e dell'assenza". A differenza di Mnouchkine in Le dernier caravansérail del Théâtre du Soleil, Brie non sceglie una prospettiva "globale", che pone la questione dei profughi all'intero Occidente sviluppato, ma il punto di vista specifico dell'Italia: per Brie, pur essendo stati un popolo di emigranti, maltrattati e malvisti in America prima e nell'Europa del Nord poi, gli italiani hanno una attitudine negativa nei confronti dei poveri di oggi e si chiudono in pregiudizi che fanno dimenticare che gli emigrati non sono solo dei problemi, ma delle persone. Lo spettacolo fa riscoprire l'umanità, la singolarità delle ragioni e del vissuto dei migranti attraverso le storie, semplici e tratteggiate con pochi elementi essenziali, di uomini e donne venuti dall'Albania, dalla ex-Jugoslavia, dal Libano, dal Marocco e dell'Irak. Le corde del buonismo e del sentimentalismo sono evitate, dal momento che le vicende sono raccontate con ironia, leggerezza e soprattutto senza la pretesa di rendere gli immigrati dei santi. Il palcoscenico è nudo, sul fondo si trova una panca con degli appendiabiti su cui sono posti i costumi che gli attori indossano a vista. Sulla linea del proscenio sono invece sospesi in alto sette sacchi di iuta, pieni di grano, che vengono via via aperti sul fondo, trasformandosi in clessidre che misurano lo scorrere del tempo, l'allontanamento e la progressiva perdita del "proprio cielo". Gli attori presentano i loro personaggi con una soluzione rappresentativa che, ricordando lo straniamento brechtiano, manifesta la volontà di tenere un rapporto diretto con il pubblico: il racconto e il dramma si contaminano, uniti a movimenti vorticosi e ad azioni collettive vicine alla coreografia. Gli elementi scenici sono essenziali e richiedono allo spettatore di abbandonarsi al piacere dell'immaginazione: un secchio in cui a turno gli attori bagnano i piedi diventa l'affollato mare Adriatico dei mesi estivi, una tinozza l'imbarcazione di fortuna di un ragazzo libanese in fuga. Anche la recitazione degli attori è diretta alla trasfigurazione poetica del reale e alla concentrazione di situazioni e concetti nel gesto e nel corpo, come nella scena in cui il problema dell'affollamento e della promiscuità in un'abitazione albanese è reso da un ritmico strusciarsi degli attori stretti in un gruppo compatto al ritmo di musica. E, nell'avvicendarsi di risa, momenti di tenerezza ed emozioni forti, emerge l'importanza fondamentale dei rapporti affettivi e dei legami famigliari per una vita umana che si possa dire tale.
Reportage Chernobyl
Foto di Chiara Sbrana.
La lacerazione degli affetti e l'impossibilità di una continuità della vita da genitori a figli sono anche uno dei noccioli problematici di un altro spettacolo presentato al festival Reportage Chernobyl. L'atomo e la vanga, la scienza e la terra (in prima nazionale il 10 luglio), in cui il punto di vista femminile diventa la lente principale attraverso cui ripercorre la catastrofe ambientale della centrale nucleare ucraina.
Dopo essersi impegnate a raccontare le storie di alcune donne vittime della guerra nella ex-Yugoslavia con la "narrazione civile" A come Sebrenica, la regista Simona Gonella e l'attrice Roberta Biagiarelli hanno riscoperto Chernobyl, leggendo un fumetto del francese Bilal. Hanno così iniziato a interrogare se stesse e i loro prossimi su quanto sapevano dell'evento e delle sue conseguenze, per rendersi conto, che, a quasi vent'anni dall'accaduto e dal relativo battage mediatico, le questioni aperte e i vuoti informativi erano per tutti numerosi.
Lo spettacolo nasce quindi dall'esigenza di comprendere le dinamiche dell'incidente, le caratteristiche tecnologiche e le implicazioni economiche dell'energia nucleare, e, soprattutto dal desiderio di conoscere le voci degli esseri umani che hanno vissuto sulla propria pelle il disastro ecologico.
L'incontro con il libro di Svetlana Aleksievic Preghiera per Chernobyl è stato fondamentale: la giornalista bielorussa ha raccolto le testimonianze orali dei sopravvissuti per trasformarle in una scrittura documentaria che possiede la dignità e la forza dell'opera letteraria. Per la Aleksievic (che per la cronaca il 17 luglio è stata protagonista di un incontro sulla "parola dei senza-voce" al Festival d'Avignone2) i suoi libri "parlano di coloro che non scriveranno mai" e sono "prosa che prende la forma della stessa vita"; sono libri "fatti di voci che si trovano nelle strade, a centinaia" e per riuscire ad ascoltarli, è necessario "scuotere il caos". Come la Aleksievic ha estratto dal caos le parole dei sopravvissuti, così Simona Gonella e Roberta Biagiarelli si sono impegnate per dare loro un corpo e un volto sulla scena teatrale.
La struttura drammaturgica
Reportage Chernobyl attinge principalmente alle testimonianze di due donne, Ljudmila, moglie di uno dei pompieri chiamati a domare l'incendio del reattore e deceduto dopo due settimane, e Valentina, moglie di uno degli 800.000 uomini incaricati di "bonificare" l'area dell'incidente. I due racconti sono posti in successione e costituiscono le due parti principali dello spettacolo. In tal modo, dalle vicende personali delle donne emerge linearmente al filo della "grande storia" dell'avvenimento: si passa infatti dalla descrizione della vita quotidiana nella regione, all'esplosione con i suoi effetti più immediati, fino ad arrivare a toccare le conseguenze sul lungo periodo e su più ampia scala. La storia di Ljudmila è infatti radicata nella terra intorno alla centrale, nelle sue tradizione e nel suo stile di vita: è la contaminazione radioattiva che impone l'esodo agli abitanti e costringe Ljudmila a recarsi a Mosca per seguire il marito ricoverato in un ospedale speciale. Su Valentina, estranea alla regione di Chernobyl, l'incidente esercita al contrario una fatale forza di attrazione che sconvolge la sua vita famigliare. Qualche tempo dopo il suo ritorno dal lavoro di "ripulitura", il marito è vittima di una spaventosa degenerazione delle cellule, che lo trasforma completamente e lo sottopone a orribili sofferenze. La coppia è costretta a lasciare la propria città e a recarsi in una sorta villaggio-ghetto in cui si raccolgono i "chernobiliani" – come vengono chiamati coloro che sono stati contaminati. La simmetria della struttura drammaturgica è completata da un intermezzo video di pochi minuti, intitolato Reportage Chernobyl - Senza Risarcimento, che separa le due storie. Si tratta di una pausa di riflessione generale sul problema del consumo energico e sull'impatto ambientale di un progresso tecnologico incontrollato, composta da interviste ad esponenti del movimento ambientalista e a scienziati. Inoltre la testimonianza in video di Nicolaij, interpretato da Roberto Herlitzka, che racconta la morte della figlia, si inserisce nel corso delle storie delle due donne. La seconda parte è ulteriormente interrotta dal breve intervento di una profuga cecena, che nel deserto della zona contaminata ha trovato per sé e per la sua famiglia un rifugio da cui le autorità non si preoccupano di cacciarla.
Foto di Chiara Sbrana.
Il superamento della narrazione civile: l'interpretazione attoriale
Lo spettacolo costituisce un superamento della narrazione civile, forma caratteristica delle precedenti collaborazioni di Simona Gonella e Roberta Biagiarelli. Per Reportage Chernobyl infatti le due hanno deciso, forse spinte dalla forza del testo della Aleksievic, di approfondire il racconto in prima persona e di rendere i testimoni dei veri e propri personaggi teatrali, che vivono dall'inizio alla fine della loro narrazione. I racconti sono stati quindi interpretati da Roberta Biagiarelli in prima persona, impegnandola a fondo nella caratterizzazione di Ljudimila e Valentina. L'attrice è riuscita a dare corpo alle differenze che emergono dai diversi toni delle testimonianze: Ljudmila, vestita di colori pastello, con una gonna ampia e una fascia a raccogliere i capelli, è dolce, vitale, radicata alla terra e priva di risentimento; Valentina, che indossa abiti scuri e di taglio maschile, è più cittadina, moderna, pragmatica e aggressiva. Grazie alla curata individualizzazione dei personaggi e delle loro voci, l'evento teatrale diventa il luogo dell'incontro degli spettatori con gli esclusi della storia e della nostra memoria.
Nell'attuazione di questo incontro, l'apporto di Roberta Biagiarelli è fondamentale: l'attrice passa da toni aspri e secchi a momenti di tenerezza e di disperazione, muovendosi continuamente nell'area scenica. Notevole da questo punto di vista è il racconto dell'incidente in cui in una sorta di montaggio alternato sono combinati la relazione tecnica dell'accaduto e l'esperienza del fatto vissuta da Ljudmila: le parole, i gesti, gli spostamenti rapidi, ritmati da una musica tecno che con grande chiarezza spiegano in una specie di coreografia della follia la dinamica dell'esplosione, mutano nel tempo di un istante nell'immobilità dolente dello sguardo sconvolto e inconsapevole della donna, per poi ripartire e fermarsi ancora, fino al compimento dell'evento catastrofico.
L'attrice inoltre non è sola sul palco, ma si deve misurare con un elemento scenico che contribuisce alla trasformazione della narrazione civile in una forma teatrale più articolata: il video, della cui concezione e realizzazione si è occupato Giacomo Verde. Per Roberta Biagiarelli il video è un compagno di scena, dal momento che esso non interviene come mera componente scenografica e illustrativa, ma come presenza attiva e complessa lungo l'intero corso della rappresentazione, al punto da poter essere definito come secondo attore dello spettacolo.
Il dispositivo video
Il dispositivo video costituisce innanzitutto la struttura spaziale dello spettacolo, insieme a un panchetto lungo all'incirca un metro, posto davanti a esso. Si tratta infatti di uno schermo retroproiettato dalla forma e dalle dimensioni di una porta, collocato al centro della scena e montato su un supporto metallico mobile che permette di variarne l'inclinazione. L'attrice si muove principalmente davanti a esso, ma non manca di girargli intorno e di occuparne anche la parte retrostante. Questa soluzione, ricca di suggestioni e di implicazioni, sembra scaturire da due riferimenti principali, strettamente intrecciati, l'uno interno alla drammaturgia dello spettacolo, l'altro in relazione con alcuni momenti chiave della storia del teatro contemporaneo. Il dispositivo è legato all'immagine intorno alla quale ruota il racconto a flash di Nicolaij: la porta di casa. L'uomo, infatti, evacuato dal suo paese nelle immediate vicinanze della centrale, ricorda la sofferenza nell'abbandonare la porta di casa, su cui era tradizione porre i morti di famiglia e su cui erano state segnate le tappe della sua crescita. Non si rassegna a questa perdita, e torna clandestinamente nella zona proibita per riprendersi la porta, che alla fine sarà il catafalco su cui verrà esposto il corpo di sua figlia, uccisa dall'esposizione alle radiazioni. La porta è per l'uomo il concentrato della propria identità, della propria vita ed in generale della storia di tutte le vittime del disastro nucleare.
Parallelamente, sulla scena la porta-schermo diventa un concentrato di funzioni e di possibilità, riallacciandosi alle esperienze di Robert Lepage, e, risalendo all'indietro, al progetto utopico di Craig di creare una scena vivente di schermi mobili. In particolare viene alla mente Elseneur, con cui Lepage nel 1995 affronta l'Amleto come ideatore, regista e interprete, fondato su un apparato di alluminio mobile composto da due schermi, con un varco-cornice al centro, in cui le possibili combinazioni di posizioni e l'utilizzazione di immagini proiettate, fanno della trasformabilità la caratteristica primaria della scena. Come indicato da Anna Maria Monteverdi questo dispositivo scenico "può trasformarsi nelle diverse stanze del castello [...] mentre il varco permette di introdurre il significato di limite, di soglia" e "l'attore è obbligato a seguirne il ritmo, il respiro, [...] creando una relazione di convivenza simbiotica, dialogandovi [...]"3. In misura diversa e con modalità originali, queste implicazioni sono presenti anche in Reportage Chernobyl, in cui il dispositivo video svolge un ruolo di primaria importanza nella costruzione del senso complessivo dello spettacolo.
Lo schermo come soglia
La porta-schermo rappresenta innanzitutto la soglia visibile fra la realtà del passato e la revivescenza teatrale, fra le nozioni informative e la condivisione, come suggerisce l'incipit dello spettacolo: il pubblico entra nella sala e vede sullo schermo un'immagine della centrale, ripresa da dietro un vetro appannato su cui scorrono delle gocce d'acqua. Un titolo proiettato annuncia la testimonianza di Ljudmila. L'attrice entra in scena dal fondo, e, prima di presentarsi agli spettatori, si arresta qualche secondo fra il proiettore e lo schermo: la sua ombra, che si staglia sulla parete della porta, indica il passaggio alla vita teatrale del personaggio, e la sovrapposizione fra dati di fatto oggettivi (l'immagine della centrale) e il vissuto individuale (l'ombra vivente). Lo stesso procedimento è utilizzato, sottolineando invece la distanza fra l'informazione e l'esperienza, in un momento successivo al racconto dell'esplosione: sullo schermo appaiono le prime pagine dei giornali italiani dell'epoca, che riferivano della notizia, offuscati poi dall'ombra scura della donna.
La compresenza di tecnologico e pre-tecnologico
Il rapporto fra luce proiettata e ombra interviene inoltre anche in altri momenti, con modalità e valori differenti. In particolare nella scena finale, di grande intensità e poesia: terminato il racconto in video del padre sulla morte della figlia, l'attrice pone lo schermo in posizione orizzontale e vi sistema sopra un abito di bambina; lentamente ruota la porta-pannello verso l'alto e l'ombra del vestito si staglia sullo schermo, e scorre verso il basso fino a cadere per terra e a lasciare vuoto il fascio di luce. L'uso della luce accostato a quello dell'immagine elettronica indica la continuità fra tecnologico e pre-tecnologico, e richiama coerentemente il pensiero di Robert Lepage, secondo il quale la "tecnologia è la reinvenzione del fuoco", una nuova declinazione della "messa in luce" attuata dal teatro fin dalle sue origini. L'aspetto pre-tecnologico dello schermo si concretizza anche nel fatto che esso viene utilizzato anche nella sua funzione di parete mobile e di congegno meccanico. L'attrice lo ruota per costruire delle indicazioni di luogo o per formare delle configurazioni spaziali attinenti allo svolgersi della narrazione: nel racconto di Ljudmila lo schermo è l'entrata dell'ospedale, in cui le viene inizialmente impedito di entrare e, ruotato indietro di 75 gradi, diventa lo spazio angusto della camera pressurizzata in cui viene rinchiuso il marito; nella sequenza di Valentina, posto in posizione obliqua, accompagna la spaventosa testimonianza dei liquidatori inviati sul tetto del reattore esploso senza alcuna protezione.
La compresenza di tecnologico e di pretecnologico si trova in stretta relazione con quanto raccontato dallo spettacolo: la messinscena mostra come un intero mondo ancora in parte contadino sia stato spazzato via da una tecnologia incomprensibile, che rende "il male e la morte invisibili" e che, per essere affrontata con consapevolezza, come dice la stessa Aleksievic, richiede "dei nuovi parametri e un nuovo linguaggio". Ecco allora che termini famigliari vengono riutilizzati per cercare di dare un nome ai fenomeni della scienza: la nuvola per indicare l'irradiazione tossica, la pentola a indicare la struttura del reattore nucleare. A questo nuovo linguaggio composto di parole antiche corrispondono sul piano visivo le immagini di Giacomo Verde, che combinano la concretezza materiale e l'astrattezza figurativa.
L'unione di astrattezza e materialità
Le immagini video proiettate sullo schermo, che scandiscono visivamente l'intero corso dello spettacolo, scaturiscono dal tessuto del racconto, ed evocano le presenze e i fenomeni descritti dalla parola. Giacomo Verde non descrive, ma offre immagini astratte, ottenute, soprattutto in alcuni momenti, posando uno sguardo ravvicinato, quasi una presa tattile, sugli oggetti e sui materiali, secondo la "tradizione della modernità" che deriva dal cinema sperimentale delle avanguardie storiche.
La descrizione dell'esplosione del reattore è accompagnata da immagini di volute di fumo, bolle nell'acqua e particelle di polvere nell'aria. Il mondo contadino ucraino, le cui abitudini di vita sono ricorrenti nel racconto di Ljudmila, è condensato in un'immagine di alcune patate affioranti dalla terra, su cui la camera posa uno sguardo verticale. Dopo l'incidente, l'immagine ritorna, questa volta modificata come se fosse passata ai raggi x, riuscendo a visualizzare la trasformazione invisibile prodotta dalle radiazioni sulla terra e sui suoi prodotti. Il punto di vista "azimutale" torna anche in altri momenti del racconto, in cui l'immagine diventa un indicatore dell'assenza e della perdita.
La ricerca di una visione non naturale: punto di vista inusuali e manipolazione dell'immagine
La seconda parte dell'intervento di Ljudmila è incentrato sulle sue visite all'ospedale di Mosca, in cui il marito più che essere curato viene osservato morire come una cavia da laboratorio. Sullo schermo è proiettata l'immagine dall'alto di un piano coperto da un lenzuolo, su cui è poggiato un pigiama, a evocare il corpo dell'uomo sul suo letto di agonia. L'attrice si rivolge a questa figura, cerca di animarla e di coinvolgerla in un dialogo impossibile. La morte è ineluttabile ed è rappresentata dallo stropicciarsi e ritirarsi del pigiama su se stesso, quasi a indicare la consunzione della sofferenza e l'estinzione dalla vita. Al dolore si aggiunge dolore: Ljudmila, incinta, perde la bambina che ha assorbito tutte le radiazioni che hanno investito la madre e in questo modo ne ha costituito la salvezza. L'immagine di un abito da bimba, lo stesso che viene utilizzato nella scena finale, appare sullo schermo, accanto al pigiama.
Nella seconda parte dello spettacolo, Giacomo Verde risponde alla differenziazione dei due personaggi con un diverso tipo di immagini. Vengono infatti utilizzati molti materiali fotografici documentari, che si susseguono nel corso della narrazioni in dissolvenze particolari, in cui l'immagine sembra bruciare e scomparire. Le fotografie non sono trattate come documentazione oggettiva del racconto di Valentina, ma diventano lo specchio del suo stato d'animo e della sua memoria soggettiva. Le fotografie del marito di Valentina con i suoi compagni di lavoro, dei luoghi sono modificate cromaticamente tramite lumakey e diventano un insieme pulsante e vivo di pixel colorati, su cui lo sguardo digitale può scorrere, zoomando, selezionando, andando da destra a sinistra, a differenza dello sguardo naturale, chimico o elettronico. Sono presenti inoltre immagini di personaggi pubblici, manipolate con un intento ironico e demistificatorio, con un'attitudine che ricorda la temperie artistica a cavallo fra anni '50 e '60, condivisa dai pionieri della videoarte e dagli esponenti della pop-art. Quando Valentina racconta del comunicato ufficiale di Gorbacëv, giunto più di due settimane dopo l'incidente e finalizzato a nascondere l'accaduto e a tranquillizzare ipocritamente i cittadini sovietici e la comunità internazionale, sullo schermo compare l'uomo politico a mezzo busto, impegnato a tenere un discorso. La sequenza è in loop e il volto di Gornacëv è una tavolozza di colori accesi e improbabili. L'immagine introduce uno scarto in relazione alle parole di Valentina, che, sebbene esprimano indignazione e consapevolezza, sono troppo addentro all'accaduto per essere portatrici di una prospettiva ironica. In questo caso l'immagine e la parola esprimono due punti di vista differenti ma complementari, che si completano nello sguardo degli spettatori.
Il tempo del video inserito nel tempo teatrale: il racconto e il reportage
Come abbiamo già avuto occasione di osservare, il flusso del tempo teatrale viene interrotto in alcuni momenti, per lasciare il video con le sue specificità linguistiche protagonista unico della scena: si tratta della testimonianza di Nicolaij, interpretato da Roberto Herlitzka, e del reportage che ripartisce in due lo spettacolo.
L'inserimento di un racconto in video presentava dei rischi, perché avrebbe potuto ridursi a una riproposizione mediata ed edulcorata della situazione teatrale. Verde evita di cadere in questa trappola, puntando sulla prospettiva e sulla temporalità proprie del mezzo audiovisivo. Significativa è innanzitutto la modalità di introduzione ai brani di racconto, che si attua come uno scavo dentro l'immagine da cui emerge il nuovo personaggio: nel primo intervento l'immagine si arresta su una cornice vuota, l'occhio della camera si avvicina all'oggetto con un rapido zoom, fino a penetrarlo, per poi riuscirne e scoprire il volto dell'attore. La ripresa è concentrata poi sul primo piano di Herlitzka, di cui indaga i tratti del viso e coglie le minime variazioni espressive, ponendosi in sintonia con l'interpretazione pacata e dignitosa dell'attore. Inoltre, a sottolineare l'alterità del video rispetto al teatro, il movimento è in alcuni momenti rallentato e il passato resta impresso sull'immagine presente come scia e traccia visibile.
Se la lentezza, la visualizzazione dello scorrere del tempo sono le caratteristiche del racconto, la rapidità del montaggio è invece la cifra del reportage, in cui brevi brani di interviste si alternano ad immagini documentarie e ad un segnale di pericolo di radiazioni che fa da contrappunto ritmico all'insieme. Il reportage resta però il punto più debole dello spettacolo, perché non riesce a creare uno scarto sufficientemente forte di contenuti informativi e modalità espressive rispetto al resto della messinscena.
Conclusioni: l'implicazione dello spettatore
Alla fine dello spettacolo, gli spettatori sono provati e scossi dall'orrore delle testimonianze che hanno condiviso, ma soprattutto escono dalla sala con un patrimonio di interrogativi e di spunti di riflessione. La questione dello sviluppo sostenibile e delle fonti di energia, la memoria del socialismo reale e della sua disgregazione vengono poste al pubblico e lasciano l'esigenza di un approfondimento e di una presa di posizione. Per quanto riguarda il mio punto di vista personale, dalla lucidità e dall'intensità con cui la catastrofe è stata raccontata emergono due idee fondamentali. Da un lato lo spettacolo mostra che ogni incidente di grandi dimensioni, in cui sembrano essere più i dati e i numeri a contare, è sempre composto di vite e di esperienze. Dall'altro che quanto più lo sviluppo tecnologico avanza tanto più la classe dirigente, politica ed economica deve necessariamente essere responsabile, rigorosa, trasparente nelle sue scelte e nelle sue azioni e i cittadini essere informati e vigili. Come diceva Bertolt Brecht, il teatro contemporaneo deve mostrare che il mondo è trasformabile e che se anche la catastrofe si è prodotta, avrebbe potuto essere evitata.
Reportage Chernobyl
L'atomo e la vanga. la scienza e la terra
di Roberta Biagiarelli e Simona Gonella
(testimonianze tratte da Preghiera per Chernobyl di Svetlana Aleksievic, edizioni e/o)
con Roberta Biagiarelli e con la partecipazione straordinaria in video di Roberto Herlitzka
regia Simona Gonella
video Giacomo Verde (ZoneGemma)
NOTE
1 Un gustosissimo passaggio del suddetto monologo è presente nel documentario dei primi anni '80 di Nico Garrone L'altro teatro, che ha il pregio di mostrare in maniera vivida ed efficace l'effervescenza e la ricchezza dell'ambiente romano della neo-avanguardia.
2 L'interesse degli organizzatori del Festival deriva dal fatto che i libri della Aleksievic sono stati molte volte oggetti di adattamenti e messinscene teatrali.
3 Dal volume su Robert Lepage di prossima uscita presso la Ubulibri.
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Pasolini nel carcere di Volterra Lo spettacolo della Compagnia della Fortezza (e la performance delle Ariette da Marguerite Duras) di Oliviero Ponte di Pino |
L'appuntamento annuale con i detenuti-attori della Compagnia della Fortezza a Volterra, il pezzo forte del festival ospitato nella città toscana (quest'anno sotto l'insegna Teatri dell'impossibile), è ormai divenuto - alla diciottesima edizione - una sorta di rituale. Oltre alla periodicità stagionale dell'evento, anche le complesse procedure per entrare nella fortezza medicea fanno parte di una cerimonia che è insieme di apertura e chiusura, di confronto e di scambio, di barriere e di passaggi. La verifica dei documenti d'identità, la consegna del pass, il deposito di borse e cellulari, l'attesa, il suono dei cancelli che rimbombano, i secondini a controllare attori e spettatori nella gabbia-palcoscenico, l'attesa tra le pietre antiche e le finestre sbarrate sotto il feroce sole d'agosto, costituiscono una angosciante soglia, il prologo poliziesco di un rituale dove si confrontano due collettività - o meglio due frazioni della stessa comunità - che per un'unica volta nel corso dell'anno si incontrano in quel luogo così carico di significati.
Foto di Stefano Vaja.
Tuttavia per noi moderni un rituale non può ripetersi ogni volta uguale. Nel rude rito della Fortezza di Volterra - il confronto tra dentro e fuori, tra prigionieri e uomini liberi - fin dall'inizio è entrata la storia. Da un lato l'evoluzione della compagnia, la conquista di una professionalità che diventa maestria, una visibilità sempre maggiore, fino al tg nazionale, l'evoluzione dei suoi rapporti con le autorità carcerarie e con le istituzioni. Dall'altro ovviamente le vicende della «grande storia», a cominciare dalle sfarinate vicende del nostro paese, che inevitabilmente riecheggiano anche tra quelle mura.
Foto di Stefano Vaja.
Così per questa edizione 2004 con lo studio P. P. Pasolini ovvero elogio del disimpegno Armando Punzo e la sua compagnia compiono alcuni gesti dal valore esemplare, e spesso paradossale. Per cominciare riempiono il cortile del carcere con una clamorosa e metaforica macchina celibe, un enorme attrezzo tra Calder e Tinguely, con mani-piedi-occhi che ruotano azionati da sgangherate biciclette. Inutile, enorme e proliferante, questa nave dei folli coloratissima di giallo, rosso, blu e nero (come nei quadri di Mondrian ripresi anche da uno dei costumi), leggera e fragile, è un divertito ed esasperato contrappunto alla funzionale pesantezza dell'ambiente in cui è incastonata, un inno alla gratuità della fantasia. Anche i personaggi che abitano questa sgangherata foresta di simboli giocano a ribaltare le attese: i carcerati esasperano ironicamente la loro alterità trasformandosi in una brulicante tribù di clown, folletti dalle orecchie a punta, angeli, figure mitologiche (uomini in giacca e cravatta con teste di cavallo o di elefante, il danzatore bianco e quello nero che s'affrontano in una lotta-danza). Creature fantastiche, dunque, che ribaltano il peso della reclusione nella leggerezza degli acrobati, in creature che si nascondo nelle pieghe più segrete della natura o riemergono dalla profondità del mito, e che dunque possono permettersi di lanciare uno sguardo straniato e corrosivo alla nostra quotidianità. Perché al centro della struttura scenica sono incastonate quattro celle-appartamenti, che diventano teatro di una serie di scenette satiriche rubate al mondo «di fuori»: fragili aneddoti di pranzi, mariti abbandonati e casalinghe sedotte.
Foto di Stefano Vaja.
Ma in questo circo dove vagamente felliniano, onirico e grottesco, il primo gesto, quello da cui nasce la necessità del lavoro è ovviamente il rimando a Pasolini. O più precisamente alla sensazione di estraneità che il poeta avvertiva nei confronti dell'Italia: «Io mi chiedo: è possibile passare una vita sempre a negare, sempre a lottare, sempre (...) essere nemici dei vicini, essere odiati d'odio da chi odiamo per amore, essere un continuo, ossessionato esilio pur vivendo in cuore alla nazione?». E certo pasoliniani potrebbero essere quei visi, quei corpi rubati alla vita di figli del popolo - o meglio, dei popoli, perché tra gli ospiti di Volterra, come in tutte le carceri italiane, gli stranieri sono sempre di più. E pasoliniana è la necessità di cogliere la contraddizione, la scelta di non attenuare il conflitto o di dargli una forma in qualche modo «politica», ma di farlo esplodere nella poesia e insieme nella carne.
Foto di Stefano Vaja.
Ed è ovvio che l'intreccio e lo scarto dei due punti di vista - quello del maggiore poeta civile dell'Italia novecentesca, scomodo per vocazione e definizione, e quella dei carcerati, protagonisti di una diversità imposta dalla legge - è il germe da cui maturano queste visioni insieme allegre e disperate, questi scoppi di vitalità e il presagio di una fine (che è un po' il segno ricorrente di questa estate teatrale). Da un lato il fracasso di una banda circense e gli scoppi dei mortaretti che periodicamente lasciano cadere una pioggia di coriandoli colorati, in una euforia un po' forzata e un po' liberatoria. Dall'altro quei due troll alla Buster Keaton che ripetono il loro tormentone: «E' la fine, vero?», «Basta!».
A quasi trent'anni dalla morte di Pasolini (una data-simbolo per la coscienza civile e per la cultura italiana), e quando gli effetti dell'11 settembre hanno trovato il tempo di sedimentarsi nell'anima, è un po' il segno di questa estate festivaliera, il presagio della fine - o forse una consapevolezza a volte stemperata nell'ironia, a volte colta in tutta la sua drammatica irrevocabilità. Per il Teatro delle Ariette, anche per motivi personali, biografici, questo è il tempo della elaborazione di un lutto. Così, dopo Estate. Fine a Santarcangelo, con il «progetto sperimentale» Assenza a Volterra le Ariette segnano un'altra tappa del loro cordoglio. Anche qui con un radicale ribaltamento, quella della formula cibo-teatro che li ha portati al successo. Ancora una volta gli spettatori sono seduti intorno a un tavolo, in una stanza stretta, calda e umida. Ancora una volta c'è del cibo, qualche fetta di crostata e mucchietti di pane sbriciolato. E le posate e i bicchieri. Ma dall'alto gocciolano le flebo. E quel cibo nessuno lo mangerà, non ci sarà il pranzo-comunione che chiudeva i precedenti rituali delle Ariette.
La voce fuori campo di Paola Berselli (è anche all'assenza degli attori e in fondo dello spettacolo, al culmine di un processo di progressiva sottrazione, che si riferisce in titolo della performance) ripercorre Il dolore di Marguerite Duras, ovvero il racconto del terribile ritorno del suo uomo, Robert Anthelme, dai campi di sterminio. Malato, scheletrito, abbrutito. Affamato al punto che mangiare può portare alla morte, come successe a molti sopravvissuti ai campi. Un calvario di sofferenze fisiche e psichiche, straziante e insopportabile. E quella crostata, e quelle briciole, ci sono anche nel racconto di Paola-Marguerite, e diventano dunque tabù. Il canto di Edith Piaf, che apre e chiude come una parentesi i quaranta minuti della lettura, non basta certo a romperlo.
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Le recensioni di "ateatro": Felicità da La morte felice di Albert Camus Edgarluve e il terzo (e ultimo) atto della trilogia dell’Io a "Inequilibrio" di Anna Maria Monteverdi |
Foto di Chiara Sbrana.
Un percorso quello del giovane gruppo del teatro di ricerca livornese Edgarluve, ovvero Alessio Traversi e Valerio Michelucci, che va letto nella continuità e ora nella coerente conclusione di un complesso e articolato progetto teatrale pluriannuale. Felicità , molto liberamente tratto da La morte felice di Camus, presentato (e in parte prodotto) al Festival di Castiglioncello e all’interno della popolare manifestazione Effetto Venezia di Livorno, conclude infatti questo trittico sull’Io dedicato a Camus su estraneità, conflitto e società, iniziato con Ambalaze (da Lo straniero) e La peste la pestE (da La peste).
La ri-scrittura individua in tre stazioni (uccisione, fuga, morte felice) il percorso della follia omicida del personaggio-campione di infelicità, e traduce così le due parti di cui si compone il romanzo di Camus: Morte naturale e Morte cosciente. La morte felice è il primissimo romanzo giovanile di Camus, mai pubblicato vivente l’autore, forse opera abiurata o abbandonata secondo alcuni critici, per lasciare spazio al disegno de Lo straniero; secondo altri si tratterebbe invece proprio di un primo timido tentativo di approccio alla materia dello Straniero, cui rimanderebbero diverse circostanze e similitudini narrative. La rincorsa verso una felicità godibile solo attraverso la ricchezza induce il protagonista del romanzo, l’impiegato Mersault, all’omicidio. Una vita fatta di agi e di ozio è il sogno per lui che vive in una stanza buia e compie l’atto lavorativo tutte le mattine. Estraneo al mondo, fuori dai comportamenti della vita normale, e infine fuori dalla legge, persegue con convinzione una sua propria morale che si riduce in ultima istanza, al "paradosso della felicità": per ottenerla è lecito compiere un atto scandaloso, un omicidio. Morirà felice poiché "la felicità implica una scelta e all’interno di questa scelta, una volontà cosciente e lucida. Non la volontà della rinuncia, ma la volontà della felicità". La scena, allontanandosi dalla trama originaria, gioca sulla lucida follia del personaggio che si fissa su un modello di vita felice a cui si dedica con totale dedizione: un’eleganza ricercata fino allo spasimo accompagnato da un sostanziale rigetto dei dolori del mondo e dal pensiero costante di non seguire ma cancellare le orme del padre che non portano in nessun luogo felice, fuggire dalla famiglia, dal mondo e dalle sue scatole conserva-varia umanità-infelice. Una volta che non esistono più regole si uccide il padre per un mucchio di contanti. Si uccide comunque per essere liberi. Tolto il dente, al suo posto cresce una banconota. Felicità raggiunta è un cartellone colorato che nasconde il muro scrostato. Difficile evidentemente rintracciare lo schema narrativo del romanzo che rimane una lontana eco nella poetica e intensa scrittura di Alessio Traversi, che privilegia piuttosto il ritratto a tutto tondo dell’uomo abbandonato a se stesso nella sua alienante e solitaria ricerca di una felicità autoimposta cui è sconosciuto ogni "dovremmo", e l’esposizione dei motivi che lo portano a situazioni conflittuali con il padre per i quali in realtà, la morte non sembra niente altro che un traguardo auspicabile. Il dialetto livornese vivacizza alcune parti dello spettacolo e questa concessione al parlato toscano diventa una delle felici (è il caso di dirlo) invenzioni che aumentano l’atmosfera di follia dello spettacolo. Valerio Michelucci, credibilissimo e affascinante Mersault, si muove agilmente in questi tormenti dell’essere smettendo con grande ironia i panni del lucido parricida per indossare un attimo dopo quelli di Icaro che si libra in aria sopra i problemi del mondo. O ancora, infilandosi i guanti di plastica da rigovernare diventa la massaia che vive per questo ideale da commedia americana di una casa con piscina dove invitare le amiche. Tutto ruota intorno al sogno di una felicità indelebilmente impressa come un marchio nella pelle che ognuno deve obbligatoriamente cercare. E che altro non appare se non un’ossessione che vanifica ogni altra cosa.
Così Alessio Traversi e Valerio Michelucci spiegano il motivo della loro particolare interpretazione del testo: "Felicità è la chiusa di una trilogia che non può portare a una catarsi, ma all’accettazione della mediocrità del nostro vivere. Per questo, dopo due tappe segnate da un confronto con il tragico e dalla lotta solitaria di un "eroe" negativo con il mondo intero, si finisce in minore, con la messa in scena di un miserabile campione del glamour, con un abbassamento ironico dei toni, e con il ritorno alla ostentata limitatezza del nostro know-how esistenziale. Dopo l’analisi delle dimensioni IO-MADRE e IO-IO, sviluppata nelle prime due tappe della trilogia, in Felicità il lavoro sul testo percorre una linea drammaturgica volta a identificare l’Altro nella figura del padre, e a trasformare il viaggio verso la felicità in una riflessione sull’impossibilità di seguire le paterne norme del buon vivere. E’ un confronto estremo che si svolge nello spazio creativo dei conflitti, e nella dimensione della libertà assurda che si apre davanti a un uomo che prende una pistola per fare fuori il Padre per sempre".
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La scomparsa di Umberto Artioli Lo studioso stroncato a Mantova da un malore di Redazione ateatro |
E’ scomparso ieri a Mantova, dopo un malore mentre era alla guida della propria auto, Umberto Artioli, studioso di teatro e animatore della vita culturale della sua città, attivamente impegnato nella vita politica con la sinistra. Aveva 65 anni.
I funerali si svolgeranno sabato mattina alle 11 nella basilica di Sant'Andrea.
Docente di storia del teatro alla facoltà di lettere e filosofia dell'università di Padova, Artioli era il presidente della fondazione Mantova Capitale Europea dello Spettacolo e aveva ideato il premio teatrale «l'Arlecchino d'Oro» (l’ultima edizione della manifestazione si era conclusa pochi giorni fa).
Tra le sue opere, il fondamentale Teatro e corpo glorioso (con Francesco Bartoli, 1978), la prima monografia italiana dedicata ad Artaud, Teoria della scena dal Naturalismo al Surrealismo (1982), La scena e la dynamis (1975), Il ritmo e la voce (1985), L’officina segreta di Pirandello (1989), Pirandello allegorico : i
fantasmi dell'immaginario cristiano (2001).
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Il nuovo cinema che viene dal teatro: sei compagnie emiliano-romagnole e un inedito progetto per il cinema italiano Fanny & Alexander, Motus, Societas Raffaello Sanzio, Teatro delle Albe, Teatrino Clandestino, Zapruder, Downtown Pictures e Regione Emilia-Romagna di Associazione Luz |
Costruire nuovi percorsi per il cinema italiano è l’obiettivo che unisce cinque compagnie teatrali (Fanny & Alexander, Motus, Societas Raffaello Sanzio, Teatro delle Albe, Teatrino Clandestino), i videoartisti Zapruder, la casa di produzione cinematografica Downtown Pictures ed Emilia Romagna Teatro Fondazione, il Teatro Stabile Pubblico della Regione Emilia-Romagna. Queste otto realtà, radicate sul territorio emiliano-romagnolo, hanno creato l’Associazione Luz, sostenuta fortemente dalla Regione Emilia-Romagna, le cui finalità sono articolate e ben definite: la stesura di sei sceneggiature, l’attività formativa, gettare le basi per la realizzazione di sei lungometraggi diretti dai registi delle compagnie.
La contaminazione tra teatro, cinema e videoarte sarà capace di dar vita a una creatività straordinariamente lontana dall’ovvio: i sei gruppi sfidano il cinema contagiandolo con il proprio immaginario e portano a una mutazione la propria ricerca grazie al cinema. Sulla potente originalità di questo reciproco scambio non ha avuto dubbi Marco Müller, che è stato ideatore e promotore dell’intera iniziativa, anche se ha potuto seguirla solo fino alla sua nomina a Direttore del Settore Cinema della Biennale. Müller ha trovato un sostanziale appoggio in Emilia Romagna Teatro Fondazione, che si è unita nella stimolante avventura dell’Associazione Luz. Ugualmente la Regione Emilia-Romagna, tramite l’Assessorato alla Cultura, ha intravisto nel progetto un importante strumento per consolidare le realtà artistiche presenti sul territorio e rilanciare il cinema emiliano-romagnolo. Sarà poi compito dei produttori cinematografici raccogliere il testimone dell’Associazione e procedere alla realizzazione dei film.
Una nuova proposta per la formazione cinematografica è l’altra importante finalità dell’Associazione Luz: questo obiettivo si concretizza in un progetto formativo indirizzato ai giovani che vogliono cimentarsi con la creazione e l’ideazione di progetti per il cinema. L’idea è creare corsi di regia e sceneggiatura dal taglio innovativo, in cui la riflessione sulla contaminazione tra cinema, teatro, musica e narrativa, indirizzi un nuovo modo di vedere la regia e la sceneggiatura cinematografica, nella convinzione che la sperimentazione del fare scaturisca da un processo di interscambio tra i differenti linguaggi artistici.
La creazione dell’Associazione Luz, un soggetto collettivo di indubbio valore culturale, lancia un segnale di rilievo nazionale: non si tratta qui di registi che tentano semplicemente di promuovere la propria individualità artistica, ma di un’Associazione che ha scelto di essere tale, consapevole del valore aggiunto che scaturisce da una finalità comune. I gruppi che si sono riuniti in questo progetto vantano percorsi solidi e di altissimo valore artistico, poetiche riconoscibili che hanno portato una ventata di innovazione nel teatro italiano, rapporti di coproduzione a livello internazionale, apprezzamenti e considerazione in tutta Europa. L’Associazione Luz è la piattaforma ideale per realizzare lavori autonomi e singolarmente caratterizzati, sempre preservando l’idea di un progetto unitario. Piattaforma che rende l’esperienza del nuovo teatro il terreno su cui tracciare percorsi cinematografici sorprendenti.
I sei progetti cinematografici sono (in ordine di date di realizzazione):
Teatrino Clandestino
Backstage regia di Pietro Babina. "Un’organizzazione terroristica infiltra alcuni suoi uomini tra i partecipanti di una trasmissione televisiva, simile al Grande Fratello. La trasmissione ha inizio. Dopo alcuni giorni, i terroristi riveleranno la loro vera identità e le loro vere intenzioni, prendendo in ostaggio tutti gli altri partecipanti. I terroristi sfrutteranno il set televisivo in tutte le sue potenzialità comunicative, riassegnandogli simbolicamente un nuovo valore. Analizzare lo spettacolo come possibile forma di terrorismo, più che il terrorismo come una forma di spettacolo è l’idea da cui prende forma il soggetto di Backstage."
Primo progetto; luglio-dicembre 2004.
Teatro delle Albe
L’orma tagliata (titolo provvisorio) regia di Marco Martinelli. "Poesia, magia e sogni di rivolta: un "western" mazziniano-eretico, la storia di una guaritrice di villaggio, da tutti considerata una "strega", ambientata in una sperduta, barbara Romagna tra Otto e Novecento, un mondo alla rovescia brulicante di ribelli, anarchici e briganti. Come sempre nella poetica delle Albe, la Romagna è ancora una volta se stessa e qualcosa di più, un microcosmo che nasconde mitologie, esseri "mutanti" e astratti furori di un’umanità alla perenne ricerca del cammino da seguire. E da smarrire incessantemente."
Secondo progetto; gennaio-giugno 2005.
Fanny & Alexander
Today regia di Luigi De Angelis. "Today è la giornata particolare in cui tre personaggi, due uomini e una donna, portano alle estreme conseguenze la loro comune ossessione: il rapporto che ognuno di loro intrattiene con l’arte e le conseguenze che questo rapporto ha nella vita reale. Tutti tentano di coincidere con un personaggio, fino a perdere i confini tra l’opera d’arte e la propria realtà psichica. Un gioco perverso in cui i personaggi da loro creati finiranno per assumere una forma ulteriore, una loro tremenda ed autonoma vita."
Terzo progetto; luglio-dicembre 2005.
Motus
Altofragile (titolo provvisorio) regia di Enrico Casagrande. "Adolescenze e periferie, questo il nuovo progetto europeo di Motus per il prossimo triennio, che porterà alla realizzazione di una sceneggiatura filmica attorno alle vicende di due fratelli, lei di 17 anni e lui di 14, che, un po’ come i Ragazzi terribili, restano soli e si affacciano al mondo. Un film-documentario, nato anche da reali episodi di vita di adolescenti che Motus incontrerà in una serie di workshop, in varie zone periferiche italiane ed estere, dove, sulla scia del viaggio iniziato con Pasolini continuerà a scavare fra le derive urbane ed i gruppi di giovani che si raccolgono ai margini dei grandi centri commerciali."
Quarto progetto; gennaio-giugno 2006.
Societas Raffaello Sanzio
Film marrone (titolo provvisorio) regia di Romeo Castellucci. "Il soggetto del film – che si sta disegnando in questo periodo- si riferisce alla storia di una persona. Una persona fisica e precisa ma, al contempo, nessuno in particolare. Le epoche e i luoghi cambiano come in un rotolo impresso e tuttavia il tempo trascorso sarà solo quello di una sera. Sarà un film che rientra nella categoria del terrore nonostante la distanza siderale rispetto al genere."
Quinto progetto; luglio-dicembre 2006.
A. Zapruder
Dominium regia di David Zamagni. "Dominium è il nome di una lussuosa nave da crociera, la migliore che si possa desiderare. Una strana sindrome poco alla volta colpisce gli ospiti della nave: essi tacitamente decidono di non avere più contatti con l’esterno; vi resteranno reclusi, volontariamente. L’essere parte di quell’organismo autosufficiente risveglia in loro impulsi primitivi (di associazione, distruzione, conquista…). Convenzioni e buone maniere sono lasciate fuori, Dominium diventa teatro di lotte tra improvvisati clan rivali. Della nave attraccata a pochi km dalla costa emergerà sempre più l’aspetto monumentale e minaccioso. La situazione è destinata al collasso: telecamera in spalla, il documentarista Alan Back registra la sgangherata e spietata lotta tra gli abitanti di quella comunità verticale. La malattia del domicilio, la supremazia del luogo su chi lo abita, è un’ossessione morbosa che porta all’alienazione. In Dominium la "malattia" colpisce un’intera collettività. Genere: fantascienza".
Sesto progetto; gennaio-giugno 2007.
ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione
Per il Teatro Stabile della Regione, la partecipazione all’ Associazione Luz è in linea con il disegno culturale da tempo perseguito, disegno che si contraddistingue per la condivisione di progetti con personalità artistiche fortemente radicate sul territorio, nonché per il ruolo di interlocutore attivo sul piano della produzione culturale.
Downtown Pictures
La Downtown Pictures dalla sua nascita ha scelto di scommettere su nuovi talenti e di frequentare i territori cinematografici emergenti, alla ricerca di creatività sorprendenti, da rendere più visibili e manifeste. Le produzioni Downtown sono all’insegna del "cinema di confine", da intendersi non solo in senso estetico e geografico, ma soprattutto in termini di scambio e rapporto con altri linguaggi e forme d’arte. La zona di confine tra il cinema e il teatro apre scenari carichi di potenzialità, che sarà interessante e prezioso sviluppare.
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Biennale di Venezia: il programma definitivo Saltano le Eumenidi di Cadren Mason di Redazione ateatro |
Lo spettacolo di Caden Manson, Eumenidi, i cui tempi di presentazione e di tournée non corrispondevano a quelli richiesti dagli enti committenti - la Biennale di Venezia e le Orestiadi di Gibellina, è stato annullato. La trilogia eschilea verrà completata dal lavoro che Vincenzo Pirrotta da tempo stava conducendo su Eumenidi. Non sono comunque intervenuti cambiamenti nelle date di programmazione. Il 18 settembre ci sarà un'anteprima dello spettacolo di Pirrotta proprio per consentire alla stampa di vedere in sequenza le tre parti del Progetto Orestea.
36. Festival Internazionale del Teatro
Direttore Massimo Castri
Venezia, 15 settembre > 2 ottobre 2004
15 settembre - Teatro alle Tese – ore 20.00
16 settembre - Teatro alle Tese – ore 21.00
La monaca di Monza prima assoluta
di Giovanni Testori
regia Elio De Capitani
con Lucilla Morlacchi, Marco Baliani, Cristina Crippa, Corinna Agustoni, Anna Coppola, Andrea Facciocchi, Laura Ferrari
scene e costumi Carlo Sala
luci Nando Frigerio
produzione Teatridithalia, Teatro Metastasio Stabile della Toscana, La Biennale di Venezia
con il contributo della Regione Lombardia, Culture, Identità e Autonomie della Lombardia per le celebrazioni per il decennale della morte di Giovanni Testori
16 settembre - Tese delle Vergini - ore 19.30
17 settembre - Tese delle Vergini - ore 21.30
Orestea di Gibellina
Agamennone, sono tornato dal supermercato e ho preso a legnate mio figlio
testo e regia Rodrigo García
con Rubén Amettle, Nico Baixas, Gonzalo Cunill, Anne Maud Meyer, Juan Navarro
musiche dal vivo Standstill, Enric Montefusco, Ricardo Lavado, Elias Egido Angel Alberto Munoz
coreografie Elena Córdoba
luci Carlos Marquerie
video Javier Marquerie
animazione computer graphic Ramón Diago
costumi Galiana
produzione Mercadante Teatro Stabile di Napoli
in collaborazione con Fondazione Orestiadi di Gibellina
17 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 19.30
18 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 20.00
Orestea di Gibellina
Coefore prima assoluta
di Eschilo
traduzione di Pier Paolo Pasolini
regia Monica Conti
con Annamaria Guarnieri, Roberto Trifirò, Pietro Micci, Luigi Moretti, Marisa Della Pasqua, Paola Della Pasqua
musiche Maria Mariani
scene Francesco Calcagnini
costumi Domenico Franchi
luci Paolo Manti
produzione Teatro Stabile delle Marche, La Biennale di Venezia, Teatro di Roma
in collaborazione con Fondazione Orestiadi di Gibellina e Sipario d’Estate della Provincia di Pesaro Urbino
19/20 settembre - Teatro alle Tese – ore 20.00
Orestea di Gibellina
Eumenidi di Vincenzo Pirrotta prima assoluta
da Eschilo traduzione Pier Paolo Pasolini
regia Vincenzo Pirrotta
produzione CTB Teatro Stabile Brescia, Teatro di Roma, La Biennale di Venezia
in collaborazione con Fondazione Orestiadi di Gibellina e con Armunia
22 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 20.00
23 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 21.30
Bestia da Stile prima assoluta
di Pier Paolo Pasolini
regia di gruppo a cura di Antonio Latella
con Marco Cacciola, Marco Foschi, Giuseppe Lanino, Marco Martini Giuseppe Massa, Giuseppe Papa, Annibale Pavone, Mauro Pescio, Giovanni Prisco, Enrico Roccaforte, Cinzia Spanò, Rosario Tedesco, Stefania Troise
costumi Cristina Da Rold
luci Giorgio Cervesi Ripa
suono Franco Visioli
realizzazioni sceniche Clelio Alfinito
assistente alla regia Tommaso Tuzzoli
produzione Nuovo Teatro Nuovo Teatro Stabile di Innovazione, Teatro Stabile dell’Umbria, La Biennale di Venezia
23 settembre - Teatro alle Tese – ore 19.30
24 settembre - Teatro alle Tese – ore 21.30
Purificati prima assoluta
di Sarah Kane
regia Marco Plini
con Silvia Ajelli, Michelangelo Dalisi, Milutin Dapcevic, Roberto Salemi, Diego Sepe Giuseppe Sangiorgi, Gaia Insenga
scene e costumi Claudia Calvaresi
suono Franco Visioli
luci Fabio Bozzetta
assistente alla regia Barbara Benedetti
produzione Nuovo Teatro Nuovo Stabile di Innovazione, La Biennale di Venezia
24 settembre - Tese delle Vergini – ore 19.30
25 settembre - Tese delle Vergini – ore 20.00
Binario morto prima assoluta
di Letizia Russo
regia Barbara Nativi
con Patrizia Ciarloni, Daniel Dwerryhouse, Andrea Floris, Carlo Massari Francesca Messina, Alessandra Natili, Michael Schermi, Claudia Renzi Caterina Vannoni Gabriele Venturi
scene luci e costumi Dimitri Milopulos
musiche originali Marco Baraldi
produzione Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino, La Biennale di Venezia
in collaborazione con Royal National Theatre di Londra e Sesto Idee Istituzione dei Servizi Educativi Culturali e Sportivi del Comune di Sesto Fiorentino
si ringrazia il Cantiere di Lavoro Teatrale di Montevecchio e 115 Milchstrasse 115 di Livorno
26/27 settembre - Teatro Piccolo Arsenale - ore 20.00
Prima/Dopo prima assoluta
di Roland Schimmelpfennig
regia ‘O Zoo Nô (Benedetta Francardo, Massimo Giovara, Paola Rota, Roberto Zibetti)
con Anna Coppola, Benedetta Francardo, Massimo Giovara, Bolo Rossini, Elena Russo, Roberto Zibetti
scene Nicolas Bovey
luci Christian Zucaro
costumi Viola Verra
suono Hairi Vogel
produzione Associazione ‘O Zoo Nô, Teatro Stabile Torino, La Biennale di Venezia
con il sostegno del Sistema Teatro Torino e il contributo della regione Piemonte
28 /29 settembre - Tese delle Vergini – ore 20.00
La scimia prima assoluta
liberamente ispirato a "Le due zittelle" di Tommaso Landolfi
elaborazione del testo Elena Stancanelli
regia di Emma Dante
con Gabriele Benedetti, Gaetano Bruno, Savino Civilleri, Manuela Lo Sicco
Valentina Picello
scene Mela Dell’Erba
luci Tommaso Rossi
produzione CRT Centro di Ricerca per il Teatro - Milano, Teatro Garibaldi di Palermo – Unione dei Teatri d’Europa, La Biennale di Venezia
con Sud Costa Occidentale - Palermo
in collaborazione con Monty – Anversa, Belgio
1 ottobre – Teatro Piccolo Arsenale – ore 19.00
2 ottobre – Teatro Piccolo Arsenale – ore 21.30
Scanna (Premio Pier Vittorio Tondelli 2003) prima assoluta
testo e regia Davide Enia
con Valentina Apollone, Luigi Di Gangi, Alessio Di Modica, Katia Gargano, Ugo Giacomazzi, Giorgio Li Bassi, Paolo Mazzarelli, Carmen Panarello, Antonio Puccia
produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana, La Biennale di Venezia, Teatro di Roma, Teatro Garibaldi di Palermo
in collaborazione con Associazione Santo Rocco e Garrincha
1 ottobre - Teatro alle Tese – ore 21.00
2 ottobre - Teatro alle Tese – ore 19.00
Io ti guardo negli occhi (Premio Riccione per il Teatro 2003) prima assoluta
di Andrea Malpeli
regia Chérif
con Emilio Bonucci, Alvia Reale, Luigi Mezzanotte, Giorgia Basile, Gianluigi Fogacci Alessandra Celi, Pino Censi, Valentina Iesce, Hala Omrane, Houcine Ata
scena Nja Mahdaoui
costumi Capucci
produzione Compagnia La Famiglia delle Ortiche, La Biennale di Venezia
con il contributo del Premio di produzione Riccione per il Teatro 2004
1 ottobre - Tese delle Vergini – ore 23.00
2 ottobre - Tese delle Vergini – ore 17.00
Scemo di guerra prima assoluta
Roma, 4 giugno 1944
di e con Ascanio Celestini
produzione Fabbrica, La Biennale di Venezia
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A Torino la terza edizione del Malafestival Il programma di Redazione ateatro |
Terza edizione per Malafestival arts in mala causa, a Torino e Avigliana, con la consulenza artistica di Giacomo Verde. Tra gli ospiti, la Compagnia della Fortezza di Volterra e Tam teatromusica.
clicca qui x leggere il programma.
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Giorgetti nuovo direttore dell'ETI, De Fusco allo stabile del Veneto fino al 2009 La giostra delle nomine di Redazione ateatro |
L'ETI ha un nuovo direttore generale in sostituzione di Angela Spocci che, dopo l'eccellente prova data appunto all'ETI (vedi i passati numeri di ateatro), è stata promossa a sovrintendente dell’INDA-Istituto del Dramma Antico.
Il nuovo direttore dell’ETI è Marco Giorgetti, attuale direttore del Teatro della Pergola, 44 anni, un passato da attore e regista. Di recente aveva affiancato Maurizio Scaparro per Les Italiens, la discussa manifestazione promossa a Parigi dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Quello di Giorgetti sarà un incarico triennale, nel quale il neo-direttore intende adottare «una strategia di lungo respiro attraverso un piano industriale ampio ed articolato al quale ho già cominciato a lavorare per proporre al Consiglio d’Amministrazione una ridefinizione del ruolo dell’Ente. Mi preme fugare ogni allarmistica voce sulla chiusura della struttura nonché sulla dismissione dei teatri direttamente gestiti. Avremo bisogno di potenziare le nostre funzioni di raccordo con le compagnie e coi circuiti ma non possiamo lasciare fuori le attività internazionali ed i rapporti con l’estero: un teatro d’autore non parla solo italiano ma le lingue del mondo. Penso ai nostri Percorsi, avviati in passato e mai abbandonati, ma anche al valore di altri progetti e collaborazioni dei quali chiedere supporto direttamente al Ministero».
Una scelta di questo genere, malgrado le rassicurazioni, implica una scelta precisa per il futuro dell’ETI: negli ultimi anni l’Ente aveva concentrato gran parte delle risorse proprio nella programmazione delle cinque sale che gestisce, lasciando in secondo piano (o meglio, di fatto accantonando) le altre attività che l’Ente dovrebbe svolgere per statuto.
Per la direzione del Teatro della Pergola, in sostituzione di Giorgetti, si fa il nome di Valerio Valoriani, attuale direttore della Biblioteca Alfonso Spadoni, regista e drammaturgo, negli anni Settanta direttore della rassegna fiorentina degli Stabili e successivamente dell’Estate Fiesolana.
Le frattempo in Veneto Luca De Fusco, dopo la recente nomina a presidente dell’Antad (l’associazione che riunisce i teatri stabili pubblici), ha visto prolungare il suo incarico al vertice dello stabile fino al 2009. Il mandato del regista napoletano era in scadenza a fine anno, ma giocando d’anticipo è stato prolungato di quattro anni (con grazie alla pressione da parte del sindaco di Venezia Costa e dei vertici nazionali dei Ds, mentre buona parte della struttura locale del partito sarebbe stata contraria).
Nel frattempo De Fusco, come presidente degli Stabili, ha rilanciato il grido d’allarme del ministro Urbani sulla riduzione del fondi destinati alla cultura nel nostro paese: «La situazione di allarme denunciata recentemente dal ministro Urbani relativamente alla situazione dei beni culturali è altrettanto grave nel campo dello spettacolo in generale e della prosa in particolare. Molti teatri vedono minacciata la loro stessa sopravvivenza e per molte situazioni italiane c’è il concreto rischio che questa sia l’ultima stagione teatrale regolare. Infatti se i tagli al Fondo unico per lo spettacolo (Fus) sono stati per ora scongiurati si registrano invece già i danni per la riduzione degli investimenti in cultura dei Comuni e degli enti locali. Questa situazione è resa ancor più drammatica dalla tradizione che ha visto sempre un’esigua assegnazione di fondi alla prosa a vantaggio di altri settori dove spesso abbondano spese per il personale che sono invece nel teatro assai contenute. Va fatta inoltre un’ulteriore riflessione: si legge sugli organi di stampa che il ministro dell’Economia, Domenico Siniscalco, voglia introdurre come esemplare regola di austerity economica una norma che vieti ai ministeri di spendere una cifra superiore a quella dell’anno precedente sommata all’inflazione programmata. Ebbene il Fus dalla sua nascita è aumentato molto meno dell’inflazione programmata e si è dovuto inoltre difendere da tentativi di drastica riduzione. Ciò conferma, nella maniera più evidente, come l’intera spesa dello spettacolo italiana, peraltro inferiore a quella dei maggiori paesi europei, sia contenuta e bisognosa di espansione. Occorre quindi formulare un nuovo patto bipartisan con il mondo della politica in cui la prosa si impegni al contenimento della spesa e quello della politica alla difesa di un settore che è già al limite della sussistenza».
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