Per passione L'editoriale di "ateatro 66" di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and1 Il convegno sul teatro alla Camera dei Deputati Quali politiche per il teatro, 15 marzo 2004 di Mimma Gallina http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and11 Fuori mercato La relazione per l'incontro sui problemi del teatro alla Camera del 15 marzo 2003 di Giovanna Marinelli http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and12 Una proposta del sindacato sul futuro dell'ETI Una riflessione sulle ragioni dell’esistenza di un organismo pubblico nazionale per la promozione del teatro italiano in un contesto europeo di CGIL Funzione Pubblica http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and18 Antonello Pischedda si autodenuncia ovvero come si programma un teatro di Antonello Pischedda & Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and20 Autoritratto dell’artista da (non)narratore Conversazione con Andrea Cosentino di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and25 Debutta a Prato l'Antigone con la regia di Federico Tiezzi Autopsia di una tragedia. Una intervista a Federico Tiezzi di Oliviero Ponte di Pino http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.asp#66and30 Il ritorno dell’Institutet för Scenkonst Da una conversazione con Roger Rolin e Magdalena Pietruska di Alessandra Giuntoni http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and32 Le recensioni di "ateatro": 1918: Lezioni di teatro di Vsevolod Mejerchol'd a cura di Fausto Malcovati Ubulibri, Milano, 2004 di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.asp#66and50 Debutta a Parigi uno straordinario Lepage: teatro in fuga dalla cornice The Busker's Opera da L'Opera da tre soldi a Creteil di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and53 FFFFFF#000001 Rebel Art Festival a Berlino di Tatiana Bazzichelli http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.asp#66and58 L'esperienza di "Progetto Teatro" Un contributo per il volume 1979-2003: Milano in scena per i 25 anni di "Invito a teatro" a cura di Paolo Bosisio di Oliviero Ponte di Pino http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.asp#66and60 Massimo Munaro ritratto ateatro Quattro frammenti di Orsola Sinisi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and74 A teatro nelle case Rassegna di primavera, 3 aprile - 31 maggio 2004 di Teatro delle Ariette http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro65.asp#66and80 La rassegna Punti di Fuga a Rovigo Teatro Poesia Musica Cinema marzo-giugno 2003 di Teatro del Lemming http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and83 Sotto il segno di Leo a cura di Enzo Moscato di Mercadante Teatro Stabile di Napoli http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and86 Il teatro sperimentale in tv su Cult Network dal 4 aprile di Cult Network http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.htm#66and87 Il programma della Biennale Teatro 2004 36. Festival Internazionale del Teatro. Direttore Massimo Castri. Venezia, 15 settembre > 2 ottobre 2004 di Ufficio Stampa Biennale Teatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro66.asp#66and90
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Per passione L'editoriale di "ateatro 66" di Redazione ateatro |
Se volete capirci qualcosa, ateatro 66 questa volta è diviso in quattro parti.
In attesa della conclusione dell’esplosivo dossier di Mimma Gallina sulla situazione delle nostre scene – che verrà pubblicato su «Hystrio» e che anticiperemo nel prossimo numero della webzine – nella prima parte rendiamo conto dell’incontro del 15 marzo alla Camera dei Deputati, con la testimonianza della fervida Mimma, l’intervento di Giovanna Marinelli e altri materiali (a proposito, andate a curiosare nei forum come si è sviluppata la carriera della signora Negri, ora che è membro della Commissione ministeriale, e chi ne approfitta...).
Nella seconda parte, interviste: Anna Maria Monteverdi confessa l’astro nascente della (non)narrazione Andrea Cosentino, Oliviero Ponte di Pino interroga Federico Tiezzi sull’Antigone di Brecht-Sofocle che sta debuttando a Prato e Alessandra Giuntoni si confronta con Magdalena Pietruska e Roger Rolli dell’Institutet för Scenkonst fondato da Ingemar Lindh nel 1971. Poi , per chi ha una buona banda (stiamo misurando i Kbyte, non stiamo facendo solfeggio...), è possibile vedere & ascoltare Massimo Munaro in quattro frammenti video di Orsola Sinisi.
Per l’imperdibile tnm, il pezzo forte è il nuovo spettacolo di Robert Lepage (un altro Brecht, liberamente ispirato all’Opera da tre soldi), inseguito in una replica parigina da amm.
Infine, quarto e ultimo, i primi programmi dei festival, a cominciare dalla Biennale veneziana, con l’ambizioso progetto-ricognizione ideato da Massimo Castri sulla drammaturgia.
Ma chi ce lo fa fare di regalarvi tutto questo ben di Dio? E a che serve? Mica diventiamo ricchi, anzi...
Beh, intanto ce lo fa fare la passione, la voglia di spenderci per quello che ci piace. Perché in teatro ci capita (ancora, per fortuna) di vedere spettacoli che ci appassionano, di conoscere persone che ci entusiasmano, di confrontarci con idee ed esperienze che ci mettono in discussione. Per questo ci spiace – ci fa soffrire – vedere energie sprecate, cose belle che passano inosservate, invenzioni che meriterebbero più attenzione. Per questo ci irrita – ci fa imbestialire – vedere sprechi e ruberie, assistere impotenti al degrado di un sistema teatrale che – come il calcio – sembra avviato a un inevitabile collasso. Insomma, ci piace e ci sembra giusto.
Ma a che serve, tutto quello che facciamo? Non sappiamo bene a che possa servire. Da un lato speriamo che parlare di cultura dello spettacolo possa aiutare a costruire un migliore rapporto con il pubblico, a formare degli spettatori curiosi, attenti e liberi, a dare agli artisti una maggiore consapevolezza del loro lavoro. Sul versante dell’economia dello spettacolo, crediamo sia importante capire i meccanismi produttivi, evitare sprechi di risorse (sono spesso soldi pubblici, ovvero nostri) e cercare di fare in modo che artisti e pubblico possano incontrarsi nelle condizioni migliori.
Per quanto riguarda le nostre denunce, sarebbe ingenuo pensare che possano avere un qualche effetto immediato. Da un lato c’è una presunzione di impunità, che accantona regole e leggi in favore del diritto del più forte (ovvero della maggioranza). Al di là, a volte, di ogni decenza e buon gusto.
Dall’altra c’è purtroppo, da parte di tutti, una scarsa volontà di difendere il principio di legalità: un po’ per fragilità culturale, un po’ per intrinseca debolezza, un po’ perché forse basta aspettare che cambi il vento e magari qualche poltrona tornerà libera, un po’ per avere, a quel punto, le mani libere per qualche privato affaruccio – ovviamente a fin di bene... E poi chi non ha qualche scheletro nell’armadio, o qualche favore da scambiare?
In questo scenario, dove domina il piccolo cabotaggio (o peggio, come abbiamo visto e vediamo), parlare di progettualità o di riforme di sistema è velleitario, è pura follia. Non ci resta che registrare quello che sta accadendo, giorno dopo giorno, come l’aria si stia facendo sempre più mefitica, come il terreno vada inaridendosi.
In compenso abbiamo qualche certezza. Siamo convinti che questo modo di guardare il teatro – e non solo – incrocerà altri sguardi, altre esperienze, nuove vitalità. E che quando si arriverà al collasso del sistema, ci sarà questo teatro della memoria, una piccola serra dove avremo cercato di far germogliare qualche fiore, di costruire qualche ragionamento, di avanzare qualche proposta. Una piccola piazza in cui discutere, confrontarsi, immaginare... Poca cosa, certo, ma sotto queste nere lune italiane è l’unica cosa che resta da fare.
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Il convegno sul teatro alla Camera dei Deputati Quali politiche per il teatro, 15 marzo 2004 di Mimma Gallina |
Quali politiche per il teatro
Sostegno, promozione, diffusione
Tra Enti locali, Regioni e Stato
Lunedì 15 marzo mattina l’aeroporto di Fiumicino era chiuso per nebbia. Un segno del destino? Era il caso di non insistere ad arrivare con il primo volo possibile a un convegno che Gianfranco Capitta sul «manifesto» ha definito «deprimente»?
Lo era, ma una discussione fra amministratori, operatori e politici in quella sede (DS) poteva essere davvero un’occasione importante. Ci sembrava in qualche modo connessa anche con le denunce e i malumori raccolti da ateatro e con il dossier di «Hystrio». Esserci sembrava opportuno e utile (e il senso del dovere ha ancora una volta prevalso).
Il collegamento – se c’era – non è stato ricordato (non che ce lo aspettassimo). E’ solo emerso, sottinteso, nell’intervento del presidente dell’ETI Domenico Galdieri, che ha lamentato gli attacchi all’ente, che per la verità in quella sede nessuno aveva fatto, anzi (l’ente è necessario, nessuno lo vuole chiudere etc.). Galdieri è simpatico e mi è sembrato del tutto in buona fede nella inconsapevole comicità della sua difesa d’ufficio, quando ad esempio ha raccontato che l’Ente diventerà un «progettificio», che farà grandi cose anche se ora non c’è una lira (ma prossimamente vedremo i bilanci sul «Giornale dello Spettacolo»: potremmo chiederli anche per il sito), che non privilegia nessuna compagnia (anche se è ovvio che i grandi teatri dell’Ente – almeno Galdieri lo ha finalmente detto in maniera esplicita – sono funzionali a garantire spazi al teatro privato, emarginato dagli scambi sistematici degli stabili).
Di significativo, abbiamo saputo che una sede (il Valle?) sarà dedicata alla scrittura contemporanea, con di tutto di più: ragazzi/giovani, ricerca, laboratori etc. (non oso immaginare oltre), mentre qualche presente si è finalmente scaldato e risentito quando – a proposito di Europa – è stata fatta l’incauta affermazione che se il teatro italiano va all’estero è perché lo si paga da Roma. Su questo stesso fronte, va registrata la candida Luciana Libero, la consigliera di amministrazione che l’ETI ha delegato per il sud, che ha parlato del progetto aree disagiate (e del fatto che nella sostanza si rifarà) con generoso entusiasmo, quasi come se lo avesse inventato lei.
Ma andiamo con ordine. Il convegno, previsto dalle 9,30 alle 14,30 (come dire: «Se state fuori Roma non venite»), si presentava con due blocchi di testimonianze: amministratori e operatori (con la presenza/testimonianza di qualche politico), così numerosi che alla fine di tutto e nonostante non poche autorevoli defezioni (Forlenza, Rummo, Melandri, Zoppi e molti altri: assenti o silenti) non tutti hanno parlato. La struttura non è stata mantenuta, si sono rimescolate le carte – e fin qui niente di male, se non fosse che l’assenza totale di una struttura nella discussione rendeva molto arduo individuare, seguire e sviluppare nuclei tematici e problematici precisi. Così, doppiato il traguardo di mezzogiorno, e senza intervalli, ciascuno ascoltava se stesso o poco più: non so se alle riunioni di partito accada lo stesso, ma l’incontro era un manuale su come non si organizza un convegno (siccome continuo a pensare e sperare che ciò che è rimasto del partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer sia una «cosa» organizzata, preferisco dedurne che non ci si credeva troppo).
Gli operatori sono stati quasi tutti scelti in quando «rappresentativi» (o rappresentanti di associazioni di categoria): non sfiora il dubbio, temo, a Roma, che il teatro sia anche fuori. Qualunque intervento esterno – diverso da quelli elencati – non era né previsto, né possibile (per quanto ovviamente non proibito): infatti non ce ne sono stati.
Ultima notazione: ho contato sulle dita di una mano fra i presenti (abbastanza numerosi) gli under 45 (nessuno fra i relatori). Spero che ci si rifletta: non ho niente ovviamente contro una generazione che è la mia, ma come si può pensare di discutere di cambiamento senza quelli che dovrebbero esserne destinatari e protagonisti?
Ho perso la relazione introduttiva – per via dell’aeroporto chiuso – della responsabile culturale DS, Chiaromonte (né sono riuscita ad averla via e-mail). Da quello che mi è stato riferito e dalle conclusioni, il punto centrale è stato il rilancio (convinto) della politica legislativa. Da un lato è stato sottolineato il passaggio di competenze alle regioni (che resta la questione che più preoccupa gli operatori/ rappresentanti di categoria: Fiorenzo Grassi, Fioravante Cozzaglio), o più precisamente l’interpretazione ormai acquisita che lo spettacolo costituisce materia di legislazione concorrente (fra Stato e Regioni): i problemi sussistono, ma si è messo in guardia (in più interventi) da atteggiamenti vagamente nostalgici, tipo «stavamo meglio quando stavamo peggio». Dall’altro il progetto di legge (quadro) è stato rilanciato come momento di sintesi e discussione. Peccato che il testo di riferimento continui ad essere quel Veltroni/Melandri (Forlenza), che neppure gli operatori più ossequiosi (ai tempi) sarebbero disposti (oggi) ad appoggiare (come qualcuno ha educatamente cercato di suggerire: la mia impressione è che ne siano tutti consapevoli, ma che per qualche ragione, che mi resta oscura, debba restare una bandiera). Nel finale l’onorevole Chiaromonte ha espresso una convinzione un po’ stonata, per un partito che è pur sempre all’opposizione, sulle funzioni dell’ETI (che pure qualche aggiustamento operativo lo richiede etc.).
L’unico intervento considerato da tutti di grande respiro e che ha in qualche misura dato un senso ideale al convegno lo si deve a Giovanna Marinelli (già direttore dell’ETI, oggi al Comune di Roma): contiamo di poterlo presto mettere sul sito. In sintesi, consentendosi per una volta di non parlare di «cose concrete», Marinelli ha lanciato un grido d’allarme sulla condizione generale della cultura in Europa, sull’«anti-intellettualismo» di Stato, di cui si parla molto in Francia e che certo non è meno preoccupante in Italia, sulla tendenza a ricondurre la produzione artistica o meglio la creatività a una dimensione monetizzabile, mentre «gli artisti sono indispensabili in una società che pensa al proprio futuro e che rispetta la propria storia». Se la crisi del sistema di proprietà intellettuale e l’esaurimento di alcune importanti esperienze artistiche pongono precisi problemi di identità e ricambio, l’abolizione degli steccati fra i generi, il dialogo interculturale, il meticciato sono le nuove strade su cui esercitare la creatività artistica (e organizzativa). Da operatore interno alle istituzioni (ma sensibile alle problematiche degli operatori), Marinelli ne ha richiamato la responsabilità nel rilancio di una politica culturale caratterizzata da una visione complessiva e strategica, dal rifiuto della logica dell’emergenza permanente, da competenza, da attenzione al ricambio generazionale.
Gli interventi della rappresentante del comune di Torino nonché responsabile culturale DS in quella città, Angela Napoli (che si è soffermata in particolare sulla politica torinese verso le compagnie, filtrata da un’unica centrale tecnica insediata presso il teatro stabile), e dell’assessore Gianni Borgna di Roma (incentrato sul pubblico, sull’accesso alla cultura e sulle periferie) sono stati indicativi delle diverse politiche che sul campo può mettere in atto il centro sinistra (vedi in proposito anche l’articolo di Gianfranco Capitta sul «manifesto»).
Altri amministratori hanno sottolineato specifici problemi operativi senza centrare, a mio parere, i problemi veri del rapporto fra enti locali e operatori che pure erano il tema del convegno (i criteri di scelta, le gestioni etc.: del resto la conduzione del dibattito non li sollecitava in questo senso) e solo in corner il rappresentante dell’ATER ha sollevato qualche preoccupazione su ARCUS SPA.
Mi scuserete se non riferisco nel dettaglio degli accenni alla «vertenza spettacolo» dell’AGIS, una piattaforma seria sul piano dei contenuti e che elenca i problemi sul tappeto, di cui ateatro ha riferito (ma attenzione: si dice vertenza, ma non è proprio una «vertenza», nel senso che non è contro nessuno, tanto meno contro il governo) e degli interventi degli «operatori», tendenzialmente deludenti (quasi intimiditi, di basso profilo, peggio del solito insomma: ma perché?). Fra questi Maurizio Scaparro, operativo come sempre, fra Europa e nuovi linguaggi, ha indicato un obiettivo concreto: l’insegnamento del teatro nelle scuole, da rilanciare secondo vecchi protocolli mai attuati (obiettivo importante, certo, ma significativo di quali battaglie si ritiene possa condurre il gruppo DS).
Più (D’Andrea) o meno (Pistone) preparati e deludenti, i politici mi sono sembrati nella sostanza ignari dei problemi veri del teatro italiano, per quanto probabilmente disponibili ad ascoltarli. Anche se non so cosa abbiamo appreso in questa sede. Fra gli assenti politici Giovanna Grignaffini, che doveva anzi introdurre la sezione «La funzione pubblica del teatro: quali soggetti, quali istituzioni?» (quella più mirata agli operatori). La Grignaffini era stata ospite al Festival di Santarcangelo l’estate scorsa, per assistere tra l’altro a un’estrema propaggine di Nuovo teatro vecchie istituzioni e aveva ascoltato con sensibilità: forse avrebbe dato almeno la sensazione di una maggiore attenzione per il nuovo teatro, appunto..
In questo quadro, fra politici, operatori e amministratori, unico a fianco di Marinelli, svettava l’economista Michele Trimarchi, che con lucidità e ottimismo ha ricordato le assurdità dei parametri e della cristallizzazione del FUS, puntato il dito contro i dinosauri del sistema (esemplificando con la Scala) e invitato i presenti a considerare comunque positivi i cambiamenti che la gestione regionale dei fondi potrà determinare. Rimescolare le acque non può che essere positivo. Che un po’ di ossigeno ci arrivi dai professori?
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Fuori mercato La relazione per l'incontro sui problemi del teatro alla Camera del 15 marzo 2003 di Giovanna Marinelli |
Visto il clima che in questi mesi grava sul mondo dello spettacolo italiano, vorrei cominciare da una provocazione. Per esempio, dicendo subito che non intendo in alcun modo di parlare di «cose concrete»: come potrebbero essere il confuso rapporto tra stato regioni province comuni operatori oppure la mancanza di una strategia pubblica di promozione dello spettacolo dal vivo o ancora l’assenza di una strategia seria per rianimare il FUS.
La vertenza aperta dall’Agis parla con puntualità di tutto questo, indicando una concreta piattaforma di discussione alle Istituzioni e agli operatori.
Vorrei parlare di scelte di politica culturale, di macrocambiamenti e di antichi problemi nel rapporto tra artisti ed istituzioni, cioè di «questioni economicamente scorrette», fuori mercato, forse impopolari perché controcorrente, certamente trascurate in molte sedi istituzionali, soprattutto a livello di Stato centrale.
La prima questione è che la cultura non si amministra e non si misura secondo le regole dell’economia. Lo Stato – in tutte le sue articolazioni – se ne deve fare carico per renderla disponibile alla collettività . La cultura, e lo spettacolo dal vivo in particolare, debbono essere finanziati con fondi pubblici nel quadro di una politica legittimata dall’interesse generale, che viene riconosciuto, appunto, allo spettacolo.
Questo non vuol dire che non si debbano perseguire gli sprechi o che non si debba fare un serio monitoraggio, una severa verifica o un imparziale controllo sul lavoro di chi usufruisce di sovvenzioni pubbliche. Ma non è di questo che vorrei parlare. Lo ricordo solo per non creare equivoci e per non creare un’occasione a chi valuta come «tempo perso» quello dedicato a riflettere sul «perché» si sceglie un certo lavoro ovvero dedicato a «sperimentare» nuovi percorsi ( di solito non immediatamente spendibili sul «mercato»!).
Desidero ribadire con forza che la creatività non è monetizzabile,
Che la cultura è un valore in sé, è un segno distintivo profondo del nostro essere europei…che poi abbia importanti ricadute economiche ed occupazionali o che sia fattore di coesione sociale, tutto questo è vero, è importante, ma viene dopo. E’ una rilevante conseguenza.
La cultura infatti è troppo spesso «affogata» in priorità che non sono culturali, ma sociali economiche turistiche ecc.
Gli artisti – in particolare, i giovani artisti – sono indispensabili in una società che pensa al proprio futuro e che rispetta la propria storia.
Una politica culturale per essere tale deve creare opportunità diffuse di crescita. Assicurare le condizioni essenziali alla espressione artistica è un dovere pubblico e un investimento la cui redditività per quanto immateriale e non monetizzabile è fuori discussione. Non è uno spreco e tanto meno una gentile concessione.
Occorre che la politica si interessi di cultura ( intesa nel senso più ampio) non solo sotto il profilo sociale ed economico, ma assicurando opportunità agli artisti e spazi protetti all’innovazione, perché là si trovano i semi dello sviluppo, della crescita, del futuro di una società.
Essere d’accordo con tutto ciò comporta però delle conseguenze sul piano delle scelte di cui bisogna farsi carico: sia a livello politico sia a livello artistico e di società civile.
La responsabilità di tale scelta deve essere condivisa dalle istituzioni dai cittadini e dagli artisti: ciascuno per la parte di responsabilità che gli compete. Ma perché ciò succeda occorre un serio lavoro di sensibilizzazione e di informazione di cui in primo luogo il mondo della cultura deve farsi carico.
Osservando oggi la condizione generale della cultura in Europa ci accorgiamo (se non ci facciamo distrarre dalle contingenze quotidiane) che sono successe alcune cose che incidono fortemente nella quotidianità sul rapporto tra cultura e politica, artisti ed istituzioni.
Ecco un breve, incompleto elenco di macrotemi.
La scomparsa dell’orientamento culturale
E’ scomparso l’orientamento culturale. Chi svolge più questa funzione? Certo non gli intellettuali (ritenuti, in una deriva populista, una riserva noiosa e petulante) e tanto meno la critica (ritenuta, per le stesse ragioni, sempre scontenta e brontolona). Siamo certi di non aver partecipato anche noi operatori al loro ridimensionamento con un respiro di sollievo?
Si sente dire troppo spesso: il miglior critico è il botteghino, l’orientamento culturale lo fa la televisione. Una bella presentazione porta pubblico, una bella critica non serve a far fare soldi allo spettacolo; se uno spettacolo piace al pubblico è riuscito, se piace agli intellettuali sicuramente è noioso.
In Francia si parla molto di "antintellettualismo di Stato", che coinvolge la cultura in senso lato, cioè artisti, ricercatori, ma anche medici e avvocati.
Forse è il caso che anche l’Italia chi svolge una professione intellettuale, chi legge, chi si documenta, chi ricerca, promuova un "Appello contro la guerra all’intelligenza".
La domanda che credo ci si debba porre con forza è «quale spazio viene garantito alla circolazione del sapere e alla espressione artistica?» Quale spazio economico, di comunicazione, urbano, ecc.
E subito dopo bisogna opporre un fermo rifiuto alla semplificazione, direi imperante, che sembra impoverire qualunque confronto, banalizzare qualunque intervento, rendere volgare qualunque ricerca.
Ho l’impressione che stiamo assistendo impotenti ad un gigantesco trasferimento di competenze: dalla logica politica a quella economica e populista che finisce per guidare le scelte, selezionare i partner, dettare strategie .
In questa logica tanto vale annullare il Ministero per i Beni e le Attività culturali nel Ministero dell’Economia.
Non mi sembra che ci siamo tanto battuti in anni passati e ancora ci battiamo in alcune regioni o comuni più felici per conseguire questo risultato
La crisi del sistema della proprietà intellettuale
C’è una grave crisi del sistema della proprietà intellettuale. Il problema è senz’altro tecnico e giuridico, ma è soprattutto un problema di ordine etico e politico .E’ su questo piano che occorre confrontarsi prima di tutto. Quale è il ruolo dell’artista nelle società di domani ? Dalla risposta che si darà dipendono questioni importanti come l’identità, l’innovazione, la relazione con le nuove tecnologie, ecc.
L’esaurimento di alcune esperienze artistiche
Si sono esaurite alcune esperienze artistiche. Occorre prenderne atto e avviarne di nuove. Il sistema però è bloccato : risorse in decremento e aumento dell’offerta, nessuna possibilità di sostenere adeguatamente il nuovo e di garantire un ricambio.
Il problema dell’uscita dal sistema delle sovvenzioni è tanto grave quanto quello di assicurare un adeguato ricambio. E se si creasse una rete di istituzioni che sostengono i giovani artisti, come a Glasgow dove esiste un dipartimento per sostenere i giovani artisti? Oppure se si lavorasse su un prestito d’onore per i giovani artisti?
Gli steccati tra i diversi settori artistici
Gli steccati tra un settore artistico e l’altro sono superati occorre pensare strategie amministrative e politiche di sostegno in un’ottica interdisciplinare, di rafforzamento delle relazioni e degli scambi. Va premiato il «meticciato» culturale.
Lo statuto professionale dei lavoratori
Lo statuto professionale dei lavoratori dello spettacolo è una priorità, così come lo è la mobilità degli artisti . Non è una fortuna che l’Italia non sia toccata dal problema degli «intermittents» , è solo il segnale di una situazione arretrata che non difende professionalità, percorsi formativi, la libertà degli artisti.
Il dialogo interculturale
Il dialogo interculturale non è il problema di qualche artista lungimirante o d qualche sensibile programmatore: è una questione attuale di cui rischiamo di restare vittime se non impariamo a gestirlo. Occorre inventare nuove pratiche, studiare capire confrontarsi: in una parola mettersi in gioco e accettare il confronto. Le nuove generazioni sono senz’altro più attrezzate, ma debbono potersi mettere alla prova: avere spazi e mezzi per farlo
Che cosa chiedere alle istituzioni?
# di assumersi la responsabilità di una politica culturale coraggiosa, indicandola con scelte chiare coerenti riconoscibili.
# di assicurare una visione complessiva e strategica del tema cultura. Non è possibile che l’attenzione sia assicurata solo se si toccano temi della identità culturale o del patrimonio.
# di rifiutare la logica dell’emergenza che ci rende schiavi e perdenti a livello europeo
# di agire con competenza. La professionalità la conoscenza dei problemi le scelte documentate sono i presupposti minimi da chiedere a chi amministra
# di garantire pari opportunità ai giovani artisti. Di assicurare la loro mobilità in Europa per formarsi per confrontarsi: in una parola per crescere
# di assicurare vigilanza e controllo di gestione rispetto agli obiettivi dati siano essi gli obbiettivi di un progetto ovvero gli obiettivi di una struttura di spettacolo, ricorrendo però sempre ad esperti competenti. E’ possibile farlo, dal momento che altri paesi europei hanno elaborato esperienze positive in tal senso.
Un semplice elenco di questioni, ognuna delle quali meriterebbe di essere approfondita attraverso un confronto serio. Credo infatti che sia proprio su questi temi che in questo momento varrebbe la pena di misurare la capacità progettuale e di proficua interlocuzione tra artisti ed istituzioni .
Roma, 15 marzo 2004
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Una proposta del sindacato sul futuro dell'ETI Una riflessione sulle ragioni dell’esistenza di un organismo pubblico nazionale per la promozione del teatro italiano in un contesto europeo di CGIL Funzione Pubblica |
La riflessione del sindacato si inserisce nel contesto delle estese trasformazioni che toccano il settore dello spettacolo e più in generale della cultura. Nello scenario italiano occorre interrogarsi sulla fisionomia e sui ruoli delle istituzioni a tutto campo, tenendo conto che negli ultimi venti anni abbiamo assistito a fenomeni che hanno inciso fortemente sul settore culturale, spingendolo progressivamente fuori da una dimensione tendenzialmente autoreferenziale e portandolo ad interagire con aspetti della società tradizionalmente percepiti come altro da sé, come l’economia, il mercato, le logiche gestionali, l’evoluzione tecnologica, la comunicazione. Le istituzioni e le industrie di produzione di contenuti di cultura sono protagonisti di questo processo che ha portato via via a modificare ruoli, professioni, saperi.
Ci troviamo oggi ad affrontare un dibattito che impone un chiarimento sul senso e sul ruolo dell’Ente Teatrale Italiano, di fronte al quale come lavoratori e cittadini ci sentiamo in dovere di esprimere un punto di vista ed un contributo di idee.
Crediamo che non siano solo le pur legittime e valide ragioni di tutela sindacale quelle che ci spingono a difendere l’ETI dal rischio di una sua scomparsa, né tantomeno le logiche della pura conservazione, il cui destino è spesso solo un lento declino per asfissia.
Le questioni centrali per il dibattito sono, a nostro avviso, le seguenti, tra loro evidentemente collegate:
- l’identità dell’Ente Teatrale Italiano: la sua missione, le competenze attuali e future, le professioni.
- l’assetto istituzionale: la rappresentanza, la democraticità, il conflitto di interessi.
L’IDENTITA’ DELL’ETI
Parte integrante della produzione di cultura, lo spettacolo è anch’esso uno degli strumenti dello sviluppo economico, del quale contribuisce a determinare la rapidità e lo spessore sociale. Lontano da qualsiasi equivoco di sovrapposizione di funzioni con altre istituzioni centrali o periferiche, l’ETI ha la possibilità, nell’esercizio della sua autonomia, di svolgere funzioni altamente specifiche al servizio del teatro, compiendo in via definitiva il passaggio da una pratica fortemente distributiva ad una più attenta interpretazione delle finalità di diffusione della cultura teatrale e realizzando forme di promozione nei territori e a livello internazionale, esemplari in termini di sussidiarietà e rappresentatività.
La funzione di raccordo nel concorso tra Stato, Regioni e Enti locali può essere esercitata dall'ETI nel generale ridisegno del sistema teatrale nazionale attraverso il metodo della concertazione e della pianificazione integrata, il più indicato per fare sviluppo; in questo quadro l’ETI può essere il fattore catalizzante nell’interazione tra operatori culturali nei territori, enti locali e investimenti statali, soprattutto mettendo in rete le azioni locali che si distinguono per qualità e rilevanza nazionale, favorendo il "fare sistema". Non si tratta mai per l'Ente di "gestire direttamente", ma di creare le condizioni per l'ottimizzazione delle attività degli operatori, fornendo un punto di vista e una capacità di riequilibrio che solo una posizione centrale può garantire. Il Progetto Aree Disagiate (premio 100 Progetti al Servizio del Cittadino) rappresenta un interessante modello già sperimentato, con buoni risultati e soddisfazione generale del sistema, proprio perché ha dimostrato come sia effettivamente praticabile la cosiddetta pianificazione "bottom-up" , pur se esercitata da un ente nazionale, su fondi dello Stato, attraverso il coinvolgimento delle strutture sul territorio, la pratica della mutlidisciplinarietà, l’approccio di contesto, la considerazione del teatro come fenomeno di aggregazione sociale e di crescita economica e di sviluppo.
In questo quadro crediamo che si possa porre la questione dei Teatri dell'ETI vissuti come zone franche, luoghi vivi ed accoglienti di visibilità delle politiche nazionali in grado di offrire agli spettatori una varietà di servizi sotto il segno di una pluralità di linguaggi tesa a conquistare sempre più nuove fasce di pubblico.
Partendo dal principio del sostegno pubblico come elemento fondamentale a tutela del pluralismo, del rischio culturale e della pratica dell'innovazione, tra le funzioni che non sono esauribili a livello territoriale e che necessitano di un coordinamento nazionale, si individuano ulteriori importanti aree di intervento:
- la gestione di fondi perequativi a fronte degli squilibri nella domanda e nell'offerta di cultura teatrale in ambito nazionale;
- la creazione di un centro studi permanente di analisi e di strategie per lo spettacolo dal vivo, che sia di stimolo a forum e dibattiti sullo stato del sistema;
- il recupero e il potenziamento delle funzioni di monitoraggio del sistema teatrale e di centralizzazione delle informazioni;
- la promozione di progetti di contesto, con particolare riguardo alla educazione ed alla esperienza teatrale ed artistica nelle scuole e nelle università;
- la formazione come ampliamento delle opportunità individuali di crescita in relazione a nuovi profili professionali a partire dallo specifico teatrale, anche al servizio di realtà teatrali nel territorio;
- l'allargamento dell'area del confronto culturale e artistico in ambito europeo attraverso lo sviluppo delle relazioni internazionali al servizio e per il sostegno della nostra cultura in un contesto internazionale. Realizzazione quindi di protocolli di intesa tra governi, avvio di partenariati istituzionali, sviluppo dei rapporti con organismi di altri paesi, la costruzione insomma di quel tessuto di relazioni che sono la cornice adeguata e la condizione necessaria e indispensabile per sviluppare un terreno favorevole alla circolazione delle opere e degli artisti.
L’ETI può essere un osservatorio privilegiato per individuare insieme alle realtà territoriali esigenze e bisogni, collaborando a far incontrare vocazioni e percorsi artistici comuni, costituendo nello stesso tempo un volano per aggregare risorse e razionalizzare disponibilità, all'interno di un dialogo e di una cooperazione tra Istituzioni, regionali, nazionali e internazionali.
L’ASSETTO ISTITUZIONALE
Ciò che legittima politicamente la spesa pubblica per il teatro è l'idea di un teatro come servizio pubblico che consideri il sostegno non come assistenza, ma come investimento per lo sviluppo.
E' la grande questione del welfare della cultura con le sue ragioni profonde, legate alla democrazia ed al pluralismo.
Si tratta di individuare politiche e strategie rivolte all'interesse generale attraverso forme di governo e di gestione che assicurino trasparenza ed efficienza, adeguando assetti istituzionali, metodologia di lavoro, sistemi di valutazione.
In questo contesto appare cruciale il problema della legittimità e dell'efficacia di un istituzione culturale in relazione alla trasparenza nella gestione.
Rimanendo in una dimensione propositiva, sentiamo il bisogno in questo contesto di affrontare un problema sempre cruciale per la legittimità e l’efficacia di un’istituzione che svolge una funzione pubblica, ma particolarmente attuale per l’ETI alla luce di quanto emerso dai numerosi articoli comparsi su varie testate giornalistiche a proposito della trasparenza nella gestione di un ente pubblico.
E’ un tema questo che va affrontato alla radice, nelle sedi in cui si esercitano le responsabilità di nomina degli organi di un ente, che non sono solo i gabinetti dei ministri ma anche le commissioni cultura di Camera e Senato.
Siamo in un Paese dove si pagano prezzi altissimi per la scarsa sensibilità con cui si affronta il problema del conflitto di interessi e il Teatro e le istituzioni culturali, come al solito, partecipano dei problemi complessivi del sistema paese.
Deve essere chiaro che non basta una riga nello statuto per evitare il conflitto di interessi, ma occorre a livello politico la volontà di affrontare le nomine degli enti culturali in un’ottica di competenza e di autonomia, designando uomini di cultura, o, se si vuole, manager che non operino nel settore specifico di riferimento
Ma andando ancora più a fondo in un Ente cui in prospettiva vengano affidate nuove funzioni, la composizione del CdA deve prevedere nomine che non siano esclusivo appannaggio del ministro di riferimento ma che si articolino anche in rappresentanza delle autonomie locali.
Nel momento in cui il "sistema teatrale" non dispone ancora di un quadro legislativo entro il quale sviluppare le proprie potenzialità, l’unico ente pubblico teatrale la cui attività si svolge su scala nazionale si trova ad avere di fatto un ruolo strategico rispetto al teatro italiano.
Profondamente mutate appaiono la configurazione e la strategia dell’ETI a 60 anni dalla sua fondazione. Le sue trasformazioni sono state nel tempo specchio e stimolo dei profondi mutamenti che si sono verificati nel tessuto culturale e civile del Paese. Il legame inscindibile tra teatro e società culturale e civile fa sì che altri sviluppi e mutamenti siano da mettere in preventivo per l’immediato futuro.
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Antonello Pischedda si autodenuncia ovvero come si programma un teatro di Antonello Pischedda & Redazione ateatro |
Ho letto l'articolo Come (non) si programma un Teatro Comunale apparso sul n° 63 di ateatro di Redazione ateatro ed ho riconosciuto il personaggio in questione: è Antonello Pischedda, Direttore del Teatro Civico della Spezia.
Svelato il mistero bisogna andare avanti: Voi l'avete sputtanato, io l'ho smascherato; la palla torna a Voi.
Questa volta, facendone chiaro il nome e cognome dovete chiamarlo pubblicamente a rispondere di un comportamento così nefando: perché non lo denunciate al Consiglio Comunale? alla Magistratura? A mio avviso i termini ci sono tutti: si appropria di un bene pubblico facendolo diventare una sua proprietà privata, privatissima; è, come dite, un mafioso, insomma cosa nostra.
Gente come Voi, evidentemente molto esperta di teatro, sarà, sono certo, in grado di circostanziare e provare ognuna di tutte le accuse che gli rivolgete; sono proprio curioso di vedere cosa sarà capace di rispondere.
Insomma andate fino in fondo nella vostra campagna moralizzatrice e disinteressata.
Una cosa però, ma a persone come voi equilibrate, democratiche e garantiste è pleonastico dirlo, procedete con correttezza e trasparenza: assumetevi la responsabilità di quello che dite facendo il nome e il cognome di questo figuro, senza dare l'impressione di cercare riparo dietro le allusioni, gli sforzi ironici e l'anonimato.
Lui si prenderà la responsabilità, se sarà in grado, di rispondere nel merito.
Forza e buon lavoro.
Antonello Pischedda
p.s. naturalmente sarò grato se la risposta potrà comparire sul sito www.ateatro.it
Caro Pischedda,
di mestiere non facciamo né i poliziotti né i commissari politici, e non vogliamo né volevamo accusare chicchesia, altrimenti avremmo fatto tranquillamente nomi e cognomi.
Oltretutto non si tratta di un problema giudiziario, anche perché siamo certi (fino a prova del contrario) che nel teatro italiano tutto viene fatto rispettando burocrazie e procedure, leggi statali e regionali, statuti e regolamenti comunali, e con il più ampio sostegno delle forze politiche.
A noi però interessa capire - con un sorriso un po' maligno e pettegolo, lo ammettiamo - come funziona (o non funziona) il nostro sistema teatrale e quali siano i meccanismi che lo regolano.
Dunque non abbiamo nomi da esibire né intendiamo farlo, perché per noi non si tratta di mettere alla berlina il singolo individuo o la singola realtà. Il fatto è che di situazioni simili a quella adombrata nel nostro articolo in Italia ce ne sono certamente molte, e quella che abbiamo evocato non è forse peggiore di altre.
Il problema è prima di tutto etico, e poi politico. I conflitti di interesse, una efferata strategia di scambi, i familismi amorali, le complicità e i ricatti incrociati, la lottizzazione e le protezioni politiche non sono reati, ma stanno da tempo soffocando il nostro teatro (e non solo quello). Non siamo né giustizialisti né moralisti a oltranza, anzi. Ci accontenteremmo di un minimo di decenza e dunque di un sistema un po' più efficiente.
Ma da tempo abbiamo un dubbio. Forse in Italia un teatro lo si può gestire solo con i metodi che abbiamo provato a raccontare.
Ah, dimenticavamo... Evidentemente al Teatro Civico di La Spezia va tutto benissimo, non ci sono problemi di sorta, perché mai dovremmo lamentarci? Dopo di che, i fatti sono fatti.
Se poi qualcuno vorrà prendere in considerazione questa autodenuncia accorata e velatamente minatoria per andare a verificare alcuni fatti difficilmente smentibili, la cosa non riguarda direttamente ateatro. Ma di certo seguiremo la vicenda con grande interesse.
Redazione ateatro
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Autoritratto dell’artista da (non)narratore Conversazione con Andrea Cosentino di Anna Maria Monteverdi |
Straordinario protagonista dell’assolo Andromaca di Massimiliano Civica, Andrea Cosentino, 35 anni, formatosi a Parigi alla scuola di teatro mimico e gestuale di Philippe Gaulier e Monika Pagneaux, nei suoi lavori come autore-attore (Amleten Verboten 1991; Carnosciate 1993; Mara'Samort, 1995; La tartaruga in bicicletta in discesa va veloce, 1998, finalista al Premio Scenario; Antò le Momò, 2000) si è distinto per una comicità colta e diretta che mescola l’impegno all’intrattenimento, la cultura popolare a quella dei media; laureato in Storia del Teatro a seguito dei suoi studi sull'oralità e sulla comicità ha pubblicato un volume su Benigni (La scena dell'osceno, ed. Odradek). Il suo Asino albino, al debutto quest'anno in forma di studio al Rialto Santambrogio di Roma, uno dei luoghi più interessanti dell’altro teatro, ha avuto notevoli apprezzamenti dalla critica ufficiale nazionale. Parla del carcere (o quel che resta) dell'Asinara in Sardegna e di gitanti smemorati, di una reclusione fisica e di una mentale. Nel racconto, pieno di travestimenti e di doppi, umani e animali, Cosentino si appropria con grande disinvoltura (e in alcuni momenti, con vero virtuosismo) delle tecniche affabulatorie – verbali e corporee – popolari e d'arte, e di una forma comica che, come ricordava Bachtin, distrugge e smaschera. I suoi spettacoli, permeati da questa comicità graffiante e dal gusto del paradosso e del parodico, non appartengono al teatro di narrazione. Riconciliano la ricerca con il grande pubblico. Con uno sguardo, oltraggioso e tragico insieme, sul mondo e sulle sue mutazioni antropologiche. E’ attualmente artista in residenza presso Armunia (a Castiglioncello) per partecipare come interprete a un allestimento ideato e diretto da Massimiliano Civica ispirato al Teatro del Grand Guignol.
Il tuo percorso di formazione: da una parte i laboratori per diventare attore poi dall’altra gli studi all’interno dell’università, la storia del teatro, le tradizioni popolari studiate sul campo. E’ nata prima l’idea di fare l’attore e poi di approfondire certi temi o viceversa?
Non so cosa è nato prima, da un certo punto di vista non mi considero neanche un attore; credo di avere una formazione un po’ eclettica, come la grande parte dei teatranti non di prosa della mia generazione. Io volevo fare il regista cinematografico, la mia idea era quella. La prima cosa che ho fatto in teatro è un seminario con Dario Fo organizzato dal figlio Jacopo ad Alcatraz parecchi anni fa, ma ero giovane, senza esperienza, non è che abbia messo a frutto l’incontro. Però, detto a posteriori e a livello simbolico, è un inizio che mi corrisponde più che non iniziare co un provino per l’ingresso in qualche accademia.
E’ stata quindi una precisa scelta quella di stare al di fuori dell’Accademia?
Quando ho lasciato la mia città, Chieti, per andare all’Università a Roma avevo 17 anni. Il teatro è cominciato subito, ho cercato di fare corsi di teatro. Ti costruisci un percorso formativo eterogeneo. Il problema è trovare qualcosa che coaguli, che ancori questa tua passione. Altrimenti rischi di non far nulla, di perderti. L’unica cosa che sapevo è che non mi interessava fare l’attore in senso stretto, intuivo che non mi interessava fare l’attore del teatro di regia, anche se solo dopo ho capito perché: il mio studio sull’oralità e sulle tradizioni popolari vuol dire qualcosa. Anche se non mi considero un narratore vero e proprio, c’è un aspetto dell’oralità che mi interessava: se vuoi, il fatto che non c’è distinzione nell’oralità tra ciò che è attorale e ciò che è autorale. C’è una formazione teatrale – quella classica, per capirci – che dà per acquisita la distinzione tra un codice verbale e un codice gestuale: il lavoro dell’attore consiste nel camuffare questa linea di demarcazione pur rispettandola. Un bravo attore riesce a dare organicità a questa cosa. Ma c’è un altro teatro che non conosce questa distinzione o che si rifiuta di conoscerla.
E’ una critica a quel tipo di teatro di attore?
A me quel teatro interessava davvero poco, anche se è vero che uno attraversa fasi: a 18 anni leggevo Per un teatro povero di Grotowski, Lo spazio vuoto di Brook. Poi inizi a frequentare ambienti eccessivamente simili a te, e allora magari scopri che ci può essere non dico un Lavia ma un Carlo Cecchi che ti dà il gusto della recitazione attoriale. Ci sono attori «di tradizione» come Herlitzka che quando li vedo capisco il gusto di un certo tipo di teatro: ma è anche vero che lì la recitazione è portata a dei livelli di autodivertimento, di autoriflessività. Lì il codice della recitazione trascende la funzione rappresentativa e diventa spettacolo di sé: pensa a Carmelo Bene.
Da cosa dipende la sopravvivenza di un teatro d’attore che non ha queste caratteristiche che tu dici ma che sono invece l’ossatura dei teatri «da abbonati» e che purtroppo sta diventando anche il modello per una giovanissima generazione anche a causa dei legami produttivi tra i teatri stabili e le istituzioni formative?
C’è questa idea dell’acculturazione teatrale... Noi dell’altro teatro ne parliamo da trent’anni, e io da quindici, cioè da quando ho iniziato a fare teatro. C’è un tipo di teatro cui corrisponde il cosiddetto pubblico degli abbonati, che puoi criticare o ritenere in decadenza, ma che comunque resiste perché utilizza quel teatro come un rituale. Noi invece non abbiamo creato un rituale davvero alternativo a quello. E’ come se l’alternativa a questo teatro fosse rimasta una faccenda generazionale e di rapidissimo consumo: un teatro fatto da giovani, ma anche da consumare da giovanissimi che poi finiti quei tre anni in cui si vedono quel tipo di cose si può tornare a fare la propria vita, seguire altri interessi, come se tu non seminassi nulla che poi a sua volta possa diventare tradizione. O almeno bisogno. Perché non credo sia più il tempo di creare una tradizione teatrale. Allora bisogna capire in cosa lo spettacolo dal vivo può soddisfare dei bisogni.
Il legame con l’oralità: non è anche quella una maniera di creare un’alternativa?
L’oralità è il successo del teatro di narrazione di questi ultimi anni. Il mio personale legame con l’oralità nasce da percorsi di studi – la mia tesi di laurea che è diventata poi un libro – sui maggi e sul teatro all’improvviso. Il mio libro parla di Benigni, della poesia a braccio. Benigni da giovane faceva queste ottave improvvisate: io cercavo di ripercorrere questo passaggio dalla tradizione popolare orale a un tipo di performatività comica che è appunto quella di Benigni. L’aspetto più divertente di questo studio è stata la ricerca sul campo con questi anziani bernescanti, non poteva essere solo una ricerca da studioso. Ho dovuto farmi accettare come qualcuno che voleva far poesia non come uno che andava a studiarli! Questo soprattutto nella Maremma toscana.
Ti mettevi il cappello di paglia con i fiori freschi e andavi a cantare davanti alle case?
Non facevo i maggi, andavo nelle serate in cui si incontravano questi vecchietti che facevano le sfide di poesia, bevendo vino.
Come funzionano queste sfide?
La struttura del contrasto è questa. Si prende un tema – può essere un tema qualunque: l’uomo/la donna, comunisti/democristiani, questi erano i temi classici ai tempi di Benigni, ora sono un po’ diversi. Io e te duettiamo: io cerco di difendere la Russia e tu l’America, tu ti agganci alla mia ottava cercando di riprendere la rima, poi ci sono delle strutture fisse... E’ chiaro che se tu leggi le cose che questi dicono nelle serate in cui bevono... insomma, non hanno molto a che fare con Dante Alighieri, però è anche vero che loro si considerano assolutamente in continuità con Dante o Ariosto. E dal loro punto di vista stanno facendo poesia come la facevano loro.
Per quanto tempo ti sei esercitato?
I miei incontri sono avvenuti nell’arco di tre quattro mesi: li seguivo e ho fatto anche qualche serata in giro.
Hai seguito corsi con Marisa Fabbri, con il Living Theatre, con Rena Mirecka. Cosa lega tra loro queste tipologie di teatro e cosa?
Erano laboratori brevi, una due settimane. Magari molto intense: con Rena Mirecka, due settimane in Umbria, non potevamo parlare, facevamo cose molto grotowskiane, tutte esperienze che ti arricchiscono e poi decidi di mantenere o rifiutare. Situazioni importanti... Ma le esperienze che ritengo siano state davvero il mio centro formativo sono quelle di marca lecoquiana: ho studiato a Parigi con Philippe Gaulier e Monika Pagneux.
Quando hai deciso che era il momento di metterti in proprio per di creare da solo le tue regie, i tuoi spettacoli?
Non userei il termine regia. Io non penso i miei spettacoli in termini di messinscena, ho sempre bisogno di qualcuno di fronte a me. Anche se sembra strano detto da un monologhista, il teatro è sempre un lavoro di gruppo. Ho una piccola tribù di persone che stimo e che mi aiutano, come la mia compagna, Valentina Giacchetti, o il regista Antonio Silvagni. Nel mio ultimo lavoro, così come in uno precedente, la regia è di Andrea Virgilio Franceschi. Comunque tornato da Parigi, dopo aver fatto questi corsi intorno alla metà degli anni Novanta, all’inizio facevo cose molto cabarettistiche. Ero in un momento quasi di rifiuto di una certa ricerca teatrale. Il primo spettacolo che ho visto è stato il Mahabharata di Brook, sono partito da Chieti a diciassette anni per venirlo a vedere a Prato, al Fabbricone. Vidi poi a Roma una retrospettiva dedicata al Living Theatre, i film con Julian Beck. All’inizio c’era questa idea di teatro come impegno, quasi di sacralità del teatro. Il mio periodo parigino e il mio fare cabaret erano una sorta di rigetto proprio di questa idea. Adesso credo di aver raggiunto un equilibrio rispetto a certe spinte, ma continuo a non amare il teatro troppo settorializzato: non amo questa cosa molto italiana di circuiti a tenuta stagna – la prosa, la ricerca, il cabaret. La mia piccola battaglia, se vogliamo chiamarla così, è quella di riuscire a percorrere trasversalmente questi circuiti, di arrivare a diversi tipi di pubblico.
Un teatro di confine o confinato?
Credo di fare un teatro ai margini, non solo per il fatto che non mi conosce nessuno. Non mi interessa il teatro museificato che si preoccupa di mantenere, tramandare né dall’altra parte di tradire la letteratura teatrale. Credo che sia una cosa brookiana – che l’unica cosa preziosa, vitale del teatro sia la relazione con lo spettatore, il motivo per cui appunto il teatro sopravviverà. Il teatro non è morto: la gente che va vedere i comici di Zelig riempie le platee. Quello è teatro. Puoi dire che non è un buon teatro ma non puoi dire che non è teatro, si crea una relazione viva con lo spettatore. Puoi dire che sono sottoprodotti di una cultura televisiva, però io credo che bisogna allargare gli spazi del teatro. Mi piace l’idea che posso farmi il mio teatro e proporlo in qualunque spazio, e lo preferisco a una marginalità di una ricerca che è già un circuito, è già un target e che si accontenta di questo.
Marginalità come scelta anche politica?
Io faccio un teatro marginale, ma questo non significa che voglio stare negli spazi piccoli. Voglio essere marginale ma questo non significa che non voglio arrivare al pubblico. Non è questo. Voglio essere marginale perché non ho bisogno di strutture produttive, ma non voglio certo dire che non ho bisogno del pubblico, sono due cose diverse.
Un teatro povero?
Il mio teatro è effettivamente un teatro povero, ma che fa di necessità virtù, non è neanche un teatro povero che fa di virtù virtù! Teatro povero, ma non come scelta monastica: il mio teatro posso immaginarlo nella mia camera e poi magari farlo al Teatro Sistina. Questa credo sia una forza potenziale.
Quindi occupare con il teatro tutti gli spazi, anche quelli televisivi?
La televisione ha portato il Vajont di Paolini al grande pubblico, è uno strumento che puoi usare, bene o male. Io ho fatto televisione. L’ho fatta un anno fa. Dopo di che ti rendi conto che ci sono meccanismi tali che, anche volendo, il contesto, il contenitore è sempre più forte di te. Ma ho intenzione di rifarla, la televisione, non solo proponendo una cosa mia, ma cercando questa volta di produrla da me.
Ti sei proposto o ti hanno chiamato?
Quelli dell’Ambra Jovinelli e Serena Dandini mi avevano fatto fare già una serata. Io avevo una cosa che volevo proporre in televisione, ho fatto il provino per una trasmissione su Italia Uno, Ciro presenta Visitors, e mi hanno chiamato.
E ti hanno lasciato fare quello tutto che volevi fare?
Diciamo che una cosa era l’idea e una cosa ciò che facevo... Questo è stato un po’ il limite. Era una parte del mio penultimo spettacolo prima dell’Asino. Impersonavo una vecchietta con delle Barbie in mano che faceva delle puntate di Beautiful. In scena funzionava bene, era molto divertente: con queste bamboline cercavo di mimare, di riprodurre il linguaggio della soap opera, cioè con la povertà di questi mezzi mimavo la povertà di un linguaggio. In teatro usavo l’occhio di bue, in televisione facevo le puntate di questa telenovela avvicinando e allontanando le bambole dalla telecamera: primo piano-piano emotivo, campo lungo-piano diegetico-narrativo. Il tutto con delle trame abbastanza deliranti: tutti i personaggi si erano fatti la plastica facciale in seguito a vari incidenti e quindi tutti avevano la stessa faccia... Se vuoi una cosa sulla perdita dell’identità! Era quasi un’operazione metatelevisiva.
Cosa hai dovuto cambiare per esigenze di programma?
Avevano accettato questa cosa perché funzionava. Originariamente io ero questa vecchietta che gioca con le sue Barbie e questo era un attrito che mi interessava molto: coniugare una sottocultura fatta di prodotti standardizzati come quelli della soap televisiva con i residui degradati di una cultura popolare. Infatti questa cosa la facevo in dialetto. Allora loro mi hanno detto: «Sì, bella questa cosa, ma... perché la vecchietta? Cioè, noi la capiamo ma il nostro pubblico...». Allora ho dovuto cambiare questo personaggio ed è iniziata così un’operazione di appiattimento di quest’idea. Poi accetti, altrimenti non lo fai, ma alla fine il risultato non era quello che volevo. Per loro funzionava: controllavano lo share, io ho resistito tutte le puntate, voleva dire che gli andavo bene. Ma non era assolutamente quello che volevo. Io pensavo a un’immagine fissa in macchina, ma molto accurata. Invece alla fine ero una sorta di cabarettista, pur facendo una cosa un po’ strana che non aveva molto a che fare con i tempi televisivi. Io poi ho una mia personale idiosincrasia a vedermi in immagine: non faccio cinema, non riuscivo a rivedermi, sullo schermo mi sento inchiodato, mi faccio orrore, se vuoi la mia scelta di fare teatro è una scelta di effimero. A teatro in qualche modo sei tu spettatore a completare il quadro... Poi mi piace l’idea che quello che avviene un attimo dopo non c’è più. In fondo anche nel mio ultimo lavoro, lo spettacolo è tutto nella preparazione di questa immagine in controluce che non ti concedo di vedere, di cui non rimane nulla.
Ma non è davvero così! Sarebbe paradossale se finito lo spettacolo non sopravvivesse nulla, se io come spettatore tornassi a casa come se niente fosse!
Non dico che andare a teatro non debba essere un’esperienza ma che le cose vanno consumate. Chiaramente non mi interessa il teatro d’evasione, mi interessa il teatro che tiene conto che c’è qualcuno che è lì presente davanti a te. E nella comicità c’è una relazione teatrale pura, immediata.
Ma in televisione mentre registri che pubblico c’è?
C’è un pubblico finto, c’è la risata finta.
Ridono in momenti prestabiliti?
La cosa è ancora più assurda. Io non sapevo come funzionava. Tu sei lì in studio a registrare un programma che durerà un’ora e mezza, due ore, ma la registrazione va avanti tutta la giornata. Il pubblico è lì, stanco morto, distrutto... Non è che abbia molta voglia di ridere e divertirsi. Allora cosa fanno? All’inizio della registrazione della puntata il regista dice: «Adesso fate una bella risata». E tutti ridono. «Ora fatemi una risata con applauso!
Quindi una risata teleguidata!
La reazione viene preregistrata e poi la montano sulle tue battute. Questa risata finta ti testimonia comunque la necessità di una relazione –qualcosa che manca in televisione rispetto al teatro. Altri programmi hanno invece il pubblico pagante, vedi una serata tipo Zelig.
Mi racconti dell’Asino albino? Quanto c’è di improvvisazione e quanto di scrittura?
Lo spettacolo l’ho pensato per due anni prima di scriverlo. La struttura è forte nella sua evanescenza. Forte perché evanescente, e diversa rispetto a una drammaturgia orale che pure prediligo. La drammaturgia orale è normalmente paratattica: va avanti per rimandi, digressioni, eccetera. Sai dove inizi e non sai dove va a finire. Nell’Asino albino ho cercato di rovesciare questo andamento: l’unica cosa certa fin dall’inizio è il finale.
Ma c’è un germe di partenza?
Il germe di partenza è la voglia di parlare del tempo, del tempo che passa e del presente nella sua intensità e nella sua volatilità.
E quindi in un certo senso è anche uno spettacolo sul teatro.
E’ uno spettacolo a cui sto ancora lavorando, ma credo che sia davvero un lavoro che mi rappresenta molto. A me piace fare il comico, mi diverte, la comicità è lo strumento più efficace e inequivocabile per scoprire che c’è qualcuno davanti a te. Una comicità senza qualcuno davanti che la raccoglie non può esistere! E dal punto di vista performativo, è una delle cose più difficili semplicemente per il fatto che non puoi far finta che sia un’altra cosa. Se racconti una storia più o meno spiritosa e nessuno ride, pazienza, la storia va avanti ugualmente. Ma se fai una gag, o fai ridere o non è nulla, perché una gag non è nulla, non rimane nulla, come dicevo prima. Crea dei cortocircuiti, ma immediati. Dal punto di vista degli ingredienti, c’è nello spettacolo un lato molto comico, se vuoi delirante, ma c’è anche un aspetto di pseudosatira che non è poi mai veramente satira politica: è qualcosa – spero – di più profondo e radicale, qualcosa che precede il fatto di parlare di quest’argomento o di quell’altro. Cerco di parlare di mutazioni antropologiche in atto nella nostra società. Lo spettacolo si regge e si legge attraverso questa apparente opposizione tra il tempo umano, lineare e storico – che è teatralmente il tempo del tragico – e il tempo ciclico e rassicurante della natura – che è il tempo della commedia. Poi scopri che anche questa opposizione si va cortocircuitando. L’aggancio per parlare di questo è che siamo su questa spiaggia bellissima in Sardegna e c’è un asino morto sotto il sole (l’asino bianco sardo sta estinguendosi per le radiazioni solari diventate a causa dell’inquinamento ambientale in questi anni eccessive e insopportabili per la mancanza di melanina che caratterizza la loro specie, ndr): questa è la chiave di volta. E’ la fine della storia perché è la fine della natura, se ci pensi bene è reale e allarmante.
Qual è la struttura narrativa?
Lo spettacolo è strutturato su due aspetti. C’è un lato più narrativo, anche se in realtà non racconto una storia, piuttosto insceno lo sforzo di raccontarne una, di restituire un senso a un’esperienza. Poi c’è questo aspetto un po’ più cabarettistico nel quale impersono vari personaggi che compaiono, che visitano l’isola, commentano il carcere. Tu segui una struttura che però non è narrativa... Faccio vedere questi personaggi in gita turistica e continuo a raccontare lo stesso finale. Sono tre tentativi di raccontare lo stesso finale. Ogni volta il finale si sposta di poco. Il terzo finale, non so come dire, è la fine del mondo... L’immagine finale sono io e non sono io che sono l’asino, ma non ti è concesso vedermi. Lo spettacolo in un certo senso è puro intrattenimento. Solo alla fine del percorso intuisci il senso o il nonsenso del tutto. Con questi finali c’è un tentativo di spiazzare, di fare una spirale. La costruzione è apparentemente semplice ma nella realtà non è affatto semplice. Lo spettatore ha vari livelli di lettura a cui attaccarsi.
Qual è la reazione del pubblico? La mia esperienza rispetto al tuo modo di raccontare i diversi personaggi dell’Andromaca è che si rischia di essere continuamente spiazzati per i cambi di registro inaspettati...
Nell’Asino albino ci sono dei momenti di risata credo aperta. Ci sono parti che sono dichiaratamente comiche, funzionano... Per citare l’articolo di Balzola, lui dice che faccio delle macchiette anche un po’ televisive che però diventano come dire, commoventi a un secondo livello. Questa cosa l’ho ricercata e sono contento che qualcuno l’abbia colta, mi ha fatto piacere: Ci sono per esempio questi gitanti che ogni tanto ritornano: quando appaiono la prima volta fanno ridere, poi ti fanno ridere e anche pensare. Io li definisco dei ritratti di mutazioni antropologiche. A volte sono crudeli e comunque mi piace l’idea che tu debba essere in sintonia. Quello che non mi piace della satira è il modo di macchiettizzare i personaggi, il fatto che tu li guardi e pensi: «Quello non sono io». A me piace che guardi e inizi a pensare: «Sì, sono io sono proprio io, ecco, sono io...». Poi pian piano scopri che: «No, no, non sono io, non sono proprio io. Non voglio essere quella cosa lì!». Questo mi diverte. E’ anche la mia personale risposta alla domanda se faccio provocazione o intrattenimento. Per me bisogna fare le due cose insieme. Perché se faccio pura provocazione, ti vengono a vedere solo quelli che vogliono essere provocati, lo accettano e diventa moda. Io invece ho sempre bisogno di spiazzare... Mi viene in mente Grotowski: il teatro è quando c’è un attore e uno spettatore. Bene, per me teatro è un attore e almeno due spettatori, e non è detto che i due spettatori debbano reagire allo stesso modo! C’è la coscienza che io sono a fianco di qualcun altro, e allora ok, allora posso ridere qui rido... Non a caso la comicità non funziona quando ci sono un pugno di persone, ha bisogno di pubblico!
C’è un bisogno di contagiarsi, e di sentirsi più liberi di esprimersi.
C’è anche un fatto un po’ politico. Siamo una piccola comunità a cui vengono fatte delle proposte e non è detto che io debba reagire allo stesso modo a questa proposta. C’è un istinto molto umano di voler fare massa e un altro altrettanto umano di voler essere individuo. A me piace che ci siano questi due aspetti contemporaneamente, in tensione continua.
Nell’Asino albino parli di un carcere. Ma cosa racconti del carcere? L’isolamento, la mancanza di comunicazione?
A un certo punto racconto di una persona che è stata in questo carcere. E’ l’unica volta in cui io sono un attore che è testimone, riferisco quello che è accaduto. Contemporaneamente questo carcere diventa un luogo di attrazione: ecco il turista che visita le spoglie del carcere con un lato di crudeltà, di cattiveria. La scenografia è molto semplice: un cerchio bianco dentro cui agisco, come una pedana da circo – e questo è un ulteriore livello di lettura. E’ un cerchio bianco come quello dove saltano gli animali, e a un certo punto mostrandolo io dico: «Questo è il carcere», i turisti che si affacciano per visitare le celle si infilano dentro il cerchio e iniziano a fare discorsi demenziali, e pensi: «Sì, questo è il carcere, ma quelli forse stanno in un altro carcere, in un carcere mentale». Cioè ci sono una serie di spostamenti di senso... Sicuramente però non è uno spettacolo sul carcere. Sentimentalmente, per cultura, estrazione e passato politica, sono contro il carcere. Ho anche lavorato con i detenuti a Rebibbia. Ma questo è uno spettacolo sul nostro presente, tutto e niente, è un’apocalisse, un’apocalisse comica. Tragedia e commedia, appunto.
Però quello dell’Asinara era un carcere particolare..
Certo, era l’epoca delle leggi speciali contro il terrorismo, è un pezzo di storia d’Italia oltre che un luogo di detenzione, è tante cose insieme. Lo spettacolo gioca anche con la mancanza di memoria storica collettiva, la mancanza di memoria di quelli che vanno a visitare il carcere come fosse un monumento. Poi c’è la memoria dell’isola, che è stata un lazzaretto, un campo di concentramento. Tu vai lì a vedere il mare ma ci sono i relitti di una storia umana che ha ben poco di edificante, ed è anche contemporaneamente un luogo che è incontaminato proprio perché è stato usato come discarica – strano paradosso – una discarica umana. Quando faccio parlare questo detenuto, che è poi l’unica storia che io racconto nello spettacolo, teatralizzo ma neanche tanto, mentre i miei turisti non sono affatto veri, forse sono più veri del vero. Lì non racconto la storia della detenzione ma la storia di una tentata evasione... ti parlo di un tentativo di fugga. Gli altri – i turisti – non scappano, non hanno neanche il desiderio di fuggire dal loro carcere. E questa è una delle cose tragiche dello spettacolo, ammantata con il delirio, puoi leggerlo come divertissement o andare oltre.
Come ti relazioni con il teatro di narrazione, questo filone prettamente italiano e con i nuovi autori-narratori, con il tema dell’impegno politico e sociale da loro affrontato? Mi riferisco non solo a Marco Paolini, Davide Enia e Ascanio Celestini ma anche a Roberta Biagiarelli e ai suoi lavori di narrazione sull’assedio di Srebrenica e su Chernobyl.
Io non considero il mio un teatro di narrazione. L’asino albino non è uno spettacolo narrativo, non solo come struttura drammaturgica – non vado a raccontare una storia – ma anche scenicamente: io gioco al teatro. Anche se poi mi fa sorridere quando parlano di fregolismo. Io metto un cappellino in testa e sono un certo personaggio. E’ più un gioco a fare il teatro piuttosto che essere l’attore che impersona. Non mi interessa impersonare il personaggio. Se vedo Ascanio Celestini, in lui capisco l’esigenza della narrazione, capisco il narratore popolare a livello di ciò che incorpora: è qualcosa che ha a che fare con la narrazione orale, rappresenta le radici. Marco Paolini per me incarna la coscienza critica collettiva dell’Italia contemporanea. Io appartengo alla media borghesia italiana, e accetto l’idea di fare parte di questa mutazione antropologica. Così mi piace stare in mezzo al degrado, il degrado umano e culturale: cerco di parlare da questo degrado, ma senza moralismi. Evidentemente poi sono per l’impegno, evidentemente cerco di smuovere delle cose con il mio teatro, ma senza scindere l’etico dall’estetico, il politico dal biografico. Cerco di esser un interlocutore per una parte di pubblico che non è quello che comunque va a vedere quella cosa perché è già d’accordo o quello che non la va a vedere perché è preventivamente in disaccordo. E’ quello che ti dicevo dei due spettatori: per me è anche questo, voler fare una cosa assumendo su di me la mia parte già antropologicamente mutata, e dunque problematizzandola...
Teatro è anche luogo di memoria?
Può esserlo ed è giusto che lo sia. Anche. Ma io non ho vocazione testimoniale. Per me è importante il conflitto. Non faccio un teatro che trasmette o veicola delle cose ma che mostra e agisce dei conflitti. Da questo punto di vista mi sento più in relazione con la drammaturgia occidentale che con il nuovo-antico teatro di narrazione. Però io cerco di agire i conflitti nel cuore stesso della relazione teatrale, non solo rappresentandoli. Per rappresentare i conflitti, il cinema è meglio: se voglio vedermi una storia o emozionarmi dei personaggi vado al cinema. La forza del cinema è risucchiarti nel suo mondo, ma in questo modo sospende la percezione del tuo presente. Io al teatro chiedo di farmi essere lì, di offrire, come dire, un’apertura di senso al mio presente.
Castiglioncello, 29 marzo 2004
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Debutta a Prato l'Antigone con la regia di Federico Tiezzi Autopsia di una tragedia. Una intervista a Federico Tiezzi di Oliviero Ponte di Pino |
Debutta il 14 aprile al Teatro Metastasio di Prato (con repliche fino al 18 e poi a
Modena, Teatro Storchi, dal 21 al 25 aprile 2004 e a Correggio (RE), il 27 e 28 aprile 2004) l’Antigone di Bertolt Brecht con la regia di Federico Tiezzi. Qui di seguito l’intervista al regista che comparirà sul programma di sala dello spettacolo. Illustrano il testo i bozzetti di Francesco Calcagnini, che firma le scenografie.
Perché, dopo aver portato in scena un testo giovanile di Brecht come Nella giungla delle città (che hai allestito nel 1997) hai deciso di passare a un testo del Brecht più maturo, e per di più scegliendo la riscrittura di un classico?
I testi di Brecht che preferisco sono, in effetti, quelli giovanili, nei quali si consumano le ceneri dell’espressionismo: testi sperimentali sia dal punto di vista linguistico sia da quello scenico. Questa Antigone, riscritta da Sofocle attraverso Hölderlin, mi interessa perché è un poco parente dei testi giovanili; perché c’è sullo sfondo Hölderlin con la sua traduzione, sublime e di importanza capitale per la grande cultura tedesca moderna nonostante le ‘sviste’ e gli ‘equivoci’ che gli furono rimproverati dai suoi contemporanei. Mi interessa perché mi spinge a lavorare su Sofocle e la tragedia classica; infine mi riporta a un momento cruciale della giovinezza, quando vidi lo spettacolo del Living Theatre, protagonisti Judith Malina come Antigone e Julian Beck nel ruolo di Creonte. Avevo diciassette anni e quel lavoro segnò la mia vocazione in maniera indelebile... Quello che accomuna Brecht agli altri autori sui quali ho lavorato – penso a Pasolini o a Testori, a Bernhard...
...e magari anche a Müller e Beckett...
...è l’anti-classicità: tutti sono portatori di valori non ortogonali, anti-accademici. La scrittura di questi autori si pone il problema della ‘scena’, dello stile rappresentativo, non solo letterario. Sono autori, insomma, con i quali posso continuare il mio lavoro di ‘scrittura scenica’, più che di ‘messa in scena’. E tra gli sperimentali manca un nome, quello di Dante – che secondo Contini è il più sperimentale di tutti – al quale proprio qui a Prato ho dedicato tre anni di lavoro per enucleare il teatro presente nella Commedia.
Quando dici che questi autori si pongono il problema della scena teatrale, ti interessano perché se lo pongono dal punto di vista della regia o da quello dell’attore?
Tutti e due. All’attore danno combustibile linguistico e idee. Brecht, ad esempio, trasferisce i significati in un tedesco erto e scosceso, in parole, immagini e metafore fortemente espressive e falsamente razionali, piene di umori e invenzioni. Come ho potuto toccare con mano lavorando alla traduzione della Giungla delle città. Alla regia invece Brecht (come gli altri autori) offre un rapporto di collaborazione. Il testo non è pensato solo per la pagina: il riferimento alla scena, al palcoscenico è centrale. Quello che mi affascina dal punto di vista registico è confrontarmi con autori che hanno uno stile ‘scenico’: che poi posso tradire magari, disattendere, provare a rovesciare... Brecht porta con sé lo stile epico, per esempio...
Nel caso di Brecht, come fai a tradirlo?
Per esempio prendendo alla lettera le sue indicazioni e facendo scaturire le idee di regia proprio da quelle. Applicando le didascalie del Modellbuch dell’Antigone (il quaderno di regia dell’autore nel quale una serie di didascalie avevano il compito di illustrare le foto delle differenti scene) al mio spettacolo per separare i vari momenti dell’azione e ottenendo così un effetto di raffreddamento, di razionalizzazione del racconto, di antiemotività... Allo stesso modo ho inserito nello spettacolo alcuni elementi della recitazione straniata... Forse il modo per avere un Brecht non ‘brechtiano’ è proprio quello di applicare alla scena il suo metodo di lavoro, di stile. Così attraverso il teatro ‘epico’ ho fatto dell’Antigone una sorta di dramma didattico...
A questo punto sorge spontanea una domanda, che in qualche modo riflette l’esperienza di un discepolo eretico di Brecht come Heiner Müller: che rapporto c’è tra dramma didattico e tragedia?
La riscrittura che Brecht fa del testo è meno ricca dell’originale di Sofocle, e semplifica anche la traduzione di Hölderlin. Il testo brechtiano ha un’asciuttezza dimostrativa che fa immediatamente pensare al dramma didattico: c’è una divisione nettissima tra bene e male. Quando nel 1947 Brecht si mise a lavorare sul testo, l’ultima guerra era appena finita, la divisione tra male e bene era possibile, evidente. Nel suo testo l’eroina segue le diverse stazioni, i diversi quadri di una narrazione epica. La narrazione è condotta come una forma matematica che porta alla fine a un risultato necessario, direi inevitabile. Per Brecht quello di Antigone è un gesto buono, quello di Creonte un gesto cattivo. Solo che Brecht ha scritto il suo testo sessant’anni fa... Cosa risuona, invece, nelle nostre associazioni e connessioni, oggi? Antigone fa un gesto in nome della religione: a suo modo potrebbe essere quasi una integralista un po’ fanatica? Ci appare sicuramente meno libertaria e anarchica di come potevamo vederla – e di come la vedevamo sulla scorta della lettura livinghiana – alla fine degli anni sessanta; e ci si evidenzia di più che combatte nel nome del ghenos, della stirpe, della famiglia, della tribù. Prearistotelica. E Creonte, che parla in nome della ragion di stato, dobbiamo limitarci a vederlo, come voleva Brecht, come il fantoccio perverso di un potere cieco e rapace? Eppure parla anche in nome della razionalità che governa i rapporti tra gli uomini all’interno di una città... Allora Antigone non parla forse in nome dell’irrazionalità?... Insomma, nel portare in scena il testo altre sono state le domande che questo mi ha posto... sicuramente diverse da quelle che spinsero il Living Theatre a interessarsi a questa riscrittura. E il mio spettacolo non poteva che cercare una strada lontana da quella del Living, non certo per rinnegare o esorcizzare l’amore di cui avevo rivestito quell’esperienza... Al contrario, per misurare, pasolinianamente, il tempo trascorso e l’ennesima tragedia toccata alla nostra generazione: la sopraggiunta impossibilità di vedere il mondo attraverso uno sguardo – com’era quello luminoso di Julian Beck – che è certo di saper distinguere tra il bene e il male, tra la purezza rivoluzionaria e la biecaggine dell’oppressione... A suo modo anche Giorgio Strehler poteva ancora permettersi il lusso di reinventare Brecht con la certezza di far coincidere il sentimento con l’ideologia... Certamente è stato Strehler a ‘introdurmi’ alla regia sull’autore: le immagini del suo Galileo, i racconti che me ne faceva Ferruccio Marotti, che di quello spettacolo era stato assistente, quella particolare geometria dello spazio, i gesti, le maschere facciali e le posture di Tino Buazzelli (memori, forse, di quelli di Charles Laughton nel Galileo americano diretto dall’autore), gli aneddoti su come si fa a recitare lo stile epico in italiano... e soprattutto la misurabilità dello spazio, che mi parlava di una misurabilità del racconto, di una sua prospettiva... Mi diceva che ogni azione individua, ogni conflitto tra esseri umani (i personaggi) è contenuto in una scatola più grande, la Storia, con il suo scontro di classi. Solo gli idioti hanno scambiato per estetismo le formalizzazioni perfette che, del teatro di Brecht – che tra le righe le richiede – hanno fatto, pur se in modi diversi, Strehler come Beck... Gordon Craig dichiarava di lavorare per la bellezza (così si esprimeva nel discorso introduttivo agli attori di Amleto a Mosca nel 1911)... Sì, anche il ‘bello’ è politico; non solo il ‘brutto’...
Da un certo punto di vista quella che hai suggerito è una lettura sostanzialmente hegeliana della tragedia. La cosa curiosa è che per farlo hai scelto di utilizzare la riscrittura forse più anti-hegeliana del testo, quella che ha ispirato lo spettacolo del Living Theatre.
Tengo conto anche di una serie di considerazioni di Bernard-Henri Lévy, che mi erano sembrate giuste, su Creonte come portatore di cosmos, cioè di ordine. Ma non di un ordine per l’ordine, come era quello nazista (che Brecht aveva in mente) ma di un ordine fondato sulla ragione. Certo, Antigone porta con sé un gesto di pietà, e per quanto possa essere letto come un gesto integralista, è quello che tutti noi faremmo: seppellire il nostro fratello. Nel contrasto tra queste due letture ritrovo il nocciolo della tragedia di Sofocle.
Come ti confronti con il testo, dal punto di vista della regia?
L’ambientazione è una scena fissa: un obitorio, con letti sui quali stanno cadaveri: sono il coro dei Vecchi di Tebe... sono anche coloro sui quali Creonte domina: un mondo di cadaveri (di morti viventi, o viventi che aspettano con terrore l’arrivo dei guerrieri da Argo). All’interno dell’obitorio avviene la dissezione della tragedia: una dissezione linguistica e strutturale del racconto, un’analisi, una sorta di autopsia che metta a nudo i nervi, i muscoli, i tessuti del racconto tragico. Come in fondo chiedeva Hölderlin nel suo testo teorico sul tragico....
Ma in questa autopsia vai cercare i nodi strutturali oppure i lapsus?
I nodi strutturali...
...perché i lapsus non li hai trovati o non li hai cercati?
Brecht è pieno di lapsus, ma ho preferito l’analisi serrata. Rileggere il testo secondo un taglio più analitico e didattico possibile. Come passato alla dissezione dell’intelligenza di un Wittgenstein. Poi su tutto c’è la malinconia... di Brecht, e mia...
... Malinconia?
Sì: malinconia. Mi venne spontanea al pensiero questa parola quando, qualche settimana fa, Gianfranco Capitta mi chiese per il suo giornale una riflessione sul perché della rimozione di Bertolt Brecht nel teatro di oggi. Come a volte accade solo quando si viene stimolati dall’esterno a una risposta, mi chiesi: «Perché voglio fare Brecht?» E d’acchito, pensando a una possibile risposta, mentre uscivo in una Napoli pazza di vita dal Teatro San Carlo, dove stavo lavorando al mio Verdi preferito, quello ‘popolare’ e sanguigno del Trovatore, avendomi colpito una luce obliqua di tramonto e il suono d’una musichetta di strada, mi venne di dire: per la sua malinconia...
Un impulso irrazionale...
Certo, un’intuizione che, in quanto tale, si presenta senza titoli di pensiero, di riflessione. Poi la ragione reclamò subito i suoi diritti sulle motivazioni del cuore e mi riportò indietro, col pensiero, a una decina d’anni fa, a Camaldoli, quando, in una pausa degli incontri che l’allora priore Benedetto Calati organizzava mettendo a confronto persone tra le più diverse purché unite dalla voglia di dialogare, Rossana Rossanda mi chiese quali fossero i miei progetti per il futuro. Io le dissi che avevo intenzione di trarre uno spettacolo dal primo dei Tre lai di Giovanni Testori, quello dedicato a Cleopatra e poi di affrontare il mio primo Brecht, quello giovanile di un testo ambiguo e fermentante come Nella giungla delle città.... ‘Benissimo!’, esclamò Rossana, ‘Brecht va sempre bene!’... Era vero. Brecht va sempre bene. Come Verdi. Come Cechov...
E dunque : perché Brecht va sempre bene?
Troppo facile sarebbe rispondere con l’ideologia, i tempi bui, la reazione – Dio mio! fino a qualche anno fa si sarebbe detto strisciante... oggi, ahimè, conclamata e conclamante... in atto – le ingiustizie sociali sempre più spaventose, i conflitti su scala planetaria... Nell’Antigone in particolare, ce ne sarebbero a iosa dei cosiddetti ‘motivi d’attualità’... Vi si parla di una guerra, mossa da Tebe ad Argo perché la prima vuole impossessarsi delle miniere della seconda... C’è un detentore del potere – Creonte – che usa tutta la sua dialettica per spingere i maggiorenti della città a manipolare con tutti i mezzi di comunicazione possibili le coscienze del popolo affinché questo non si lamenti delle spese sostenute per la guerra... C’è una ragazza che antepone al guscio vuoto di una legge impietosa il cuore caldo della sua pietà per i morti, per tutti i morti, non solo quelli caduti in battaglia combattendo la ‘guerra giusta’...
Ma tu non hai mai scelto, mi pare, un testo in base ai suoi contenuti...
E’ vero. Tuttavia sento che oggi troppo facile sarebbe rispondersi con la giustificazione opposta del fatto che Brecht scriveva meravigliosamente per la scena, che conosceva il teatro in tutte le sue pieghe e che dunque offre a chi lo utilizza a fini spettacolari un materiale di prim’ordine, con personaggi indimenticabili, con un senso del teatro straordinario, con una lingua densa e ricca... Ancora sarebbe facile rispondersi dicendo che lo si sceglie per entrambe le ragioni : la compresenza di un contenuto importante con una forma scenica che lo esprime alla perfezione... Allora, alla vigilia delle prove per la Giungla, riflettevo soprattutto su questioni di linguaggio scenico. Mi chiedevo: cos’hanno in comune Brecht e Testori? E mi rispondevo: l’invenzione di una lingua per la scena, di una lingua specifica per la propria idea di scena, la volontà e la capacità di non cedere al ricatto della pagina, di non pensare ai posteri ma alla platea dei contemporanei, l’amore nei confronti degli attori – un amore tutto immanente alla scrittura, un amore che non ha bisogno di dichiararsi teoricamente perché si attua nella prassi dell’invenzione di parole fatte apposta per loro, commisurate alle voci e alle assi dei palcoscenici – come sempre è stato del resto nel vero teatro, quello dei Goldoni, degli Shakespeare, dei Molière, di quella forma della parola che non è – come credevano gli idealisti e come credono, ahimé, ancora tanti intellettuali di oggi – non è, dicevo, un limite della letteratura... Pensieri vaganti mentre scendeva la sera su via Toledo e nella testa mi risuonava la romanza di Leonora : ‘Tacea la notte placida e calma in ciel sereno, la luna...’ ed ecco che, come avviene a volte nella chimica della mente, tutto è andato a posto e per un attimo ho avuto chiara la risposta... Perché Brecht? Ma certo : per l’inquietudine di chi cerca risposte e non ne trova ma ugualmente non si ferma... per la caparbietà nel voler penetrare i segreti del vivere sociale e per il sentimento del tempo che passa... per la nettezza con cui sono scolpite figure indimenticabili e per la cura con cui sono scritti sempre anche tutti i caratteri minori, delineati con tratto grottesco e marcatamente espressionista, ma anche memori della tradizione della commedia dell’arte... per la convinzione che il teatro possa essere uno strumento didattico: qualcosa che ci aiuta a imparare a vivere... per la furia visionaria con cui torna e ritorna ad accamparsi al centro della scena lo scontro impietoso tra la giovinezza che si apre alla vita e il declinare dell’età che si ribella al destino... Sì: era proprio come avevo pensato intuitivamente all’inizio: per la sua malinconia...
Ma torniamo all’impostazione analitica: con una forte enfasi sui contenuti, non si pone al polo opposto rispetto al teatro di poesia che hai teorizzato e praticato in questi anni?
No, è la stessa cosa: solo che tra Genet a Tangeri, Ritratto dell’attore da giovane e Vita immaginaria di Paolo Uccello (i miei testi degli anni Ottanta) e questa regia ci sono in mezzo vent’anni durante i quali ho vissuto nel mondo, nella vita... Ricordi quella trilogia? Erano tre testi assolutamente dimostrativi, soprattutto il Ritratto. Se la scrittura di Brecht è molto asciutta, riesco poi ad amplificare sulla scena tutti gli elementi che mi avevano portato al teatro di poesia, anche se in questo caso sto molto attento ai significati. Ma per certi aspetti sono diventato quasi un razionalista storico, è vero...
Anche rispetto alle Scene di Amleto, dove giocavi in chiave post-moderna la molteplicità delle interpretazioni del testo...
Qui si tratta di portare tutto a un fine, a una prospettiva. In Brecht tutto è prospettico. Ecco, il grande fascino che ho sempre provato per lui viene proprio da questa sua prospettiva assoluta, perfino ottusa: dove però trovi malinconia, e voragini di buio, abissi della mente, come diceva Samuel Beckett. Brecht aveva il culto della ratio: ma dentro quella ragione dilagano sacche di buio e di notte che mi catturano. Poi Brecht mi ricorda la mia giovinezza. ‘Il caos è finito. E’ stato il tempo migliore’ così si conclude Nella giungla delle città....
E il lavoro con gli attori?
Li ho scelti con attenzione, uno dopo l’altro, per una loro epicità naturale, per una facoltà oltre che razionale straniante. Per una immaginazione creativa che potesse rimpolpare le maschere, a volte un poco deboli, del testo... Sono quasi tutti attori con cui avevo già lavorato: altri li conosco da anni...
Con loro lavori in chiave di teatro epico?
Quello che mi interessa è che i personaggi abbiano carne e sangue. Desidero che Antigone sia una fanciulla pazza, esaltata e piena di emozioni, così come ce la consegna Hölderlin. Brecht la raffredda troppo. Il lavoro con Chiara su Antigone è stato proprio quello di creare una passione fredda: non per raccontare Antigone, ma per viverla dal di dentro. Per Creonte, con Sandro, ho fatto un lavoro sull’ironia, sul distacco: la sua è una razionalità ironica, la razionalità più pura. Non potevo pensare a Creonte solo come a una maschera grottesca di potere. Ho chiesto a Sandro di enucleare anche gli aspetti ‘psicologici’ presenti nella funzione di chi esercita il potere. Il conflitto tra questi due personaggi lo vorrei concreto, umano... Così come ho cercato di lavorare su una concreteza di scontro non solo mitologico quando al Creonte già vacillante per l’andamento della guerra si contrappone la violenza visionaria di Tiresia, il veggente cieco, l’ermafrodito che vive ai margini della società. Tiresia è Giampiero Cicciò, con cui avevo già lavorato per un testo di Pasolini. E l’ho chiamato proprio per ricollegare la visionarietà profetica del personaggio alla misteriosa capacità di prevedere il futuro che Pasolini manifestò negli anni estremi. Così com’è umanissimo il conflitto tra Creonte ed Emone (Alessandro Schiavo), tra i quali Brecht insinua uno dei suoi ricorrenti motivi che generano dramma: il contrasto delle generazioni, la gioventù che si scontra con l’età matura... Questo scontro si ripete anche nella scena, che Brecht delinea con tratto giustamente comico, che a Creonte oppone un soldato (Massimiliano Speziani); e in quella, che invece vorrei lirica ed epica insieme, in cui un altro soldato (Fabio Mascagni) racconta al tiranno la morte del figlio Megareo. E non mi dispiacerebbe suggerire l’idea che sia lo stesso Megareo, già morto, che appare al padre – in sogno o in forma di visione – a rivivere la propria morte... Anche il rapporto tra il Coro (Silvio Castiglioni, Marion D’Amburgo, Massimo Grigò, Lucia Ragni) e la dolce, inerme sorella Ismene (Debora Zuin) è in fondo un ennesimo aspetto dell’incomunicabilità tra vecchi e giovani...
Uno degli elementi fondanti dello straniamento è la dialettica tra quello che succede in scena e quello che fanno gli attori-personaggi...
Qui mi prendo il massimo della libertà: non voglio essere troppo rigido, perché il testo è già didattico e non voglio che risulti schematico e troppo freddo.
ANTIGONE DI SOFOCLE
di Bertolt Brecht
regia di Federico Tiezzi
traduzione di
Cesare Mazzonis
Antigone Chiara Muti
Ismene Debora Zuin
Creonte Sandro Lombardi
Emone Alessandro Schiavo
Tiresia Giampiero Cicciò
Guardiano Massimiliano Speziani
Coro
Silvio Castiglioni
Marion D’Amburgo
Massimo Grigò
Fabio Mascagni
Lucia Ragni
scene Francesco Calcagnini
costumi Marion D’Amburgo
luci Roberto Innocenti
Prato, Teatro Metastasio, 14 – 18 aprile 2004 - prima
Modena, Teatro Storchi, 21 – 25 aprile 2004
Correggio (RE), 27 – 28 aprile 2004
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Il ritorno dell’Institutet för Scenkonst Da una conversazione con Roger Rolin e Magdalena Pietruska di Alessandra Giuntoni |
Il nomadismo ha contraddistinto buona parte dell’attività dei gruppi del teatro di ricerca che, a partire dagli anni sessanta, presero ad esportare i propri spettacoli in tutto il mondo, confrontandosi con situazioni sociali particolarmente estreme, facendo del viaggio una modalità fondamentale del proprio lavoro. Penso all’Odin Teatret e alla sua politica del baratto culturale, ma non solo; penso al Living Theater, gruppo esule e perseguitato politicamente, ai gruppi attivisti dell’America Latina come il Teatro de Los Andes, a tutti quelle formazioni che fecero della dimensione anarchica e comunitaria del teatro la propria dichiarazione di intenti e di poetica. L’appartenenza dell’Institutet för Scenkonst a questa comunità teatrale, etica e vocazionale, animata da rigore e tensione e dalla volontà di aprirsi a contesti socio-culturali ‘altri’, è indubbia. Volete spiegarci il valore di questa scelta?
ROGER ROLIN Tutti al giorno d’oggi sono informati del fatto che il mondo è rotondo ma finché questa rimane soltanto un’informazione teorica, ogni paese, ogni situazione sociale avrà la tendenza a vivere come se il mondo fosse piatto. Ciò che bisogna chiedersi è: cosa significa che il mondo è rotondo nella sua praticità? E’ una cosa importantissima non soltanto per l’artista ma per tutta la società; penso che faccia parte della formazione dell’uomo. Non basta essere informato di questo fatto, queste informazioni devono essere trasformate in esperienza vissuta. Il viaggio, l’incontro con le altre culture – e non sto parlando, ovviamente, della dimensione del turista - il mettere la propria cultura in dialogo con il mondo, è fondamentale per ogni uomo. Noi abbiamo fatto questa scelta anche come artisti. Non è stata solo una scelta per riuscire a sopravvivere materialmente ma, soprattutto, per riuscire a sopravvivere spiritualmente, per riuscire a realizzare i nostri sogni artistici, di ricerca, di incontro. E questo ci ha portato a una specie di nomadismo anche se la scelta di essere nomadi non è mai stata fatta direttamente; noi abbiamo solo scelto di mettere la nostra cultura in dialogo con altre realtà, questa è la scelta presa direttamente.
Magdalena Pietruska in Saffo (foto di Stefano Lanzardo).
MAGDALENA PIETRUSKA La scelta di un lavoro teatrale che parta dalla letteratura drammatica, dal teatro concepito come messinscena della letteratura, è per forza nazionalista. Ma una scelta di lavoro teatrale che si basa sull’attore e sull’incontro tra gli uomini, implica necessariamente l’incontro con tutti gli uomini. E’ un teatro senza frontiere che è cominciato molto prima dell’Europa unita, che poi significa soltanto avere delle frontiere un po’ spostate. In un lavoro teatrale come il nostro avviene un incontro tra le diverse culture, c’è il bisogno di mettersi in dialogo con l’umanità senza frontiere, di non partecipare al mondo nei cosiddetti centri culturali che molto spesso s’identificano con i centri di potere politico ed economico. La cultura ufficiale rifiuta questa cultura minoritaria che non si concentra nei grossi centri di potere, nelle metropoli ecc.. C’è un articolo di Fabrizio Cruciani intitolato "Fuggire dal Centro" che parla di Copeau e della storia del teatro di ricerca e che individua un punto comune tra i gruppi come il nostro proprio nella volontà di stabilirsi alla periferia del mondo culturale e politico, laddove non c’è contaminazione con la cultura già promossa, già selezionata come cultura ufficiale e che, proprio per questo, non è più viva, non può muoversi negli spazi sconosciuti dove la ricerca per definizione deve andare.
Questo avviene anche a livello sociale: la scelta di stabilirsi ai margini, nelle campagne, nei piccoli centri è prima di tutto la volontà di non essere tentati dalla città, dalla civilizzazione, ma di adottare questi posti come la nostra casa. La domanda che bisogna porsi è: che cosa è centro, che cosa è periferia? Se noi pensiamo che il centro è lì dove siamo noi perché portiamo qualcosa con noi, allora la periferia e il centro si spostano insieme a noi e ci si apre all’incontro con le realtà che si creano sul posto. Un nomade mette la sua casa lì dove si trova adesso, per questo periodo; non è mai turista ma mette le sue radici e vive con chi c’è intorno; perciò è sempre nel suo centro, dialoga con ciò che in questo momento è centro. Questa è un’azione politiceliminare la mistificazione che vuole che i centri economici e di potere siano anche centri culturali mentre la maggioranza della gente vive fuori da questi centri.
Dopo la lunga parentesi italiana, non priva di ipocrisie e di strumentalizzazioni da parte delle istituzioni locali, l’Institutet rientra in Svezia dove rileva un rustico da ristrutturare e sistemare come "casa", come luogo di lavoro e d’incontro tra artisti, come sede per la propria attività pedagogica. Cosa è successo: l’Institutet för Scenkonst ha finalmente messo radici? Qual è l’attività attuale dell’Institutet?
ROGER ROLIN Non abbiamo mai cercato di mettere le radici nel luogo ma nel nostro lavoro: queste sono le nostre radici e per il momento sembra che c’è la possibilità di svolgere il nostro lavoro in Svezia dove abbiamo trovato casa, se sarà per sempre non ha nessuna importanza. Lì cerchiamo di continuare la nostra attività di sempre come la pedagogia, la ricerca artistica e la produzione di spettacoli teatrali. Come vedi anche noi siamo conservatori….
MAGDALENA PIETRUSKA Non c’è stata una parentesi italiana, ogni luogo è una parentesi e ogni luogo è una sede stabile. Il posto dove prendiamo sede è ‘per sempre’ anche se può finire domani, se lo decidiamo. Perciò anche Pontremoli non è stata una parentesi ma uno dei luoghi dove avevamo il centro e adesso lo abbiamo in Svezia. Dal punto di vista del lavoro svolto è lo stesso anche se in altro modo. A Pontremoli eravamo in affitto e dipendenti dalle decisioni di altri; adesso in Svezia la casa è di nostra proprietà e allora siamo padroni del nostro tempo, delle nostre decisioni completamente. Se questo durerà in eterno ti rispondo: adesso sì, domani forse cambieremo idea.
Roger Rolin in Popolo (foto di Stefano Lanzardo).
Che dire dei tredici anni trascorsi a Pontremoli, dello sfratto dal Teatro della Rosa, dello snervante rimpallo tra gli enti locali impegnati nel vergognoso balletto dello scarica barile a fingere di preoccuparsi per le sorti dell’Institutet… insomma di tutte le nefandezze che hanno accompagnato il soggiorno italiano, ne vogliamo parlare o è preferibile stendere un pietoso velo?
A mio parere resta poco da dire circa la sottocultura di certa provincia italiana e l’ottusità dei suoi amministratori; certo è che Pontremoli non meritava l’onore di ospitare un centro di ricerca internazionale riconosciuto dalle maggiori università europee e frequentato da allievi e studiosi provenienti da tutto il mondo. A noi, che con la realtà di questo paese ci facciamo i conti quotidianamente, mancano le parole per denunciare la degenerazione di un sistema teatrale che è sempre più preoccupato di foraggiare carrozzoni pubblici o privati in odore di conflitto d’interessi e che promuove esclusivamente "prodotti orientati al mercato" disconoscendo il valore dei gruppi che hanno fatto la storia del Teatro novecentesco. E’ di pochi mesi fa la notizia che il Living Theater ha lasciato Rocchetta Ligure dove aveva sede da alcuni anni, perché l’amministrazione comunale gli ha addebitato un affitto impossibile da sostenere. E così l’ultraottantenne Judith Malina riparte con il suo gruppo alla volta di New York per dare una sede al Living Theater.
Dunque, la storia continua…
ROGER ROLIN Storicamente viviamo un tempo che sembra essere la fine dell’uomo politico e, se vogliamo una speranza per la nostra società, la figura dell’uomo politico deve trasformarsi perché nel mondo, parlando in generale, si vede che la politica non è altro che una grande tragedia. E Pontremoli in questo non faceva eccezione.
MAGDALENA PIETRUSKA Pontremoli ci tocca molto perché è stata la storia vissuta sulla nostra pelle ma non è l’unica, purtroppo. E’ una tendenza generale della nostra società quella di andare verso le cose fasulle, di annullare la dimensione umana dalla nostra vita e lo stare insieme su questa terra dove la cultura e l’arte sono una cosa essenziale per sopravvivere e non possiamo vivere senza. Le leggi di mercato però, la direzione che questa società ha imboccato e accelerato, stanno all’opposto; tutto segue la logica delle cose da consumare e buttare, dalle stelle e stellette televisive al protagonismo sfrenato che è proprio svergognato perché fa a meno delle basi su cui ci si può basare per diventare protagonisti… basta comparire in TV per diventare famosi. La vera tragedia è la strada imboccata dalla nostra società, la nostra storia è solo una conferma di tutto questo. A Pontremoli era tutto molto più visibile perché è un posto piccolo e così gli errori erano evidenti; il modo di usare il consenso da parte degli amministratori è solo un pretesto per i giochi di potere. E purtroppo la storia si ripete: tutto ciò che sta fuori dalla logica di mercato viene espulso. L’evoluzione è sempre ostacolata da ciò che è realizzabile ora e subito, da ciò che è convertibile in denaro, dai protagonismi fasulli. E’ questa la tragedia della nostra società, adesso.
L’attività di ricerca non ha più spazio e non ne può avere: ciò che non può dare subito dei risultati, in quanto necessita di un tempo che magari supera lo spazio di una vita, è un investimento troppo impegnativo e socialmente inaccettabile. Mentre sappiamo quanto i progetti che pensano limitatamente, sia a livello ecologico, politico, filosofico siano pericolosissimi.
Sulla scorta di queste riflessioni, mi domando e vi domando, cosa vuol dire oggi continuare a privilegiare la dimensione pedagogica del teatro, lottare per la conquista di spazi destinati alla sperimentazione, scegliere di ignorare i diktat dell’industria culturale? Esiste la possibilità reale, per un centro come l’Institutet för Scenkonst, di fare resistenza attiva? Qual’è la valenza etico-politica, la forza rivoluzionaria direi, di un teatro capace di perseguire i propri scopi di ricerca ed autopedagogia senza cedere alla logica di mercato?
MAGDALENA PIETRUSKA Oggi è ancora più importante, per chi ha scelto di lavorare nel teatro, in quell’arte cioè che come sua essenza prevede l’incontro tra uomo e uomo e che si esprime tramite l’uomo. Non tradire questa essenza del teatro è combattere, lottare per tutto ciò che ha valore umano. Non si tratta di una nostalgia per ciò che è perduto ma di insistere sul valore di ciò che è universale, oltre il tempo, oltre le leggi fatte ad hoc perché hanno utilità contingente. In questo senso il lavoro teatrale non può essere una cosa pragmatica perché si basa su una cosa molto più importante. Per chi come noi lavora nel teatro si tratta di non stancarsi, di insistere, di non tradire, costi quel che costi, di opporre come un contrappunto o una possibilità o un’evidenza che c’è un altro modo di essere, di esistere, di vedere. Di creare un mondo diverso da quello in cui i giovani oggi devono vivere.
ROGER ROLIN La storia umana non può mai smettere di chiedersi ‘che cos’è un uomo’ questo è fondamentale. Non sappiamo mai, in fondo, che cos’è un uomo e bisogna quindi cercare di domandarselo e darsi delle risposte. Oggi viviamo questo conflitto se l’uomo è per il mercato o se il mercato è per l’uomo; questa domanda sta diventando assillante a livello etico. Se esiste la possibilità reale per un centro come l’Institutet, la risposta è sì e no: la possibilità reale è la lotta che ogni giorno bisogna fare, questa resistenza, questa scelta etico-politica di cui parli, è una manifestazione che si fa ogni giorno e non è qualcosa che si può conquistare definitivamente finché ci sarà la domanda che cos’è un uomo.
Adesso siete di nuovo in Italia per un progetto artistico a cura dei Teatri del Vento che vi vede nella veste di registi. A partire da maggio assisteremo, dunque, alla messinscena di "Tra verità, menzogna e desiderio", spettacolo dedicato all’opera di Pier Paolo Pasolini, allestito al termine di un percorso trimestrale con sei attori tutti provenienti da altri progetti pedagogici dell’Institutet . Cosa potete dirci sul lavoro che state facendo, sulle modalità con cui vi state rapportando all’opera e alla figura di Pasolini? Quali sono le difficoltà, per chi proviene dalla cultura nordeuropea, ad approcciare un intellettuale così fortemente legato alla storia italiana, alle sue problematiche politiche, all’analisi socio-antropologica dell’Italia postbellica? Come pensate di "incontrare i suoi testi"?
MAGDALENA PIETRUSKA Io non ho mai percepito Pasolini come legato alla storia italiana, per me Pasolini non appartiene alla storia di una nazione. Ho conosciuto Pasolini tramite i suoi film, non avevo mai letto niente e, forse, nella poesia, nella prosa, nella saggistica è più legato alla storia italiana. Però il suo pensiero, quello non è esclusivamente italiano, anzi… Per me è molto europeo, universale, perché dice delle cose importantissime che vanno oltre i confini dell’Italia. Si serve del suo paese come esempio perché è quello che conosce meglio ma la sua riflessione verte sulla direzione imboccata dalla società che lui già aveva visto negli anni 60-70. Era in atto un cambiamento fondamentale della rotta sociale che pochi, tra gli intellettuali, hanno percepito così lucidamente. Lui è stato uno dei pochi che hanno saputo riconoscere certe dinamiche ancora nascoste coperte da facili entusiasmi anche comprensibili: erano anni ricchissimi per il movimento sociale, politico, culturale, perciò il vedere così chiaramente il disastro insito nelle scelte che si stavano compiendo era difficile per molti, lui l’ha fatto. E’ questo che è interessante per me nella figura di Pasolini. Tutte le storie tipicamente italiane, le polemiche tra lui e personaggi appartenenti al panorama politico dell’epoca, sono soltanto esempi concreti della sua analisi che parte da lì per mostrare cose che servono anche a noi nordeuropei e che servono soprattutto oggi. In questo senso non è difficile entusiasmarsi per Pasolini e oggi, grazie a questo progetto, ho potuto leggere tante cose che non conoscevo; abbiamo visto tutti i film cercando di capire quanto era grande e pericoloso e scomodo. La sua storia è la storia tipica di un intellettuale, dell’uomo di cultura, dell’artista non compreso, non perché difficile, ma perché c’è sempre un rifiuto di capire i precursori. Si dice di Pasolini che era un profeta, un artista che vede in prospettiva lunga, le cui antenne captano ciò che sta per succedere e cercano, come le Cassandre, di avvertire gli altri ma non possono essere ascoltate perché la gente, i politici sono sempre ciechi e accecati dall’oggi come unica realtà, sono incapaci di fare un’analisi che dal passato si proietti sul futuro e attraversi il presente, sono incapaci di riconoscere l’essenza delle cose al di là delle forme. Quello che Pasolini dice sul fascismo e sul neofascismo è un esempio quasi scolastico di chiarezzsi può riconoscere lo stesso fenomeno sotto una forma che sembra contraria ma che invece lui vede che non lo è. Di fatto è la stessa cosa sotto un’altra forma e perciò molto più pericolosa perché meno riconoscibile. L’analisi di Pasolini è l’analisi di un vero intellettuale che non si accontenta delle apparenze, segno distintivo dell’oggi. Una cosa fondamentale per il lavoro dell’artista, come per l’intellettuale, è quella di cercare di riconoscere l’equivalenza delle cose nella loro essenza al di là del mutare delle forme, altrimenti siamo sempre in balìa delle forme sfuggenti, sempre nuove. L’adorazione del nuovo, l’acclamazione delle cose fantastiche, nuove, mai viste e che in realtà erano già inattuali anni fa e con un ritocco cosmetico sono diventate nuove. Pasolini non è interessato a questo, vede oltre la forma. E’ la sua stessa esistenza, con questo tipo di sguardo acuto, che rappresenta una minaccia per la società di allora e per la società di oggi; oggi ancora di più perché le sue parole una volta erano meno comprensibili, si poteva dire che il suo era un delirio o piagnisteo, come tanti hanno detto. Oggi non è più possibile ignorarlo.
Come sono stati ‘trattati’ i testi di Pasolini?
MAGDALENA PIETRUSKA Abbiamo chiesto agli attori di individuare in tutta l’opera di Pasolini (teatro, prosa, poesia, articoli giornalistici) i frammenti, le frasi che hanno per loro una risonanza di qualche tipo e di farlo in modo individuale e poi di mettere questo a disposizione del gruppo. In seguito ci hanno sottoposto il materiale selezionato e su questo abbiamo fatto un’ulteriore selezione. Non ci sono delle opere, dei testi integrali, i testi sono montati per lo spettacolo e provati nell’azione con gli attori tramite il loro fare. Perciò il montaggio dei testi segue il nostro spettacolo non le opere di Pasolini. L’incontro non è tanto con il linguaggio letterario di Pasolini ma con il suo mondo, con i suoi temi ricorrenti. A ben vedere tutti gli autori sono molto "ripetitivi" e ci sono temi che tornano. Siamo partiti da come gli attori vedevano Pasolini, dal loro Pasolini e poi siamo arrivati al nostro Pasolini attraverso la lettura e il lavoro diretto con gli attori, evitando soprattutto la storia troppo italiana, focalizzando il Pasolini universale più che italiano. Qualcuno ha detto che Pasolini è ossessionato da alcuni temi dominanti quali la religione e il comunismo, e lui risponde: no, dalla realtà.
ROGER ROLIN Bisogna infatti ricercare sempre la realtà, il reale che è dentro ad ogni cosa, anche alla finzione. Questa è l’aspetto che abbiamo scoperto di condividere con Pasolini; anche noi abbiamo sempre ricercato questo e adesso, più conosco Pasolini e la sua opera, più mi ci riconosco. Il metodo per "incontrare" i suoi testi è, come dice Magda, tramite gli attori, senza anteporre un’analisi nostra dei testi. Cercando il reale, cercando qual è il mondo di questi testi , non importa se nella finzione, nell’artificio, nel teatrale; cercando questo reale si trova un equivalente nel testo ed è quello che vogliamo esprimere. Noi non cerchiamo di rifare artisticamente qualcosa che ha già fatto Pasolini. Quello che ci interessa è vedere quale risonanza Pasolini può avere nel nostro incontro.
I "Padri Fondatori" dell’avanguardia teatrale, da Stanislavskij a Mejerchol’d, da Craig a Copeau intesero rinnovare il teatro attraverso la fondazione di un teatro-laboratorio, di uno spazio fisico e mentale dedicato all’approfondimento della situazione pedagogica in cui l’accento del fare teatro è focalizzata sul processo più che sul suo oggetto. Il laboratorio, la scuola, l’atelier, dove attori e regista lavorano insieme sul training e sulla preparazione dello spettacolo, diventano la situazione in cui si condensa il significato del teatro. Qui il ruolo del regista-trainer, lo spazio/tempo separato dalla quotidianità, una codificazione tecnica e una pratica metodica, fanno del laboratorio un vero e proprio vivaio capace di rinnovare il sentire, di modificare l'esperienza sia dell’attore che dello spettatore, destrutturando il modo ordinario di percepire il mondo per accedere a piani diversi e più profondi di realtà.
A proposito di questa ‘rifondazione antropologica’ scriveva Ingemar Lindh: "Tramite il tangibile si demolisce l’argine intorno all’inafferrabile, si ricongiunge il nostro essere più profondo con gli altri e con l’altro, su di un livello dove ciò è possibile, là dove le azioni sono universali; ci si rende trasparenti" (Lindh Ingemar, Pietre di Guado, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera 1998, pg.13).
Chi, come me, ha ancora negli occhi le immagini di Saffo e di Popolo, nella cornice del vecchio Teatro della Rosa, non può che rimpiangere i momenti di autentica poesia che scaturivano dalla presenza dell’attore, da una consapevolezza corporea bruciante e assoluta, rintracciabile anche nei momenti di massima sospensione. Vorrei che ci parlaste di questo elemento impalpabile che fa sì che il momento dello spettacolo sia un incontro vero e profondo tra attore e spettatore, un atto vitale unico e irripetibile, un’esperienza di vera e propria sacralità.
ROGER ROLIN In sintesi estrema posso dirti che quello di cui parli è un attore molto preparato, che presenta la sua realtà nell’incontro con il pubblico e lo fa in modo assolutamente privo di qualsiasi manipolazione, qualsiasi speculazione. L’incontro stesso è la cosa che si desidera non la risonanza dell’incontro, il dove mi porta; il pubblico deve essere libero di venire nel modo che sente e deve essere libero di lasciare questo incontro nel modo che vuole. L’attore deve essere contento del momento in cui questo incontro è avvenuto, poi, eventualmente, posso notare anche le conseguenze che però non possono mai essere calcolate in anticipo.
MAGDALENA PIETRUSKA lo spettatore è un invitato, è il nostro ospite e per questo non può essere manipolato, come dice Roger, ma deve essere trattato con tutto rispetto. L’attore deve essere preparato come in tutti i mestieri; il suo strumento di lavoro è la corporeità, la voce, la vita interiore. Tramite il lavoro sullo strumento-corpo, l’attore lavora sulla coscienza, sulla sua consapevolezza di essere uomo, unico, uguale agli altri ma unico, di quella unicità in cui ci possiamo ritrovare tutti su di un piano universale. Per l’attore che si dedica a questa mestiere è necessario, tramite le cose tangibili di cui parla Ingemar (corpo, voce, movimento), arrivare ad accrescere la sua consapevolezza di essere uomo per potere incontrare lo spettatore. Ciò porta a creare un incontro tramite l’autore, i suoi testi, il suo mondo, un incontro tra individui sul piano universale.
ROGER ROLIN Noi non ci poniamo mai la domanda "che cosa piace al pubblico", questa è già una domanda manipolativa, noi ci chiediamo sempre e soltanto cosa vogliamo dare, cosa vogliamo dire e poi il pubblico è libero di reagire come vuole. In questo senso presentiamo la nostra realtà nella sua essenza.
MAGDALENA PIETRUSKA Non è la realtà dell’attore come persona privata ma la realtà della mia storia, della mia cultura, degli archetipi che, nel mio incontro con un autore, risuonano in me: questo io porto allo spettatore per vedere se risuonano anche a lui. In questo senso la preparazione a cui l’attore si sottopone non è finalizzata a diventare bravo o tecnicamente virtuoso. Io attore devo saper utilizzare il mio strumento per diventare più cosciente di ciò che sta oltre la mia vanità personale, oltre i miei problemi privati, le mie preoccupazioni, per accedere ad un livello dove posso incontrare un’altra persona, un altro individuo. La sacralità di cui parli è data dal fatto che, in questo tipo di teatro, l’incontro avviene oltre tutto quello che viviamo quotidianamente: la paura degli altri, il razzismo, la vanità, le psicologie, tutte quelle cose con cui combattiamo ogni giorno come persone private e che, in grande, sono ciò che conduce alle guerre. I potenti hanno nelle mani il destino di tutta la terra, è loro facoltà schiacciare o non schiacciare il bottone, decidere i buttare o no le bombe, sembrano dei bambini mossi dalle proprie psicologie, dalla vanità, dagli interessi privati e questa è una tragedia. Per un attore è ovvio che non è lì che può accadere l’incontro tra individui; il sacro è al di là di tutto questo, incontrare vuol dire porsi al di là delle differenze, delle diversità. Nella realtà ci sono solo diversità organiche, di cultura, di etnie; tutto ciò è organico, è ricco, ed è questo il nostro livello di lavoro, di possibile incontro; è questo il livello di lavoro per meditare sulle cose che sono importanti, il piano su cui si può dialogare senza doversi convincere reciprocamente o polemizzare. In questo senso Pasolini è molto ricco, ha cercato veramente di arrivare a questo livello d’incontro, a volte anche la sua omosessualità è stata uno strumento facile per il suo entourage per non ascoltare quello che lui aveva da dire.
Lo scopo del training è quello di allenare lo strumento corpo, esaminandone tutte le possibilità, le articolazioni, le leggi fisiche che lo governano. Ma il virtuosismo, nel metodo dell’Institutet, è un pericolo sempre in agguato da rifuggire. Quello che serve è innescare un processo psicofisico capace di influenzare la struttura mentale dell’attore mettendolo in grado di pilotare i suoi atti fisici, libero da automatismi e paure. Dunque il training fisico come "laboratorio personale dell’attore", paradossale strumento di liberazione e di de-addestramento. Quali sono i vari tipi di training messi a punto dall’Institutet, qual’è la loro derivazione e la loro finalità, in cosa consiste la sintesi utilizzata attualmente?
MAGDALENA PIETRUSKA Il training fisico dell’Institutet deriva direttamente dal training che è stato elaborato da Grotowski che poi Ingemar ha rielaborato con i suoi attori e adattato alle nostre esigenze di lavoro. Esso comprendeva tutti gli esercizi che c’erano nel bagaglio di lavoro ricevuto da Grotowski (fisici, plastici, biomeccanici, acrobatici ecc) più la tecnica del Mimo Corporeo che deriva da Decroux in quanto maestro di Ingemar. E’ una combinazione di questi due tipi di allenamento: un training di tipo accademico e uno di tipo empirico. Il primo è basato su tecniche codificate quale mimo, Kung-Fu, Tai-Chi, calligrafia, esercizi di educazione musicale; l’altro si basa su esercizi fisici, acrobatici, plastici, biomeccanici elaborati e modificati.
I principi del mimo, così come Decroux li ha enunciati, ci servirono a capire le leggi fisiche e geometriche del corpo, del suo rapporto con lo spazio. Il movimento contemporaneo di diverse parti del corpo, infatti, crea una dialettica drammatica intrinseca al corpo stesso; fa sì che il corpo generi le proprie contraddizioni, crei il proprio dialogo tramite causa-effetto, shock e risonanza. In questo senso la tecnica del mimo è stata per noi una meditazione pratica, una teoria pratica per la consapevolezza globale di sé e per il lavoro di costruzione dello spettacolo teatrale. Questo passaggio però è avvenuto dopo un lungo periodo di pratica mimo; il training fisico invece, nella forma proposta da Grotowski, lo abbiamo abbandonato abbastanza presto. Ingemar ha incominciato da subito a lavorare con tutti gli esercizi nel gruppo utilizzandoli, non già come una tecnica sistematica, ma come proposte da seguire e sviluppare. Così il nostro training si è orientato soprattutto sull’ascolto e non è mai stato fine a se stesso, separato dal lavoro artistico o creativo, ma era già un percorso di creazione: non si faceva la distinzione tra il lavoro più tecnico e il lavoro creativo. Lavorando nel gruppo sul flusso di esercizi, sull’ascolto e sulla ritmo-dinamica, si sottoponevano gli esercizi ad un trattamento diverso rispetto al training fisico classico. Questo è stato il punto a partire dal quale, nella nostra ricerca sul lavoro per l’attore, abbiamo scoperto tanti altri tipi di training che abbiamo comunque continuato a dividere in training accademico ed empirico.
Tra le tecniche appartenenti al training accademico hai parlato di calligrafia, cosa intendi?
MAGDALENA PIETRUSKA Tutte le tecniche utilizzate servivano per acquisire una precisione non solo corporea ma soprattutto per esercitarsi nella precisione mentale tramite la pratica. La calligrafia è un vecchio esercizio dove scrivere la lettera è il risultato di un atto mentale, di uno sforzo di precisione per arrivare a scrivere il segno preciso e, in questo senso, è una forma di meditazione.
Una delle prime ricerche sul training libero, non codificato, è stata quella rivolta alla super-energia, cioè ad un flusso di energia che non viene manipolata al fine di ottenere un comportamento corporeo prestabilito. E’ una ricerca sui principi della spontaneità applicata alla situazione di ripetitività in cui è costretto a lavorare l’attore. Ne nacque un nuovo tipo di training che si chiamò dans-training cioè training di danza perché utilizzavamo la musica registrata. La musica rock, grazie ai suoi ritmi esplosivi, favoriva l’unico compito dell’esercizio che era quello di esplodere nello spazio nel modo più forte, più esteso possibile senza appoggiarsi a nessuna tecnica prestabilita. A quel punto subentra la tecnica organica che il corpo possiede e che utilizza per risolvere il problema di non ammazzarsi per questa esplosione… Un po’ scherzosamente Ingemar diceva che è il ‘principio della buccia di banana’ nel senso che se uno scivola sulla buccia di banana il corpo stesso cerca di salvare la vita; c’è una tecnica di sopravvivenza che il corpo ha e che l’organismo attiva quando agisce e che non ha bisogno di una forma precisa, la forma che ne esce è quella adeguata alla situazione.
Un altro tipo di training utilizzato è quello sull’isometria, quello derivante cioè dall’allenamento degli atleti negli anni cinquanta che sostituirono allo sforzo in movimento lo sforzo nell’immobilità. Il training isometrico consente di preservare l’intensità dell’azione nell’immobilità; anch’esso va verso l’allenamento della precisione mentale o, meglio, verso quella che noi chiamiamo intenzione per cui un’azione corporea si può arrestare nello spazio in qualsiasi momento ma deve continuare mentalmente. E’ un’equivalenza di quello che troviamo nelle arti marziali che utilizzano il non-movimento, la potenzialità di movimento che c’è nel corpo immobile.
ROGER ROLIN C’è stato poi il lavoro sull’alternanza, altro principio importantissimo per il lavoro dell’attore, che scongiura il pericolo della monotonia dell’azione. Tramite l’alternanza l’attore è costretto a sorprendersi e il corpo a ritrovare l’autenticità dei propri atti. L’alternanza consiste nella capacità dell’attore di entrare in qualunque momento nei propri materiali personali, interrompendone lo sviluppo premeditato, cambiando la dinamica della sua azione. Tramite il principio dell’alternanza ci si allena a sentire che l’azione e la reazione hanno la stessa qualità; non c’è una reazione all’esterno ma è la reazione interna all’attore ciò che provoca l’azione.
Magdalena Pietruska e Roger Rolin in To whom it may concern (foto di Stefano Lanzardo).
MAGDALENA PIETRUSKA E’ fondamentale per un attore il poter agire senza dover avere un motivo, senza una logica di causa-effetto che poi è una logica lineare. Il lavoro sull’alternanza è un allenamento per rompere questa linearità, questa ricerca di una consequenzialità che serve a spiegare la mia azione tramite quello che ho fatto prima. Il tentativo è quello di poter essere nel momento presente, con quello che sto facendo adesso, senza prevedere il mio passo successivo e senza utilizzare il mio passo precedente come causa di quello che sto facendo adesso. Bisogna ritrovare il tipo di meccanica che c’è nella vita dove si agisce adeguandosi alla situazione di adesso: io non so che il telefono squillerà tra un secondo e perciò adesso sto qui parlando, bevendo qualcosa o fumando, nel momento in cui squilla il telefono mi alzo e vado, cambiando subito il tipo della mia azione e di dinamica per adeguarmi a quel momento lì. Quando è terminata la telefonata non porto quella dinamica al tavolo per parlare con te ma siamo di nuovo in un’altra situazione. Nella vita si pensa che ci siano dei motivi esterni per cui accade qualcosa, il telefono che squilla è uno stimolo esterno e la mia è soltanto la reazione a questo stimolo; noi spieghiamo cosi le nostre reazioni, i nostri cambi di dinamica. Ma se osserviamo un bambino tutto questo è meno spiegabile: ad un certo punto lui cambia completamente la sua attività, si disinteressa da una cosa e va subito a farne un’altra, gratuitamente, senza motivo. In teatro non abbiamo nessun motivo per agire in un modo anziché in un altro, il motivo lo dobbiamo inventare e il rischio è quello che io conosca già l’evoluzione del mio spettacolo, so come finisce ecc.. Questo rappresenta un grosso pericolo per l’attore: non agire seguendo la meccanica della vita in cui capitano delle cose e l’azione si adegua ad esse, ma agire creandosi delle finte causalità che seguono una logica intellettuale, letteraria. A quel punto il teatro è caricatura: se devo fare Ofelia in Amleto comincio già dalla prima scena a fare quella che tra poco morirà ecc., secondo una logica che non appartiene alla vita in cui non sappiamo cosa ci succederà tra un secondo. E perciò l’allenamento sull’alternanza serve all’attore per disfarsi dell’abitudine intellettuale a spiegarsi le causalità e per avvicinarsi invece all’essere totalmente in quello che fa, creando un altro tipo di logica che è molto più complicata e che va in direzioni diverse, come è la logica della vita.
Il training che insegnate adesso agli allievi è detto "non codificato". In cosa consiste?
MAGDALENA PIETRUSKA L’allenamento non codificato, come nel caso del training di danza, è un allenamento molto libero. All’attore si dà soltanto il compito, molto impreciso, di usare per esempio la mano oppure la testa, oppure i piedi, cercando di ‘essere con’ quella parte del corpo e progettare il suo pensiero, il suo desiderio, la direzione mentale attraverso la mano. Si tratta di fare un lavoro che non è di tipo ginnico, ma la mano diventa il mezzo, il veicolo attraverso il quale io mi progetto nello spazio. Non c’è una forma necessaria che l’esercizio deve raggiungere; l’attore è libero di usare la mano, la testa nel modo in cui vuole, con la dinamica, con il ritmo che vuole. Così facendo si stimola subito il meccanismo creativo dell’attore; da subito io mi progetto nello spazio con il mio desiderio e non mi concentro su come fare l’esercizio. Abbiamo constatato che questo è il modo più veloce di accedere al processo creativo dell’attore.
Comunque, si può dire che tutti questi tipi di allenamento hanno seguito una linea molto precisIngemar aveva come maestro Decroux che ha condotto il suo lavoro verso una precisione corporea portata fino all’assurdo oltre la quale non è possibile andare. L’esigenza che molti uomini di teatro, ricercatori come Grotowski, hanno sentito era quella di trovare un allenamento per l’attore che consentisse di raggiungere la precisione corporea tramite la quale si può accedere alla precisione mentale. Tutto questo Ingemar l’aveva già fatto con Decroux. Quando ha incominciato a lavorare con noi, con i suoi attori dell’Institutet, l’interesse non era più posto sulla ricerca della precisione fisica ma su quella della precisione mentale, dall’inizio. E’ per questo che anche l’allenamento preso a prestito da altre realtà non era più trattato allo stesso modo di un training fisico ma si andava a cercare altra tipo di qualità: tutta la ricerca si è rivolta verso la precisione mentale che ha completamente cambiato il modo di lavorare dell’attore. Noi non inseguiamo la forma del corpo come riferimento fisico che può aiutare l’attore a riprendere un’azione fedelmente ma che diventa un modo per riempire una forma di un contenuto. Quello che abbiamo sperimentato con Ingemar era la ricerca di riprendere fedelmente l’atto mentale, l’intenzione, lasciando che il corpo si adegui ad esso; se io faccio l’atto, la forma corporea diventerà molto precisa e adeguata a quello che sto facendo. Ogni atto del nostro lavoro è contenuto e forma insieme.
Qual è il passaggio dal training codificato al lavoro sul materiale personale?
MAGDALENA PIETRUSKA Schematicamente si può dire che il training codificato era un mezzo per arrivare a capire i meccanismi della creazione artistica mentre il lavoro sul materiale personale è già un mezzo per creare e un mezzo di elaborazione artistica. Il motivo per cui abbiamo abbandonato gli esercizi del training codificato abbastanza in fretta era questo: il passaggio dalla comprensione di quei meccanismi alla loro messa in pratica non è così automatico. Quando si lavora con gli esercizi, cioè con azioni che non comportano un coinvolgimento psicologico o uno sforzo interpretativo, l’attore è libero dalla preoccupazione di cosa vuol dire, cosa significa quello che fa, si limita a lavorare sul senso dell’azione. Questo ‘disinteresse’ lo aiuta ad agire senza motivazioni, senza doversi preoccupare dell’interpretazione, mentre quando lavora su azioni che non sono semplici esercizi questa comprensione acquisita va perduta. Per questo abbiamo iniziato a lavorare su quello che si chiama materiale personale, su qualcosa cioè che non è più esercizio ma è un materiale che posso elaborare per andare verso lo spettacolo. Il nostro metodo è stato quello di trattare il materiale personale come gli esercizi, guardando la cosa creata, un gesto, il testo, il costume, la voce stessa come se fosse un esercizio fisico. Questo trasforma il lavoro sul materiale personale in un allenamento mentale a trattare tutto quello che riguarda la mia persona, comprese le mie aspirazioni artistiche, in modo più concreto. Ecco allora che devo variare, sviluppare, come farei con un esercizio. E’ già un passaggio verso la creazione artistica; in più c’è da dire che trattando gli esercizi fisici come materiale personale, abbiamo ridotto il passaggio tra l’uno e l’altro cercando di avvicinarli il più possibile. Da questa impostazione è nato l’allenamento che chiamiamo ‘non codificato’ e cioè non racchiudibile in una forma.
Grotowski era solito ripetere che la sua ricerca era cominciata lì dove si era arrestata quella di Stanislavskij, in un territorio ristretto e sottile ma di grande profondità: la zona in cui dentro il corpo, l’azione fisica è preceduta dall’impulso. Lavorare in questa zona significa muoversi nell’interfaccia fra il cosiddetto "fisico" e il cosiddetto "spirituale". Per far questo Grotowski concentrò la sua ricerca sull’impulso fisico-nervoso che precede l’azione. Gli studi di Ingemar si orientarono invece sull’aspetto mentale dell’azione, ponendo il focus della sua ricerca sull’impercettibile pausa che precede l’impulso fisico: in questo punto prese il via la ricerca sull’intenzione, uno dei principi base nel lavoro dell’attore, che diventerà l’impronta fondamentale della scuola dell’Institutet för Scenkonst. Come già abbiamo detto, a questo scopo Ingemar utilizzò l’enorme conoscenza tecnica del metodo di Decroux (di cui era stato in gioventù il maggior allievo) applicando all’azione in movimento gli esiti dello studio che il maestro francese aveva rivolto all’immobilità. Possiamo dire che il metodo elaborato da Ingemar sia in qualche modo una sintesi felice e innovativa tra gli esiti della ricerca di Grotowski da un lato e quella di Decroux dall’altro…
MAGDALENA PIETRUSKA Non si può parlare di sintesi però siccome Ingemar ha lavorato con Decroux ed ha conosciuto il lavoro di Grotowski lavorando come suo assistente è ovvio che tutto il lavoro sull’allenamento dell’attore è stato il punto di partenza di Ingemar. Poi ha sentito l’esigenza di continuare il suo lavoro con i suoi attori, l’Institutet è nato così, non si poteva ovviamente tornare indietro a quello che era già stato fatto. Come ti dicevo prima, la padronanza della fisicità, della precisione fisica era già stata raggiunta da Decroux e Ingemar ne aveva una conoscenza diretta acquisita nella pratica. La ricerca di Ingemar si è rivolta allora ad un attore improvvisatore, in un certo senso all’attore di cui parlava Stanislavskij negli ultimi scritti quando, giunto alla fine della sua vita, dice che sarebbe fantastico poter presentare agli attori un testo che nel giro di cinque minuti viene trasformato in spettacolo. E’ l’aspirazione a formare l’attore in modo che possa creare subito un risultato che vale. La ricerca della precisione corporea era mossa dal desiderio di poter agire organicamente, in modo naturale, sul palcoscenico come nella vita reale. Questo è il vero teatro d’attore: non fingere di fare ma fare una cosa adesso, essere qui. Per Ingemar era il passo più logico non tornare alla fisicità dell’attore, questo era già stato fatto e si poteva soltanto applicare. Ciò che lui ha cercato di raggiungere è quello che non era ancora stato fatto: lavorare direttamente sulla precisione mentale.
Arriviamo infine all’improvvisazione collettiva, vera punta di diamante dell’attività dell’Institutet för Scenkonst. La maggior parte dei gruppi che ha praticato questa tecnica l’ha interpretata come momento di massima libertà o di vago spontaneismo; ciò ha fatto sì che gli esperimenti non conducessero a risultati consistenti. Al contrario di quanto è avvenuto per il training o per il lavoro individuale in questo campo non si è mai giunti a codificare con rigore scientifico una metodologia di lavoro.
Scrive Magdalena: "…il lavoro del regista si concentra sull’accrescimento della capacità dell’attore di autogestirsi all’interno di una situazione sociale". In che modo siete giunti servirvi della situazione sociale come materiale di lavoro? Che cosa significa esattamente?
MAGDALENA PIETRUSKA Anche questa è una conseguenza di quello che ho detto. Ingemar si è posto come obiettivo di scoprire in quale modo tutto il training precedentemente codificato fosse servito all’attore per aprirsi all’improvvisazione che non significa fare qualsiasi cosa liberamente. L’improvvisazione richiede una preparazione lunga e adeguata dell’attore; creare una cosa nuova e dirigerla, tramite le variazioni, verso una composizione di gruppo richiede un lavoro di drammaturgia dell’attore e questo per il lavoro di gruppo non è mai stato fatto. Noi abbiamo dedicato all’improvvisazione collettiva molto tempo per capire i meccanismi che la muovono: è lì che è stato sviluppato il principio dell’alternanza. Tutto il percorso fatto in questo campo ha significato un passo avanti verso il teatro d’attore e non verso il teatro di regia. Grotowski, nel periodo che faceva spettacoli, faceva sempre teatro di regia; lui era il regista, l’attore tramite l’improvvisazione produceva i materiali dello spettacolo e però era sempre il regista a fare il montaggio. Ciò significa che l’opera finita era quella del regista. Ingemar voleva invece arrivare ad un attore in grado di gestirsi da sé, di fare il suo spettacolo; ciò non avviene soltanto perché l’attore consegna i materiali trovati al regista che li monta in forma di spettacolo, ma perché l’attore può elaborare i suoi materiali, creare lo spettacolo e ricrearlo ogni volta che vuole come durante un’improvvisazione. In questo senso il ruolo del regista cambia di qualità, non è più lui l’autore dell’opera ma solo un co-autore insieme all’attore. Ingemar, scherzando, diceva di aver trovato finalmente un modo di prendersi le vacanze… Questo non vuol dire che il regista non serve più: il dialogo con il regista è essenziale per un attore ma noi preferiamo considerare il regista un osservatore che parla con l’attore sullo stesso livello. Ciò permette di concepire lo spettacolo come processo su due livelli: dapprima c’è il percorso dell’attore che inizia nel suo lavoro personale e continua nello spettacolo; poi c’è lo spettacolo che a sua volta è un processo continuo perché ci sono gli altri, c’è il gruppo con cui si collabora e lo spettacolo si deve ripetere anche se è improvvisato. Ingemar pensava che lo spettacolo come improvvisazione è una condizione, un principio di lavoro utile all’attore per riprodurre la vita. Così lo spettacolo si apre all’elemento sconosciuto, a quello che può accadere senza che sia previsto, cosa che è esclusa negli spettacoli di regia, fatti proprio per escludere gli imprevisti.
La situazione sociale di cui mi chiedevi è tutto quello che sta nello spazio di lavoro, sul palcoscenico. La situazione collettiva in cui l’attore si muove è sempre variabile, non è mai fissata, porta un elemento di cambiamento, di alternanza tra le scene. Se il contesto cambia in continuazione, mi alleno a non avere paura dell’imprevisto, ad accettare lo sconosciuto come elemento di vita. Si può dire che anche il lavoro di gruppo è un tipo di allenamento per addomesticare la mia paura dello sconosciuto, è questo l’elemento principale per l’attore. Quando richiedo indicazioni precise dal mio regista lo faccio per paura di trovarmi davanti all’imprevisto, se io invece mi alleno a gestire una situazione variabile imparo ad agire e a reagire come attore nel modo adeguato a quello che succede adesso e non in modo premeditato secondo la logica imposta dalla letteratura o da un percorso prefissato. Esercito una ‘spontaneità allenata’ il che mi permette di reagire a cosa realmente succede e non all’idea, all’interpretazione di ciò che succede.
ROGER ROLIN Possiamo aggiungere che uno dei pericoli più grandi dell’improvvisazione collettiva è quello di rimanere vittima del significato della situazione. La modalità di lavorare di cui parla Magdalena è la capacità di stare con il senso del proprio lavoro, ciò permette un’anacronìa tra azioni diverse che si svolgono contemporaneamente e che hanno direzioni diverse ma che devono mantenere questa diversità per creare quella situazione di gruppo. Se tutti si adattassero al significato della situazione sociale sparirebbe questa qualità di lavoro.
MAGDALENA PIETRUSKA Qui interviene quella distinzione tra senso e significato individuata da Ingemar, dove il senso dell’atto compiuto dall’attore è una logica immanente alla sua azione ed appartiene quindi al presente. Mentre il significato è definito dalla situazione sociale e cambia con il variare del contesto. Il significato non appartiene al presente ma ad una lettura successiva del contesto. Per questo è fondamentale che un attore lavori in ogni momento sul senso dei propri atti che non deve necessariamente corrispondere al significato della situazione. Un atto, un gesto hanno un senso di per sé, successivamente acquistano quello che in francese è la significazione e che in italiano è tradotto significato. In seguito con l’aiuto del regista posso scegliere quale significato utilizzare per lo spettacolo, ma è una scelta a posteriori. Nel teatro tradizionale si lavora soprattutto sul significato: l’attore deve riempire di senso una situazione che ha già un significato chiaro. Nel nostro lavoro si parte dalla parte oppostl’attore lavora sul senso della sua azione che può avere diversi significati e da questo lavoro sceglie quale tenere. E’ ancora una volta la scelta di Ingemar di ricercare i meccanismi della vita, di ritrovare la realtà nel teatro e non la finzione. Io non posso sapere a priori i significati della mia azione, devo prima di tutto agire partendo dal senso, dalla mia direzione mentale, dalla dinamica utilizzata, dalla direzione del mio progetto mentale che è anche il mio sentimento. Devo prima di tutto essere nel presente, nell’azione concreta, solo dopo posso leggerne i significati.
C’è una frase bellissima di Ingemar che dice: "Nonostante che uno faccia qualcosa di diverso dagli altri, egli partecipa fatalmente a ciò che gli accade intorno e ne diventa parte. Attraverso i suoi atti concreti l’individuo è costantemente in rapporto con la società. Nel momento in cui prova a partecipare in generale, viene escluso". Nell’attenzione al particolare, all’atto concreto risiede il segreto dell’improvvisazione collettiva. Si tratta di un’apertura, di uno slargo percettivo dell’attore che è capace di ascolto verso ciò che lo circonda. Adesso egli è in grado di abbattere le barriere tra sé e gli altri, di trovare con loro un luogo di comunione reale.
Nel momento storico che stiamo attraversando in cui l’individuo è oppresso da modelli di individualismo sfrenato, da alienazione e incomunicabilità, nella violenza dei rapporti di forza sociali e nella sopraffazione globalizzata, qual è il potenziale sovversivo che scaturisce da un teatro che lavora sull’improvvisazione collettiva? quali i risvolti politici?
MAGDALENA PIETRUSKA C’è un meccanismo intellettuale per cui tentiamo di impadronirci del nostro futuro e così ne diventiamo prigionieri e restiamo paralizzati. Invece il futuro non appartiene a noi, il futuro lo creiamo adesso. Se invece stiamo con lo sguardo fisso sul nostro futuro facciamo degli errori fondamentali nell’oggi perché non diamo abbastanza peso ad essere ora, ad agire in modo adeguato adesso. Ciò produce un futuro che non è vivibile perché è un futuro pensato invece che essere libero da vivere quando diventerà il presente, libero di essere vissuto in ogni momento.
Il lavoro teatrale è un lavoro sul vivere insieme, è un lavoro estremamente pacifista, un lavoro sulla convivenza che è il contrario di quello che viviamo politicamente nella nostra società dove la convivenza è soltanto nominale ma non è reale. Appena succede qualcosa la interpretiamo come un pericolo al nostro territorio, alla nostra integrità e allora reagiamo con la manipolazione, con l’interpretazione che è sempre soggettiva e dettata da interessi miei poco chiari anche a noi stessi. Non voglio dire che si agisca in malafede ma c’è sempre un difendersi da qualche pericolo immaginario, questo provoca l’esclusione degli altri. Se invece riuscissimo a non interpretare ma a vedere cosa succede e agire adeguatamente si aprirebbe la possibilità di un futuro che si forma insieme agli altri, senza pregiudizi, nella tolleranza vera e non quella tolleranza perversa di cui parla Pasolini, quella che si concede a qualcuno reputato inferiore. La tolleranza è senza giudizio: non posso esercitarla in base al fatto che gli altri mi piacciano oppure no, se li amo oppure no, l’altro esiste e io non posso eliminare tutta l’umanità per la mia paura o per il mio interesse. Il punto è come convivere nel rispetto della diversità dell’altro; tutti noi siamo identità uniche e se cerchiamo di andare verso un futuro senza convivenza diventiamo la massa. Il nostro è un lavoro su cosa vuol dire convivere con gli altri, condividere la terra, siamo condannati a questo oppure dobbiamo fare delle stragi che eliminano tutti e non è una cosa pensabile anche se si fa nella società di oggi.
ROGER ROLIN Se uno desidera una società basata sul non antagonismo tra l’individuo e la collettività allora si può imparare molto dal nostro modo di lavorare. Se invece si desidera una società puramente individualista o puramente collettivista, che poi non può esistere perché sarebbe una società massificata, allora il nostro lavoro probabilmente dà soltanto l’angoscia.
INSTITUTET FÖR SCENKONST
L’Institutet för Scenkonst nasce a Storhögen (Svezia) nel 1971 ad opera del direttore artistico Ingemar Lindh (Göteborg 1945-Malta 1997).
Formatosi alla Scuola Teatrale di Skara, Lindh aveva collaborato inizialmente con il Teatro Comunale di Stoccolma per proseguire poi gli studi alla Scuola Statale di Danza. Trasferitosi a Parigi, dopo due anni di studio presso L’Ecole de Mime di Etienne Decroux, diventa l’assistente del Maestro fondatore del Mimo Corporeo; assieme a tre allievi di Decroux (Yves Le Breton, Maria Lexa, Giselle Pelisson) fonda lo Studio II ospitato poi a Holstebro (DK). Tornato in Svezia lavora a Stoccolma come pedagogo ospite presso Teaterstudion e come docente in carica presso la Facoltà di Mimo alla Scuola Statale di Danza.
Dopo aver fondato l’Institutet för Scenkonst con un gruppo di attori di diversa nazionalità, le ricerche di Lindh si concentrano sui principi dell’improvvisazione collettiva e sullo spettacolo inteso come processo in cui l’attore autonomo, in grado di autogestirsi è il maggiore responsabile dell’avvenimento teatrale.
Ingemar Lindh (foto di Stefano Lanzardo).
Per allenare il suo strumento, ovvero il corpo e la voce, l’attore dell’Institutet för Scenkonst si sottopone a un duro allenamento quotidiano suddiviso in due diverse tipologie di training: l’uno di tipo accademico, basato su tecniche codificate quale mimo, Kung-Fu, Tai-Chi, calligrafia, esercizi di educazione musicale; l’altro di tipo empirico che, partendo da esercizi fisici, acrobatici, plastici, biomeccanici lo conduce verso il lavoro personale secondo i principi individuati nella ricerca quali l’alternanza, l’isometria e l’intenzione.
Nel 1976 l’Institutet för Scenkonst lascia la sede svedese e intraprende un periodo di vita nomade lavorando in tutta Europa. La vocazione internazionale e il multilinguismo rappresentano una dimensione costante del gruppo che si pone come luogo d’accoglienza, d’incontro, di scambio tra artisti, aprendosi a contesti multidisciplinari e ospitando diverse formazioni internazionali con cui avvia progetti pedagogici e coproduzioni artistiche.
Basti per tutte ricordare la collaborazione di Ingemar Lindh con il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski a Wroclaw e con l’Odin Teatret a Holstebro, la partecipazione a vari sessioni dell’ISTA, le conferenze e i seminari presso Teatri e Università straniere, gli studi con gli scienziati del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Malta che nel 1995 lo portano ad assumere la direzione del programma di ricerca xHCA (questioning Human Creativity as Acting).
Dal 1984 al 1997 l’Institutet för Scenkonst si stabilisce in Italia presso il Teatro della Rosa a Pontremoli (MS) dove nasce il Centro Internazionale per l’Autopedagogia e la Ricerca Teatrale. Nel corso dei tredici anni di permanenza italiana, centinaia di allievi, provenienti da vari paesi d’Europa e del mondo, partecipano a "L’Università del Teatro". Il progetto pedagogico, articolato in sessioni trimestrali, mette gli attori di fronte a un metodo unico nel suo genere, capace di farli accedere autonomamente al proprio percorso creativo e di confrontarsi con la dimensione di gruppo e con la convivenza tra diverse culture.
Oggi l’Institutet för Scenkonst, diretto da Roger Rolin e Magdalena Pietruska, ha di nuovo sede in Svezia, a Nygard nei pressi di Göteborg, dove continua l’attività pedagogica e la produzione di spettacoli. Da gennaio Rolin e Pietruska sono in Italia in occasione di un progetto artistico a cura dei Teatri del Vento. Il progetto, dedicato all’opera di Pasolini, prevede la produzione di uno spettacolo con regia di Rolin-Pietruska dal titolo Tra verità, menzogna e desiderio che verrà presentato al termine di un percorso trimestrale con sei attori accomunati dalla precedente partecipazione a vari progetti pedagogici dell’Institutet för Scenkonst.
Tra verità, menzogna e desiderio
Spettacolo teatrale liberamente tratto dall’opera di Pier Paolo Pasolini
Con: Giuseppe Boy, Andrea Calbucci, Giovanni Delfino, Luca Gradella, Antonio Lanera,
Marcella Zindato
Regia di Magdalena Pietruska e Roger Rolin (Institutet för Scenkonst)
Debutto: Sarzana (SP), 21 aprile 2004 preceduto dalle anteprime del 19 e 20 aprile.
Seguirà una tournée in varie città italiane, da cui le date già definite sono:
Biella, Stalker Teatro, 30 aprile
La Spezia, Centro Dialma Ruggero, 3-4-5 Maggio: laboratorio per attori tenuto da
Rolin/Pietruska: "Essere del Fare"
La Spezia, Centro Dialma Ruggero - 7 maggio
La Spezia, Centro Dialma Ruggero, 8 Maggio: conferenza "La logica della Passione" di Rolin/Pietruska
Bologna, Tearo Ridotto, 11 maggio
Faenza, Teatro dei Due Mondi, 13 maggio
Urbino (Università degli Studi), 15 maggio
Cerbaia (Fi), Jack and Joe Theatre, laboratorio per attori tenuto da Rolin/Pietruska: "Essere del Fare" 28, 29, 30 maggio.
INSTITUTET FÖR SCENKONST
Munkängen
Tittas 108
460 11 Nygard – Sweden
Tel. +46 520 662155
institutetforscenkonst@hotmail.com
Per informazioni in Italia:
Tel. 335.5254769
teatridelvento@virgilio.it
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Le recensioni di "ateatro": 1918: Lezioni di teatro di Vsevolod Mejerchol'd a cura di Fausto Malcovati Ubulibri, Milano, 2004 di Anna Maria Monteverdi |
Il regista russo Vsevolod Mejerchol’d partiva dalla costruzione musicale dello spettacolo, dal suo ritmo interno e relativi intervalli, dall'analogia tra forma musicale e materiale drammaturgico, tra frasi sceniche e battute musicali e da una creazione all'insegna di un'identità ritmica scenico-attoriale dello spettacolo: «Il mio sogno è uno spettacolo provato sulla base di una musica e recitato senza, così che lo spettacolo e i suoi ritmi siano organizzati secondo le sue leggi, e ogni interprete le porti in sé». Nelle Lezioni del 1918, ovvero le lezioni stenografate da un allievo e curate nell’edizione originale da Oleg Fel’dman ora tradotte e curate in italiano per Ubulibri da Fausto Malcovati, Mejerchold mette in luce la differenza tra arte teatrale e arte scenica, una campo di azione del regista, l’altra dell’attore; se la responsabilità della scena è concentrata nell’unica volontà del regista che «deve sviluppare il più ampiamente possibile la propria musicalità» per dirigere come un direttore d’orchestra il concertato teatrale e garantire, in stretto legame con l’architetto-scenografo, «il rispetto per la legge fondamentale della messinscena: la solidità architettonica della forma drammatica nel suo complesso’, l’attore è il ‘creatore dell’attimo presente», colui che definisce la «partitura» dei propri personaggi. L’attore biomeccanico di Mejerchol’d è dunque il vero nucleo della scena, in un raddoppiamento plastico-cinetico: l'utopia della Gesamkunstswerk diventa una «sintesi organica» tra attore e spazio. Le lezioni introducono al luogo teatrale, alla storia del teatro (con ampie riflessioni sull’idea di regia secondo Gordon Craig), alla Commedia dell’arte e al teatro italiano del Settecento a cui Mejerchol’d era particolarmente legato: Gozzi soprattutto e lo spettacolo di piazza.
Ma le lezioni riguardano soprattutto il lavoro del regista, dai suoi rapporti con gli altri professionisti del teatro (lo scenografo soprattutto) agli aspetti tecnico organizzativi del teatro, dal lavoro sul testo alla rappresentazione grafica della struttura del testo, alla stesura del copione.
«Nell’arte teatrale vengono a confluire varie arti: quella del drammaturgo (arte della parola), quella del regista, quella del musicista e quella dell’attore. Fine e compito del teatro è quello di riunire in un tutto organico questi elementi, che tuttavia quando entrano nell’ambito del teatro, subiscono alcune modificazioni. Per esempio la musica (in teatro assume un significato diverso, subordinato, mentre in una sala da concerto è musica pura ) e la pittura (la pittura da cavalletto e la pittura teatrale sono due cose diverse; solo apparentemente il pittore in teatro fa la stessa cosa, in realtà usa tele molto più grandi e un’altra tecnica). Questo significa che si verifica una forma di adattamento dei vari artisti alle esigenze del palcoscenico, e ciò non vale solo per i musicisti e i pittori, ma anche per gli attori.
(...)
Vediamo che per ogni settore dell’arte teatrale esistono particolari leggi. Quali sono dunque queste leggi che regolano la vita del teatro...
La pittura ha a che fare con lo spazio, la musica esiste solo nel tempo. Gli elementi del teatro invece si collocano sempre nello spazio e nel tempo, e dobbiamo dire che proprio questa combinazione di elementi spaziali e temporali rappresenta la massima difficoltà dell’arte teatrale. La scienza contemporanea sta indagando con particolare attenzione il problema del rapporto tra spazio e tempo. Prima si pensava che si trattassero di due entità assolutamente differenti, che si potessero studiare separatamente e indipendentemente l’una dall’altra. La nuova teoria della relatività invece ci rivela che questa concezione è completamente sbagliata: essendo il teatro un’arte che, a differenza di tutte le altre agisce contemporaneamente nello spazio e nel tempo, la rivoluzione in corso nelle scienze fisico-matematiche lo pone in una condizione particolare. Se infatti l’attore, una volta entrato in scena, rimanesse immobile, sarebbe una contraddizione: cesserebbe di essere un attore e diventerebbe un elemento di un quadro vivente. Un quadro vivente ‘non vi pare un vero e proprio assurdo artistico... E’ assurdo già l’accostamento di queste due parole ‘quadro vivente’. Perché mai un quadro dovrebbe essere vivo e perché un essere vivente dovrebbe essere un quadro, quando tutto ciò che vive è in movimento’ Bisogna poi dire che l’attore, se vuole diventare uno degli elementi dell’arte teatrale, non può muoversi sul palcoscenico in modo arbitrario, ma deve obbedire alle leggi del movimento scenico.
Il teatro, agendo contemporaneamente nel tempo e nello spazio, è portato, accanto alla parola e al suono che dominano nella dimensione del tempo, a sottolineare l’importanza della gestualità che si realizza nello spazio. Si delineano così per il regista nuovi compiti, legati alla coreografia e alla musica».
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Debutta a Parigi uno straordinario Lepage: teatro in fuga dalla cornice The Busker's Opera da L'Opera da tre soldi a Creteil di Anna Maria Monteverdi |
Sarà la stretta collaborazione con Peter Gabriel (per il quale realizzò le scenografie del Secret World Tour nel 1993) e Laurie Anderson (che ha composto le musiche originali del suo spettacolo La face cachée de la lune, 2001), con il gruppo giapponese Dumb Type (che propone performance e installazioni di grande impatto visivo-tecnologico e che ha lavorato con Lepage per il "cabaret techno" Zulu time, 2000) o sarà la familiarità con i cantanti lirici (Lepage ha firmato la regia di numerose opere per il Teatro della Bastiglia e per il Festival di Tokyo) o con i contorsionisti e gli atleti del Cirque du Soleil, o con le sonorità sintetiche dei Granular Synthesis, ma The Busker's Opera prende davvero il meglio di tutti questi mondi dello spettacolo, non comunicanti tra loro solo a causa della settorializzazione del "mercato" artistico. Un'abbondanza di azione acrobatico-musicale o meccanico/spettacolare era presente nel Growing Up Tour (2003), in cui Lepage ha collaborato nuovamente con Gabriel: ampio dispendio di mezzi che "amplificavano" i gesti del musicista; si veda la sfera trasparente in cui era inserito, le strutture pneumatiche che comparivano dall’alto della scena. Una insolita spazialità era stata ampiamente sviluppata dallo stesso Lepage anche nel suo spettacolo Zulu Time, in cui oltre ad una azione verticale e radiocentrica della scena, inserì proiezioni ad alta definizione e macchine di luce (robot che irradiavano fasci luminosi ideati da Le procés) incastonate dentro una futuribile scenografia ad arco di trionfo.
The Busker's Opera, inaugurato in Canada (la struttura multidisciplinare che fa capo a Lepage, Ex Machina, ha il suo quartier generale a Québec city) e poi sbarcato in Europa a Maubege e poi a Creteil, alla Maison des Arts all'interno del Festival di arti elettroniche Exit, mette in campo l'abilità di "gioco" di Lepage che ironizza sui mass media e immaginario collegato, usando con grande disivoltura le tecnologie video della diretta e permettendosi anche un formidabile corto circuito tra musica e spettacolo teatrale vero e proprio. Inutile ricordare che Brecht aveva concepito L'opera da tre soldi con "ballate da leggere e da cantare" mentre il dramma doveva funzionare come antiopera (opposta al teatro "culinario", "gastronomico" borghese), un vero modello di teatro epico. Al posto dei cartelli aupicati da Brecht (un deciso passo verso quella che lui definiva la "letterarizzazione del teatro") Lepage usa un grande schermo al plasma telecomandato in grado di muoversi su guide poste in alto, per tutta la profondità e in tutta l'altezza del palco, libero da treppiedi o supporti a terra. Lo schermo nasconde al suo interno una telecamera e il dispositivo (occhio che riprende, schermo che diffonde) insegue i personaggi che all'istante vengono televisivizzati, incorniciati, diventando personaggi di una reality tv, ospiti di un talk show, attori di una soap, protagonisti di un video clip, o celebrità di uno show o di un galà musicale. Dà l'avvio alla storia il giovane artista di strada, percussionista di piatti, legnetti e latte di benzina.
La storia tra la giovane e virtuosa Polly (che nella sua stanzetta si esercita allo scratching disco) e il bandito Macheath (giubbetto di pelle e ciuffo e cantante alla Beach Boys) è una fiction dalle tinte forti ambientata sulla strada, mentre il signor Peachum e la signora Peachum (ovvero, l'uno il bravo presentatore "sanremese" e cantante easy listening e l'altra una specie di Ivana Trump ingioiellata che si esprime con vocalizzi alla Callas) interpretano uno sceneggiato in cui scoprono la figlia sedotta proprio sopra il piano da loro usato per gli intrattenimenti televisivi.
Un solo elemento scenografico caratterizza lo spettacolo, una cabina telefonica che letteralmente aprendosi, srotolandosi, può diventare (o contenere) qualunque luogo, da un interno domestico, ai locali a luci rosse, alla galera; proprio una scena metamorfica e fregolianamente trasformista e relativo procedimento a mano e a vista di rapido montaggio-smontaggio, caratterizza felicemente il suo teatro dai tempi di Le sept branches de la Riviére Ota (1993) a La face cachée de la lune (2001). L'orchestra che suona ben visibile in diretta, lascia ampio spazio di espressione "solo" agli straordinari musicisti-attori che incarnano le diverse personalità dell'opera brechtiana, riattualizzati e rivisitati con passaggi dal comico al lirico al tragico, e interpretati alla luce dei "generi" musicali che sembrano meglio incarnare la loro personalità: jazz, rock, ska, disco, melodico, rap, classica. La prostituta Jenny, suonatrice di sax, è spogliarellista in un peep show. Alla storia cantata si affianca musica Kletzmer, musica tradizionale balcanica, disco dance anni Ottanta in un vortice folle e incontrollato di azioni, musica e immagini Quando l'arte viene inglobata cannibalicamente dentro la cornice, insomma nel triturarifiuti dello show business, non c'è più scampo, tutto diventa un melting pot indistinguibile, degno di un Mac Donald, simbolo nello spettacolo, di una pericolosa - e indigeribile - uniformità di gusti. Unica salvezza per la libertà creativa, l'uscita dalla finzione spettacolar-televisiva che fa ritornare i protagonisti sulla strada. Come buskers.
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FFFFFF#000001 Rebel Art Festival a Berlino di Tatiana Bazzichelli |
E' stato un interessante punto di incontro, performance, presentazione di progetti e sperimentazioni varie che ha riunito molte persone della scena activista e hacktivista internazionale...un evento strettamente su questi temi a berlino non capitava da un po' ed è stata la prova che nonostante la crisi economica e gli effetti devastanti dell'euro, in questa città rimane sempre vivissima un'attitudine a recepire un certo tipo di proposte in maniera attiva... con conseguente partecipazione e interazione di molti e con crescente scambio e fluttuazione di esperienze. a berlino basta proporre qualcosa di interessante, e subito per il passa-parola gli spazi si riempiono e si aggiungono proposte alle proposte.
il primo aprile è stata la giornata di apertura, con alcune presentazioni presso il club der polnischen versager (il "club dei
polacchi falliti" :-), a cui è seguito l'"htiler kebab - karaoke & rock ‘n roll" e a questo, il "riot lounge" presso il kaffee burger, noto spazio di musica elettronica berlinese.
il club der polnischen versager è un interessante spazio in cui alcune stanze arredate come un semplice salotto casalingo con vecchi divani e poltrone e libreria, si uniscono a uno spazio di presentazione progetti con diverse apparecchiature tecniche a disposizione. locale molto piacevole e accogliente, in cui la gente può sicuramente "sentire lo spazio" perché le stanze non sono molto grandi e sembra di stare a casa propria.
il 2 aprile, sempre presso il club der polnischen versager, si sono susseguite diverse presentazioni.
alle 15.00 c'è stato il "subvertising workshop" organizzato da stefan [camp kleister - berlin] e il derive - umherschweufen workshop di claudia basrawi [psychogeographin gruppe, berlin].
dalle 17.00, la sottoscritta insieme a federico bucalossi [nothuman.net da firenze], sebastian luetgert [textz.com - berlin], tina lorenz del gruppo delle haecksen [ccc.de - berlin], e il gruppo di /www.noisiv.de.vu/ abbiamo presentato i nostri progetti. il seminario si chiamava "the future of electronic resistance: hacktivism and copyriot" [io ho parlato del progetto aha e mostrato un po' di contributi sulle telestreet e l'hacktivism tratti dal DVD-P2P Fightsharing realizzato da Candida TV e greenpepper magazine].
Poi abbiamo iniziato un discorso sull'hacktivism che è andato avanti oltre le 20.00. interessante anche se rapportato ai discorsi che sono circolati in questa mailing list recentemente: durante il dibattito a berlino ognuno di noi dava una definizione diversa di hacktivism. è stato molto piacevole constatare che, nonostante la medesima attitudine, in realtà l'approccio di chi fa hacktivism può essere molto diverso, senza buoni e cattivi e strette definizioni che non fanno altro che chiudere un percorso che per sua natura è fluttuante e in progress.
abbiamo poi parlato di copyright e copyriot, di telestreet e free tv, di propblemi legali nella diffusione libera di informazione in italia e all'estero. sebastian di textz.com ha parlato del problema legale che ha recentemente coinvolto textz.com in seguito alla denuncia per aver diffuso liberamente diverse pagine di un libro di adorno (http://www.textz.com/adorno/)
dalle 20, sempre presso il club der polnischen versager alexander brener e barbara schurz da berlino hanno fatto un reading decisamente d'impatto chiamato "texte gegen die kunst" (testo contro l'arte), un reading contro il festival stesso, che a loro parere non si avvicinava minimamente al reale concetto di ribellione. durante il festival si sono condensate numerose energie, positive e negative nei confronti del festival. per esempio, in torstrasse sono stati affissi posters con la stessa grafica dell'evento ma riportanti "fuck rebel:art festival" e altre scritte simili...dei veri e propri contro-posters realizzati da ignoti che riportavano al sito di un partito tedesco di destra, definendolo come il reale indirizzo web del festival!
dopo la performance, alexander brener e barbara schurz hanno raggiunto l'estremo portando delle uova e volendo tirarle addosso all'organizzatore... il quale ha pensato bene di defilarsi per un po'. i due hanno distribuito un volantino che riportava questo:
"Hey! Don't believe the fucking "rebel:art" magazine! It's just an ignorant fart of sloppy bastards!"
WEG MIT DEM PFUSCH! LONG LIVE REAL
!REBELLION!"
i due non hanno trovato il reale organizzatore, ma si è fatto avanti invece monty cantisn, entità che si materializza quando c'è l'opportunità di forzare i limiti delle situazioni paradossali.
e infatti alexander brener e barbara schurz, che erano ormai stati programmati per la loro radicale ribellione, hanno pensato che lui fosse il bersaglio che cercavano, reagendo tirandogli un uovo e schiaffeggiandolo... cosa che sembra aver divertito monty cantisn! [un po' meno forse i 2 avatar...]
[ qui un po' di info su brener http://en.wikipedia.org/wiki/Alexander_Brener ]
alle 22.00 sono arrivati altri monty cantisn, per dare vita alla perfomance "Neoism Now & Then!" [official players: Monty Cantsin (Georg Ladanyi, Sport, Florian Cramer), inofficial players: Stiletto (cop), Mario Mentrup (protester), Heinrich Dubel, absent player: Gordon W.] Una performance che ha veramente saputo unire l'idea di ribellione a quella dell'ironia, con conseguente taglio di capelli neoista per il pubblico. Tra l'altro a settembre o dicembre 2004, ci sara' a berlino The Neoist Apartment Festival "APT 04".
E' stato spettacolare vedere che dopo più di venti anni il neoismo è ancora vivo e ancora in grado di stupire un’audience non preparata ad essere "radicalmente ironica"...
l'ultimo giorno del festival ha previsto l'incontro sull'arte e attivismo presso la sede di Redesign Deutschland tenuto da mike riemel [mikea 5+] e tom büschemann [platoon - berlin] e diverse proiezioni video con contributi di ubermogen, 0100101110101101.org, the yes men.
negli spazi del platoon io insieme ad altre persone, ci siamo riuniti per l'hacktivism workshop che e' stata una piacevole chiacchierata sulla tematica, in un salotto improvvisato nella strada di fronte allo spazio platoon con tanto di poltrone e sedie! [appena ho un po' di tempo metto le foto nel sito di aha].
altro interessante evento la presentazione di Extremboutique Nagy / die guten Atmosphären del gruppo monochrom [wien].
Infine, il festival si e' concluso con ELECTRO RIOT LOUNGE electronic resistance, presso la Galerie ZURMOEBELFABRIK (con video, musica e relax)...
tutte le info si trovano su http://www.rebelart.net/f01.htm
e commenti probabilmente sul prossimo numero di rebel:art magazine http://www.rebelart.net/
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L'esperienza di "Progetto Teatro" Un contributo per il volume 1979-2003: Milano in scena per i 25 anni di "Invito a teatro" a cura di Paolo Bosisio di Oliviero Ponte di Pino |
E’ stato di recente pubblicato il volume 1979-2003:Milano in scena per il 25 anni di «Invito a teatro» a cura di Paolo Bosisio (Bulzoni, Roma, 2004, 374 pagine, 24,00 euro). Qui di seguito il contributo di Oliviero Ponte di Pino.
Era il 1984 e «Invito a teatro» cominciava a prendere la sua fisionomia, anche grazie alla collaborazione con i circoli aziendali coordinati da Acli, Arci e Endas (rispettivamente l’associazionismo cattolico, di sinistra e laico). La Provincia e i circoli avvertirono l’esigenza di offrire al pubblico uno strumento di informazione, orientamento e formazione, da realizzare in collaborazione con l’Ubulibri, dov’ero giovane di bottega.
Nacque così «Progetto Teatro», una rivista abbastanza povera e guerrigliera, che cercavo di assemblare sotto la guida di Franco Quadri, coinvolgendo collaboratori come Ettore Capriolo e Maria Grazia Gregori. Ne uscirono pochi numeri e fu presto dimenticata, ma la ricordo con una punta di nostalgia.
Il presupposto implicito, valido allora come oggi, è che chi usa «Invito a teatro» non è uno spettatore indifferenziato, di quelli che scelgono in base al grande nome e al battage pubblicitario, o che si affidano alla scelta precostituita dell’abbonamento di un singolo teatro. Piuttosto, chi usa «Invito a teatro» fa parte di un pubblico consapevole e curioso: ama il teatro nel suo complesso, lo frequenta abitualmente, e lo fa per i suoi valori estetici ma anche civili. Tuttavia non si orienta tanto in base a pregiudizi e presupposti ideologici o di gusto: è piuttosto incuriosito dalla capacità del teatro di esplorare zone di confine, di aprire nuovi territori, di dare forma a nuove identità e nuove differenze all’interno del corpo sociale. Cerca di seguire il percorso di uno artista stagione dopo stagione, e si diverte a scoprire qualcosa che non conosce.
L’esistenza di un pubblico con queste caratteristiche – e non di una semplice somma di spettatori – costituisce uno stimolo importantissimo e insostituibile anche per i teatri e le compagnie: orienta fasce più ampie di pubblico, e con la sua attenzione e il suo giudizio offre una importante sponda critica a chi lavora in teatro.
Per tornare a «Progetto Teatro» e al 1984, si trattava dunque in primo luogo di segnalare gli spettacoli in programmazione a Milano e Provincia, privilegiando la qualità dei lavori, con un pizzico di attenzione in più al nuovo. Non era ancora esplosa l’«eventizzazione» dello spettacolo e dunque il compito era abbastanza semplice. Basta pensare alle copertine di quei numeri: Carmelo Bene, Le tre sorelle di Krejca, un bozzetto di Dario Fo, Il potere della follia teatrale di Jan Fabre, Il piccolo Eyolf con la regia di Castri, Il vangelo di Oxyrhinco dell’Odin Teatret... Non appena possibile, con Franco Quadri cercavamo di costruire percorsi tematici che accomunassero diversi lavori, in base ovviamente alla programmazione cittadina: Manzoni tra l’Adelchi secondo Carmelo Bene e I promessi sposi rivisitati da Testori, oppure la coincidenza di numerose messinscene cechoviane, o ancora i primi sussulti della nuova comicità milanese.
Un secondo ambito di intervento riguardava la riflessione sul sistema teatrale metropolitano e sulla sua evoluzione. Per certi aspetti molti dei problemi affrontati hanno una lunga storia e restano di attualità, anche se ne discutiamo sempre meno: i «buchi» della stagione milanese, l’evoluzione dei festival, la nuova drammaturgia italiana, il rapporto tradizione-avanguardia...
«Progetto Teatro» non era dunque una rivista di recensioni (che all’epoca nei quotidiani e settimanali avevano ancora un certo spazio ma che stavano probabilmente iniziando a perdere il loro peso). Piuttosto, era una rivista di interviste e anticipazioni, anche se progettate con parametri diversi da quelli seguiti attualmente dai media. Soprattutto, attraverso approfondimenti o inchieste, cercavamo di inserire queste informazioni in un progetto che tenesse conto dello scenario complessivo.
Non so se per il pubblico di «Invito a teatro» tutto questo abbia avuto una qualche utilità, anche se la risposta è implicita nel destino della rivista, scomparsa dopo un paio di stagioni. Per me è stata tuttavia una palestra importante e utile: molti dei principi che seguivamo allora, continuo a rispettarli ancora adesso. Almeno, ci provo.
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Massimo Munaro ritratto ateatro Quattro frammenti di Orsola Sinisi |
L'esperimento procede.
ateatro presenta in anteprima quattro frammenti del ritratto ateatro di Massimo Munaro realizzato da Orsola Sinisi in occasione delle repliche dell'Inferno.
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Massimo Munaro 1
Massimo Munaro 2
Massimo Munaro 3
Massimo Munaro 4
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A teatro nelle case Rassegna di primavera, 3 aprile - 31 maggio 2004 di Teatro delle Ariette |
Il mondo si fa piccolo, piccolo. Si avvicinano i luoghi lontani, si avvicinano le lingue diverse. Un mondo, una casa. Si avvicinano passato, presente e futuro. Il passato vive nel presente, nei nostri libri, dischi, video. Così l’ottava edizione di questo piccolo progetto che trova ospitalità nelle case e in altri luoghi non teatrali della valle del Samoggia, nei comuni di Bazzano, Castello di Serravalle, Monteveglio, un territorio ancora rurale in provincia di Bologna (sulle prime colline), si apre al mondo. Apriamo le porte a esperienze che vengono da luoghi diversi, altre nazioni, altri continenti. Inaugura la rassegna "RISOTTO" fortunatissimo spettacolo di Fago-Beggiato, nato nel 1979 e arrivato fino a noi attraverso tournée internazionali in Francia, Germania, Spagna, Olanda, Brasile e Russia. Un vero risotto , fatto in scena da Beggiato. Poi festeggiamo la 300° replica del "TEATRO DA MANGIARE?" che ha portato il Teatro delle Ariette in giro per l’Europa, la festeggiamo proprio a casa nostra, per fortunata coincidenza, al nostro Deposito Attrezzi. Il 25 aprile, festa della Liberazione, Cesar Brie presenterà "SOLO GLI INGENUI MUOIONO D’AMORE". Cesar ha girato il mondo con i suoi spettacoli, è nato in Argentina e il suo gruppo ora, il Teatro de Los Andes, ha sede in Bolivia. Il 2 maggio Klezbàl in concerto ci porta la sua musica klezmer, una musica che viene da un altro tempo e da altri luoghi. 7,8,9 maggio arriva in continente Giancarlo Biffi - Cada Die Teatro dalla Sardegna per raccontarci la storia vera, dolorosamente e gioiosamente autobiografica di "LOS LOCOS DEL CALVARIO", storia dei ragazzi di strada di Managua. E per chiudere, dal 20 al 31 maggio, un evento cult che viene dall’Australia: Iraa Theatre presenta "THE SECRET ROOM - La stanza segreta": uno spettacolo per pochi spettatori, una casa, una cena, un’attrice, un segreto. 3-4 aprile Risotto Testo, drammaturgia e regia di Amedeo Fago con un saggio sull’arte del risotto di Fabrizio Beggiato con Amedeo Fago e Fabrizio Beggiato Risotto, ormai, può essere considerato un classico del teatro sperimentale italiano. Il successo che, dopo 25 anni dalla sua prima rappresentazione (1979, Teatro Politecnico, Roma), ha riscosso nelle numerose tappe della tournée internazionale che lo ha visto rappresentato in Francia, Svizzera, Brasile, Spagna, Germania e Russia ne è la prova. E’ uno spettacolo intimo, in cui i piccoli gesti hanno grande importanza, ed è fortemente autobiografico. Le tappe di una ventennale amicizia, nata sui banchi del liceo, vengono ripercorse durante il tempo reale di preparazione di un risotto. Rievocando un passato remoto e prossimo si discorre di barbieri e di dentisti, di matrimoni e di separazioni, di politica e di sedute dallo psicoanalista: cronache minime di fatti e di ideologie. E intanto il risotto cuoce e un po’ alla volta diventa simbolo di un rapporto di identificazione. Alla fine un colpo di scena, un rifiuto, una separazione...che restituisce al risotto la sua realtà e la sua dignità di pietanza squisita. sab 3-dom 4 ore 20,30 Deposito Attrezzi ingresso 15 euro prenotazione obbligatoria 051 6704373 12 aprile Teatro da mangiare? replica n° 300 di Paola Berselli, Stefano Pasquini con Paola Berselli, Maurizio Ferraresi, Stefano Pasquini organizzazione Claudio Ponzana TEATRO DELLE ARIETTE Teatro da mangiare? ha debuttato nel luglio del 2000 al Festival di Volterra. Nell’autunno del 2000 e nella primavera del 2001 l’abbiamo presentato al Deposito Attrezzi, a casa nostra. Poi nell’estate del 2001 è cominciata la tournée. Numerosi festival Santarcangelo dei teatri, Milano Oltre 90, Festival Letteratura di Mantova, Benevento Città Spettacolo, Berliner Festspiele, Le Vie dei Festival Roma, Inteatro Polverigi, Blickfelder Festival Zurigo solo per citarne alcuni. E tanti altri luoghi, rassegne e cartelloni. Piccole associazioni, grandi città, paesini sperduti. pizzerie, case, ville, teatri... Massimo Marino ha curato un libro a proposito di questo spettacolo, ne hanno scritto i giornali e parlato radio e TV. Nel 2001 la nomination a un premio speciale UBU. Insomma, questo piccolo e strano spettacolo è diventato grande, ci ha cambiato la vita. E dopo tanti errori di conteggio e un po’ per caso ci siamo accorti che l’ultima replica di Zurigo era la n° 299. Così abbiamo pensato di festeggiare la trecentesima replica a casa nostra, alle Ariette, nel Deposito Attrezzi dove lo spettacolo è nato. lun 12 ore 13 Deposito Attrezzi ingresso 20 euro prenotazione obbligatoria 051 6704373 25 aprile Festa della Liberazione Solo gli ingenui muoiono d’amore di e con Cesar Brie assistente alla regia Maria Teresa Dal Pero TEATRO DE LOS ANDES Un uomo veglia l’abito di un morto mentre attende i parenti e gli amici che arriveranno a dare l’ultimo commiato alla salma. L’uomo ricorda l’infanzia del morto, i suoi amici, sua madre e suo padre, la sua educazione sessuale, la sua iniziazione nella politica, le sue sventure d’amore, le sue ossessioni artistiche. Mentre ricorda, l’uomo si veste con l’abito del morto. Nessuno arriva. Verso la fine, l’uomo rivela la sua identità. E’ lui il morto, così solo, che deve vegliare se stesso. Carica il suo bagaglio di ricordi, d’amore, di idee, e si avvia verso il forno crematorio a ridurre in cenere e fumo le memorie della sua esistenza. dom 25 ore 21 Deposito Attrezzi ingresso 10 euro prenotazione obbligatoria 051 6704373 2 maggio Klezbàl in concerto Filippo Plancher voce Katja Garbin flauto, cymbalon
Gianluigi Paganelli basso tuba
Salvatore Sansone fisarmonica, mandolino
Enrico Sartori clarinetto
Noi facciamo musica popolare. La facciamo proprio, non solo la riproponiamo. Una volta c’erano i popoli che "costruivano" musica, cultura. Un singolo individuo componeva magari una canzone nei modi che conosceva e questa diventava "musica popolare". E i popoli avevano dei nomi che li definivano abbastanza nettamente. Un italiano poteva essere siciliano, toscano o friulano ma si capiva che era italiano. Oggi un italiano può essere di tutto, e tutto può essere un italiano. E questo ci piace. Abbiamo ascoltato tanta musica "popolare" (del sud e del norditalia, klezmer, balcanica, irlandese ecc. ecc.) e questa ci è entrata dentro. Oggi, come l’individuo di sopra, facciamo, con quello che abbiamo dentro, musica che vorremmo popolare. Se poi non lo diventa…….vabbè. Per noi lo è. dom 2 ore 21 Deposito Attrezzi ingresso 10 euro prenotazione obbligatoria 051 6704373 7-8-9 maggio Los locos del Calvario di e con Giancarlo Biffi regia di Mauro Mou, Silvestro Ziccardi CADA DIE TEATRO
Confuso, impaurito, tenta di rispondere a domande troppo grandi per lui, ed è proprio quando lo sforzo diventa quasi ridicolo che i ricordi affiorano e ci portano nel suo viaggio. Stretti a lui partiamo e andiamo ad incontrare i matti di Dio...Los locos del Calvario, i ragazzi di strada di Managua che ogni giorno, a strappi, morsi e sputi, cercano di prolungare ancora di qualche centimetro la propria corsa. Il Calvario è il nome di una chiesa che sorge presso il Mercado Oriental di quella città, praticamente il loro rifugio. Nulla di ciò che viene narrato è frutto di fantasia, tutto è spietatamente reale. Quei ragazzi di cui parlo esistono, hanno gli stessi nomi, gli stessi volti, la medesima gioia e l’identica disperazione raccontata, così come sono vicende realmente accadute quelle che si dipanano nello scorrere delle parole. Francisco, Chiara, i suoi compagni esistono non visti, non voluti, nelle stradine del Mercado Oriental, io li ho incontrati e non posso non parlarne. Sono obbligato a farlo. Giancarlo Biffi
ven 7 ore 21 La Faggiola
sab 8 ore 21 La Lodola
dom 9 ore 21 Casa Grasselli
ingresso 10 euro prenotazione obbligatoria 051 6704373 20-31 maggio The secret room (La stanza segreta)
ideazione e regia Renato Cuocolo
con Roberta Bosetti
traduzione Stefania Bertola
IRAA THEATRE
Questa storia viene da qualche parte profonda e oscura. Lo spettacolo è immaginato partendo dalla storia della protagonista, Roberta Bosetti, e si svolge sempre nella casa in cui in quel momento Roberta vive.
Lo spettatore bussa alla porta, la protagonista apre, non c’è mediazione tra i due (biglietteria, foyer), non c’è separazione di luoghi (platea, palcoscenico) è presente solo la relazione diretta tra i due, la possibilità di uno scambio, di un accordo. Della casa si utilizza l’ingresso, la sala da pranzo dove una cena sarà servita, e la stanza segreta. Questo è il luogo più intimo e più isolato dato che, come sappiamo bene, in ogni casa c’è una stanza segreta in cui ciò che dovrebbe rimanere celato è rivelato.
The secret room è stato presentato la prima volta nel giugno 2000 a Melbourne. Dal giorno della prima, stampa, televisione e radio hanno cominciato a descrivere The secret room come uno degli spettacoli più innovativi e importanti realizzati da una compagnia australiana. Lo spettacolo è stato visto in Australia, USA, Messico e Italia. Nel 2001 ha vinto i due maggiori premi del teatro australiano (Green Room Award e MO Award) come migliore spettacolo dell’anno e migliore spettacolo di innovazione.
Renato Cuocolo e Roberta Bosetti sono stati nominati dal 2001 al 2004 come miglior regista e migliore attrice nelle ultime quattro edizioni del Green Room Award.
da giov 20 a lun 31 ore 20,30 luogo segreto
ingresso 20 euro prenotazione obbligatoria 051 6704373
TEATRO DELLE ARIETTE - Deposito Attrezzi
Comuni di Bazzano, Castello di Serravalle, Monteveglio
Provincia di Bologna Invito in Provincia
Regione Emilia Romagna Assessorato Cultura
TEATRO DELLE ARIETTE
Via Rio Marzatore 2781
40050 Castello di Serravalle BO
tel e fax 051 6704373
info@teatrodelleariette.it www.teatrodelleariette.it
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La rassegna Punti di Fuga a Rovigo Teatro Poesia Musica Cinema marzo-giugno 2003 di Teatro del Lemming |
Nato tre anni fa sulle ceneri di uno dei più importanti ed innovativi eventi culturali realizzati in questi decenni sul nostro territorio, il Festival Opera Prima, Punti di Fuga si ripropone quest’anno in una versione rinnovata ed arricchita.
La Rassegna si propone infatti come un grande contenitore tematico, ispirato all’Inferno Dantesco, ed in particolare al ciclo delle Malebolge. Il programma riunisce su questo tema attorno al teatro il contributo di altre arti: la poesia, la musica, il cinema.
Punti di Fuga si snoderà quest’anno in due parti: la prima INFERNI si propone come una Rassegna teatrale primaverile rivolta al pubblico della città e delle Scuole Medie Superiori. Sarà l’occasione di vedere, o per alcuni di ri-vedere finalmente, alcuni fra gli artisti teatrali di punta della ricerca teatrale italiana altrimenti sempre più obliata in questa città.
A lato della Rassegna teatrale prenderà vita una breve rassegna filmica, in collaborazione con il Circolo del Cinema A. Doinel di Rovigo. Quattro film d’autore scelti, appunto sul tema della fraudolenza. Su questo tema è previsto un incontro finale con il critico cinematografico Goffredo Fofi.
La seconda parte della Rassegna – M A L E B O L G E - si svolgerà come un unico grande evento, una festa di poesia, teatro e musica, domenica 6 giugno 2004, nel Chiostro degli Olivetani a Rovigo. La giornata sarà realizzata in collaborazione con il Circolo di Poesia Il Ponte del Sale e con il Conservatorio "Venezze" di Rovigo.
In continuità con le prime due parti proposte nei precedenti anni, di cui sono stati pubblicati i contributi critici con la collaborazione dell’Istituto Magistrale di Rovigo, tredici fra i più importanti poeti italiani saranno chiamati a commentare i tredici canti delle Malebolge dell’Inferno Dantesco: dal diciottesimo al trentesimo canto. Accanto a loro tredici compositori italiani e numerosi artisti teatrali daranno vita, per un giorno, ad una festa culturale di interesse straordinario.
PUNTI DI FUGA eredita l’attività decennale del Festival Opera Prima: ne eredita lo spirito, la necessità, in questo luogo periferico del mondo, di proporsi come spazio aperto di contaminazioni fra teatro-poesia-cinema-musica, nella consapevolezza che il teatro oggi, sempre più luogo di incontro e di relazioni, si presenta come spazio di pratiche differenti e molteplici.
Teatro del Lemming
Punti di Fuga tre
Teatro Poesia Cinema Musica
INFERNI – TEATRO
Teatro Valdoca
NON-splendore Rock
Spazio Lemming, Giovedì 25 marzo, ore 10.00 (per le Scuole) e ore 21.00
TAM Teatro Musica
Da solo a molti
Spazio Lemming, Giovedì 8 aprile, ore 21.00
La Metamorfosi
Dannati
Spazio Lemming, Giovedì 15 aprile, ore 10.00 (per le Scuole) e ore 21.00
Teatro del Lemming
L’Inferno dei Ragazzi
Spazio Lemming, Giovedì 22 aprile, ore 10.00 (per le Scuole)
INFERNO – fino a diciassette
Spazio Lemming, Sabato 24 e Domenica 25 aprile, ore 21.00
Societas Raffaello Sanzio
Uovo di Bocca
Teatro Studio, Giovedì 29 aprile ore 21.00
INFERNI – CINEMA
Cinema Multisala Odeon
Martedì 23 marzo Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut
Martedì 30 marzo Ciprì e Maresco, Il ritorno di Cagliostro
Martedì 6 aprile Goran Paskalijevic, Come Harry divenne un albero
Martedì 13 aprile Jonathan Demme The truth about Charlie
23 aprile, ore 18.00, Sala Celio – Rovigo, incontro con Goffredo Fofi
Rovigo, Spazio Lemming 2/6 giugno 2004
Teatro del Lemming INFERNO – i trentaquattro canti
P r i m a N a z i o n a l e
MALEBOLGE: UNA FESTA
poesia, arte, musica e teatro
la bella scola
Chiostro degli Olivetani, Rovigo, 6 giugno 2004
dalle 10.00 alle 13.00, dalle 16.00 alle 24.00
Tredici all’Infinito
poeti/compositori/artisti teatrali e figurativi
sui tredici canti (XVIII-XXX) delle Malebolge di Dante Alighieri
Poeti Antonio Turolo - Alba Donati - Rosaria Lo Russo - Franco Loi - Umberto Fiori - Davide Rondoni - Riccardo Held - Giacomo Trinci - Alberto Cappi - Paolo Valesio - Pier Luigi Cappello - Claudio Lolli - Edoardo Sanguineti
Compositori Luca Mosca - Giorgio Pressato - Patrizia Montanaro - Paolo Tronco - Marino Caratello - Gabriella Zen - Riccardo Piacentini - Paolo Furlani - Massimo Contiero - Davide Tiso - Bianca Maria Furgeri - Claudio Ambrosini - Aurelio Carrelli
Opere figurative degli alunni del Liceo artistico di Rovigo
ensemble strumentale del Conservatorio di Rovigo
Letture di Dante e incursioni teatrali
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Sotto il segno di Leo a cura di Enzo Moscato di Mercadante Teatro Stabile di Napoli |
E’ firmata da Enzo Moscato – che con Mario Martone, Renato Carpentieri, Roberta Carlotto, è componente del Comitato Artistico dello Stabile napoletano che affianca la direzione di Ninni Cutaia – la manifestazione/omaggio per Leo de Berardinis, Sotto il segno di Leo. Un "saluto da Napoli" al grande protagonista della scena teatrale contemporanea, da qualche anno "costretto" al silenzio, che intende "ripercorrere con il cuore le tappe stupende di un’opera e di una ricerca estetica e pedagogica tra le più innovative del teatro italiano del novecento".
Si parte il 14 aprile, con repliche fino al 25, con lo spettacolo Il Mercante di Venezia, interpretato e diretto dal gruppo di attori storici di Leo de Berardinis: Elena Bucci, Stefano Randisi, Marco Sgrosso, Enzo Vetrano.
Lunedì 26 aprile, alle ore 17.00, Ridotto del Teatro Mercadante, Raccontare Leo: incontro con Franco Quadri, Claudio Meldolesi, Enrico Fiore.
Sempre il 26 aprile, alle ore 21.00, nella sala del Teatro Mercadante, il Teatro Laboratorio San Leonardo/Teatrosfera presenta Psicosi 4.48/Cantico di Sarah Kane, con Valentina Capone e la regia di Davide Iodice.
A seguire, alle 23.00 circa, Enzo Moscato presenta Partitura per Leo, un reading di testi liberamente tratti da Partitura, il testo di Enzo Moscato del 1987.
Sotto il segno di Leo
Il triadico tragitto di omaggi scenici, da me e dal comitato artistico del Mercadante pensato proprio per il nuovo Stabile di Napoli, non ha né vuole avere, l’intento museificato di una retrospettiva, né quello, rassegnato e tardivo, di una sterile celebrazione.
La "tragedia" di questo nostro grandissimo artista – quasi un enigmatico prolungamento nella vita del suo strenuo immaginare e tentare i demònici doppi, le forze metamorfiche, non sempre positive, che si sprigionano dalla frequentazione della Scena – è, colla sua attuale assenza dal Teatro Italiano, col suo interrogante silenzio, colla sua perturbante immobilità, sotto gli occhi sgomenti di noi tutti, per non richiedere, al massimo dei gradi, rispetto, discrezione, risparmio di retoriche parole.
Ma è altrettanto vero che non è possibile, né giusto, non ricordarlo, riportando ai sentimenti di quanti lo hanno amato e stimato, un pensiero luminoso che lo riguardi, un ripercorrere col cuore le tappe stupende di un’opera, un travaglio, una ricerca, estetica e pedagogica, tra le più potenti ed innovative della vita culturale italiana degli ultimi cinquant’anni.
Ed è questo – semplicemente questo – che vogliamo e proponiamo coll’intensa sequenza di omaggi in palco al Mercadante, tutti, per un verso o per l’altro, legati allo spirito e alla carne del fertile e paziente insegnamento di Leo de Berardinis. Nient’altro che un saluto, in fondo. Un augurio.
Un affettuoso dirgli, da lontano, da Napoli: "Non ti abbiamo dimenticato, Maestro. Ancora ti aspettiamo".
Enzo Moscato
Info: Tel. 081/551 03 36 - Botteghino Tel. 081/551 33 96
Sotto il segno di Leo
14 - 25 aprile 2004
Compagnia Diablogues - Le Belle Bandiere
Il Mercante di Venezia
di William Shakespeare
elaborato e diretto da
Elena Bucci, Stefano Randisi, Marco Sgrosso, Enzo Vetrano
luci Maurizio Viani,
costumi Ursula Patzak,
maschere Stefano Perocco di Meduna
Dopo Il berretto a sonagli di Pirandello e Anfitrione di Molière con Il Mercante di Venezia di Shakespeare i quattro registi/attori concludono la loro trilogia di "rilettura" di alcuni classici del teatro.
"Ancora una tragicommedia – scrivono gli autori – in cui si fondono farsa ed elegia, e dove si scontrano due universi paralleli le cui identità appaiono mutevoli."
Storia dalla trama fitta e complessa, dove le parole pesano e le frasi dei personaggi risuonano nell’aria, cariche di senso. Un testo che nella regia di Elena Bucci, Stefano Randisi, Marco Sgrosso e Enzo Vetrano è scavato e indagato con grande sapienza, libero di "agire" e invadere una scena nuda e astratta.
26 aprile ore 17.00
Ridotto del Teatro Mercadante
Raccontare Leo
incontro con Franco Quadri, Claudio Meldolesi, Enrico Fiore
26 aprile ore 21.00
Teatro Laboratorio San Leonardo/Teatrosfera
Psicosi 4.48 / Cantico
di Sarah Kane
traduzione Barbara Nativi
con Valentina Capone
disegno in scena Maria Pia Cinque
luci Maurizio Viani
regia, ideazione spazio scenico, colonna sonora Davide Iodice
Lunedì 26 aprile, dopo l’incontro con Franco Quadri, Claudio Meldolesi e Enrico Fiore, alle ore 21.00 nella sala del Mercadante il Teatro Laboratorio San Leonardo/Teatrosfera presenta Psicosi 4.48 / Cantico di Sarah Kane nella traduzione di Barbara Nativi, con Valentina Capone e la regia di Davide Iodice. Il monologo – rappresentato per la prima volta nell’ottobre del 2003 – si avvale dell’intervento della giovane artista visiva napoletana Maria Pia Cinque, che firma il disegno in scena, e delle luci di Maurizio Viani, storico collaboratore di Leo de Berardinis.
26 aprile ore 23.00
Partitura per Leo
reading – mise in espace liberamente tratti da Partitura (1987)
di e con Enzo Moscato
con la collaborazione di Tata Barbalato e Claudio Affinito
Se vuoi saperne di più leggi l'intervista di Oliviero Ponte di Pino a Leo De Berardinis.
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Il teatro sperimentale in tv su Cult Network dal 4 aprile di Cult Network |
Cult Network e DBW Produzioni
sono lieti di presentare
E IL VASCELLO VA…
Una serie di 8 documentari d’autore
sul teatro sperimentale e di ricerca
Una produzione originale Cult Network
Realizzata da DBW Produzioni
A cura di Paolo Brunatto e Stefano Rebechi
In Prima Visione ad aprile e maggio ogni domenica alle ore 21.00
solo su Cult
Cult Network – il canale culturale della TV satellitare, disponibile nel bouquet digitale PrimoSKY, canale 142, presenta E IL VASCELLO VA… un ciclo di 8 documentari di un’ora ciascuno che hanno come protagonista la scena teatrale contemporanea.
Questi documentari d’autore, firmati da Paolo Brunatto e Stefano Rebechi, costituiscono un viaggio nel mondo del teatro di ricerca, guidati da due personalità di eccezione: Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann, direttori artistici del Teatro Vascello di Roma, da anni territorio di esplorazione e di ricerca di nuovi linguaggi teatrali.
Dopo una lunga militanza nel teatro d’avanguardia, Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann fondano nel 1989 il Teatro Il Vascello, punto di riferimento, ancora oggi, di valore assoluto per l’incontro con i più importanti protagonisti nel campo della sperimentazione e dell’avanguardia.
Partendo da questa storica location, i documentari raccontano alcune produzioni di questo "teatro delle sorprese e delle riflessioni", sempre al centro delle vicende teatrali italiane ed europee. Tra le produzioni in cartellone nella stagione invernale 2003- 2004, Nanni e la Kustermann raccontano alcuni spettacoli di punta de Il Vascello.
TRAGICO ERRORE
Domenica 4 aprile alle ore 21.00
Liberamente tratto dalla tragedia Le Trachinie di Sofocle messa in scena da Giancarlo Nanni con Manuela Kustermann lo scorso autunno, è la storia di Deianira, che tenta di riconquistare l'amore di Ercole con un filtro d'amore, ed è raccontata da Brunatto come se fosse un giallo.
L'ASCENSORE E L'ALLORO
Domenica 11 aprile alle ore 21.00
Una giornata particolare di Valentino Zeichen (il poeta romano autore di Area di rigore, Ricreazione, Pagine di Gloria, Museo Interiore, Metafisica tascabile), durante la quale il regista Paolo Brunatto cerca di "trascinare" per le strade di Roma uno Zeichen riluttante, che dopo aver fatto colazione nella sua baracca, si ferma in una libreria, in un ristorante, in un bar, in una galleria d'arte, e cerca così di "sfuggire" ad un appuntamento con la gloria: una serata in suo onore che celebrerà la sua poesia, al teatro Il Vascello di Roma.
ARTEFATTI
Domenica 18 aprile alle ore 21.00
Comodamente seduti su un vecchio divano in vendita, quasi sommersi dalla folla dei frequentatori di Porta Portese, lo storico mercato dell’usato di Roma, Giancarlo Nanni, il fondatore de La Fede, il primo teatro di ricerca a Roma e Fabrizio Arcuri, il regista della compagnia Accademia degli Artefatti si raccontano.
Percorsi artistici e generazioni a confronto tra le storie che gli oggetti usati portano con sè e l’allestimento di un nuovo spettacolo.
LA MEMORIA DELLA MERAVIGLIA
Domenica 25 aprile alle ore 21.00
Ispirato a Tonine, spettacolo sperimentale di danza dei Sistemi Dinamici Altamente Instabili.
Le quattro imprevedibili danzatrici dei Sistemi Dinamici Altamente
Instabili si mettono in questione in prima persona, spingendosi fino alle
estreme conseguenze, per vedere dove l'esperienza del loro lavoro le ha condotte e come la ha "trasformate".
DAL PRESUNTO OMERO A SHAKESPEARE E RITORNO
Domenica 2 maggio alle ore 21.00
Diario filmato di un Romeo e Giulietta e un'Odissea insoliti, filmati e montati in parallelo da Paolo Brunatto. Alla gioiosa e spensierata rilettura del Romeo e Giulietta del regista russo Karpov si contrappone l’allestimento cupo, doloroso dell’Odissea del Teatro del Carretto, in un intreccio interessante tra teatro greco ed elisabettiano.
TRADIMENTO D'AMORE
Domenica 9 maggio alle ore 21.00
Un documentario che si ispira liberamente e "tradisce" lo spettacolo teatrale di Roberto Paci Dalò
"Sono una spia / Nella casa dell'amore / Conosco il sogno / Che stai facendo / Conosco la parola / Che desideri sentire / Conosco la tua più profonda e segreta paura…" Jim Morrison
Viaggio nel labirinto rarefatto e criptico dell'ultima opera teatrale di Roberto Paci Dalò: "Animalie", che si ispira al cinema di David Lynch.
IL PUDORE BENE IN VISTA
Domenica 16 maggio alle ore 21.00
La luce, il movimento e la percezione della realtà, sono i principali temi sviluppati negli ultimi dieci anni dalla compagnia teatrale Il Pudore Bene in Vista.
Durante un lungo viaggio in treno attraverso l’Italia, Fabrizio Crisafulli, regista e light designer della compagnia, sviluppa riflessioni e racconti intorno alla genesi di "Senti", l’ultimo, visionario, laboratorio-spettacolo del gruppo ed all’idea di un "teatro interiore". Una forma di teatro capace di svilupparsi proprio a partire dalla fantasia e dalla soggettività dello spettatore, liberandolo dalla passività del ruolo dell’ interprete.
EGUM MACHINE
Domenica 23 maggio alle ore 21.00
Virginio Liberti, attore e regista della compagnia Egum Teatro di Siena, si racconta come in un diario intimo, durante l’allestimento di Hamlet Machine di Heiner Müller, un viaggio senza alcun filtro mediatico o artistico nel dolore dello smarrimento, della disperazione di fronte alla morte.
Per maggiori informazioni può consultare sul sito www.cultnetworkitalia.com, nella sezione AreaCult, una demo del programma.
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Il programma della Biennale Teatro 2004 36. Festival Internazionale del Teatro. Direttore Massimo Castri. Venezia, 15 settembre > 2 ottobre 2004 di Ufficio Stampa Biennale Teatro |
Il progetto Biennale Teatro 2004 si sviluppa intorno ad un nucleo centrale: la drammaturgia italiana contemporanea.
Questo è il filo conduttore degli spettacoli, ma anche il tema per un’analisi che porti nuova consapevolezza al dibattito sul teatro, offrendo un’occasione per immaginare e progettare la scelta futura a partire dalla nuova drammaturgia e per affrontare in termini concreti il ‘problema’ della scrittura teatrale italiana nel corso del Novecento: un territorio continuamente e pericolosamente sospeso sull’afasia e insignificanza o l’imitazione ripetitiva di modelli stereotipi del novecento europeo. Il testo ed il linguaggio teatrale possono parlare ancora dell’oggi; per questo l’obbiettivo è quello di dare visibilità ai progetti di giovani autori e artisti che nell’ultimo decennio hanno riacceso l’interesse di critica e di pubblico, trovando finalmente spazio nei cartelloni dei nostri teatri.
Il progetto è strutturato in tre sezioni: la prima è dedicata ai ‘padri’ della drammaturgia contemporanea italiana: Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori. Pasolini è autore di una scrittura teatrale forte e coerente, personalissima ma ancora intimamente connessa con la struttura sociale, la sua analisi, la sua critica. Pasolini può essere un riferimento per la sua condizione di anomalia nel vuoto della scrittura teatrale italiana post-pirandelliana, per la sua offerta di un deposito di scrittura teatrale d’oggi, circoscritto ma estremamente denso: un patrimonio quasi unico, un’isola di scrittura che deve essere ancora studiata e decifrata. Giovanni Testori è l’autore delle sperimentazioni linguistiche, stilistiche e tematiche; a lui si deve l’invenzione di una vera lingua poetica che ha dato voce e forza ai drammatici conflitti interiori tra ‘spirito e corpo’, ‘amore e male’, ‘vita e morte’ e affrontato gli eventi politici e sociali con sorprendente lucidità analitica.
In questa sezione verranno presentati l’Orestea di Eschilo nella straordinaria traduzione di Pasolini, Bestia da stile, dello stesso autore, e La monaca di Monza di Testori.
La seconda sezione si concentra sull’oggi, coniugando testi italiani recenti con nuovi sistemi e forme teatrali. I modelli di struttura e di linguaggio sono plurimi intendendo dare una visione più ampia della situazione della scrittura italiana contemporanea, e spaziano dalla scrittura ‘dell’oggi’ di Letizia Russo, al lavoro sulla memoria storica di Celestini, alla drammaturgia che nasce direttamente dal lavoro con l’attore di Emma Dante. Completa il progetto una sezione dedicata alla drammaturgia europea contemporanea, allo scopo di attivare una dialettica di confronto con il lavoro di giovani drammaturghi provenienti da civiltà più strutturate, in cui il valore della scrittura teatrale e il suo potere di farsi interprete della società non hanno conosciuto soluzione di continuità.
Giovani autori, scrittura dell’oggi e giovani registi a cui offrire un’occasione di lavoro e di ‘emersione’ in un contesto teatrale italiano spesso sordo alla necessità del ricambio e dell’invenzione di nuove leve artistiche.
Gli spettacoli nasceranno alla Biennale nella "cornice" veneziana ma essendo collegati a momenti produttivi esterni avranno poi una vita più lunga nei circuiti e nel tessuto distributivo.
Massimo Castri
15 settembre - Teatro alle Tese – ore 20.00
16 settembre - Teatro alle Tese – ore 21.00
La monaca di Monza prima assoluta
di Giovanni Testori
regia Elio De Capitani
scene e costumi Carlo Sala
luci Nando Frigerio
con Lucilla Morlacchi, Marco Baliani, Cristina Crippa, Corinna Agustoni, Anna Coppola, Andrea Facciocchi, Laura Ferrari
produzione Teatridithalia, Teatro Metastasio Stabile della Toscana, La Biennale di Venezia
con il contributo della Regione Lombardia, Culture, Identità e Autonomie della Lombardia per le celebrazioni per il decennale della morte di Giovanni Testori
È un progetto che Lucilla Morlacchi accarezzava ormai da tempo quello di interpretare la Monaca di Monza, un testo del 1967 portato per la prima volta in scena da Luchino Visconti con la compagnia Brignone-Fortunato-Fantoni.
Ora, grazie agli sforzi congiunti di Teatridithalia e del Teatro Metastasio Stabile della Toscana, con la complicità di Elio De Capitani alla regia e di Marco Baliani che la affianca come interprete, il progetto è finalmente giunto a maturazione.
L’incontro tra De Capitani e la Morlacchi risale al 1990 in occasione dell’allestimento della Sposa di Messina di Schiller per le Orestiadi di Gibellina. A questo è seguita l’esperienza dei Turcs tal Friul, prodotto alla Biennale di Venezia nel 1995 e ripreso con successo a Milano e Roma. Se allora avevano affrontato un inedito di Pasolini, non facile per lingua (interamente scritto in friulano) stile e contenuti, oggi si apprestano a una nuova sfida con questo lavoro di Testori che al suo esordio aveva suscitato molte polemiche.
“Non è un caso – ha sottolineato Oliviero Ponte di Pino in un articolo sui più recenti spettacoli testoriani – che oggi si continui a lavorare su Pasolini e Testori che non furono solo e tanto drammaturghi di professione, ma artisti e intellettuali impegnati su vari fronti, compreso quello teatrale. Un’altra convergenza: nel fatidico ’68 Pasolini e Testori sentono la necessità di reagire alla situazione del teatro italiano, con due prese di posizione assai nette: il primo con il Manifesto per un nuovo teatro (su "Nuovi argomenti"), il secondo con Il ventre del teatro (su "Paragone"), in polemica contro il teatro di regia e la sperimentazione, a favore di una riscoperta del valore poetico della parola teatrale e del valore rituale dell’evento teatrale.”
Testori guarda al personaggio manzoniano della Monaca di Monza, indimenticabile figura femminile, e tramite la “sventurata” rielabora un tema che, da Dante al Novecento, ha segnato la storia della nostra letteratura, quello della fanciulla malmonacata: "è un frammento doloroso ed emblematico della storia delle donne l'origine di una galleria di creature fantastiche, sospese tra rinuncia alla vita e disobbedienza alla regola, tra rassegnazione e anelito disperato verso una forma di 'salvezza'. Salvarsi dalla sepoltura in un chiostro, unica dimensione immaginabile per donne senza dote, vedove, deformi o sole, equivale spesso a uno slancio eretico” (Il topos della malmonacata nella letteratura italiana, tesi di Silvia Filippelli).
L’autore ripercorre la vita di Marianna de Leyva (questo è il nome storico della famosa monaca di Monza) facendola riemergere dalla tomba. È lei stessa a richiamare sulla scena a uno a uno gli spettri ormai fetidi e consunti di chi le è vissuto accanto: “Ma adesso siamo qui, incorporati tutti in questo branco di polvere, legati e sciolti in questo intrigo di bestemmie sfiatate e di cupidigie spente…”
Tutti sono peccatori, corruttori, corrotti o falsi bigotti: i genitori che odiandosi reciprocamente l’hanno messa al mondo non voluta, il padre che l’ha derubata dell’eredità e costretta in convento, il prete laido e sconsacrato che l’ha spinta subdolamente verso Gian Paolo Osio, la madre superiora interessata unicamente al buon nome del convento e l’amante posseduto dalla passione come dalla tentazione del sangue e dell’omicidio.
Sono affrontati temi chiave dell’esistenza dell’uomo in ogni epoca, cari all’autore dai primi testi fino agli ultimi della sua produzione: l’urlo di rabbia contro la nascita e la morte, lo scandalo del peccato, la bestemmia vissuta come una sfida e dialogo con il creatore, la potenza della parola in senso esistenziale, teatrale e metateatrale.
Lucilla Morlacchi, che conobbe Testori lavorando nell’Arialda diretta da Visconti (1960), e in seguito nei Promessi sposi alla prova diretti da Andrée Ruth Shammah (1984), su Hystrio di alcuni mesi fa lamentava che “la cultura provinciale che domina il nostro paese non approfondisca l’opera testoriana come dovrebbe. Mentre il pubblico ne resta assolutamente affascinato”.
In occasione del decennale della morte di Testori, molte sono state le riprese e i nuovi allestimenti che hanno in parte riequilibrato questa situazione.
Manca ora che ritorni sulle scene questo testo ingiustamente poco rappresentato.
Elio De Capitani, regista, attore, autore, ha legato il suo nome a quello del Teatro dell’Elfo entrandone a far parte non ancora ventenne nel 1973. Nei primi dieci anni di storia dell’Elfo è stato protagonista in oltre una dozzina di spettacoli diretti da Gabriele Salvatores, tra i quali Pinocchio Bazaar, Satyricon, Sogno di una notte d’estate.
E’ del 1982 la sua prima regia: l’esperimento radicale di una personalissima versione italiana iperrealistica di Nemico di classe di Nigel Williams che scuote la scena italiana allora assai ostile agli autori contemporanei. Allo spettacolo partecipa un gruppo di giovanissimi attori messi insieme dopo un anno di provini: tra questi Paolo Rossi, Claudio Bisio e Antonio Catania, il nucleo dei futuri “comedians”.
Nell’estate del 1983, l’Elfo nomina De Capitani regista stabile del teatro. Ha inizio il lungo rapporto con Ferdinando Bruni, Ida Marinelli e Cristina Crippa, protagonisti di tutti i successivi lavori di De Capitani all’Elfo, assieme agli altri attori del nucleo storico, Corinna Agustoni e Luca Toracca. La nuova direzione del teatro rivoluziona stile e repertorio, inaugurando una linea di estrema attenzione alla drammaturgia contemporanea. Visi noti, sentimenti confusi, il primo Botho Strauss messo in scena in Italia assieme al primo Fugard italiano, L’isola, valgono a De Capitani e all’Elfo il Premio UBU 1984 per la drammaturgia contemporanea.
Nella stagione ‘92/’93 l’Elfo si associa al Teatro di Porta Romana dando vita ad un organismo unico denominato Teatridithalia. De Capitani, di nuovo alla regia insieme a Ferdinando Bruni, porta in Italia la pièce di un giovane autore canadese, Brad Fraser: Resti umani non identificati e la vera natura dell’amore, che suscita non poco clamore per la scabrosità dei temi trattati e per la crudezza del linguaggio fino a diventare spettacolo cult. A distanza di sette anni De Capitani torna a Shakespeare con Amleto (stagione ’94/’95). Nel marzo 1995 De Capitani mette in scena il suo primo Koltés, Roberto Zucco, e nel giugno dello stesso anno, alla Biennale di Venezia, il suo primo incontro con Pasolini: I Turcs tal Friul, primo testo teatrale dell’autore scritto nel friulano materno di Casarsa, protagonista Lucilla Morlacchi e una compagnia di quaranta attori friulani. Spettacolo vincitore del Biglietto d’Oro per il Teatro 1996.
Nell’aprile ’98 mette in scena La morte e la fanciulla di Ariel Dorfmann.
Nel maggio del ‘99 affronta autori contemporanei italiani con Tango americano di Rocco D’Onghia e La nuova gioventù, firmato a quattro mani con Francesco Frongia, una nuova incursione nel mondo friulano dopo I Turcs tal Friul.
Torna nuovamente a Pasolini scegliendo la sua traduzione dal greco per l’allestimento dell’Orestea di Eschilo, un progetto di respiro triennale che coinvolge gli attori storici della compagnia dell’Elfo e un nutrito gruppo di giovani attrici/cantanti: una vera sfida produttiva e registica.
Nella stagione ‘99/2000 firma inoltre, con Ferdinando Bruni, la regia di Edoardo II di Christopher Marlowe, ripreso anche nel gennaio 2001 con un notevole successo di pubblico.
Per la Fenice di Venezia firma nel gennaio del 2001 la regia del Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi, ripreso per una tournée in Giappone nel mese di giugno.
Gli ultimi titoli allestiti sono stati: Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo, firmato in coppia con Ferdinando Bruni, che ha debuttato nel dicembre del 2002 e viene quest’anno riproposto in una lunga tournée che si concluderà al Teatro Argentina di Roma; Polaroid molto esplicite dell’inglese Mark Ravenhill, testo inedito in Italia, e il Mercante di Venezia di Shakespeare, realizzato per l’Estate Teatrale Veronese nel luglio 2003.
16 > 20 settembre 2004
Tese delle Vergini, Teatro Piccolo Arsenale, Teatro alle Tese
Orestea di Gibellina
Da anni le Orestiadi di Gibellina volevano riproporre al teatro le domande che dall’antichità classica lo spettatore gli rivolge: domande sul futuro e sul presente, sulla propria comunità e su quanti da fuori vi guardano. E’ nata così questa nuova Orestea, che guarda a Eschilo da questo terzo millennio in cui tutto appare precipitosamente cambiato. Da qui la decisione di chiamare tre registi diversi (per sesso, nazionalità, cultura e formazione), tutti sotto la soglia dei quarant’anni, cui affidare la realizzazione delle tre parti della trilogia. Ad essi la Fondazione Orestiadi ha suggerito solo due chiavi di lettura, strettamente legate tra loro: la prospettiva dell’Africa, che poche miglia dividono dalle coste siciliane con tutte le cronache di dolore di questi anni ma anche di felice integrazione, e il lavoro poetico di Pier Paolo Pasolini, che non solo tradusse Orestea nel 1960 per Vittorio Gassman, ma trovò proprio nell’Africa il luogo di contatto tra il mito e noi, come dimostrano i suoi film, in particolare quel saggio poetico che sono gli Appunti per un’Orestiade africana.
Il primo episodio di questa nuova Orestea è stato realizzato nell’estate 2003 a Gibellina da Rodrigo García. Fedelissimo nello spirito alle chiavi di lettura affidategli, il lavoro dell’artista ispanoargentino ha sconvolto chi l’ha visto, per la violenza e la poesia con cui ha affrontato le tematiche del potere e della sua legittimazione, della spartizione delle risorse, della giustizia e delle responsabilità.
Proprio grazie all’invito della Biennale Teatro diretta da Massimo Castri, quest’anno sono state realizzate e debutteranno per la prima volta a Venezia, gli altri due episodi della trilogia.
Monica Conti si avvale di altri linguaggi (come il canto e la musica) per affrontare il “lato femminile” della tragedia, quelle Coefore che sono il luogo di transito obbligato tra un “passato che non passa” e un futuro che resta oscuro e quasi impossibile da razionalizzare. Caden Manson e il suo Big Art Group statunitense si affacciano invece sulla dimensione futura di Eumenidi, usando il progresso della tecnologia come strumento di interpretazione e progettazione del nuovo. I linguaggi, ma perfino il colore e il suono di ogni episodio, saranno così molto diversi tra loro, ma proprio per questo potranno dare più suggestioni e possibilità di comprensione a quelli che restano i grandi e più rischiosi interrogativi della convivenza umana.
L’Orestea di Eschilo è stato il momento costitutivo di tutte le attività delle Orestiadi di Gibellina, la cui Fondazione ne ha preso, non a caso, il nome. E’ stata infatti la trilogia di Eschilo ad avviare, agli inizi degli anni ottanta, il teatro sui ruderi della città vecchia quindici anni dopo il terribile terremoto che nel 1968 l’aveva distrutta completamente. Il Cretto, il grande sudario bianco di cemento ideato da Alberto Burri, era allora solo un progetto che si avviava a espandersi, ma con la traduzione contemporanea e in siciliano di Emilio Isgrò, e con la regia di Filippo Crivelli e le spettacolose sculture sceniche di Arnaldo Pomodoro, nacquero Agamennuni, Cuefuri e Villa Eumenidi. L’antica trilogia che per la prima volta in occidente aveva mostrato e ratificato il potere dei cittadini di Atene chiamati a giudicare Oreste, amplificava ora la domanda di Gibellina e dei suoi abitanti di una fondazione nuova e di una nuova convivenza tra cittadini.
Poi a Gibellina (sui ruderi della vecchia e negli spazi di quella nuova ricostruita a venti chilometri in una sorta di concorso ideale e generoso tra i più diversi e prestigiosi artisti e architetti) il teatro si è fatto tradizione, quasi necessità. Negli anni sono passati da lì i più grandi artisti della scena italiana e internazionale. Peter Stein vi ha portato la sua Orestea preparata in russo a Mosca negli anni della Perestrojka gorbacioviana. E quella domanda di teatro continua ancora, riproponendo ancora i nostri quesiti alla trilogia più antica, l’Orestea di Eschilo.
16 settembre - Tese delle Vergini - ore 19.30
17 settembre - Tese delle Vergini - ore 21.00
Agamennone, sono tornato dal supermercato e ho preso a legnate mio figlio
testo e regia Rodrigo García
con Rubén Amettlie, Nico Baixas, Gonzalo Cunill, Anne Maud Meyer, Juan Navarro
musiche dal vivo Standstill
coreografie Elena Córdoba
luci Carlos Marquerie
video Javier Marquerie
animazione computer graphic Ramón Diago
assistente alla regia Mireia Andreu
costumi Galiana
produzione Mercadante Teatro Stabile di Napoli,
Fondazione Orestiadi di Gibellina, La Carniceria Teatro
La tragedia Agamennone è per noi il punto di partenza per parlare di determinati temi di attualità; non intendiamo illustrare l’opera né raccontarne ancora una volta la vicenda.
Con questo Agamennone proseguiamo sulla nostra consueta linea di lavoro: un teatro che metta in guardia dalle conseguenze del consumismo, di un mondo globalizzato in mano a poche multinazionali e soprattutto dal progetto di un nuovo ordinamento mondiale in cui un paese, con la forza delle armi e del denaro, ha più potere del resto del mondo. Il nostro Agamennone parla di guerra e di cibo. Un banchetto di polli allo spiedo che offriremo al pubblico alla fine dello spettacolo, se vorrà dividerlo con noi.
Polli allo spiedo come turisti rosolati sulle spiagge del Terzo Mondo. Polli allo spiedo come alimento che non arriva al Terzo Mondo. Polli allo spiedo nelle loro casse da portare a casa, come cadaveri di soldati rimpatriati.
In questa opera, Hillary può essere Clitennestra. Bill Clinton può essere Agamennone. E Monica Lewinsky una stupenda Cassandra. E Bin Laden potrebbe essere Egisto. E i figli di Saddam potrebbero essere Ifigenia. E Agamennone potrebbe essere Berlusconi. E Canale 5 può essere Cassandra. E Dodi Al Fayed potrebbe essere Egisto. E Lady D potrebbe essere Clitennestra. Il Principe Carlo potrebbe essere Agamennone.
Il fatto è che la tragedia è nel e del mondo industrializzato. La tragedia, ora più che mai, è nel primo mondo. La tragedia siamo noi.
La tragedia si compone di otto atti: e ciascun atto porta il nome di uno dei paesi più ricchi del mondo. Se la tragedia, e solo la tragedia, è nel mondo civilizzato, dove bisogna cercare la speranza? La speranza può trovarsi in qualsiasi angolo della terra, ma non verrà mai scoperta. Perché per scoprire la speranza, ci vogliono soldi e volontà. E coloro che possiedono il denaro preferiscono che la speranza di una giustizia globale rimanga lì dov’è, sepolta in fondo da qualche parte.
Rodrigo García
Per chi ha già visto After Sun, Ronald pagliaccio del Mc Donald, Credo che non hai capito bene, la visone di Agamennone/Sono tornato dal supermercato e ho preso a legnate mio figlio sembrerà un punto conclusivo dell’indagine che Rodrigo percorre da tempo sulla scena. Ma anche chi non ha visto i precedenti, troverà una visione avanzata e molto concreta di cosa possa oggi essere il teatro, della sua capacità ancora inesausta di parlare del mondo senza sottomissione, dell’uso della ragione che sfida le abbuffate ideologiche e quelle gastrointestinali in cui ci troviamo a dimenarci.
L’Agamennone sembra a prima vista parlare d’altro rispetto al testo classico, anche se in modo così scoppiettante da risultare irresistibile.
L’Agamennone ci permette di scoprire insieme al García regista e creatore di contesti scenici, un complesso e solido scrittore di drammaturgia, e il visionario artista visivo fratello dei più avanzati innovatori.
Gianfranco Capitta
Nato a Buenos Aires nel 1964, Rodrigo García dal 1986 vive e lavora a Madrid, dove nel 1989 ha fondato la compagnia La Carniceria Teatro, che ha realizzato numerosi spettacoli seguendo la linea della sperimentazione e della ricerca di un linguaggio personale. Allontanandosi dal teatro tradizionale,
García è stato influenzato in un primo tempo da Beckett, Pinter, Bernhard e da romanzieri come Cèline e Peter Handke. Oggi, sia nei testi, sia negli spazi da lui creati, è possibile rilevare un’affinità con il lavoro di artisti plastici come Bruce Nauman, Bill Viola o Sol Lewitt. La sua scrittura si ispira al quotidiano, è un prolungamento della realtà reso più intenso dalla dimensione poetica che egli sa conferirle. Autore, scenografo e videasta, come regista ha diretto, tra gli altri, Vino Tinto, da Thomas Bernhard, 30 copas de vino, da Baudelaire, Los tres cerditos, di Bruce Nauman, El pare, da Heiner Müller, Hostal conchita, da Thomas Bernhard. I personaggi di García, lontani da ogni naturalismo o facile caricatura, si compiacciono di un decadentismo del pensiero, s’arrangiano come possono per vivere e sembrano credere che la loro banale esistenza sia tra le più originali.
17 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 19.30
18 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 20.00
Coefore
prima assoluta
traduzione di Pier Paolo Pasolini
regia Monica Conti
con Annamaria Guarnieri
produzione Teatro Stabile delle Marche, La Biennale
di Venezia
in collaborazione con Festival di Gibellina – Sipario d’Estate della Provincia di Pesaro Urbino
Per Monica Conti il lavoro parte da lontano rispetto all’inizio delle prove: parte da un lungo e lento lavoro di avvicinamento al testo per arrivare, solo alla fine di questo percorso, alla sintesi personale. Sintesi personale che “passa”, poi, principalmente attraverso l’attore. Ed è proprio il lavoro con gli attori, densissimo, e la ricerca di un linguaggio poetico comune, che sta alla base delle sue regie e che caratterizzerà la messa in scena di Coefore.
Monica Conti si diploma in regia alla scuola "Paolo Grassi" di Milano e in pianoforte al Conservatorio di Brescia. Dirige il primo spettacolo nel 1989 per il Centro Teatrale Bresciano (Faust. Un travestimento di Edoardo Sanguineti, protagonisti Claudio Bisio e Roberto Trifirò), ma si dedica prevalentemente alla regia dal 1996 con Aprile a Parigi di John Godberg e Edmenegarda di Giovanni Prati. Nel 1997 è al Fabbricone di Prato con Stretta sorveglianza di Jean Genet e al Franco Parenti di Milano con La mite, personale elaborazione drammaturgica dalla novella di Dostoevskij. Successivamente firma la regia di: L'ultimo nastro di Krapp di Beckett, Else e il sottotenente Gustl di Schnitzler, Il killer Disney di Philip Ridley, Voltati parlami di Alberto Moravia Nel 2000, al Fabbricone, mette in scena La donna di pietra, di cui è anche autrice, ispirato alle lettere di Emily Dickinson. Nel 2001 dirige Gianrico Tedeschi nel Minetti di Thomas Bernhard e, nel giugno dello stesso anno, le viene conferito il Premio Hystrio alla regia. Nel 2002 firma la regia del Medico per forza di Molière sempre con Gianrico Tedeschi, produzione degli Artisti Associati di Gorizia. Per quanto riguarda la formazione dell'attore, all'Arena Plautina di Sarsina fonda e dirige per tre anni un laboratorio su Plauto (miglior progetto europeo). Fonda inoltre un laboratorio a Chiaravalle su Maria Montessori e mette in scena Maria Montessori. Atto di nascita, di cui firma anche la drammaturgia e Bambini di notte di Filippo Soldi, prodotto dal Teatro Stabile delle Marche. Tra i lavori del 2004: Dispetto d’amore di Molière per il Teatro Giacosa di Ivrea e Le onde del mare e dell’amore di Franz Grillparzer, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano. Entrambi i lavori in prima rappresentazione in Italia.
19/20 settembre - Teatro alle Tese – ore 20.00
Eumenidiprima assoluta
da Eschilo
regia Caden Manson
produzione CTB Teatro Stabile Brescia, Fondazione Orestiadi di Gibellina, La Biennale di Venezia
Caden Manson è nato a Robstown, Texas, una piccola cittadina alla periferia di Corpus Christi, ma studierà all’università di Austin. Nel 1999 fonda il Big Art Group, con cui allarga i confini della performance attraverso una sperimentazione aggressiva che utilizza nuovi media, sovverte i procedimenti narrativi e la struttura complessiva dello spettacolo. Con la sua compagnia ha creato lavori controversi, provocatori e crudi, come
Clearcut, catastrophe! (1999), The Balladeer (2000), Shelf Life (2001); and Flicker (2002).
Flicker è stato presentato con grande successo in Europa lo scorso anno. In Italia è stato ospite al Festival Inteatro di Polverigi e al Teatro India di Roma per Le vie dei Festival 2003. Subito dopo Eumenidi, Big Art Group presenterà a Roma e Parigi la nuova creazione per il Festival d'Automne 2004, The house of No More, che ha debuttato in anteprima a New York lo scorso gennaio.
Recentemente, Caden Manson ha ricevuto un riconoscimento dalla Foundation For Contemporary Performance Art per il suo lavoro con il Big Art Group.
22 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 20.00
23 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 21.00
Bestia da Stile
prima assoluta
di Pier Paolo Pasolini
regia Antonio Latella
con Marco Cacciola, Marco Foschi, Giuseppe Lanino, Marco Martini, Giuseppe Massa, Giuseppe Papa, Annibale Pavone, Mauro Pescio, Giovanni Prisco, Enrico Roccaforte, Cinzia Spanò, Rosario Tedesco, Stefania Troise
luci Giorgio Cervesi Ripa
suono Franco Visioli
costumi Cristina Da Rold
regista assistente Tommaso Tuzzoli
produzione Nuovo Teatro Nuovo Teatro Stabile di Innovazione, Teatro Stabile dell’Umbria, La Biennale di Venezia
Un testo non testo. Un’opera teatrale che frantuma tutte le regole e le forme di scrittura teatrale. Una sorta di biografia, di testamento, dove lo stesso Pier Paolo Pasolini si schiera in prima linea, raccontando una storia e raccontandosi in questa non storia abitata da un universo di morti, che vide, nella primavera di Praga, la fine del comunismo.
Non ci sono personaggi ma solo fantasmi, e la parola prende forma solo attraverso i ricordi e la morte. Tutto precipita nel caos e l’uomo si fa bestia; la parola urlo disperato, non c’è più controllo, e la mente non abita più nel cranio, ma tutto è un magma - di corpo, sangue, sperma, parola, pensieri, feci e amore. Questo non testo teatrale è stato scelto con i miei amici-attori per chiudere questo viaggio ideale su e con Pasolini iniziato da Pilade e passato attraverso Porcile. Un viaggio alla scoperta, o meglio verso un inizio di conoscenza dell’artista e dell’uomo Pasolini; alla scoperta di un universo che aborre ogni forma di consolazione, ogni compromesso.
Un teatro che parte dall’essenza (autore – parola – attore – pubblico) ma che ogni volta cerca una nuova forma. Assemblea culturale aperta a tutti (nel caso di Pilade). Oppure bisturi che incide il corpo malato di ciò che per lui è la morte del teatro, ossia la borghesia infettata dal cancro del potere (nel caso di Porcile). Per arrivare al non rappresentabile poiché è già nella sua non struttura “un’opera d’arte”. L’ultimo respiro prima della condanna a morte. Questa è la sfida che impone e pretende una totale libertà, quella libertà che spaventa e attrae.
Antonio Latella
Attore e regista napoletano trentacinquenne (ha lavorato con M. Castri, L. Ronconi, V. Gassman, E. De Capitani, A. Syxty), Antonio Latella In questi ultimi anni ha alternato la sua attività di attore a quella di regista per arrivare nell’ultimo periodo ad impegnarsi esclusivamente nella regia. Nel 2001 ha vinto il premio speciale UBU per il progetto “Shakespeare ed oltre”, l’XI edizione del premio intitolato a Luca Coppola e a Giancarlo Prati e il premio Girulà per la drammaturgia.
Ha realizzato come regista gli spettacoli Agatha di Marguerite Duras (1998), Otello di William Shakespeare, produzione Elsinor (1999); Macbeth di W. Shakespeare (2000), che ha messo in scena per il teatro Argot di Roma per Fontana Teatro; Romeo e Giulietta di Shakespeare, produzione Out - Off (2000); Amleto di Shakespeare, produzione Elsinor (2001); Stretta sorveglianza, produzione Out - Off di Jean Genet (2001); Pilade di Pier Paolo Pasolini, produzione Out Off (2002); I Negri di Jean Genet (2002), produzione Nuovo Teatro Nuovo (2002); uno studio sul Riccardo III di Shakespeare, produzione Elsinor (2002); Querelle da Jean Genet, produzione Nuovo Teatro Nuovo Teatro Garibaldi (2002); I trionfi di G. Testori, produzione Elsinor (2003); La dodicesima notte di W. Shakespeare, produzione Teatro Stabile dell’Umbria (2003); Porcile di Pier Paolo Pasolini, produzione Nuovo Teatro Nuovo in collaborazione con Festival di Salisburgo/Young Directors Project; La tempesta di Shakespeare, produzione Teatro Stabile dell’Umbria (2003); La bisbetica domata di Shakespeare, produzione Elsinor (2003).
23 settembre - Teatro alle Tese – ore 19.30
24 settembre - Teatro alle Tese – ore 21.00
Purificati
prima assoluta
di Sarah Kane
regia Marco Plini
con Silvia Ajelli, Michelangelo Dalisi, Milutin Dapcevic, Roberto Salemi (cast in via di definizione)
scene e costumi Claudia Calvaresi
suono Franco Visioli
luci Fabio Bozzetta
assistente alla regia Barbara Benedetti
direttore di scena Roberto Melchiorri
produzione Nuovo Teatro Nuovo Stabile di
Innovazione, La Biennale di Venezia
E’ singolare il fatto che Purificati sia l’unico testo di Sarah Kane ancora non rappresentato in Italia, in quanto appare il momento più alto di una ricerca stilistica e di senso, che partendo dal naturalismo trasfigurato di Blasted (Dannati) arriva, attraverso una serie di esperimenti, al monologo testamento di 4. 48 psicosi.
In questo percorso tanto complesso quanto breve, consumato nell’arco di quattro anni, Sarah Kane mostra un mondo in cui l’alfa e l’omega continuamente si inseguono e si confondono, integrandosi e contraddicendosi; un mondo di vittime-carnefici e di carnefici-vittime, di incapacità di parole, di ricerca e negazione d’amore e di incredibili taumaturgie chimiche.
Difficilmente apprezzata al di fuori della sua generazione, Sarah Kane rappresenta il suo dolore di vivere in un mondo in cui la barbarie ha occupato ogni spazio pubblico e privato, ma al contrario dei suoi predecessori, che hanno rappresentato oggettivamente questo disagio, tenta disperatamente attraverso la sua opera di intuire una via di salvezza.
In questo contesto si inserisce Purificati, il cui titolo allude ad una bruciatura e contemporaneamente alla pulizia etnica, una sorta di summa associativa delle aberrazioni del XX secolo.
In questo testo un campus universitario diviene, letteralmente, un campo di concentramento governato da un contradditorio “Mad-doctor”, che punisce sistematicamente ogni cenno d’amore o di tenerezza, attraverso plurime amputazioni che tendono ad impedire ogni tentativo di comunicazione. Nonostante tanta violenza, però, l’immagine finale del dramma ci mostra ancora intatta la possibilità di esprimere tenerezza, di manifestare amore, in questo sanguinante paesaggio di rovine. Tutto ciò viene raccontato attraverso un linguaggio incredibilmemnte moderno che ha le sua radici nello Shakespeare delle tragedie più sanguinarie (Re Lear, Tito Andronico), attraverso temi e suggestioni molto cari a Bond, Osborne, Pinter, e Wesker, lanciando, però, uno sguardo apocalittico ma del tutto nuovo sulla realtà che la circonda e sulla possibilità di salvezza e liberazione che ci restano.
Marco Plini
Marco Plini è nato a Terni nel 1970; comincia la sua attività teatrale nel 1988, durante gli anni dell’Università, curando la regia degli spettacoli di alcuni gruppi umbri fino al 1993, anno in cui inizia a collaborare con Massimo Castri. Nei dieci anni successivi lavora come aiuto regista di Massimo Castri nei maggiori teatri italiani ai seguenti spettacoli: Ifigenia in Tauride di Euripide - Produzione Teatro Stabile dell’Umbria; Ecuba di Euripide - Produzione Teatro di Roma; La trilogia della villeggiatura di C. Goldoni Produzione Teatro Stabile dell’Umbria/Teatro Metastasio di Prato; Oreste di Euripide - Produzione Teatro Metastasio di Prato; Orgia di P.P. Pasolini - Produzione Teatro Metastasio di Prato; Fede speranza e carità di O. Von Horvath - Produzione Teatro Metastasio di Prato; Ifigenia di Euripide - Produzione Teatro Metastasio di Prato; Gli innammorati di C. Goldoni - Produzione Veneto Teatro;
L’Assedio di Corinto di G. Rossini - Produzione Rossini Opera Festival; Madame De Sade di Y. Mishima - Produzione Teatro Stabile di Torino; J. G. Borkman di H. Ibsen - Produzione Teatro Stabile di Torino. Nel 2001 debutta alla regia con lo spettacolo: Risveglio di primavera di F. Wedekind - Produzione Teatro Stabile di Torino. Dal 2000 al 2002 è stato assistente di Direzione al Teatro Stabile di Torino
L’opera di Sarah Kane, nata nell'Essex il 3 febbraio 1971, rappresenta un punto di riferimento per la drammaturgia contemporanea inglese. Come scrive Edward Bond: “Ci sono due tipi di drammaturghi. Il primo tipo rappresenta giochi teatrali con la realtà. Alcuni lo fanno male, alcuni bene e i loro testi sono talvolta interessanti. Il secondo tipo di drammaturghi cambia la realtà. Sarah Kane era una drammaturga del secondo tipo”.
Il percorso che conduce Sarah Kane a una tale estremizzazione avviene all’interno di una strada formativa paradossalmente classica. Dopo il diploma Sarah Kane andò all'Università di Bristol per laurearsi in teatro e, nonostante il talento di attrice e regista, nacque in lei l’urgenza della scrittura.
La sua prima opera teatrale fu Sick (rappresentata nel 1994 al Festival di Edimburgo), una serie di tre monologhi su stupro, bulimia e sessualità che in nuce conteneva la poetica della violenza che caratterizzò la sua produzione. Da Bristol si trasferì all'Università di Birmingham per seguire una specializzazione in drammaturgia che concluse nel 1993 con un elaborato finale dal titolo Blasted. Venne rappresentato nel 1995 alla Royal Court Upstairs di Londra per la regia di James Macdonald e suscitò subito scandalo e polemiche per la violenza espressa. Nel 1996 Sarah Kane scrive Phaedra's Love, che lei stessa dirige al Gate Theatre di Londra. Si tratta di una riscrittura moderna del mito di Fedra, derivato non tanto dalla tragedia di Euripide quanto da quella, ben più violenta e truce, di Seneca. Sempre per il Gate Theatre firmerà in seguito un'altra regia, quella del Woyzeck di Georg Büchner. Nel 1998 va in scena al Royal Court, diretto ancora da James Macdonald, Cleansed, che discute di identità e sessualità ma in maniera altamente metaforica, proiettando in un campus universitario un vero e proprio campo di concentramento dominato dal dottor Tinker, che sevizia e tortura per suo piacere. Inizia in questo testo quel processo, che si esplicita nel successivo Crave e 4.48 Psychosis, per cui i personaggi diventano ancora di più espressione di un’emozione che la manifestazione esteriore di una psicologia e di una interazione sociale.
In Crave, scritto con lo pseudonimo di Marie Kelvedon e portato in scena da Vicky Featherstone al Traverse Theatre di Edimburgo sempre nel 1998, i quattro personaggi del testo sono identificati esclusivamente da una lettera (A,B, C, M) e la frammentazione narrativa si approfondisce. Dopo Crave, nel gennaio 1999, si fece ricoverare al Maudsley Hospital a Londra, mentre ormai all'esterno si stava celebrando il trionfo critico della sua opera, paragonata perfino a Eliot. Ma la depressione ormai era arrivata a livelli insostenibili, che Sarah riversa in 4.48 Psychosis, un testo in cui un personaggio non identificato, rinchiuso in un ospedale per depressione, confessa tutta la sua sete di vita e amore e contemporaneamente la decisione di suicidarsi. Dopo aver scritto questo testo, muore suicida il 20 febbraio 1999.
24 settembre - Tese delle Vergini – ore 19.30
25 settembre - Tese delle Vergini – ore 20.00
Binario mortoprima assoluta
di Letizia Russo
regia Barbara Nativi
scene Dimitri Milopulos
produzione Teatro della Limonaia, La Biennale di Venezia
C’è, dietro la periferia indeterminata di Binario morto - nelle amnesie dei personaggi, in quella dell’autrice, che ci nega ogni antefatto – un’ombra, come un’idea di abbandono nazionale, di acquisita indifferenza verso le sorti dell’Umano in genere e del futuro, che gli adolescenti del testo dovrebbero rappresentare. L’arte è insidiata da una realtà invadente, e oggi, marzo 2004, il non-luogo di Letizia non riesce a guadagnarsi lo status di spazio surreale. Corrono pronti alla mente molti scenari in cui sarebbe possibile Binario morto, non c’è che l’imbarazzo della scelta: il nostro presente terribile vive in ogni riga, grazie a quel non detto che nei testi della Russo parla sempre a gran voce.
I giovani di Binario morto vivono ai margini di una città x, su una collina y. Quel loro essere non-si-sa-dove-e-perché-né-quando-né-a-far-cosa è punto di incontro di temi importanti: è adolescenza reale e metaforica assieme. Spaesamento del corpo e dell’anima, che non si riconoscono più in nulla, e precipitano in un’affannata ricerca di identità (o verità) nuove, e nuovi (o vecchi) ruoli. E reclamano a gran voce il gruppo, il branco, unica gioia, unico luogo vero di questo testo che narra, con grande humor e senso del tragico, del rapporto dell’individuo con il mondo; della sua paura di essere autonomo, e quindi solo; e del suo conseguente affidamento all’Altro. Quanto è importante stabilire se è un carnefice travestito o un Dio vero? Una volta che si è rinunciato a noi e si è imboccato il Binario morto del titolo, la vita sembra prendere un andamento circolare, si ripete identica. Così dicono. E ogni promessa di futuro si dissolve nella minacciata - e temuta - ciclicità.
Barbara Nativi
Binario morto è una metafora del potere, dell'ineluttabilità delle forme di potere che si sviluppano e si impongono all'interno di tutte le comunità, a cominciare dalla coppia per finire alle nazioni. A questo, si legano tutti gli strati successivi dell’opera: chi ha davvero il potere? Chi siede su un trono (o su una poltrona parlamentare) o chi concede al re o al politico di sedere lì? C'è poi tanta differenza fra i tipi di potere imposti alle società? E infine, cos'è davvero la religione? Un credo o un voglio credere? Un voglio credere o un devo credere? In un momento storico in cui siamo tornati alle guerre sante, agli estremismi e all'odio ingiustificato, come se non fossero ancora troppo vicine nel tempo e nello spazio carneficine e barbarie della storia, è importante che ci si domandi ancora da dove veniamo e dove andiamo. Non ho la speranza che Binario morto parli così in profondo né ai ragazzi né agli adulti, ma ai ragazzi, e alla loro vitalità, alla loro cattiveria e alle loro capacità eroiche dedico Binario morto.
Letizia Russo
Letizia Russo è nata a Roma nel 1980. Ha scritto: Niente e nessuno (una cosa finita), rappresentato nel 2000 a Castelnuovo di Farfa, nell'ambito del festival curato dal direttore del Teatro di Roma Mario Martone, Per Antiche Vie. Tomba di cani, Premio Tondelli 2001 (sezione under 30, Premio Riccione per il Teatro) rappresentato per la prima volta nel 2002, con Isa Danieli e la partecipazione in video di Antonio Casagrande, regia di Cristina Pezzoli, produzione dell'Associazione Teatrale Pistoiese / Teatro del Tempo Presente. Lo spettacolo ha ricevuto tre candidature (Isa Danieli migliore protagonista femminile; Cristina Pezzoli migliore regista; Letizia Russo autore di migliore novità italiana) al Premio ETI - Gli Olimpici del Teatro. Isa Danieli ha vinto nella sua categoria. Tomba di cani ha ricevuto il Premio Ubu 2003 nella categoria “migliore novità italiana”.
Asfissia, commissione "Festival di Candoni - ArtaTerme", con mise-en-espace nel novembre 2002 nell'ambito dello stesso Festival, e lettura nel settembre 2003 al Piccolo Teatro di Milano nell'ambito di "Tramedautore".
Binario morto - Dead End, commissione del National Theatre di Londra, festival "Shell Connections", con messa in scena nel luglio 2004 al National Theatre di Londra, tradotto in inglese da Luca Scarlini in collaborazione con Aleks Sierz. Babele, primo testo di una trilogia sul potere. Debutto a Napoli nel gennaio 2004 nell'ambito della rassegna Petrolio curata da Mario Martone, con la regia e l'interpretazione di Paolo Zuccari accanto a Roberta Rovelli.
Ha in preparazione una raccolta di tre romanzi brevi, un testo liberamente ispirato ai temi del Don Giovanni di Mozart, che debutterà alla fine del 2004, e un testo commissionato dalla compagnia Artistas Unidos di Lisbona, per la regia di Jorge Silva Melo.
Ha partecipato, fra il luglio e l'agosto 2002, alla quattrodicesima International Residency del Royal Court di Londra. Per "Teatrogiornale" di Rai Radio3 ha scritto: I conigli sulla luna, Lo spirito nell'acqua, La via del mare, Qoèlet, Kilmainam Gaol, trasmessi da Rai Radio3 tra gennaio e maggio 2002.
Barbara Nativi, attrice, drammaturga e regista, dirige il Teatro della Limonaia e il festival Intercity di Sesto Fiorentino, che giungerà nel 2004 alla 17° edizione. Alterna lavori di creazione ad un forte interesse verso la drammaturgia contemporanea. Ha diretto, in prima nazionale o assoluta, opere di drammaturgia italiana (oltre a testi suoi, quelli di Massimo Bavastro, Silvia Calamai, Mario Luzi, Dacia Maraini, Fausto Paravidino), drammaturgia inglese (Martin Crimp, Sarah Kane, Terry Johnson, Mark Ravenhill, Philip Ridley), drammaturgia spagnola (Sergi Belbel, e ha tradotto Rodrigo Garcia), tedesca (Oliver Bukowski), drammaturgia francese (Bernard-Marie Koltès, Jean-Luc Lagarce), drammaturgia quebecchese (Michel Marc Bouchard, Normand Chaurette, René Daniel Dubois, Michel Tremblay), drammaturgia russa (Nina Sadur), drammaturgia svedese (Magnus Nillson), drammaturgia norvegese (Jon Fosse) e drammaturgia greca (Dimitris Dimitriadis, Sofie Dionisopoulou, Jacovos Kambanelis). Ha tradotto oltre quaranta testi teatrali dall’inglese, francese, spagnolo e, con Dimitri Milopulos, dal greco.
26/27 settembre - Teatro Piccolo Arsenale - ore 20.00
Prima / Dopo
prima assoluta
di Roland Schimmelpfennin
regia di Benedetta Francardo, Massimo Giovara, Paola Rota e Roberto Zibetti
con Benedetta Francardo, Massimo Giovara, Roberto Zibetti, cast da definire
prodotto da ‘Õ Zoo No con la collaborazione di
Teatro Stabile Torino - Teatri Convenzionati e La Biennale di Venezia
La prima fase del lavoro di ‘Õ Zoo No è stata improntata ad una particolare attenzione per la forma del monologo e delle strutture drammaturgiche ricavate da testi letterari: Huxley, Kerouac, Schnitzler, Salinger tra gli autori rappresentati. In questi anni (tra il 1996 e il 2000) ‘Õ Zoo No lavora spesso in stretto contatto con il Laboratorio Teatro Settimo di Settimo Torinese.
Dal 2001 inizia la collaborazione con il Teatro Stabile di Torino e si apre una nuova fase caratterizzata dalla rappresentazione di autori drammatici contemporanei, spesso di area nordeuropea.
Sempre dalla collaborazione con il Teatro Stabile di Torino, nonché con gli enti locali, nasce anche un progetto multimediale, Laundrettesoap, sorta di telenovela teatrale/internet/televisiva ambientata sul territorio cittadino. L’intento di questo progetto è di portare il teatro fuori dai confini del palcoscenico per dialogare con altri mezzi di comunicazione di massa. La prima edizione (ottobre 2003) ha avuto notevole successo di critica e pubblico.
Nel 2004 è stato messo in scena Baby Doll, spettacolo tratto dall’omonima sceneggiatura cinematografica di Tennessee Williams.
Con Prima/dopo di Roland Schimmelpfennig, la compagnia ‘Õ Zoo No prosegue dunque il percorso intrapreso sulla drammaturgia contemporanea con spettacoli come East di Steven Berkoff (2002/2003) e Tracce di Anne di Martin Crimp (2003).
Prima/dopo descrive, non sempre in forma dialogata, una serie di situazioni e di personaggi, legati fra loro da relazioni temporali, causali o affettive. Spesso ai dialoghi si affiancano i pensieri dei personaggi, nonché delle didascalie che tendono a essere pensieri. Alcune situazioni molto semplici e quotidiane vengono esaminate da punti di vista differenti, i vari personaggi diventano veicoli di una percezione specifica del reale, che si incrocia e dialoga con le altre. I pensieri, spesso come un sottotesto continuo, a volte si allargano a diventare situazioni dal sapore surreale in cui i singoli vivono e sperimentano i propri sogni e le proprie paure.
‘Õ Zoo No
Roland Schimmelpfennin nasce a Gottingen nel 1967. Dopo aver collaborato al Munchner Kammelspielen nel 1998 trascorre un anno negli Stati Uniti, dedicandosi alla traduzione di testi in lingua inglese. Lo stesso anno vince il Premio Schiller. Successivamente diviene drammaturgo della Schaubühne am Lehniner Platz di Berlino - il teatro diretto da Thomas Ostermeier. Dal 2002 è dramaturg della Deutsches Schauspielehaus di Amburgo. Nel 1997 il suo testo Fisch um fisch vince il premio Alse Lasker-Schuler. Vorher/Nachher, il suo ultimo testo, è stato commissionato dal Festival “Frankfurter Positionen”. Tra i suoi testi ricordiamo: Die ewige Maria (1995), Keine Arbeit für die junge Frau im Frühlings-kleid (1995), Vor Langer Zeit im Mai (1996), Die Zwiefachen (1996), Die Aufzeichnung, pièce radiofonica (1996), Aus den Städten in die Wälder, aus den Wäldern in die Städte (1997), M.E.Z., monologo (1997), Die Taxiterroristin, pièce radiofonica (1999) Die arabische Nacht (2000), Krieg der Wellen, pièce radiofonica (2000), Push up 1-3 (2001), Vorher/Nachher (2001).
‘Õ Zoo No nasce a Torino nel 1996.
I soci fondatori sono Benedetta Francardo, Massimo Giovara, Paola Rota e Roberto Zibetti. Lavorano tutti come attori professionisti dal 1990 e hanno in comune una lunga esperienza formativa con il Laboratorio Teatro Settimo diretto da Gabriele Vacis.
Hanno lavorato, inoltre, con diversi registi, tra cui Luca Ronconi, Massimo Castri, Giorgio Strehler, Elio De Capitani, Klaus Michail Gruber e, nel cinema, con Bernardo Bertolucci, Dario Argento, Giacomo Battiato, Guido Chiesa, Lucio Pellegrini, Gian Luca Tavarelli, Matteo Garrone, Marina Spada, Carlo Mazzacurati, Luciano Ligabue e Antonello Grimaldi.
Decidono di costituire l’Associazione ‘O Zoo No spinti dalla necessità di produrre autonomamente spettacoli, in particolare lavorando su testi contemporanei.
Producono e realizzano, in collaborazione con il Laboratorio Teatro Settimo prima e con il Teatro Stabile di Torino dal 2000, diversi spettacoli tra cui Il giovane Holden di J.D.Salinger, Han Shan dall’opera di Kerouac, Stream of consciousness di Andrea Roncagliene, East di Steven Berkoff, Tracce di Anne di Martin Crimp, Baby Doll di Tennessee Williams e il progetto Laundrettesoap.
28 /29 settembre - Tese delle Vergini – ore 20.00
La scimia prima assoluta
liberamente ispirato a “Le due zitelle” di Tommaso Landolfi
regia di Emma Dante
con Gabriele Benedetti, Gaetano Bruno, Savino Civilleri; Manuela Lo Sicco;
Valentina Picello
luci Tommaso Rossi
scene e costumi Emma Dante
elaborazione del testo Elena Stancanelli
produzione CRT Centro di Ricerca per il Teatro Milano, Compagnia Sud Costa Occidentale, La Biennale di Venezia
in collaborazione con Teatro Garibaldi, Palermo e Monty - Anversa, Belgio
Dopo il Giudizio Universale, le anime dovranno attraversare il Golfo dell’Inferno. I cattivi precipiteranno in un fiume di fuoco e i buoni raggiungeranno un Paradiso dove scorrono fiumi di latte e miele.
Dove andrà “la scimmia” dopo il Giudizio?
L’anima di Tombo, “animale piuttosto piccolo e vivace”, incontrerà la nostra? Dio solo sa se uno scarafaggio o un elefante saranno i benvenuti nel regno dei cieli! Come possiamo saperlo noi, in quanto umani, se non abbiamo familiarità con i loro gesti bestiali e con la loro meravigliosa sicurezza istintiva? Come possiamo noi, nel caso in cui un’aquila andasse all’inferno, provarne pietà!? “La scimia” compare nei nostri sogni e ci entra nell’anima fino a spezzarci il cuore con la sua innocenza. Tombo commette il peccato ma non sa che esiste una via del bene e una via del male, mastica l’ostia consacrata, scompiscia l’altare, dice messa e insozza la sacralità di quel rito con la stupidità del suo corpo, con la sua bassezza, con il suo essere mosso da impulsi e desideri.
Dopo una lunga e affascinante disputa teologica in cui vince il libero arbitrio dell’uomo, due preti e due donne devote preparano la feroce esecuzione dello sciagurato animale.
Le due zitelle, custodi della “scimietta” e della fede indiscussa nell’esistenza di Dio, vivono prigioniere di una vita muffosa e tetra con la sola speranza di una possibile unione con la divinità. Con ossessione morbosa mangiano l’ostia ogni giorno, si lavano con l’acqua benedetta e fanno dir messa ogni volta che albeggia. Gli impulsi e i desideri della “scimia” diventano per loro l’unico richiamo alla vita.
Lilla e Nena capiscono la lingua del loro animale come due bestie davanti a una bestia e nel preciso istante in cui lo colpiscono vedono nei suoi occhi la “sgomenta meraviglia” di un essere umano.
“La scimia” è una creatura di Dio in cui il mistero della grazia e della bellezza è pari soltanto all’ossessiva enormità della nostra furia di uccidere.
Emma Dante
Il teatro cerca continuamente parole adeguate. Una lingua che resista allo scontro con i corpi degli attori e degli spettatori, le luci, il buio. Che racconti del mondo che sta intorno, perché la scena ridicolizza le archeologie lessicali, ma abbia in sé quella genialità mitopoietica, che salva la buffa arte della recitazione dalla caduta nel ridicolo, che è in agguato dietro ogni quinta.
Tommaso Landolfi, narratore poeta traduttore, uomo coltissimo che seppe sperperare se stesso e regalare il suo talento a imprese letterarie spesso fallimentari, è un autore molto amato da pochi e troppo ignorato da quasi tutti. Italiano, nella sua vocazione al fantastico, nel suo abbandonarsi come un puer tra le braccia di sogni orrifici e quotidianità minuscolo-borghesi, ma incredibilmente sprovincializzato nella sua libertà di immaginare fantascienze, iper-realtà, paesaggi letterari che ancora oggi stupiscono.
Spesso tanta meraviglia è ingombrante, e Landolfi è stato spesso considerato "troppo". Ma questo "troppo", è giusto giusto quello che serve, per il teatro.
Le due zitelle, forse il suo romanzo più famoso, è la storia di due donne, come migliaia di donne che conosciamo, che si tengono l'un l'altra rinchiuse in una casa, terrorizzate da ogni spiffero di vento che, dopo una certa età, può essere solo annuncio della fine. Nelle loro stanze, le cui porte vengono aperte di rado e richiuse immediatamente, lasciano stagnare un odore muffoso. Fuori, dal giardino, sale invece il profumo degli eucalipti, ma prima ancora il sentore eterno del monastero. Questo è il mondo, su cui regna, come in un reame rovesciato, una scimmia.
Le due zitelle è il racconto di una sessualità punita, battuta, annientata. Di una femminilità scaduta, inavvicinabile. Come quelle mummie egiziane vecchie milioni di anni, che al primo contatto con la luce si dissolvono, scompaiono, raggiungono finalmente la loro morte.
Tutto questo raccontato nella lingua straordinaria di Landolfi, che costruisce, con abilità diabolica, un claustrofobico campo semantico, un’enclave linguistica, per raccontare ciò che accade nella casa, e lo manda a combattere contro i cavilli lessicali di una coppia di preti, unici saltuari ospiti, incaricati di processare e condannare la scimmia per il reato di sacrilegio.
Landolfi, come tutti i grandi scrittori, non ha raccontato storie, ma costruito mitologie. Teatrini della morte, impersonati da attori con fisionomie talmente precise da poter essere traslocati senza andare in pezzi. Come Medea, Angelica e Orlando, il capitano Achab, Pinocchio.
La scimia, testo ispirato al romanzo di Landolfi, ha per protagonisti le due zitelle, i due preti, la serva di casa e, ovviamente, la scimmia. Ma chi è la scimmia? "Quella ‘scimia’ era insomma una ‘scimia’, con tutti gli attributi esteriori e le qualità apparenti della sua razza; era una creatura misteriosa", dice Landolfi. Proprio perché era un animale, esattamente perché siamo uomini e donne. Portiamo tutti il crisma del mistero impresso sulla pelle. Di questa infima vertigine del quotidiano, dell'amore e della morte, racconta La scimia.
Elena Stancanelli
Il lavoro della compagnia Sud Costa Occidentale comincia a Palermo, nell’agosto del 1999, dove faticosamente cerca di mettere radici.
La compagnia Sud Costa Occidentale è composta da attori di esperienze diverse, e ogni progetto non è mai fermo, non finisce mai né mai ricomincia.
È un teatro che si allarga e si restringe a seconda dei casi, non trattiene prigionieri ed è sempre aperto a quei contagi diretti che danno un senso di libertà intellettuale.
Vogliamo semplicemente sapere, capire dov’è il senso dello spazio, dov'è l'esterno. Ci accade, spesso, di perdere la nozione del tempo, di non sapere nulla del nostro svanire, di non stabilire confronti con nulla. Di non avere pietà di nulla.
I componenti della compagnia Sud Costa Occidentale sono: Gaetano Bruno, Sabino Civilleri, Emma Dante e Manuela Lo Sicco.
Il mio percorso artistico parte da un inventario esistente, fatto dai corpi degli attori. Il loro rapporto d’identità è determinante per rappresentare e pensare, essi sono tutto, sono i riempimenti spaziali e temporali della scena. Devono potersi trasformare negli alberi di un intero bosco e riuscire a far scorrere su un pavimento tutta l’acqua del mare.
Il punto di partenza di questa ricerca è assai complicato e faticoso, perché nasce, essenzialmente, dal peccato e dal peggio di sé che l’attore deve offrire come atto d’amore. Ciò che ha da dire lo deve dire interamente, non può accennarlo, deve poter entrare in opposizione con tutto il suo essere, e superare quel senso del ridicolo che ostacola l’incontro creativo. Se un attore nel compiere un piccolo gesto comprende fino in fondo la sua esperienza personale, allora può comprendere l’esperienza del mondo.
Qualsiasi spettacolo senza questa utilità è dannoso.
Ma la ricerca del metodo, della poetica e dei risultati non può essere rapida, richiede tempi di elaborazione lunghi e profondi, richiede cura, rigore, sacrificio. Il riscontro delle difficoltà in sala prove,
che alimenta continuamente un senso di smarrimento e d’impotenza, è l’unica strada possibile per raggiungere quella forza creativa che supera la facile visività delle immagini e va dritta al cuore dei destinatari. Attori e spettatori dovrebbero potersi incontrare in una zona d’ombra, dove è sospeso ogni giudizio sul bene e sul male, dove chi riflette dalla profondità dell’animo accetta fino in fondo l’esistenza del dubbio. Tutto è in divenire, tutto è ancora da compiere, non ci sono accordi privati, non ci può essere a priori nessuna certezza.
Soltanto laddove il teatro accade, scavando coraggiosamente nei contenuti emozionali della rappresentazione, allora gli imprevisti e i limiti di questa esperienza diventano necessari per superare la nostra solitudine.
Insieme ai miei giovani compagni della compagnia Sud Costa Occidentale, nonostante la mancanza di spazi e l’assenza di avvedute conduzioni amministrative, cerchiamo di rendere proficuo il nostro disagio e lavoriamo senza interruzione, anche sei mesi l’anno, su un unico progetto, con la convinzione che ciò che fa spettacolo e dà nell’occhio non è la cosa principale.
L’essenziale per noi è scoprire le nervature, aspettare in silenzio un certo tipo di ascolto, senza giudizio. Perché il giudizio è una forma retorica.
Vogliamo, semplicemente, parlare di quello che siamo, di un qualcosa che è in noi, della forma dell’essere che ci frantuma e ci riempie di tutte le sue contraddizioni, dei contrari che ci portiamo dentro ogni giorno: senso e follia, forza e debolezza.
Se dovessi esprimere un pensiero per definire la mia idea di teatro, direi: da una situazione nasce un sentimento e quindi un’azione di volontà, esattamente come la vita, né più né meno. Direi, inoltre, che se fosse vero il contrario, avrebbe lo stesso valore, perché il teatro è più avanti di qualsiasi definizione e certezza.
Emma Dante
Elena Stancanelli è nata a Firenze nel 1965, si diploma all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico" e consegue la laurea in Storia dello Spettacolo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Firenze. Lavora in teatro, come attrice, per alcuni anni.
Nel 1998 pubblica, presso la casa editrice Einaudi il suo primo romanzo, Benzina, che vince il premio "G. Berto" opera prima. Benzina è stato tradotto in francese, spagnolo e tedesco ed è in corso di pubblicazione negli Stati Uniti. Del romanzo è stato tratto un film con la regia di Monica Stambrini. Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste, Max, Amica, Gulliver, Tutte Storie, Cosmopolitan, Marie Claire, e su alcuni quotidiani tra i quali la Repubblica, Il secolo XIX e il Corriere della Sera.
Il suo secondo romanzo, Le attrici, è uscito nell’aprile del 2001 sempre per la casa editrice Einaudi.
1 ottobre – Teatro Piccolo Arsenale – ore 19.00
2 ottobre – Teatro Piccolo Arsenale – ore 20.30
Scanna (Premio Tondelli 2003) prima assoluta
testo e regia di Davide Enia
produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana, La Biennale di Venezia
in collaborazione con Teatro Garibaldi, Palermo
Restando nella sua Palermo e facendone felicemente risuonare la lingua, nel suo primo testo a molte voci che ha l’ambizione della tragedia, l’autore ambienta in un rifugio antiaereo - nel quadro storico immaginario ma riconoscibile di una lotta di resistenza - il trapasso generazionale di una famiglia patriarcale, durante la vana attesa del padre, che sta rischiando la vita in un attentato antifascista. Il respiro del tempo in quel luogo claustrofobico segna un trapasso di potere, coronando l’educazione d’una nidiata di ragazzi all’uso delle armi e alla guerra civile in un contesto addirittura biblico, davanti a un nonno un po’ andato che ha il candore dei profeti e si esprime solo citando parole del Vecchio Testamento: le ore sono infatti scandite dall’attraversamento di una serie di metaforici giochi teatrali, che precedono l’avvento dei gesti risolutivi designati dai nomi dei sacramenti. Ma tra l’emergere di un passato di violenze familiari e l’iniziazione di questi picciriddi in crescita, nell’attesa della sirena liberatoria che non suonerà, si compie la catastrofe scannatoria evocata dal titolo: se il padre-padrone non tornerà, c’è già un ragazzo che ne assume l’eredità con un fratricidio.
Grazie a una storia ricchissima di particolari, che scava nel costume per afferrarne il profondo senso civico, il cantastorie si rivela romanziere.
Davide Enia
Nato a Palermo nel 1974, Davide Enia si forma nei laboratori e nei seminari di Danio Manfredini, di Rena Mirecka, Tapa Sudana e Laura Curino, della compagnia di teatrodanza Corte Sconta. Nel 1998 scrive Studio per 2 petali di rosa, che dirige ed interpreta. Lo Studio è un dittico composto da Orfeo ed Euridice e Cola Pesce. Nel tempo i due lavori si sono approfonditi ed affinati, giungendo ad essere spettacoli distinti ed autonomi. In Orfeo ed Euridice si narra dell’omonimo mito, scomponendolo, scardinandolo, intessendo la storia con il filo dei misteri orfici. Cola Pesce. Oratorio in 5 quadri nasce dalla libera e completa riscrittura di una leggenda popolare sicula. I due lavori, uniti o distinti, vengono rappresentati, tra gli altri, al Festival Internazionale di Palermo sul Novecento 1998, a Milano per Teatri 90 nel febbraio 1999, a Passaggi a Pontedera 1999. Nel 1999 interpreta a Palermo Il calciatore. Studio sulla giovinezza in endecasillabi, un’operina di 25 minuti per parole, canto e danza con 3 attori in scena, firmandone testo, canti e regia. Nel 2000 ha condotto un laboratorio teatrale con i ragazzi a rischio della Scuola Interculturale della Cascina Popolare “La Ghiaia” (Berzano S.Pietro, To), creando con loro La cantata del tempo nel labirinto. Nel 2001 è autore, regista ed uno degli interpreti di Malangelità, che narra di tre angeli che scortano una bambola ballerina in un mondo sconvolto dalla guerra. Finalista a Premio Scenario 2000/2001, coprodotto con il Festival Veneto Bassano Opera Estate di Bassano del Grappa, dove debutta nell’agosto 2001, viene rappresentato, tra gli altri, al festival Contaminazioni di Cagliari, a Padova, a Venezia. Italia-Brasile 3 a 2, racconto di splendori e miserie del gioco del calcio, ha debuttato nel maggio 2002 allo stadio S.Siro-Giuseppe Meazza di Milano, nella rassegna “Teatri dello sport”. Lo spettacolo è attualmente in tournée in tutta l’Italia. L’ultimo lavoro, prodotto da Accademia Perduta-Romagna Teatri, è Maggio ‘43, testo sui bombardamenti di Palermo e sulla guerra di quegli anni, narrato il tutto con gli occhi di un dodicenne. Ha debuttato in estate nei festival estivi (Santarcangelo dei teatri, Polverigi, Dro desera) uno studio di questo lavoro dal titolo Schegge. Collabora con la compagnia Sud Costa occidentale (Pa), con la quale ha lavorato da gennaio a giugno 2000 con i ragazzi a rischio del quartiere ZEN di Palermo, drammatizzando l’Odissea di Omero, andata in scena a fine maggio 2000.
Per Sud Costa Occidentale ha scritto Il filo di Penelope, testo che ha vinto il primo premio al concorso Terre d’Arance di Lentini (SR), per la sezione nazionale di drammaturgia teatrale ed il piccolo studio Una stanza con nessuno dentro, che ha debuttato a Palermo nel gennaio 2002. In televisione ha raccontato storie da lui scritte per la trasmissione di RAI3 La storia siamo noi prodotta da Rai Educational. Nel 2003 ottiene con Scanna il Premio Pier Vittorio Tondelli per il testo di un giovane autore sotto i 30 anni, nell’ambito del premio “Riccione per il Teatro”. Sempre nel 2003 Schegge è premiato come miglior spettacolo alla terza edizione del Festival Internazionale di Teatro “Teatrul Unui Actor” a Chisinau, nella Repubblica Moldova. Nel dicembre 2003 riceve il Premio Speciale UBU per la nascita di un nuovo cantastorie, dimostrata dalla sua attenta ricerca sulla memoria, sulla lingua, sulla tradizione del cunto di Palermo.
1 ottobre - Teatro alle Tese – ore 20.30
2 ottobre - Teatro alle Tese – ore 19.00
Io ti guardo negli occhi
(vincitore del 47°Premio Riccione per il Teatro 2003) prima assoluta
di Andrea Malpeli
regia Chérif
produzione Compagnia La Famiglia delle Ortiche, La
Biennale di Venezia, Premio Riccione Teatro
Un’opera che sa raccontarci il mondo degli altri con straordinaria forza poetica e profonda partecipazione umana.
Da alcune telefonate fatte a un padre emigrato che cuce camicie in Italia da una figlia dodicenne che dal Marocco sa ‘guardare negli occhi’, prende spunto il testo di Andrea Malpeli che, con sensibilità creativa e cinematografica capacità di visualizzazione e di taglio, sposta subito l’obiettivo oltremare. Ed ecco catturarci in primo piano la vivacità sorprendente e genuina di questa giovanissima Nadir, e il suo vivere quotidiano contrapporsi a quello delle due sorelle, alla severità autoritaria della madre, succube di tabù moralistici; ecco i suoi incontri con una serie di figure singolari a volte bellissime e precisamente definite con pochi tratti, in un intreccio di vicende semplici ma sempre imprevedibili, che si arricchisce di continue invenzioni e di racconti fioriti dentro altri racconti, con uno stile orientale che aderisce al contesto narrato al quale sa dare una realtà toccante. Per una volta le vicende dell’emigrazione sono viste dalla parte di chi resta, forte della vitalità del loro mondo, senza compiacimenti e situazioni di maniera, in un racconto giovane e diretto come i suoi personaggi, che si moltiplica coi tempi della vita, mantenendo intatto il mistero dei sentimenti e il piacere dell’invenzione (dalla motivazione della 47° Premio Riccione per il Teatro, 27 settembre 2003).
Chérif (Gammoud 1958) - Regista tunisino, dopo gli studi in Svizzera è assistente alla regia di Roland Jay, allora direttore del Conservatoire di Losanna, per l’allestimento de La Dodicesima notte di Shakespeare. Poi è in Italia, dove studia all’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico”; il suo esordio nella regia avviene con un montaggio di poesie di Pasolini, Passione (1982). Nel 1983 è aiuto regista di Aldo Trionfo per Le baccanti di Euripide al Teatro Olimpico di Vicenza. L’anno seguente, nel corso del 32. Festival del Teatro della Biennale di Venezia, presso i cantieri navali della Giudecca, dirige lo spettacolo – laboratorio Qai Ouest, primo testo di B. M. Koltès messo in scena in Italia. Nella stagione 1987-88 riscuote un grande successo e l’attenzione della critica per i suoi spettacoli Medea di Euripide, Pièce Noir di Enzo Moscato e Piccola Alice di Edward Albee con Anna Bonaiuto e Antonio Piovanelli. E’ attraverso il repertorio contemporaneo che Cherif costruirà il suo originale percorso registico. Seguono: I paraventi di Jean Genet (1990), Improvvisamente l’estate scorsa di Tennessee Williams (1991), entrambi con Alida Valli; Nella solitudine dei campi di cotone di B.M. Koltès, con Pino Micol e le scene di Arnaldo Pomodoro. Insieme ad Alida Valli e Arnaldo Pomodoro, Cherif fonda la compagnia La Famiglia delle Ortiche. Con la nuova compagnia mette in scena: Più grandiose dimore di Eugene O’Neill, L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi di Copi (1993). Segue la messinscena di una serie di testi, tutti di Antonio Tarantino: Stabat mater con Piera Degli Esposti, Passione Secondo Giovanni (1994), Vespro della Beata Vergine (1995) e Lustrini (1997). Nel 200 realizza Opera Buffa di Michele Celeste (Premio Riccione 2000) e, per il Teatro di Roma, Il Corano con Marisa Fabbri.
1 ottobre - Tese delle Vergini – ore 22.00
2 ottobre - Tese delle Vergini – ore 17.00
Il giro del cieco
Roma, 4 giugno 1944
di Ascanio Celestini
produzione Fabbrica, La Biennale di Venezia
Questa è una storia che raccontava mio padre e che io ho ascoltato dentro casa per trent’anni. Alcuni avvenimenti sono molto conosciuti come il bombardamento di San Lorenzo che fece rivoltare anche la terra del camposanto o il rastrellamento del Quadraro con più di mille persone portate via dalle case della borgata. Alcuni fatti sono veramente accaduti a lui come quando ha rischiato di farsi ammazzare dal cecchino a via Appia mentre raccoglieva una cipolla. Alcuni sono altrettanto veri, ma li ho ascoltati da altre persone come la storia del soldato seppellito vivo all’Appio Claudio. Certe cose credo di averle inventate io, ma forse ho soltanto dimenticato chi me le ha raccontate e adesso mi sono convinto che si tratta di invenzioni.Tutte queste storie di guerra a Roma ho cercato di raccontarle attraverso l’ultimo giorno dell’occupazione nazista. È il 4 giugno del 1944 quando la città vive gli ultimi scontri a fuoco della seconda guerra mondiale e nelle strade vede passare lunghe file di soldati. Sono i tedeschi che se ne vanno e gli americani che sono appena arrivati. A quel tempo mio padre aveva otto anni e tornava a piedi insieme a mio nonno verso la sua borgata, il Quadraro. Partirono da Porta Pia, passarono per San Giovanni e scesero per la via Tuscolana passando sotto un mitragliamento aereo e uno scontro a fuoco tra partigiani e fascisti. Ma se le truppe si muovevano da sud verso nord, mio nonno e mio padre andavano nella direzione opposta: camminavano contromano rispetto alla storia.
Ascanio Celestini
Ascanio Celestini è nato a Roma nel 1972. Nel 1998 porta in scena con il Teatro del Montevaso Baccalà, il racconto dell’acqua e Vita Morte e Miracoli, primo e secondo movimento di Milleuno, progetto per una trilogia sulla narrazione di tradizione orale.
Nel 1999 partecipa allo spettacolo Indizi del Tempo, prodotto dalla Corte Ospitale di Reggio Emilia per la quale tiene un laboratorio e scrive, dirige e interpreta lo spettacolo per ragazzi Trecento passi.
Porta in scena la terza parte della trilogia Milleuno: La fine del mondo, dove l’oralità non ha più alcun legame con la tradizione. Non c’è né fiaba o leggenda, né rito, ma tutto è assorbito esclusivamente dalla storia di vita. Il testo è tra i vincitori del premio “Sette spettacoli per un nuovo teatro italiano per il 2000” e viene coprodotto dal ‘Teatro di Roma’. Ha debuttato alla fine di giugno in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma.
Del 2001 è Radio Clandestina, un racconto costruito a partire dal libro l’Ordine è già stato eseguito di Alessandro Portelli (premio Viareggio ’99), che raccoglie la memoria orale legata all’eccidio delle fosse Ardeatine del 24 marzo 1944. È stato presentato nei locali dell’ex-carcere nazista di Via Tasso (ora Museo della Liberazione) in forma di studio per i Luoghi della Memoria manifestazione organizzata dal Comune di Roma e dal Teatro di Roma. Lo spettacolo è stato trasmesso in diretta su Radio Tre il 23 marzo 2001 in occasione del 57° anniversario dell’azione partigiana di via Rasella.
Per la radio Ascanio Celestini è autore del radiodocumentario Guerra e pace (Radio Tre dal 26 al 30 marzo 2001); di milleuno. racconti minonti buffonti, un ciclo di 25 puntate sul racconto orale (dal 27 agosto) a cui se ne aggiungono altre 6 nei giorni di Natale 2001; ha inoltre curato la lettura della vita di Fabrizio De André andata in onda dal 17 al 21 dicembre 2001. Fabbrica, del 2002, è uno spettacolo sulla storia del lavoro in Italia, che ha visto un primo studio alla Biennale di Torino il 1° maggio 2002 e il suo debutto definitivo a settembre al Benevento Città Festival. Nel progetto sono coinvolti alcuni tra i più importanti centri di ricerca teatrali in Italia (laboratori e incontri si sono tenuti alla Piaggio di Pontedera, alle cave di Santarcangelo, nelle miniere del Monte Amiata).
L’Associazione Nazionale Critici di Teatro gli assegna il premio omonimo nel 2002. Successivamente la Donzelli pubblica il libro, con cd allegato, Cecafumo, racconti a voce alta, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale che si compone di racconti e fiabe della tradizione popolare. Partecipa inoltre come narratore ad alcune puntate della trasmissione televisiva La Storia siamo noi (Rai Educational). Ottiene poi il Premio UBU “per la capacità di cantare attraverso la cronaca la storia di oggi come mito e viceversa”.
Le nozze di Antigone, da un testo di Ascanio Celestini, con Veronica Cruciani e la partecipazione al progetto di Arturo Cirillo debutta nel luglio 2003 a San Raffaele Cimena nell’ambito del Festival delle Colline Torinesi. Il testo ha ricevuto una segnalazione al premio Riccione per il Teatro 2001/02 e il premio Oddone Cappellino 2002/03. Nello stesso anno viene pubblicato il libro Fabbrica – sempre per le edizioni Donzelli – contenente il testo dello spettacolo e un cd audio con 5 racconti sul lavoro.
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