Parlate ora o tacete per sempre: gli interventi di Fratus, Castiglioni, Nanni, Adriano Gallina I contributi alla discussione lanciata da ateatro 62 e ateatro 63 di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and3 Siamo alle solite? I gusti personali e i soldi pubblici di Tiziano Fratus http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and30 Parlo anch'io Dal mio piccolo scranno di Nicola Dentamaro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and32 Le ragioni del radicchio Ancora sull'ETI di Silvio Castiglioni, Direttore artistico Santarcangelo dei teatri http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and33 La ricerca ri-unita? Alcune proposte di Giancarlo Nanni http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and34 En attendant Cofferati Una nuova prassi teatrale? di Adriano Gallina http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and35 Roghi Fiaba nera sul teatro italiano di Teatro Aperto http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and36 Una mail Sulla recensione a La scrittura scenica di Lorenzo Mango http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and40 Che cosa mi aspetto dal teatro Vagabondaggio per le sale milanesi, un po’ alla rinfusa di Oliviero Ponte di Pino http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and45 Le avanguardie teatrali e le tecnologie del loro tempo Testo inedito dell'intervento per il convegno "Il teatro nell'era del digitale", Parigi, 24 ottobrre 2004 di Béatrice Picon-Vallin (traduzione dal francese di Erica Magris) http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and50 Della presenza invisibile della maschera Voyage di Dumb Type e Le dernier caravansérail (Odyssées) del Théâtre du Soleil di Erica Magris http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and53 Grafie Animalie di Roberto Paci Dalò con una intervista al regista-musicista di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and54 Teatro e Internet informazione, diffusione e formazione dello spettatore in Italia di Irene Giorgi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and55 Le recensioni di "ateatro": L’asino albino di e con Andrea Cosentino Regia di Andrea Virgilio Franceschi di Andrea Balzola http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and60 Croff ce l'ha fatta: è presidente della Biennale Dopo mille polemiche di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and70 Risposta all'interrogazione parlamentare dell'On. Chiaromonte discussa in Commissione VII il 12 febbraio 2004 Interrogazione n. 5-02853 Chiaromonte: Gestione dell'Ente teatrale italiano (ETI) di On. Nicola Bono, Sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and71 Il programma di Riccione TTV Festival A Bologna dal 3 al 14 marzo & a Riccione dal 26 al 30 maggio 2004 di Riccione TTV http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and72 Pantani Blues Dedicato al Pirata di Roberto Traverso http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and73 Massimo Munaro ritratto ateatro Quattro frammenti di Orsola Sinisi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro64.htm#64and74
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Parlate ora o tacete per sempre: gli interventi di Fratus, Castiglioni, Nanni, Adriano Gallina I contributi alla discussione lanciata da ateatro 62 e ateatro 63 di Redazione ateatro |
I due ultimi numeri della nostra webzine, ateatro 62 speciale economia & politica della cultura (con le anticipazioni del dossier "Hystrio") e ateatro 63 parlate ora o tacete per sempre hanno cercato di avviare una discussione franca, aperta e costruttiva sull'attuale situazione teatrale.
Man mano che arrivano alla redazione, pubblichiamo nel sito gli interventi e i contributi, che raccoglieremo in un prossimo numero (ma per i batti e ribatti sono a dispo anche i forum).
Per leggere gli interventi in anteprima, clicca qui.
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Siamo alle solite? I gusti personali e i soldi pubblici di Tiziano Fratus |
Caro Oliviero e cari amici del teatro,
ho letto con attenzione gli interventi pubblicati su «Hystrio» e su ateatro 62,
ma ricordo anche un articolo di lamentazioni di Franco Quadri uscito a inizio
stagione, se non rammento male, su «Venerdì di Repubblica».
Siamo alle solite, i teatranti sono sempre sul piede di guerra: ci si lamentava
delle condizioni disagevoli negli anni Venti, lo faceva Bergman a Stoccolma, lo
facciamo da anni qua in Italia. Che poi all'estero la situazione, come più
volte ho letto, sia decisamente migliore è una bella favola: anche in
Inghilterra gli attori riescono (tranne i più celebri) a fare teatro al
National Theatre o al Royal Court Theatre soltanto se si mantengono con
pubblicità, televisione e cinema. E fuori Londra è il blackout. In Germania gli
autori stanno vivendo un momento di originalità artistica ma i teatri ricevono
finanziamenti ridotti e ogni teatro cittadino cerca di farsi il suo genio. In
Francia i problemi li abbiamo visto l'estate scorsa. La cifra del finanziamento
in Italia è minore, ma è anche vero che di compagnie e di centri ce ne sono
tantissimi, secondo una scansione tipologica davvero impressionante (stabile
privato, stabile pubblico, d'innovazione, d'innovazione per ragazzi,
comunali...).
Io non conosco a menadito le dinamiche interne all'Eti, però mi pare che la
risposta della Libero sia del tutto basata sui fatti e su considerazioni
ragionevoli, al contrario delle sparate hystriane.
Vogliamo "esercitare un diritto del cittadino che paga le tasse e ha diritto di
sapere come e da chi vengono spesi i denari pubblici"? Benissimo, ma
sicuramente sarebbe il caso di iniziare una disamina dei gusti personali, che
come ho detto proprio a Castiglioncello da molti anni la critica militante
espone come oggettivi. Scandalo per la riduzione dei finanziamenti alla
Raffaello Sanzio? Per quale ragione, io stato, che fornisco un sostegno a degli
artisti dovrei proseguire e darlo se questi si limitano a fare teatro per sé
stessi e per pochi amici critici? O per pochi afecionados? Conosco decine e
decine di pittori, compositori, video artisti, drammaturghi, poeti, che
meriterebbero un sostegno ma che devono fare i conti con l'ospitalità di
piccole strutture, o che devono iniziare la loro avventura (o la loro ricerca)
pagandosi libri (che avviene anche a teatro, e non tacciamo per comodità quello
che sappiamo) e la pubblicazione su rivista. Perché questi, che fanno arte che
potrebbe essere vista e seguita da un pubblico eterogeneo (non di massa, non
credo in questa comoda definizione) devono affidarsi a strutture straniere e a
piccoli finanziatori e gruppi che oramai fanno teatro per dovere e per se
stessi soltanto dovrebbero continuare a essere ben sostenuti dallo stato? E'
democrazia? O il suo contrario? O clientelismo ingessato?
E poi sarebbe il caso di fare ordine, e di non andare allo sbaraglio: Opera
Prima è terminato per decisione della giunta locale, così come Primavera dei
Teatri a Castrovillari. Le giunte erano di destra. A Moncalieri, dopo anni di
buoni risultati con il Teatro Civico Matteotti e con il Festival Theatropolis,
che ha portato in Italia anche formazioni poi ospiti a Santarcangelo e
RomaEuropa, è una giunta di centro sinistra ad aver ostacolato ed annullato la
direzione di Maurizio Babuin. E a Torino per il 2006 (che già ha rotto e tanto)
si organizzerà uno spettacolo multimiliardario con Ronconi! Se questa è il
nuovo, e l'apertura... e siamo in zona centrosinistra. La legge fatta durante
la legislatura di centrosinistra era pessima, inconsistente, non risolve i
problemi fondamentali. E poi le compagnie stesse dovrebbero, a mio parere,
essere più coerenti, ed anche un po' più eticamente corrette: non combinare un
Castiglioncello per propagandare soltanto gli spettacoli di alcune formazioni
già ampiamente (non tutte, ma in buona parte) finanziate. E quindi, farsi forza
di un elenco di decine di soggetti per pretendere ascolto dagli Stabili
d'Innovazione. Certamente io non ho la soluzione, ma vorrei anche comprendere
quale sia il problema principale: che taluni organizzatori non vengono assunti
dall'Eti? Che taluni critici non facciano più parte del mobilio degli enti
erogatori e delle commissioni giudicanti? C'è una gran confusione, ed ognuno
cerca di portare acqua al suo mulino. Sarebbe opportuno riuscire e discutere
senza avanzare critiche basate sul malcontento personale, o sulla credenza di
essere dei geni non dovutamente assistiti e glorificati. Andrea Nanni propose
tempo fa alle compagnie di ridurre i budget degli spettacoli, in modo da
riuscire a girare di più. Certo che se si montano spettacoli da dieci-quindici-
ventimila (!!) euro è una bella pretesa girare l'Italia. Una pretesa che porta
per forza a scontrarsi con strutture inadatte, innanzitutto economicamente. A
meno di compilare stagioni con quattro spettacoli. E poi per chi? Per gli
avvocati che vanno nel teatro comunale e si complimentano (o si lamentano) con
l'assessore e quindi questi con il responsabile del teatro?
Poi un poeta è liberissimo di iniziare un poema di ottantamila versi senza fare
nient'altro nella vita, sperando (sempre che non sia di famiglia benestante
come Carmelo Bene o Fabrizio De Andrè) che una volta terminato gli venga
conferito il Nobel. Ma di solito non accade.
Per la ricerca continuano a mancare strutture realmente specialistiche, che
però potrebbero vivere soltanto nelle grandi città, aprire i battenti ma
soprattutto proseguire (i problemi di Pistoia dovrebbero aprire gli occhi agli
scettici). I grossi teatri stanno in città con oltre un milione di abitanti, se
non molto molto più popolate (Londra, Berlino, Barcellona, Madrid, Parigi,
Bruxelles, New York, Los Angeles, Chicago, Melbourne, Sydney, Tokyo).
Che poi una compagnia, uno scrittore, un attore, un artista, per proseguire il
proprio lavoro, la propria ricerca, debba innanzitutto resistere è il più
vecchi insegnamento della storia dell'uomo.
un caro saluto
Tiziano Fratus
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Parlo anch'io Dal mio piccolo scranno di Nicola Dentamaro |
Dal mio basso scranno di "teatrante marginale" famoso nel mondo dei vinti, accetto di parlare o meglio ho deciso di scrivere.
Intendendo trattare temi di politica culturale applicata al teatro, permettetemi in apertura di citare Antonio Gramsci, un grande pensatore italiano, violentato con la più dura galera dal fascismo storico: "... L'intelligente può fingersi sciocco e riuscire a farsi credere tale, ma lo sciocco non può fingersi intelligente e farsi credere tale, a meno che non trovi gente più sciocca di lui, ciò che non è difficile." (da I Quaderni)
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Ritenendo di aver espresso con precisione il mio punto di vista sulle questioni "emergenti" nell'ambito teatrale nazionale, ed in particolare sulla quistione ETI, permettetemi di chiudere questa mia comunicazione puntuale ed a mio avviso efficace con un ultimo
granello di gramsciana saggezza: "La crisi è talmente grave e domanda mezzi così eccezionali che solo chi ha visto l'inferno può decidersi a impiegarli senza tremare ed esitare."
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Le ragioni del radicchio Ancora sull'ETI di Silvio Castiglioni, Direttore artistico Santarcangelo dei teatri |
Di cosa parliamo quando parliamo di teatro? Come domanda non è originale, ma non me ne viene una più intelligente scorrendo le risposte delle Istituzioni al dossier ETI di Mimma Gallina e soci pubblicato su www.ateatro.it.
Un’occasione perduta, almeno fino a qui, per capire indirizzo, campo di lavoro e progetti. A cosa serve l’ETI? E come intende dar corpo alle sue funzioni? Bastava poco per rispondere, e il tempo per pensarci c’è stato. Invece registriamo un imbarazzante silenzio progettuale che fino a prova contraria pare la conseguenza della singolare pratica di fare e disfare cultura a colpi di maggioranza.
Il tono delle risposte poi, il loro carattere tecnico amministrativo, personalmente mi intimidisce. Magari hanno ragione loro, pensi. E ti figuri il povero amministratore che nuota fra mille difficoltà verso la sponda troppo lontana dove finalmente applicarsi ai compiti dell’Ente: il sostegno e la promozione del teatro italiano. Viene in mente il proverbiale acquedotto siciliano, fa acqua da tutte le parti e poca ne giunge a destinazione. Poi cerchi un pensiero che possa orientarti al di là dei tecnicismi, della difesa dei posti di lavoro, o della immaginaria dismissione dei teatri dell’Ente. Insomma cerchi un pensiero che giustifichi tanta fatica, lo cerchi e non lo trovi.
A parte alcune oscure o bizzarre argomentazioni (come la semplice opposizione fra la gestione a carattere ideologico che avrebbe contrassegnato la passata gestione dell’Ente e quella attuale improntata invece alla massima democraticità: ma cosa vuol dire?) leggo solo autodifese d’ufficio. Eppure, ripeto, l’occasione era buona per una risposta ad alto livello, per assumere vincoli chiari di fronte al teatro italiano, che comprende anche tutti quegli spettatori che preferiscono impegnarsi in una partecipazione attiva all’evento teatrale e non si reputano semplici consumatori di prodotti culturali.
Quando l’incuria e l’abbandono si abbattono su quei fragili organismi che sono le compagnie di teatro e di danza, fatti di persone che rischiano in proprio, o quando si toglie il sostegno a progetti di lungo respiro che fanno circolare linfa vitale nelle aree meno favorite e suscitano aspettative nelle nuove generazioni, allora bisogna avere una alternativa all’altezza se no tutta la comunità si impoverisce. E si impoverisce il nostro futuro. Per esempio nessuno mi pare abbia ricordato come recentemente siano stati lasciati morire due festival: uno a Rovigo, e l’altro a Castrovillari, par condicio Nord - Sud. Perché non si è andati in soccorso? Non toccava anche all’ETI prendersene cura? E non serve una risposta tecnica, se si ha a cuore la cosa.
Par di capire invece che la mai abbastanza esecrata eventizzazione della cultura sia finalmente approdata anche all’ETI. Una vera sciagura che ha origini lontane e non è certo un brevetto della maggioranza al governo. Guai perciò a caricare tutto il peso sulle povere spalle dell’attuale dirigenza. Come se si parlasse dell’eventizzazione dell’agricoltura. In nome di che cosa poi? Del cosiddetto ritorno di immagine, che è una espressione che prima ti fa sorridere e poi ti mette i brividi. Basterebbe considerare il teatro alla stregua della coltivazione del radicchio. Che preferisce la cura quotidiana agli avvenimenti epocali seguiti da successivo abbandono. Insomma te ne devi occupare ogni giorno. Gli eventi che segnano sono quelli già accaduti, e appaiono tali solo nel ricordo. Non quelli preparati ad arte, che puzzano di marcio il giorno dopo. Ma è vero che quando sistema della comunicazione e sistema del potere si rispecchiano l’idea cultura uguale grandi eventi ha una sua agghiacciante coerenza. E il radicchio va a farsi benedire.
Regole, assenza di regole… Paghiamo ancora l’antica diffidenza nei confronti dello stato borbonico e l’aristocratica paura di un egualitarismo verso il basso. Così gli artisti di teatro italiani, compresi i grandi, spesso hanno preferito concludere un patto separato col principe, piuttosto che usare la loro influenza per ottenere buone regole comuni. Poi ci sono anche le semplici regole del galateo, a volte clamorosamente disattese nelle quotidiane relazioni di collaborazione fra colleghi o compagni di strada; o quelle invece, perfide, imposte dai potentati di turno ai giovani artisti emergenti obbligati a rinnegare le umili origini, ancora una volta in nome di un malinteso senso del marketing.
Eppure di lavoro da fare ce n’è molto e abbiamo una grande ricchezza a portata di mano. Generazioni di artisti straordinari, riconosciuti anche all’estero. Negli ultimi anni, e non solo al festival di Santarcangelo, si sono realizzati significativi progetti italiani in collaborazione con partner stranieri. Opere che non potremmo sostenere con le sole nostre forze e che poi girano più all’estero che in Italia, come è noto. Insomma l’Europa dei teatri sostiene il teatro italiano. Torna la domanda iniziale: ma di cosa parliamo? Parliamo di invenzione, di creazione? Non tocca anche all’ETI proteggere le condizioni della ricerca? Che futuro può avere un paese che trascura la ricerca? Non tocca anche all’ETI incoraggiare il teatro a rischiare, ad aprirsi alle sfide del mondo contemporaneo, perché possa reggerne l’urto con la sua capacità di invenzione? Cosa se ne fa il teatro, incluso il teatro italiano, della sua fastosa tradizione se non è in grado di fronteggiare l’esperienza quotidiana della catastrofe? E non è lecito aspettarsi che venga incoraggiato e sostenuto proprio quel teatro che getta sabbia nell’ingranaggio che fissa l’equivalenza fra sistema di comunicazione e sistema di potere?
Oggi più che mai abbiamo bisogno di inventori. Penso che si dovrebbero sostenere gli inventori e non assistere i rivenditori.
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La ricerca ri-unita? Alcune proposte di Giancarlo Nanni |
caro oliviero,
è stato un bene vedere che mimma gallina sia intervenuta sulla questione teatro, erano molti anni che, troppo occupata dalla direzione del mittelfest, non interveniva più... me la ricordo da 30 anni di frequentazioni agis.
non voglio addentrarmi troppo sull'Eti, perché a seconda di chi la dirige, la dirigeva, l'ha diretta anche in tempi lontani, nessuno e' mai intervenuto veramente per chiarire che l'80/90% del budget restante dopo i costi del personale, è sempre servito per sostenere chi di SOSTEGNI non aveva bisogno e cioè il complesso sistema del rapporto con i circuiti e le compagnie più affermate, sempre protette e favorite. I cosiddetti progetti speciali, il sud, etc. sono serviti per farsene un "fiore all'occhiello" per favorire alcune compagnie, direzioni agis sperimentali, alcuni artisti raccomandati, non c'è mai stata una vera progettualità discussa con gli artisti e le varie componenti del teatro di ricerca. Sono sempre stati discorsi tra i pochi, di volta in volta affacciatisi sulla scena politico/affaristica del fare teatro. Io mi limito a segnalare che per anni ho chiesto, inascoltato anche dai miei colleghi stabili e di giro, della ricerca:
- di formare tra Teatri stabili di innovazione (circa 25) e compagnie un Progetto unitario di informazione e diffusione delle opere artistiche;
- di negare, ai circuiti e all’Eti, la possibilità di completa autonomia nelle scelte, invitandoli aduna percentuale 35% da offrire alle compagnie di ricerca, con una rotazione annuale, anche per le maggiori compagnie di giro o per i teatri stabili, o altro ballerine, televisivi, etc.
- di misurarci tutti, sul mercato, in teatri di almeno 500 posti ad incasso, e quindi verificare realmente anche queste cosiddette fruibilità e attenzioni del pubblico. Sempre per citarmi posso indicare uno spettacolo As you like it di w.shakespeare con la mia regia e scene di andrea taddei con manuela kustermann e paolo lorimer, massimo fedele , etc, che ha avuto la posibilità di venire rappresentato a Trieste, al teatro Rossini, al Teatro stabile di Torino, Carignano, a Reggio Emilia etc, dove a fronte di un pagato di 6.000,00 euro gli incassi erano del doppio (12.000,00 euro), dunque un grande vantaggio economico per gli imprenditori; il risultato, anti economico e deludente, è stato la chiusura alla nostra compagnia nella stagione seguente, niente più piazze, e questo avveniva circa 8 anni fa, da allora abbiamo serie difficoltà a girare anche con Le Trachinie che abbiamo presentato quest'anno...
Voglio dire che la situazione denunciata da Fanny & Alexander che offrono il loro spettacolo a 7.000,00 euro (francamente un po' spropositato...) non mi meraviglia, perché se non si denunciano le lobbies dei Circuiti e il loro accordo con l'Eti e i teatri stabili, non se ne uscirà mai.
Servirebbe inserire nella legge per il teatro un obbligo percentuale, un obbligo a girare ad incassi in teatri con più di 500 posti, una turnazione delle produzioni. Anche i Teatri stabili di Innovazione dovrebbero creare un Progetto comune con le Compagnie di Ricerca, se 25 teatri e spazi ospitassero ciascuno 10 compagnie avremmo già una grande possibilità per tutti (ovviamente questo farebbe nascere un bisogno di selezione, necessario e doveroso sulla valenza artistica, non di stile, dei prodotti culturali). Un Progetto simile dovrebbe trovare adesioni e sponsor anche dall'Eti e dagli stessi circuiti e anche dai Teatri Stabili. Ma quando ho proposto questa operazione, in una recentissima riunione della Tedarco, che non se la passa troppo bene quanto a Presidenza e direttivo sfasciati..) ho visto un inconscio gesto di repulsione e sbigottimento... e poi il silenzio. Nessuno dei cosiddetti soci del Teatro d'arte e artisti anche non nell'agis riesce a superare lo scoglio delle appartenenze, dei clan, delle esclusioni, che poi in effetti sterilizza e paralizza ogni iniziativa.
In Italia siamo agli inizi di una possibile era della solidarietà e del lavoro comune nell'interesse della produzione culturale. Quanto alla nostra ospitalita' all'Eti, ripeto ancora una volta : meno male che c'è il Vascello, in questi 2 anni sono state ospitate 50 compagnie che hanno trovato un loro pubblico attento e caloroso. Certo si può fare di più, ma solo se ci uniamo in un progetto comune. In definitiva propongo di
INFORMARE TUTTI: COMPAGNIE D'ARTE, ARTISTI, COREOGRAFI, ETC. E SCRIVERE AI DIRETTORI DEI TEATRI STABILI DI INNOVAZIONE/PER RAGAZZI/TEATRI CHIAMATI RESIDENZE, E CHIEDERE UNA GRANDE ASSEMBLEA TELEMATICA DOVE RIUSCIRE A METTERE A PUNTO UN PROGETTO "LA RICERCA RI - UNITA?" CHE VEDA PARTECIPI L'ETI, I TEATRI STABILI, GLI STABILI DI INNOVAZIONE E RAGAZZI/I CIRCUITI TEATRALI E LE COMPAGNIE D'ARTE E D'INNOVAZIONE.
ABBIAMO STRUTTURE, CAPACITA', GENIALITA' SUFFICIENTE PER METTERE INSIEME UNA COSA COSI' SEMPLICE?
POI SCRIVERO' UN BEL SAGGIO SU:
PROGETTO ARTISTICO E POLITICA DEL LINGUAGGIO
CHE VI MANDERO'.
Caro Giancarlo,
nella tua lettera accenni a una GRANDE ASSEMBLEA TELEMATICA. E' esattamente quello che stiamo cercando di fare in queste settimane con l'appello ateatro parlate ora o tacete per sempre.
Insomma, il sito è a disposizione, stiamo pubblicando gli interventi man mano che arrivano alla redazione all'indirizzo info@ateatro.it (e se avete fretta, se temete le nostre censure - che non ci sono - se volete rispondere a qualche stronzata c'è sempre il glorioso Forum Nuovo Teatro Vecchie Istituzioni...)
Redazione ateatro
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En attendant Cofferati Una nuova prassi teatrale? di Adriano Gallina |
Caro Oliviero,
accolgo la sollecitazione e provo a buttare lì – anche con una certa franchezza che spero non urterà - un po’ di osservazioni sparse che nascono da un approfondimento dell’articolo pubblicato su «Hystrio» e dai molti spunti apparsi nel corso degli ultimi mesi sulla stampa e sul tuo sito, forum compresi.
Confesso un certo disagio, che credo capirai: nasce dalla sensazione che tutto ciò di cui stiamo discutendo – e che per noi (quantomeno nei toni, nella passione, banalmente ma significativamente nelle sorti salariali di ciascuno) rappresenta Il Mondo – costituisca solo, in realtà, una sorta di "epi-fenomeno", la provincia della provincia dell’Impero delle cose che contano, nient’altro che il sintomo periferico di una sindrome patologica nazionale (o più generalmente occidentale) di ben più ampia rilevanza. Credo e do per acquisito che uno sguardo in grado di contemplare provvisoriamente il microcosmo teatrale come Il Cosmo, dia per implicita – d’altra parte – l’irriducibile relatività del taglio analitico: e la comprensione, anche un po’ disincantata, che "la vita e la morte" certo si possono giocare anche qui, ma sicuramente sono ben più in gioco in Iraq, o – per localizzare – nei due milioni e mezzo di famiglie alla soglia di povertà nel nostro paese, o negli anfratti mercantilistici del sistema sanitario lombardo. E chi più ne ha più ne metta.
Questo sia detto per ridimensionare, da un lato, la prospettiva un po’ tolemaica che caratterizza le nostre discussioni e nel contempo, dall’altro lato, per tentare di identificare i differenti livelli a cui si collocano i problemi del sistema teatrale italiano. Il dibattito, infatti, pare a volte avvitarsi – senza riuscire ad operare una chiara distinzione – in una dialettica che ha in realtà almeno due poli, che in larga misura si implicano reciprocamente ma che non sono identici: non possono essere del tutto distinti, se non in una prospettiva analitica ma vorrei però cercare comunque di sviluppare separatamente le riflessioni.
1. Le responsabilità degli operatori
Per un verso il problema della prassi teatrale, di come cioè il sistema teatrale vada declinando più o meno coerentemente le sue vocazioni ed orientamenti, di come le stabilità si pongano in relazione con l’arcipelago dei gruppi e con il territorio, di come i gruppi – a loro volta – si rapportino, più o meno realisticamente e concretamente, con le dinamiche produttive, organizzative ed economiche di una geografia che, volenti o nolenti, rappresenta hic et nunc il loro mercato, ecc.
Premettendo che l’universo di tutto il mio ragionamento prescinde, a priori, da tutto l’ambito del teatro privato (in senso genericamente commerciale) e verte fondamentalmente sui problemi del cosiddetto "nuovo teatro", dividerei ulteriormente la questione, accogliendo da un lato la preziosa terminologia adottata nell’editoriale di ateatro che accomuna – sotto il titolo di "Teatro Pubblico" – i due poli della stabilità pubblica classica e della stabilità d’innovazione e, dall’altro lato, dicendo due parole sull’arcipelago dei gruppi.
(a) Le stabilità d’innovazione
Sul piano teorico, l'idea di "stabilità" riferita ai centri di ricerca e di teatro ragazzi pare sottendere un modello - artistico, organizzativo e geografico - che attribuisce a questi organismi una doppia funzione: per un verso, ovviamente, il compito di rappresentare uno snodo di eccellenza produttiva coerente con la propria vocazione, caratterizzato (è anche il dettato ministeriale) da un nucleo artistico appunto "stabile", in grado di operare ai massimi livelli della produzione d'arte di settore; dall'altro lato, una funzione essenziale di natura eminentemente organizzativa e strutturale: il centro deve costituire uno dei poli del sistema del teatro italiano anche come momento promozionale e distributivo sul proprio territorio, porsi come attore incisivo nel tessuto delle politiche culturali, polo di aggregazione e formazione di nuovi pubblici, luogo di irradiazione e diffusione della nuova scena. Una funzione la cui declinazione si dovrebbe tradurre anche sul versante politico, nella persistente pressione all'apertura di nuovi spazi ed ambiti di promozione di un teatro che - per sua natura - ha la necessità del sostegno pubblico, nella vertenza permanente per la riallocazione delle risorse, nel porre programmaticamente sul tavolo della riflessione il tema della ratio degli investimenti istituzionali.
Se "stabilità", in rapidissima sintesi, si può schematizzare in questi termini, l'idea di "innovazione", al contrario, rappresenta un tema sfuggente, di grande complessità, declinabile in forme estremamente differenziate che non è possibile sviscerare in questa sede. Qualunque cosa il termine significhi sul piano descrittivo o teorico, peraltro, non vi è alcun dubbio che l'idea di "innovazione" porti con sé quantomeno due rilevanti implicazioni di natura, al contrario, normativa, in senso non giuridico: da un lato il dato strettamente (e non necessariamente banalmente) anagrafico, in base al quale un teatro stabile d'innovazione si dovrebbe porre - coerentemente con l'autonomia e la parzialità della direzione artistica ma strutturalmente - in una predisposizione all'attenzione a quanto di "nuovo" si affaccia sulla scena e alla sua promozione, con una particolare attenzione al territorio di riferimento; dall'altro lato, ma ovviamente in stretta connessione logica, la considerazione che la funzione di uno stabile di innovazione è probabilmente e precisamente proprio quella di porsi come luogo di maturazione, circuitazione, crescita artistica (ma anche snodo economico) di un teatro costitutivamente a rischio culturale, a scarsa o difficoltosa circuitazione, strutturalmente di nicchia ma potenzialmente aperto anche al pubblico più vasto; in una visione evolutiva del sistema e del gusto che - in prospettiva storica - vede avvicendarsi innovazione e tradizione lungo un percorso nel quale la tradizione di oggi è l'eresia di ieri, le folle acclamanti di oggi erano i venti spettatori di cinque anni fa.
Ecco, è forse questo il senso più profondo che potrebbero avere gli stabili di innovazione: se la crescita e la sacrosanta affermazione di un artista o di un gruppo nell'universo sclerotizzato del teatro si configura come un "rito di passaggio", con una partenza ed un approdo, lo Stabile di Innovazione può forse rappresentare il "margine", il processo, il viaggio. Fino a lidi certo più attrezzati e confortevoli: ma a cui si arriva solo dopo. Gregory Bateson ci ricorda che occorre "pensare come pensa la natura": la natura evolve solo grazie alla dialettica che intercorre tra mutazione e ambiente naturale; la mutazione si genera, tenta di diffondersi, e l'ambiente la controlla e ne verifica la vitalità. Non è molto diverso in teatro: e se un ambiente radicalmente conservativo tende a prevenire e limitare il diffondersi della mutazione, il ruolo degli Stabili di Innovazione è invece generarne in continuazione, promuoverne la proliferazione.
Se questa è una possibile teoria degli Stabili di Innovazione, un'analisi descrittiva del quadro nazionale mostra al contrario - in realtà - un'immagine molto meno nitida e coerente. Una valutazione della prassi mediamente ormai quasi trentennale di questi organismi attraverso le loro varie fasi di transizione evidenzia in effetti come gran parte delle premesse e delle aspettative che ne avevano accompagnato la nascita e lo sviluppo siano state ampiamente disattese, sotto diversi punti di vista.
Se non è forse il caso di parlare del quadro produttivo che ne ha segnato la storia - contraddittorio, raramente (tranne in alcuni casi) realmente significativo dal punto di vista dell'eccellenza artistica, quasi sempre senza una politica di reale stabilizzazione del nucleo artistico, volta per volta costituito intorno a progetti estemporanei di allestimento, produzioni di compagnie terze, agibilità accordate a gruppi totalmente autonomi sovente anche sul piano organizzativo - è interessante invece osservare come sia venuto meno, e in realtà non sia mai stato di fatto percorso e realizzato, lo stesso possibile senso organizzativo e di sistema implicito nelle prospettive di progetto degli stabili di innovazione.
In breve, oggi, la "dorsale" costituita da questi organismi si configura - certo con le dovute eccezioni - come una rete fondamentalmente priva di fisionomia, che pare condividere una koinè poco più che nominale, che non pare rappresentare neppure uno snodo interessante (non diciamo sostanziale) per la circuitazione dei gruppi che operano nell'area della ricerca. Come è indiscutibilmente accaduto in forma estremamente radicale nel settore del Teatro Ragazzi - nonostante la persistente e un po' corporativa persuasione contraria dei relativi stabili - anche nell'ambito della ricerca il sistema si sta sempre più strutturando lungo le direttrici di una stabilità diffusa, di aree, teatri e piccoli bacini di programmazione gestiti direttamente dalle compagnie, forme di residenzialità non-istituzionalizzata, rassegne tematiche spesso collegate ad una funzione complessivamente socio-culturale della connessione organica di un gruppo alla propria comunità. Una realtà diffusa che, altrettanto indiscutibilmente, è insieme causa ed effetto della crisi di fisionomia e di attività degli Stabili di Innovazione.
Spesso sospinti, sul piano produttivo e della programmazione, a percorsi di omologazione agli Stabili Privati - anche sulla base di pesanti spinte esogene, di natura politica ed economica - o alla pratica di un teatro senza contorni, tutto teso esclusivamente alla conquista di dati collaterali rispetto a quanto accade sul palco, in una declinazione del ruolo del teatro stesso in chiave più sociologica che artistica, più legata alla dimensione dell'intrattenimento e dell'organizzazione del tempo libero che all'evento scenico, gli Stabili di Innovazione hanno soprattutto mancato in questi anni il compito storico di "creare circuito", di divenire organismi promotori di innovazione diffusa. Anzi, da questo punto di vista, pare di assistere sempre più negli ultimi tempi ad una declinazione "estrema" dell'idea di stabilità, caratterizzata da cartelloni pressoché totalmente costruiti sulle produzioni del centro che gestisce la sala: una pratica del resto incentivata dalla spinta alle lunghe teniture presente nel più recente regolamento ministeriale.
Eppure il senso, e forse la necessità, di questi organismi può ancora essere rintracciata proprio nella capacità con cui riusciranno, soprattutto in prospettiva, a definire (o ri-definire) un proprio ruolo e una propria funzione pubblica in relazione al loro naturale referente, territoriale ed artistico: le giovani compagnie dell'area della ricerca, che tanto giustamente sollecitano da tempo un dialogo ed un confronto. Ricostruire cioè una relazione di effettiva reciprocità e collaborazione con i gruppi, in co-evoluzione, nella consapevolezza delle rispettive interdipendenze. Rappresentare e stimolare, nel contempo, un reale mercato sostenibile, sempre più necessario quanto più la prospettiva dell'intervento pubblico si va assottigliando, sviluppando in parallelo - per quanto possibile - una nuova fase di "creatività organizzativa", nuove dimensioni di decentramento, di contagio, di apertura di piazze e circuiti (un attivismo ed una tensione al decentramento, per contro, molto praticati e sviluppati dagli Stabili per l'infanzia e la gioventù).
Probabilmente solo con il recupero e il perseguimento coerente di queste linee programmatiche - marcando cioè, e rivendicando, le differenze con i fratelli maggiori Pubblici e Privati e non rincorrendone una somiglianza strutturale e quantitativa - la tanto rivendicata "pari dignità" sarà possibile e sensata. Certo questo, altrettanto probabilmente, comporta una drastica revisione di prassi consolidate, di tentazioni all'omologazione irrestistibili, di abitudini e modelli organizzativi cristallizzati: una sorta di piccola "rivoluzione culturale" di cui non è dato, ad oggi, vedere le reali prospettive e l'effettiva possibilità. Forse solo nella capacità di pressione dei nuovi gruppi e nella proliferazione delle realtà di stabilità diffusa può essere riposta, in prospettiva e al di là della buona volontà degli individui, la speranza di una ripresa di quelle istanze, non foss'altro che in chiave difensiva.
(b) La Stabilità Pubblica
Sulla stabilità pubblica, in chiave teorica, non ho molto da dire. Credo che sul suo senso astratto e sulla sua funzione – sia pure nella consapevolezza dei mutamenti sociali e culturali del Paese - non si possa aggiungere molto rispetto alle elaborazioni degli anni Cinquanta, alle revisioni critiche degli anni Sessanta, alle pagine di Giorgio Guazzotti o al manifesto del Piccolo Teatro, al "teatro d’arte, per tutti". Così come trovo grande difficoltà a riflettere in chiave non banale sui problemi delle nomine, sulla dialettica (o opzione) tra sistema maggioritario e proporzionale (per cui rimanderei alla lettura di un pericoloso "comunista" come il grande filosofo liberale del diritto come Hans Kelsen), sulla pratica dello spoil system, sui temi dell’autonomia della cultura, ecc.
Ben più interessante mi pare, al contrario, porre sul tavolo della discussione (senza la pretesa di proporre soluzioni, che io per primo non possiedo) una rilevante contraddizione – teorica e pratica – che attraversa il sistema italiano (ma, è da ammettere, gli stessi sistemi cognitivi di chi dirige uno stabile di innovazione). Riporto alcuni esempi concreti, senza esaustività:
(a) Il più significativo, nei tempi recenti, è il caso del Mercadante di Napoli, stabile pubblico in pectore la cui natura – quantomeno a 700 chilometri di distanza – è in larga misura sovrapponibile a quella di uno stabile di innovazione;
(b) I casi Stabile dell’Umbria ed ERT, con il loro rinnovatissimo impegno produttivo sul fronte del nuovo teatro (dai Magazzini a Celestini a Cirillo);
(c) Il Piccolo Teatro, che produce Il Grigio di Gaber, con la regia di Serena Sinigaglia e l’interpretazione di Fausto Russo Alesi.
Ecc., ecc., ecc.: di fronte a questi (ma a numerosissimi altri) casi, provo personalmente una straordinaria soddisfazione. Finalmente giovani (e meno giovani) artisti che riescono ad approdare al livello (economico e di visibilità) che meritano. E, soprattutto, finalmente gli Stabili Pubblici "fanno il loro mestiere".
Ma – ecco il tarlo - è questo, deve essere questo, il loro mestiere (o parte del loro mestiere)? Ma questo non è anche il nostro mestiere, degli Stabili di Innovazione? E che cosa allora rende razionale – al di là della prassi di sperpero produttivo ma soprattutto burocratico ed amministrativo che ne caratterizza i bilanci – la straordinaria divaricazione tra il loro contributo ministeriale e il nostro? Se le funzioni sono le stesse (dovrebbero essere le stesse), se in entrambi i casi si parla – e condivido – di teatro pubblico, dove risiede la ratio della disparità? E per esempio, se le funzioni sono (dovrebbero essere) le stesse, perché l’affaire "Laboratorio Teatro Settimo/Stabile di Torino" ha, tanto giustamente, colpito e animato il dibattito interno al nuovo teatro? Si sarebbe trattato, in fondo, solo di una razionalizzazione delle funzioni…
La chiave per un possibile percorso di analisi (ma forse non di soluzione), credo, è duplice: e, al centro, come nella questione Settimo, come nelle parole dell’Assessore Carrubba a Milano che chiama il Piccolo "il mio teatro", come nelle varie forme di censura, come nella questione Martone a Roma, sta ancora una volta il tema della libertà, come dato costitutivo e non negoziabile del fare artistico. La ratio della disparità, cioè, pare appunto – probabilmente – la disponibilità a cedere sull’autonomia in cambio di un sano ripianamento automatico dei buchi di bilancio. Libertà condizionata fino al prossimo CdA. E se è pur vero che la funzione di controllo, in un ente pubblico o a funzione pubblica, è essenziale e determinante, è inutile fingere di credere che un teatro condizionato in forma così stringente dal potere politico possa emanciparsi dal suo ruolo, ancorché marginale, di "apparato ideologico di Stato", come la scuola o la TV. Da questo punto di vista, il problema esce dal teatro e si va a connettere con i più ampi temi della democrazia e della politica, su cui dirò brevemente oltre. E’ d’altra parte molto interessante notare come – per esempio in Lombardia sul fronte legislativo – il controllo del sistema politico sul mondo teatrale (ma in generale in ambito culturale) si vada espandendo esponenzialmente attraverso la pratica della riduzione drastica dei pochi elementi di certezza del diritto presenti nelle leggi in vigore, piegando organismi ed operatori alla consuetudine della progettualità su committenza, alla dimestichezza con le programmazioni concordate, cioè a dire alla "concertazione" della cultura su basi legate al gradimento del principe di turno. Da questo punto di vista – di fronte alla progressiva contrazione delle risorse e al condizionamento della disponibilità delle risorse al gradimento politico – il teatro paradossalmente tanto più può accrescere la sua funzione pubblica quanto più riesce in prospettiva ad avere una dimensione, un’economia ed un’organizzazione privata, a confrontarsi con (e a costruire) un mercato realmente alternativo e, come dicevo in precedenza, sostenibile, soprattutto sul piano economico: un contesto che ricorda molto da vicino la nascita del circuito alternativo e l’attivismo delle cooperative degli anni Settanta.
Ciò detto, l’altro versante di analisi possibile sulla dialettica tra stabilità di innovazione e stabilità pubblica riprende invece, forse con qualche ingenuità, la metafora "evoluzionistica" accennata in precedenza, che a mio avviso riflette del resto anche un dato storico: se immaginiamo un sistema teatrale strutturato per stadi progressivi di crescita organizzativa, economica e "di consenso", nel quale – come dicevo – il nuovo teatro di oggi altro non è se non il teatro "ufficiale" di domani; se oggi non fa più alcuna impressione trovare Tiezzi (non parliamo di Paolini) nei teatri comunali di mezza penisola, allora forse il sistema delle stabilità si può configurare (anche, in questo, rendendo ragione della disparità delle sovvenzioni) come una sorta di "grande catena dell’essere" percorrendo la quale la storia del teatro si viene progressivamente costruendo.
Da questo punto di vista, una fondamentale funzione del controllo (e la sua ragione principale) deve vertere sull’effettività e coerenza delle pratiche e dell’investimento in relazione al ruolo attributo al modello di stabilità considerato (ossia che, per esempio, l’investimento di uno stabile pubblico su un giovane artista della ricerca rappresenti per lui una reale crescita economica, organizzativa, di mezzi artistici e non semplicemente, per lo stabile stesso, un’opzione di produzione a basso costo alla ricerca di nuovi borderò e nicchie di mercato). Un dato, quest’ultimo, che viene spesso disatteso, giustificando in questo l’inquietudine di molti stabili d’innovazione rispetto alla sovrapposizione di funzioni e pratiche con competitors (brutto termine molto in voga) in grande ed insuperabile vantaggio.
(c) L’arcipelago dei gruppi
Il dibattito aperto su ateatro dall’appassionata lettera di Fanny & Alexander (così come, molto prima, dal documento costitutivo di Faq, il coordinamento delle compagnie lombarde) mi consente di svolgere brevemente alcune riflessioni sui gruppi del nuovo teatro.
In questi tre anni di direzione del Teatro Verdi ho tentato di praticare – almeno nelle sue linee generali – quanto sostenuto in precedenza rispetto alle funzioni che io attribuisco alle stabilità di innovazione.
Quel che mi pare interessante qui rilevare, e che evidenziavo a settembre nella presentazione della stagione in corso, è un dato economico: cioè che paradossalmente nell’arco delle ultime due stagioni – caratterizzate da una radicale e visibilissima apertura al nuovo teatro, con una particolare attenzione alle compagnie lombarde (e assolvendo quindi anche un ruolo istituzionale legato al territorio) – la sala ha quasi raddoppiato la presenza media di pubblico. E se è del tutto evidente che si tratta, nel nostro caso, di numeri tipicamente e strutturalmente "di nicchia" è, crediamo, altrettanto evidente che qualsiasi valutazione quantitativa va effettuata per categorie omogenee, in chiave relativa. Ed è anche del tutto evidente che non sono in questo contesto i numeri in sé a valere qualcosa (nonostante la persuasione di molti), ma che i numeri vanno letti solo in relazione alla natura delle scelte di programmazione.
E allora, se tutto questo è vero, parafrasando il movimento new global mi vien da pensare che "un altro teatro è possibile", che è solo un problema di modelli di sviluppo, che l’alternativa non è – non solo sul piano culturale, ma anche dal punto di vista della "sana ed oculata gestione", dell’economia, dell’efficienza organizzativa – tra mercato, botteghino, chiamata e al contrario proposta élitaria ed economicamente deficitaria: ma tra sclerosi ed appiattimento su certezze consolidate e spinta rigorosa all’innovazione.
Spinta rigorosa, dicevo tuttavia. Che significa anche intelligenza amministrativa, capacità di accompagnare il coraggio alla consapevolezza – dolorosa ma anche eticamente doverosa – che un teatro che affonda come il Titanic ballando il valzer la prossima stagione prossima non servirà a nessuno. Con questo, sia chiaro, non voglio negare le inadempienze, le scorrettezze, gli sprechi che ho già denunciato altrove.
Ma questa capacità o necessità di declinare immaginazione, coraggio e rigore – a complemento – non può a sua volta (e di conseguenza) che divenire patrimonio comune, stile produttivo, capacità organizzativa delle compagnie. Anche le compagnie rischiano la sorte del Titanic, e quello che pare un omicidio commesso dagli "operatori assassini" sempre più spesso si configura come un vero e proprio suicidio, compiuto nel segno di un irrealismo – certo eroico e vocato alla libertà dell’arte e della ricerca – ma altrettanto certamente senza sbocchi. E, mentre le profferte di solidarietà si sprecano, io – scusate anche il termine – mi incazzo, con la solidarietà gratuita ma soprattutto con i gruppi! Perché, anche sul piano morale, anche un gruppo (esagero, ovviamente, ma non troppo) ha il dovere di non suicidarsi, di percorrere strade sostenibili, di perseguire un’autonomia che lo emancipi dalla dipendenza dalla più o meno accentuata filantropia di questo o quel teatro, dell’ETI, del Ministero, della Regione, della Critica, ecc.
In un sistema nel quale la ricerca ha numeri di nicchia e nel contempo – almeno nelle aree metropolitane – ospitalità a garantiti giocoforza risicati (o comunque con compensi coerenti con le attese di presenza) questo significa fare i conti – in termini di cachet, di costi di allestimento e produzione, di macchina organizzativa - con il mercato hic et nunc, non con un mercato futuribile o astratto o con una visione idealtipica delle stabilità di innovazione. Il che ovviamente non significa astenersi dal denunciare, colpo su colpo, ciò che non va: ma rapportarvisi realisticamente, oggi, per poterli cambiare domani.
E questo significa anche – sia detto per gli amici di Faq – che alla denuncia sacrosanta delle inadempienze degli operatori va affiancata un’analisi e una denuncia almeno altrettanto forte della scomparsa (o della "corruzione") delle poche oasi felici di programmazione destinata alla ricerca, pubblicamente sostenuta, esistenti un tempo nel paese: non una parola per esempio sul fatto che "Altri Percorsi", un tempo fiore all’occhiello (o mosca bianca) della programmazione lombarda, si stia estinguendo e diluendo in un ibrido senza più alcuna fisionomia, un bacino per programmazioni tradizionali che non trovano posto nei cartelloni ufficiali dei teatri comunali e che vengono sostenute dal denaro pubblico. O, per spostarci a Ovest, che in Piemonte nasca un nuovo circuito, che assorbe in parte il denaro storicamente assegnato a Settimo senza restituire de jure alla ricerca alcunché.
Questo per dire che è a mio avviso necessario (e lo sarà sempre più nel breve termine) che i gruppi riducano in parte l’enfasi sul sostegno produttivo da parte delle stabilità per volgersi alla riscoperta e apertura di nuove piazze, di bacini di distribuzione, eventualmente anche percorrendo i confini di "un possibile sistema extra-teatrale", per dirla con Tosatti. Forse il sistema va ricostruito piazza dopo piazza. Il Verdi, con i suoi bassi garantiti, è a disposizione.
2. Il livello politico
L’altro grande corno della questione è il problema della relazione politica e sindacale del mondo del teatro con l’interlocutore istituzionale a tutti i livelli, dal comune al Ministero all’ETI.
Da un lato, e banalmente, gran parte di quanto accade a questo livello dipende dagli orientamenti politici in materia culturale dei governi locali e centrali, della considerazione variamente residuale in cui il teatro è considerato, dagli orientamenti in prospettiva relativi alle politiche di welfare (o di servizio pubblico) e alla loro progressiva demolizione. In questo quadro la spinta al mercato presente in modo implicito o esplicito in numerosi articoli del nuovo regolamento ministeriale e in alcune legislazioni regionali e comunali (ma soprattutto nell’entità reale degli stanziamenti sulla cultura) non è altro che il corollario di una weltanschaaung: e da quest’angolo visuale, il problema si viene a collegare ad una riflessione sulla necessità dell’impegno politico in senso più ampio, nel quale – anche da parte dei soggetti teatrali – la battaglia per il sostegno al teatro non può, per essere coerente, che connettersi ad una mobilitazione globale per la difesa dello stato sociale e della democrazia. L’era Bush-Berlusconi, cioè, pare imporre – ed è valso per molti, in questi anni – un "ritorno alla politica". E forse, anche in chiave di lobby sul modello dei girotondi, una più stringente interlocuzione del mondo del teatro con il sistema dei partiti, in particolare ovviamente d’opposizione: in questo senso è piuttosto importante a mio avviso che il 15 marzo, al convegno indetto dai DS sullo stato del teatro, la piazza venga visibilmente sottratta a chi da 50 anni rappresenta il teatro operando affinché "tutto cambi per non cambiare nulla".
Si innesta infatti in particolare, su questo nodo, il tema della rappresentatività ed incisività dell’AGIS in relazione al teatro reale e soprattutto in relazione al suo possibile rinnovamento.
Con il più recente regolamento si è a mio avviso evidenziato il più radicale limite della prassi storica dell'AGIS nei confronti delle istituzioni: l'incapacità cioè di porsi, rispetto allo Stato, in una posizione – certo civile ma ferma ed intransigente – di controparte sindacale anziché di umile e solerte fiancheggiatore lobbystico e corporativo, sempre a cappello teso alla ricerca di elemosine giorno dopo giorno più risicate, negoziate sempre più al ribasso e spesso, implicitamente, con l'intento evidente di tutelare interessi molto ben identificabili. Una pratica che ha cristallizzato uno stile in cui la "concertazione" è sempre più stata declinata in chiave compromissoria e in cui la tutela dei principi si è sempre più tradotta nell'abdicazione, all'insegna di un "realismo" di basso profilo. Il 2003 teatrale con i suoi disastri, Polo o non Polo, liberismo o non liberismo, crisi del welfare o meno, è lì a testimoniarlo. Del resto l’AGIS non è un sindacato ma un organismo più simile – per esemplificare - alla Confindustria. Non rappresenta lavoratori, ma imprese. Soprattutto, credo, in quanto tale non rappresenta "il teatro", una categoria in sé vuota, attraversata da infinite contrapposizioni e conflittualità.
Il 26 febbraio, a Roma, si apre ufficialmente la cosiddetta "vertenza spettacolo". Con le parole del Presidente Francesconi "non va interpretata, come farebbe intendere il significato letterale del termine, come azione sindacale promossa 'contro' le istituzioni, bensì quale 'iniziativa per lo spettacolo' per richiamare l'attenzione su una componente della vita della nazione troppo spesso trascurata o considerata effimera" (circolare n. 23 del 2 febbraio 2004). Ecco: se la terminologia e l'intenzione paiono molto interessanti, molto più preoccupante mi pare l'implicazione dell'excusatio non petita relativa alla precisazione sul senso "non letterale" del vocabolo "vertenza".
Credo che ciò di cui ha bisogno oggi il teatro, per oltrepassare la dimensione storica della propria subordinazione, sia esattamente - al contrario - la rivendicazione di una dignità economica, culturale, di servizio che può essere sostenuta (con qualsiasi interlocutore) solo in termini schiettamente sindacali, quindi anche di contrapposizione. Che è del resto ciò che distingue, storicamente, il modello sindacale da quello delle corporazioni. E' mia convinzione che questo non accadrà, non può accadere attraverso l’AGIS, e che la vertenza spettacolo si tradurrà in una testimonianza o in una litania di petizioni di principio che si esauriranno nell'arco di pochi mesi.
Forse la chiave di volta per una nuova rappresentanza del teatro, quantomeno del nuovo teatro – nonostante i faticosi (ma, devo dirlo, seri) tentativi recenti di TEDARCO di ricostruire il proprio senso e la propria struttura interna – è possibile oggi solo fuori da un’associazione a mio avviso storicamente troppo compromessa in consuetudini di relazione morbida con il palazzo: forse percorrendo, ma in forma organizzata e strutturata, modelli di autoconvocazione (dai COBAS ai Girotondi al movimento no global), forse «en attendant Cofferati».
Soprattutto, però, individuando forme concrete, praticabili ed incisive di lotta, che attualmente non saprei indicare: sapendo che, purtroppo, i Teatri non sono autobus e che la loro chiusura per sciopero, forse, a qualcuno potrebbe persino far piacere.
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Roghi Fiaba nera sul teatro italiano di Teatro Aperto |
La tentazione di tacere per sempre è stata molto forte.
Non certo perché non ci sia nulla di cui parlare. Anzi.
Abbiamo preso tempo per studiare ogni intervento e conseguente scatenamento di risposte. Ci è stata necessaria una concentrazione titanica per leggere tutto il «pappone».
Riassumendo con forzata velocità: condividiamo tra gli interventi che ci precedono quelli più pratici, che propongono azioni e risoluzioni per scuotere il sistema ingessato (solo per citarne alcune: passare dai beni culturali al ministero del lavoro, uscire da rappresentanze incancrenite, difendere il concetto di teatro pubblico etc.). Azioni e risoluzioni estemporanee e ingenue forse, che presuppongono però il pensiero di un cambiamento. E quindi ci paiono per ciò stesso vitali, necessarie.
Eppure...la tentazione di tacere è molto forte.
Perché?
Perché ci martellano la testa alcune questioni di principio, che noi consideriamo preliminari a qualsiasi azione e risoluzione:
1) All'opinione pubblica italiana frega qualcosa del teatro?
Come mai proprio ora «l'Espresso», che ha imperversato all'epoca con le sue opinioni nella vicenda Martone/Teatro di Roma, scatena questa polemica sul teatro con nomi e cognomi, quando mai nessuno in Italia aspira a fare nomi e cognomi? (tanto meno noi "artisti" che come è noto nei corridoi diciamo tutto, ma in pubblico non sia mai... sempre pronti a leccare il culo).
Si parla addirittura di conflitto d'interesse, clan, parrocchie, lobbies – concetti così difficili da esprimere soprattutto nel mondo del teatro che ne è governato fin nel midollo.
Noi per l'articolo abbiamo gridato «wow!», la trasparenza, salvo poi chiederci come in ogni "mani pulite" che si rispetti: che stiano strumentalizzando il nostro settore, di cui obiettivamente non frega niente a nessuno, per qualche bega politica del momento?
Al cittadino italiano che paga le tasse... anche se mettiamo il caso non fosse uno spettatore di teatro... a questo cittadino frega qualcosa del teatro? Gli interessa sapere dove vanno a finire i suoi soldi, come gli interessa dei suoi soldi spesi per il calcio, o per la pratica del vetro soffiato di Murano, o per la scuola, o per il ponte sullo stretto? Il lettore dell'«Espresso» è stato colpito dall'articolo sul teatro? O se ne è già dimenticato?
2) Alle nostre rappresentanze frega qualcosa del teatro?
Il Governo di oggi ci scandalizza. L'ETI di oggi ci scandalizza. E fin qui spariamo sulla Croce Rossa. Ma in tutti gli anni precedenti cos'è successo di così illuminante per il teatro? Chi al governo si è mai preoccupato della necessità di risoluzioni politiche efficaci per permettere al teatro e quindi a una fetta di cultura del suo paese di sopravvivere, no anzi, di vivere dignitosamente, portando lustro all'immagine italiana? Cosa ha ottenuto l'AGIS per il nostro settore, cosa ha ottenuto e per cosa ha lottato si chiede giustamente la redazione di ateatro citando i numeri da barzelletta di un Fus degradante nei secoli? E l'ETI, la Biennale, l'Inda...?
3) MA SOPRATTUTTO: A noi teatranti frega qualcosa del teatro?
Ci interessa al di là di noi e della nostra libera e artistica espressione e del nostro sano egocentrismo?
Sentiamo già che vi state incazzando, ma la domanda non è così banale. E' la domanda a cui si dovrebbe rispondere "sì", salvo tacere per sempre.
Ma non basta rispondere sì.
Proviamo a chiederci: per quanto tempo i nostri cuori rimarranno infiammati da questi argomenti? O peggio già lo sono stati salvo poi sfiammarsi?
Per quanto tempo avremo voglia di dimenticare le nostre quotidiane miserie e di lavorare compatti e in prospettiva per dare davvero basi serie e condivise al nostro settore?
Quanti "no" riusciremo a dire, faticosi e penalizzanti anche ai padri, ai cugini, ai fratelli, al sistema?
Quanto riusciremo ad esporci pubblicamente, a rischiare pubblicamente con le nostre opinioni mettendo in secondo piano i nostri interessi, la paura del potere di cui siamo vittime, il fascino del sistema in cui vogliamo entrare, le poltrone su cui ci vogliamo sedere?
E più il nostro lavoro funziona, più queste domande aumentano, più siamo circondati da adulatori, da mezze verità, da compromessi a cui abbassarci.
Quanto siamo disposti a perdere per creare un altro sistema? E davvero facendolo perderemmo più di quel niente che già abbiamo? O forse il nostro niente è comunque troppo comodo, abbastanza caldo da mantenerci tranquilli e inoffensivi per sempre.
Questi sono i dilemmi.
Un sistema alternativo a quello odierno è forse possibile. Il forse è dato dal fatto che questa possibilità è soprattutto in mano nostra e che fino ad ora non siamo stati in grado di approfittarne.
Basterebbe aprire gli occhi per vedere che il nostro presente è ormai come la giacca di Walter Chiari. Ve la ricordate quella stupenda gag: il sarto stringe di qua, modifica di là, rappezza, comprime, aggiusta fino a che la giacca può essere finalmente indossata: sì, indossata da un uomo storto.
Vi alleghiamo una fiaba scritta quest'estate in periodo di incendi, di meditazione e di indignazione.
Non vuole essere un atto di superbia il nostro, di stare a far poesia o a sfogliare margherite mentre gli altri si sporcano le mani. E' così per spezzare un po' lo stile del «pappone». Non saremmo comunque in grado di fare meglio di chi ci ha preceduto negli interventi con precisione, cura e con dovizia di particolari.
Come ultimo desiderio vorremmo proporre che ateatro si presenti con questo dossier che sta raccogliendo direttamente in occasione dell'interrogazione parlamentare indetta dall'On. Chiaromonte e in mille altre occasioni pubbliche. Giusto per ribadire che è ora di uscire dal giardinetto.
ROGHI
Fiaba nera sul teatro italiano
di Teatro Aperto
(Pubblicato in www.nazioneindiana.it in << allarmi >> il 18.08.03)
E’ da mesi che aspettano una mia mossa.
La torcia accesa in mano, li tengo in scacco e loro sanno che tutto dipende da un mio gesto.
Loro dei gesti conoscono il significato e il valore, li studiano nei minimi dettagli e capiscono cosa sto per fare: prendere la torcia con la mano sinistra e il fiammifero con la mano destra; le spalle rilassate tenere la torcia ben salda e darle fuoco con il fiammifero; poi scrollarlo con un abile gioco di polso fin che si spegne e lì lasciarlo cadere. Guardare il fuoco che anima la torcia nella mano sinistra e passarla nella destra. Stare fermo e carico d¹attesa, trionfale. Pregustare la vittoria. Poi agire.
E’ caldo, caldissimo, una canicola che non permette quasi di respirare.
Questo deserto indubbiamente mi favorisce. L’assenza d’aria e di idee, il sole che spacca il cervello e le pietre, le parole vuote dei turisti che rimbombano e confondono.
Lo Stato sta con me, mi copre le spalle, lo sa che faccio il lavoro sporco per i suoi sporchi giochi, ma ognuno qui ha il suo ruolo e la sua storia. Si è lavorato duramente per creare questo clima, per disarmare anche i più convinti e ridurli a grotteschi simulacri di loro stessi.
Li guardo a distanza. Fermi. Assediati. Stremati. Impassibili.
Sono chiamato a dare l¹ultimo colpo di grazia, ma il mio compito è fin troppo facile, tutto il resto era già stato fatto. Li hanno piegati nel tempo, goccia dopo goccia. Che pena, proprio loro che non scendevano a patti, loro che si credevano migliori degli altri, più intelligenti, più scaltri, più liberi.
Ci avevano messo anni a costruire tutto questo, un ecosistema del genere non si inventa da un giorno all’altro. Dice il telegiornale che dopo un incendio servono cinque anni perché rinasca un gruppo, ma almeno cinquant’anni perché ne rinascano trenta, perché ricrescano spontaneamente e diventino ambiente, ossigeno, forza. Un microambiente eterogeneo, con poetiche diversificate, dove convivono più o meno pacificamente le specie più diverse, dai diversi profumi, toni, colori.
Ci avevano messo l’anima, dagli anni settanta in avanti, per creare questo microambiente, «il nuovo teatro italiano» come lo chiamano, ed è proprio l’Italia che gliel’ha smontato sotto il naso pezzo a pezzo, con pazienza, a poco a poco, col sorriso sulle labbra. Fino a ridurli così – gli artisti, i saltimbanchi – che si sono d’altronde rivelati disposti a tutto per una
scodella di zuppa, anche a scannarsi tra loro, anche a tramare con l’avversario, a intingere il pane nel piatto di Cristo e baciarlo sulla guancia per poi venire a giocarselo a dadi. Non l’avete notato come si baciano sempre esageratamente quando si incontrano, fanno tutto quel chiasso esibizionistico e artificioso: una covata di pavoni che fa a gara con le ruote.
Questa sì, è stata una sorpresa insperata, una vittoria: gli artisti non sono solidali. Tra loro non sono solidali. Che magnifica scoperta! Non sanno lavorare insieme e basta agitargli una salsiccia perché vadano a puttane tutti gli ideali più nobili, tutte le creazioni epocali, tutti i progetti di alleanza.
Ma d’altro canto gli va dato atto: è la lotta per la sopravvivenza che li riduce così. Come potrebbero resistere in altro modo, con risorse sempre più piccole e considerazione pressoché nulla?
L’Italia li ha indeboliti e immobilizzati. Intenzioni, azioni e funzioni istintive azzerate. Tutto calcolato. Totalmente sottomessi e svuotati.
Eppure.
Eppure vi giuro.
Ve lo giuro io che li guardo.
Ve lo giuro io che so di avere il potere, io che basta un mio gesto per finirli.
I loro occhi mi fanno spavento.
Mi dicono che non sono ancora pronti a morire.
Mi dicono che nessuno, una volta bruciato il patrimonio di cultura teatrale del nostro paese, sarà in grado di vincere la gara d’appalto per il rimboschimento.
Mi dicono che è impossibile ricreare questo microclima preventivamente e artificialmente.
Mi dicono che sarà sempre compito loro e dei loro spettatori, siano essi individui o gruppi, ricostruire e reinventare nuove modalità di esistenza e di convivenza prendendo forza e concime, se occorre, dai precedenti roghi e dalle precedenti macerie, dai cadaveri in putrefazione dei loro predecessori.
Attaccando le radici al sottobosco devastato con la forza della disperazione e della creazione.
Li guardo a distanza. Impassibili. Assediati. E io davanti a loro, la torcia accesa in mano.
POSTFAZIONE AD USO DEL LETTORE
Chi sia il piromane o il sicario della fiaba non ci è dato sapere e non è poi così importante. Il lettore è libero in questo caso di viaggiare con la fantasia.
C’è qualcosa di più importante invece che al lettore tocca sapere.
Il teatro italiano, anche più gravemente di quello francese che ha riempito ultimamente le pagine dei giornali, è sotto ricatto.
I cittadini italiani ne sono consapevoli?
I teatri sono un bene pubblico. Sono un bene dei cittadini, in gran parte finanziato dai cittadini. Sono soldi e cultura dei cittadini.
Se si fa del male al teatro, se si minaccia la sopravvivenza del teatro in qualunque modo, non dovrebbero essere per primi i cittadini a esserne informati? Non dovrebbero essere i primi ad indignarsi? A rivolere i loro soldi con gli interessi, a pretendere nuovi governanti?
Il male al teatro si fa, quotidianamente: costringendo le piccole sale teatrali a chiudere, cancellando i festival, azzoppando le programmazioni, stilando cartelloni scadenti che stanno in piedi per l’unica ragione degli scambi e dei favori, non tutelando i lavoratori del settore con una legge, preferendo ad essa regolamenti che durano il breve tempo di un governo,
finanziando i finanziati con ritardi tali che essi debbano indebitarsi con le banche e sottopagare i propri dipendenti, non permettendo il ricambio generazionale in virtù di un sistema baronale e museale, di fatto marginalizzando esperienze e gruppi di lavoro in favore di poche, grandi, private e potenti compagnie – in favore di pochi, grandi, potenti individui.
Questo al lettore tocca sapere.
Nel frattempo Catania e Napoli si sentono giustamente offese dalle pastoie che decidono della loro sorte in b o in c.
Un intero popolo si leva, prende i pullman, urla perché i giochi di potere minacciano l’onore e la verità del calcio e quindi dei cittadini.
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Una mail Sulla recensione a La scrittura scenica di Lorenzo Mango |
Caro Oliviero,
ti scrivo per ringraziarti della recensione del mio libro dedicato alla scrittura scenica.
Ne hai fatto una lettura molto curata ed interessata di cui ti sono grato, rivelando, come è giusto che sia, la problematicità della questione che io, certo, non ho preteso di risolvere ma che, invece, mi è sembrato di poter porre in una prospettiva storico teorica di cui cogli, giustamente, le ragioni e i limiti.
Le questioni legate al teatro del Novecento, alle sue linee di ricerca ed alle sue vicende mi sembrano in gran parte tutte da scrivere. Non solo per una salutare esigenza di sistematizzazione storiografica, ma anche per giungere ad una più precisa comprensione delle dinamiche linguistiche che hanno condotto ad una radicale ridefinizione della nozione stessa di opera d'arte teatrale.
Tu fai giustamente rilevare come il fenomeno della scrittura scenica non possa risolversi, oggi, nè solo in un recupero critico degli strumenti della regia, nè limitarsi alla Raffaelo Sanzio, in quanto vi sono postazioni ulteriori del discorso, tra cui mi sembra di particolare importanza l'ipotesi di un teatro virtuale legato alle esperienze della medialità informatica. Ma è argomento, questo, che mi è sembrato prematuro, per molti versi (soprattutto soggettivi) inquadrare all'interno di uno sforzo ermeneutico che aveva bisogno di una maggiore sedimentazione storica degli avvenimenti. Insomma, detto in soldoni, ad un certo punto ho deciso di fermarmi e vedere quale quadro uscisse fuori dal discorso che stavo cercando di trattare.
Quello che mi fa particolarmente piacere è trovare nella tua recensione il riconoscimento di uno sforzo che è stato quantitativo oltre che qualitativo, teso come era - e come emerge chiaramente dalle tue parole - ad organizzare in un discorsio coerente, sul piano linguistico, esperienze anche molto distanti tra loro, nel tentativo di leggere nella divaricazioni di fenomeni del teatro del Novecento una direttrice problematica comune, attorno a cui si sviluppano risposte di indirizzo diverso. Porre le questioni della riflessione linguistica del teatro all'interno di un quadro culturale più ampio è, credo, un passo ulteriore di studio da fare, di cui ho voluto dare un segnale riferendo il concetto di scrittura scenico a quelo barthiano di scrittura.
Scusa la lunghezza della lettera ma la tua analisi del mio lavoro mi ha molto stimolato in direzione di ulteriori riflessioni che, mi auguro, ci sarà modo di condividere.
Un saluto affettuoso.
lorenzo mango
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Che cosa mi aspetto dal teatro Vagabondaggio per le sale milanesi, un po’ alla rinfusa di Oliviero Ponte di Pino |
In questi mesi, come mi accade ormai da decenni, ho visto una media di un paio di spettacoli a settimana. Rispetto a una città come Milano, questo implica già a priori una scelta. Anche se andassi a teatro tutte le sere, non riuscirei a vedere tutto quello che passa per la città. Detto questo, resto sempre un maniaco del teatro: se venissi intervistato da qualche fanatico della statistica, sarei costretto a dichiarare che passo più tempo in teatro che al cinema o davanti alla tv (ma da quando esiste questo sito, internet me ne ruba di più...).
Dunque, scelgo. Cerco a priori di evitare il teatro para-televisivo e para-cinematografico, compresi molti comici (perché mi sembra che troppo spesso la qualità degli spettacoli sia scarsa), non ho tempo per i musical e per la danza, e non riesco a seguire tutto quello che offrono i nuovi gruppi milanesi. Evito poi con cura gli spettacoli di registi che ritengo bolsi mestieranti (malgrado godano spesso di una gran ricchezza di mezzi).
Ma forse, più che di esclusioni, di decisioni in negativo sarebbe meglio parlare di scelte, di decisioni positive. Allora, da questo punto di vista, diventa più facile. Ci sono gruppi e registi che seguo da tempo e di cui mi interessa registrare il percorso, e ci sono alcune realtà più giovani che mi incuriosiscono. Diciamo quello che si potrebbe definire un «teatro d’arte», attento più alle sollecitazioni culturali che alle lusinghe mondane o massmediatiche. E con questo il mio carnet è già fin troppo pieno: non riesco a vedere tutto quello che vorrei.
Se questa è la coazione del perverso teatromane, l’altro aspetto riguarda il piacere che regalano queste frequentazioni. In alcuni casi (rari, sempre più rari, forse a causa di una callosità di uno sguardo o di una percezione troppo allenati, o di una fase di stanca del nostro teatro), la percezione si accende, la ricchezza o la sfida che porta quel lavoro impongono in qualche modo una reazione profonda e – per quanto possibile – complessa (nel mio caso, questa tensione e questa riflessione si condensano in genere nella scrittura: questo è accaduto, negli ultimi mesi, in poche rare occasioni, per esempio di fronte all’ultimo lavoro di Danio Manfredini).
Nella maggioranza dei casi, invece, la percezione e la decodificazione del lavoro imboccano sentieri meno avventurosi, in qualche modo già praticati. Sono spesso spettacoli più che dignitosi, con più di un motivo di interesse. Insomma, spettacoli che promettono qualche cosa (e spesso mantengono le promesse), ma senza trascendere dalla routine. E’ di spettacoli come questi, in realtà, che è fatto il tessuto culturale di un paese: le punte alte sono eccezioni, e non possono essere la norma. Soprattutto sono spesso eccentriche rispetto a questo «canone», e a volte lo mettono esplicitamente in discussione.
Le Baccanti: Massimo Popolizio è Dioniso.
Le Baccanti secondo Luca Ronconi approdano al Piccolo-Teatro Strehler (di cui è direttore artistico) un anno e mezzo dopo il debutto a Siracusa. E questo già la dice lunga su un sistema produttivo e distributivo in grande affanno. Perché il testo di Euripide dovrebbe far parte del repertorio spettacolare di qualunque cultura teatrale, tali e tanti sono i temi fondanti che porta sulle scene. Non è un caso che Ronconi abbia deciso di misurarsi per la terza volta con la tragedia, dopo l’allestimento del 1973 a Vienna e soprattutto dopo la memorabile versione in assolo di Marisa Fabbri a Prato tre anni dopo. E’ chiaro che il grand spectacle (a cominciare dal folto coro delle donne di Tebe, una trentina di figure che nella loro diversità di corpi e modi raccontano un popolo femminile, ma stilizzate in costumi con colori – grigi, ocra, lilla – degni di Prada) costruito oggi non può competere, per impatto emotivo, con il labirintico percorso tracciato con Marisa Fabbri. Tuttavia lo spettacolo ha molte frecce al suo arco. La scenografia di Margherita Palli, un grumo di blocchi di marmo crollati da chissà quale tempio, diventa emblema del nostro rapporto con la classicità: un cumulo di rovine, frammentario e maestoso, di cui è impossibile ritrovare il senso autentico ma che dobbiamo tuttavia continuare a interrogare. Così come una serie di domande a proposito del nostro fragile rapporto con il divino lo pone anche il Dioniso di Massimo Popolizio, così ambiguamente sospeso, appunto, tra umano e divino (anche nella sua irrazionale, ingiusta vendicatività), tra uomo e donna...
Le Baccanti: Massimo Popolizio è Dioniso.
Uno spettacolo di grande intelligenza ed efficacia visiva, un allestimento colto e giustamente problematico di un classico, ma anche – in qualche modo, e come Peccfato che fosse puttana, al di là della trovata del doppio cast – uno spettacolo di routine, seppure eccellente. Non a caso Ronconi cerca sempre più spesso occasioni più eccentricamente spettacolari, gesti in qualche modo più esemplari del normale allestimento di un testo, dove le regole della rappresentazioni vengano insieme infrante e rifondate: vedi Infinities o Amor nello specchio, o ancora il megaprogetto miliardario (e assai discusso) per le prossime Olimpiadi torinesi del 2006.
E’ come se gli spettacoli «normali» non riuscissero più a parlarsi tra di loro, a costruire un progetto, un discorso. La frammentarietà della programmazione e dello scenario culturale e informativo si riflette peraltro nella frammentarietà del discorso critico (è semplicemente scandaloso che non esista un saggio serio sul teatro di Ronconi, probabilmente il massimo regista italiano del dopoguerra). Si innesca così un circolo vizioso in cui diventano visibili solo gli eventi, ma più per la loro qualità di evento che per il senso specifico che quell’operazione porta con sé (con tutto quel che ne può conseguire).
La brocca rotta: Franca Nuti.
La brocca rotta, come Le Baccanti, si propone come lavoro di onesta routine per uno stabile, in questo caso il Centro Teatrale Bresciano diretto da Cesare Lievi, che firma uno spettacolo di lindo rigore, e tuttavia in qualche modo reticente. Nell’Italia post-Mani Pulite, dove resta feroce più che mai lo scontro tra la magistratura e il potere politico, scegliere un testo che mette in questione l’idea stessa di giustizia (e per di più centrando la vicenda intorno a un giudice corrotto) non può essere una scelta innocente: imporrebbe una presa di posizione forte e decisa, in qualunque direzione. Tuttavia lo spettacolo (visto al Teatro Grassi) pare ruotare intorno alla questione senza mai affrontarla di petto. Il giudice corrotto è un Gianfranco Dettori che fin dalla prima scena sottolinea gli aspetti caricaturali del personaggio, la sua infingardaggine, il fatto che semplicemente usa il proprio potere per fini personali e, ora che è arrivata un’ispezione governativa, per nascondere le proprie colpe. Diciamo che il testo di Kleist (ambientato per ovvi motivi nei Paesi Bassi e non nella sua Prussia), sotto le vesti della commedia rimanda al celebre adagio «Ci sarà pure un giudice a Berlino» (che gli avvocati di Berlusconi e soci hanno guarda caso provato a tradurre in un più italico «Ci sarà pure un giudice a Brescia»...). Ma il taglio caricaturale e grottesco di questo giudice finisce inevitabilmente per eludere la questione: qui si parla di quel giudice pasticcione, e non della giustizia. Al fargli da contraltare, è sulla scena Franca Nuti (nel ruolo della madre della giovane vittima, nonché proprietaria della brocca del titolo), che pretende giustizia con durezza testarda – e al di là di ogni «ragionevole» compromesso. Anche qui, l’adamantino puntiglio del personaggio finisce per offrire solo uno schematico contrappunto.
Insomma, comunque la si pensi, nell’Italia di oggi – l’Italia di Antonio Di Pietro e del ministro Castelli, di Ilda Boccassini e dell’ex ministro Mancuso, dell’avvocato Taormina e dello sciopero dei magistrati, la questione dei rapporti tra giustizia e politica ha assoluta rilevanza (come peraltro in tutta l’opera di Kleist, dal Principe di Homburg al Kohlhaas). Lo spettacolo di Lievi non riesce tuttavia ad agganciare la questione, non la prende di petto: resta un allestimento dignitoso, che potrebbe funzionare allo stesso modo nell’Italia degli anni Cinquanta come in quella del 2035...
Rosa la Rossa, ovvero una biografia più famigliare che politica di Rosa Luxemburg, su testo di Sonia Antonori per la messinscena di Serena Sinigaglia (al Teatro Verdi). Da un paio di stagioni la stessa compagnia (l’Atir) racconta con notevole successo di pubblico la vita di un altro martire di sinistra, Ernesto Che Guevara. Anche in quel caso alcuni aspetti politici restavano inevitabilmente in secondo piano (alcuni risvolti niente affatto trascurabili: vedi le ragioni del dissidio con Castro che lo spinsero nell’avventura imperialistica angolana e nella missione suicida in Bolivia), ma l’ambientazione latino-americana, le canzoni e il pathos da ballata popolare con cui veniva narrata la vicenda componevano un mix simpaticamente trascinante. Sonia Antonori ha invece costruito un ridondante copione, più adatto forse per uno sceneggiato da tv pedagogica, con puntiglio didascalico e un accumulo di materiali che alla fine restano piuttosto inerti. Certo, la Berlino d’inizio secolo è meno divertente delle carreteras andine o delle sierre cubane, ma quello che alla fine resta opaco – rispetto allo sgangherato slancio vitale del Che – è proprio il messaggio politico, e dunque l’attualità del personaggio Luxembourg, al di là del ritratto edificante. Resta il fatto che di queste vicende e di questi personaggi si sta perdendo la memoria, e un memento può sempre essere utile...
Note di cucina allOut Off: nella foto Mario Sala, nel video sullo sfondo, Elena Callegari (foto di Barbara Balestra).
Note di cucina di Victor García invece l’attuale situazione politica la prende proprio di petto. Drammaturgo e regista, García è, per certi aspetti, un Manu Chau del teatro: un messaggio semplice (o semplicistico), dunque chiaro e aggressivo, in linea con una visione del mondo new global, sorretto da una furia vitale trascinante e rabbiosa, una ironia graffiante e scanzonata. Note di cucina è un collage di gag politiche, che Lorenzo Loris ha affidato a Gigio Alberti, Elena Callegari e Mario Sala. Alcuni brani sono semplicemente esilaranti: vedi il monologo del padre che ubriaca il figlioletto prima di mandarlo a scuola, per rendergli sopportabile la pochezza dei professori, o la devastazione della camera di un Grand Hotel. E’ un meccanismo che funziona per accumulo, che avvalendosi soprattutto della maschera stralunata di Gigio Alberti e della lucida e precisa follia di Mario Sala (un po’ meno della più introspettiva Elena Callegari). Il testo di García regge in ogni caso alla prova
Dinner Party: Mauro Malinverno e Rossana Mortara.
Dinner Party di Pier Vittorio Tondelli è un testo unico e curioso, per più di un motivo. Intanto perché è l’unico testo teatrale dello scrittore, e per di più un testo per molti aspetti lontano dal tempo in cui fu scritto, nei primi anni Ottanta: è una commedia tutta giocata sui dialoghi e la conversazione (e sulla più classica storia di corna), mentre all’epoca il teatro che andava per la maggiore in Italia (e quello che lo stesso Tondelli frequentava) pareva andare in una direzione completamente diversa. Per certi aspetti, Tondelli tentò di ripetere in teatro quello che aveva fatto nella narrativa: ritrovare la parola, la forza di raccontarsi attraverso storie e personaggi. Al centro della vicenda due fratelli, Fredo (Roberto Valerio) e Didi (Mauro Malinverno), che hanno raggiunto l’età adulta senza un padre (o forse con due padri), con il secondo più fragile – sospeso tra una omosessualità mal vissuta e una inconcludente vocazione artistica. Intorno a loro Giulia (Rossana Mortara), moglie di Fredo, impegnata in una travolgente relazione sessuale con Alberto (Mirko Rizzotto), giovane e promettente artista che proprio Fredo ha accolto, protetto e lanciato. Al di là del plot, quello che colpisce nel testo è una sorta di preveggenza: gli anni Ottanta, l’uscita dalla cupa distruttività del decennio precedente attraverso una overdose di lustrini, consumi, trasgressioni, mode, frenesie (comprese le creatività che lo stesso Tondelli aveva registrato in Un week end post-moderno) già mostrano il loro rovescio: la fragilità, la solitudine e l’arroganza cui approda questo microcosmo – al di là delle apparenza – colgono il senso di una evoluzione che allora era difficile avvertire e prevedere. Non è un caso dunque che il testo (scritto nel 1983 e segnalato al Premio Riccione due anni dopo e presentato solo in forma di lettura scenica) ritorni solo ora sulle scene (nell’occasione al Teatro Leonardo, dopo l'allestimento di Piero Maccarinelli nel 1994), con la regia di Nanni Garella, che grazie alla scena di Antonio Fiorentino e alle luci di Robert John Resteghini costruisce un allestimento di nitida funzionalità. Dunque merito a Centro Teatrale Bresciano ed Emilia Romagna Teatro che hanno deciso (finalmente) di dargli finalmente vita.
Inverno di Jon Fosse (visto anch’esso al Teatro Verdi) rientra nel lavoro sulla drammaturgia contemporanea che svolge da anni Walter Malosti (trovando questa volta la coproduzione di Astiteatro e dello Stabile di Torino. Il testo racconta, in termini volutamente vaghi ed evocativi, l’incontro tra un impiegato-commesso viaggiatore e una prostituta. Più del testo, che resta una esercitazione su un tema assai frequentato e dunque troppo segnata da una ipoteca di letterarietà, malgrado la fluidità dei dialoghi, a intrigare è la prova dei due interpreti, lo stesso Malosti e Michela Cescon, reduce dalla «cura Garrone» che l’ha trasformata per esigenze di copione cinematografico in un’icona femminile di inquietante fascino. Lo spettacolo si regge dunque sulla sua fremente interpretazione, e sulle sottigliezze di un’attrice di notevoli mezzi e talento. Interpretazione dopo interpretazione, in questo percorso nella drammaturgia contemporanea, Michela Cescon sta costruendo un personaggio femminile complesso e sottilmente articolato. E insieme, al di là di questo virtuosismo, fatica ancora a trovare il testo che a questa figura può dare reale sostanza e potenza.
In Case popolari di Mimmo Sorrentino (relegato al Salone di via Dini, in un degrado poco dignitoso per attori e pubblico), più che uno spettacolo vero e proprio, è la traccia di un laboratorio e di un incontro. Da sempre Mimmo Sorrentino non fa teatro, piuttosto usa il teatro per costruire e sperimentare forme di relazioni sociali. In questo caso, ha lavorato in un gruppo di case popolari di Abbiategrasso: un lavoro con alcuni degli inquilini, durato diversi mesi e finalizzato alla realizzazione di uno spettacolo che non è mai andato in scena, perché il racconto delle proprie vicende si è rivelato impudico, impossibile e dunque all’ultimo praticamente annullato. Così alla fine per raccontare questa esperienza Mimmo Sorrentino ha scritto un copione che racconta sia alcune delle storie raccolte in quel labopratorio sia l’impossibilità di raccontarla in prima persona, ha preso tre attori (Beppe Cavolo, Adriana Busi, Alessandra Faiella) e ha costruito uno spettacolo divertito e gradevole, che trova forza nella «presa diretta» con la realtà: storie di immigrazione e di lavoro, di amore e di morte, naturalmente, ma narrate con rispetto e ironia. L’ha allestito (con grande successo) nelle case Aler dove era nato, e poi l’ha portato a Milano per alcune rappresentazioni. Ed è un lavoro stimolante, perché pone immediatamente una serie di domande sul ruolo e la funzione del teatro, sulla possibilità che esso offre di auto-rappresentazione, sul passaggio dalla «vita vera» a una storia, dal informe caso dell’esistenza a un destino che assume necessariamente un proprio senso. E ancora domande sulla necessità di un lavoro di questo genere, per chi partecipa al laboratorio e per lo spettatore generico. Certo, l’elaborazione poetica resta a uno stadio ancora embrionale, resta più la traccia di un’esperienza che un’esperienza in sé. E tuttavia illustra bene le potenzialità di un operare teatrale che pochi ormai praticano.
BCGLF è il frutto dell’incontro tra Giovanni Lindo Ferretti, leader dei mitici CCCP e successive incarnazioni, e di Giorgio Barberio Corsetti, regista e autore teatrale. Terreno comune d’incontro, l’interesse per la forma diaristica e l’interrogazione sulla possibilità di teatralizzarla: sono diversi, nella teatrografia di Barberio Corsetti, i frammenti lirico-autobiografici trasformati in spettacoli. Lindo Ferretti ha scelto brani in parte legati alla propria infanzia, in parte brani legati alle proprie passioni e interessi (i viaggi, i cavalli...), mescolando per così dire prose e canzoni. Ma la spettacolarizzazione di Giorgio Barberio Corsetti, che attinge al suo ampio repertorio utilizzando cinque attori-danzatori-cantanti, resta soprattutto decorativa, come sovrapposta a un filo conduttore che è difficile cogliere – se non una vena di narcisismo e un desiderio di trascendere la forma concerto che peraltro soddisfano di fan di GLF (forse un po’ meno quelli di GBC...).
Alice v.m. > 18 anni di Fanny e Alexander (visto allo Studio K) rappresenta una tappa obbligata per la poetica del gruppo. Ma al tempo stesso, proprio per questa necessità, resta per molti aspetti all’interno di un binario in fondo prevedibile – almeno per chi conosce il lavoro del gruppo. Il fascino per gli intrecci tra fiaba e perversione, la poetica dell’infanzia, un teatro degli oggetti di feticistica precisione, una macchina scenica complessa ed efficace nella sua claustrofobica precisione confermano una linea di ricerca di sicuro effetto e interesse, confermando (anche nell’interpretazione di Virginiasofia Casadi) il virtuosismo del gruppo diretto da Luigi De Angelis e Chiara Lagani. Per molti aspetti, anche, uno spettacolo più facile (e vendibile) di Ponti in core o del più recente Ardis I. Che uno spettacolo di questo genere – che esemplifica il lavoro di uno dei giovani gruppi italiani più apprezzati anche sul piano internazionale – fatichi a trovare una circuitazione nel nostro paese, non è certo un segnale positivo.
Don Giovanni di Molière (visto una domenica pomeriggio in un Teatro dell’Arte quasi deserto) è uno dei testi che amo di più, e dunque non potevo perdere l’allestimento firmato da Giuseppe Emiliani per I Fratellini (ovvero, nell’occasione, Marcello Bartoli e Dario Cantarelli, rispettivamente Sganarello e il Gran Seduttore). Con una trovata registica un po’ usurata, la vicenda viene narrata di Sganarello dopo la morte del suo padrone (che dunque non viene trascinato all’inferno dalla statua del terribile commendatore, ma lascia un cadavere che il servo all’inizio lava e prepara per la sepoltura). Così tutto lo spettacolo, a cominciare dalla scenografia (un cubo di legno annerito dal fuoco), assume un tono funebre, postumo, cupamente apocalittico. Il Don Giovanni di Cantarelli continua ad esibire – fin dai costumi – una teatralità che è forse la sua arma migliore – ma sarà anche il peccato che lo dannerà, quando deciderà di indossare la maschera dell’ipocrita, diventando una sorta di Tartufo (ed è una delle intuizioni più interessanti della regia). Ma i veri momenti di magia sono due gag di Marcello Bartoli, lo Sganarello che del teatro assume gli spetti più corporei, fisicamente contagioso. Anche se pure il vitalissimo servo è segnato fin dall’inizio dall’ombra della morte.
Alla fine di questo percorso un po’ casuale, come spettatore non posso certo dichiararmi insoddisfatto. Sono tutti spettacoli dignitosi e meritevoli di attenzione. Si intuiscono con chiarezza le diverse ragioni che hanno spinto il regista e i produttori a portare a termine questi progetti, e anche le ragioni che possono spingere un pubblico di appassionati del teatro ad affollare le platee (e va precisato che gli spettatori in genere non mancavano, e spesso riempivano la sala).
Ma va subito aggiunto che la fondamentale correttezza di questi spettacoli, lo scarso margine di rischio, da un altro punto di vista, è anche il loro maggiore limite.
In un sistema in cui il teatro rientra in una serie di impegni e obblighi sociali (e civili), in una mediasfera in cui possano trovare una loro collocazione, in un canone in cui ogni opera trova la propria collocazione, spettacoli come questi possono svolgere egregiamente la loro funzione. Ma nel momento in cui il teatro è una tra le molte attività che possono riempire il nostro tempo libero, nel momento in cui la critica è ridotta ai minimi termini, quando il canone pare ormai polverizzato, di fronte a un pubblico frammentato (per generazioni, per affinità, per curiosità, per competenza linguistica) tutti questi lavori rischiano di scomparire nel magma indistinto delle mille proposte di entertainment.
Certo, molte alternative rischiano di essere peggiori del male: le ondate delle mode che periodicamente concentrano l’attenzione su questo e su quell’artista (salvo poi abbattere in fretta tutti gli idoli), il boomerang dei successi di scandalo, l’eventizzazione...
Ma forse quello che manca è proprio la capacità di rischiare, una indispensabile radicalità, la voglia di mettersi in discussione e di mettere in discussione il proprio pubblico. Da un certo punto di vista, rischiano di essere spettacoli consolatori, per chi li fa e per chi li va a vedere, ma in fondo autoreferenziali. L’eccellenza, il grande livello artistico non sono più sufficienti a conquistare nuove fasce di pubblico.
Ci vorrebbe forse quello che nei teatri tedeschi è il Dramaturg, ovvero una figura in grado per l’appunto di destabilizzare le certezze, di riportare il teatro vicino alle zone di conflitto, di riportare il conflitto dentro il teatro. Per renderlo più vivo.
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Le avanguardie teatrali e le tecnologie del loro tempo Testo inedito dell'intervento per il convegno "Il teatro nell'era del digitale", Parigi, 24 ottobrre 2004 di Béatrice Picon-Vallin (traduzione dal francese di Erica Magris) |
In arte non esistono tecniche proibite; esistono solo tecniche male utilizzate.
Vsevolod Mejerchol'd
Una parte della storia del teatro del Novecento è costituita dal contrapporsi di due diversi atteggiamenti rispetto alla tecnologia: da un lato si trovano gli avanzamenti tecnici sulle scene di un certo numero creatori d'avanguardia interessati a elevare la loro arte al livello della realtà senza cadere nell'imitazione; dall'altro l'atteggiamento negativo e conservatore di quelli che al contrario considerano tale tecnica nemica della tradizione, devastatrice del teatro considerato come luogo di memoria in particolare e in generale delle "arti viventi" (1) – segno della "disperazione storica" di cui parla Bernard Stiegler (2), sintomo di un tragico rifiuto del proprio tempo.
D'altra parte, a proposito dell'espressione "arti viventi", che mi pare inadeguata e che è finalizzata a proteggersi da tutto ciò che può sembrare troppo tecnico o troppo "macchinoso", vorrei aprire una breve parentesi e citare un’osservazione molto recente di Robert Lepage emersa in occasione del Festival New Cinema and New Media di Montréal. Intervistato dopo la proiezione del suo film La face cachée de la lune, in cui sono state utilizzate innovazioni tecnologiche d'avanguardia, Lepage ha affermato: "il film diventa in questo modo un'arte vivente che si può scolpire e riscolpire fino all'ultimo minuto."
Anni Venti, anni Sessanta, anni Ottanta: le immagini – proiettate, diffuse su grande poi/e su piccolo schermo, fisse o animate, in bianco e nero o a colori, documentarie o di finzione, "sporche" o ad alta definizione, analogiche, poi digitali – si sono insinuate e poi installate sulla scena. In parallelo, il materiale sonoro ha acquisito una sempre crescente complessità. Il processo diventa più veloce e più intenso in relazione al perfezionamento e alla miniaturizzazione degli apparecchi di presa delle immagini e del suono, di diffusione e di proiezione, integrati dalle trovate specifiche messe a punto da artisti ingegneri o fai-da-te.
In questo intervento si tratterà quindi di ricordare per rapidi flash alcuni momenti chiave della storia del teatro, arte alla quale oggi i discorsi sull'immagine fanno spesso riferimento, sia come insieme di pratiche arcaiche e obsolete, sia dal solo punto di vista del testo, con cui di fatto il teatro intrattiene delle relazioni estremamente complesse, sia infine nella prospettiva della bibbia aristotelica (vedi ad esempio Brenda Laurel), come se nulla fosse accaduto dai tempi della Grecia Antica e come se le grandi rivoluzioni sceniche non avessero mai avuto luogo… Ebbene, il teatro oggi mi sembra che possa sempre essere considerato, come affermavano Mejerchol'd, Vitez o Kantor, un laboratorio dei comportamenti umani.
I tre periodi precedentemente menzionati corrispondono a momenti di profonde crisi, politiche, sociali, ideologiche, economiche, tecnologiche, in cui le frontiere fra le arti dello spettacolo da un lato e fra la scena e le altre arti dall'altro, tendono a diventare sempre più porose. Ci concentreremo sui primi due periodi. Ma bisognerebbe andare ancora più indietro, a Adolphe Appia, al ruolo "realmente attivo" che a partire dal 1898 egli attribuisce alla proiezione, che successivamente, come egli scrive, sarà considerata "potente", a Edward Gordon Craig e alla sua "arte del movimento", alle sue "mille scene in una", e soprattutto bisognerebbe non dimenticare Antonin Artaud, che preconizza gli ambienti immersivi, quando, nel Secondo manifesto del teatro della crudeltà, parla di un teatro che "grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera e, partito dal suolo si arrampicherà sui muri […], avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un'atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori". Quindi, questo "teatro totale", che sembra essere scoperto oggi come se si trattasse di un fenomeno recente – cosa che rientra perfettamente nell'amnesia generale che caratterizza un mondo in corso di "globalizzazione" – in realtà ha delle radici, delle fonti e delle modalità di realizzazione sorprendenti, che ogni artista dovrebbe conoscere per essere veramente contemporaneo al suo tempo.
Parleremo quindi degli anni Venti in Unione Sovietica ed in Germania, degli anni Sessanta in Cecoslovacchia, in Francia e negli Stati Uniti.
Unione Sovietica, 1923: il cinema viene introdotto sulla scena per Il saggio, rimontaggio integrale del testo dell'autore "classico" Alexander Ostrovskij realizzato da Sergej Eisenstein. Non è la prima volta che un film viene utilizzato su una scena teatrale, ma in questo caso, il film è girato appositamente per lo spettacolo: uno dei personaggi "esce" dallo schermo per fare irruzione nella sala, brandendo la bobina del film. Si tratta della pellicola che è stata appena proiettata e che, mostrata sullo schermo, riferisce in maniera originale il diario privato sottratto a uno dei personaggi della vicenda di Ostrovskij. Il diario si è trasformato in bobina di film. Confusione ludica degli spazi, "attrazioni", sparizioni, apparizioni, trasformazioni, metamorfosi: questo film, il primo di Eisenstein, perturba il tempo e lo spazio del teatro.
Terra capovolta (1923).
1923, ancora in Unione Sovietica, Terra capovolta, dramma in otto episodi di Tret'jakov: sulla scena del teatro di Mejerchol'd (di cui Eisenstein è allora "assistente di laboratorio"(3)), su tre schermi viene proiettato tutto un materiale documentario di testi e di immagini; in realtà Varvara Stepanova la "costruttrice" – è il nuovo appellativo del responsabile della scenografia, dal momento che non vi è più la scenografia nel senso di sfondo (décor), ma un dispositivo, una costruzione – è inizialmente intenzionata a proiettare dei film, ma cosa non può essere realizzata per motivi di ordine finanziario. Un grande schermo viene utilizzato come supporto per 33 cartelli da cinema muto nel 1924 per La foresta; nel 1927 per Una finestra sulla campagna Tsetnerovic, l'assistente di Mejerchol'd, autore del "dispositivo cinematografico" (è il termine russo utilizzato), sceglie per ognuna delle parti di questo spettacolo di agitazione delle sequenze tratte da film documentari, poste durante, all'inizio o alla fine delle scene teatrali, e accompagnate da intertitoli e da disegni. Per La lotta finale (1931) sono dei cineasti a essere incaricati di comporre l'accompagnamento visivo dello spettacolo. Il primo, Ledachev, è un assistente di Pudovkin, il secondo, Nemoliaev lo è di Barnet. Lo spettacolo risulta così essere composto da testi, da una banda suono estremamente complessa, che comprende fucilate, grida, comunicati radio, una sinfonia di Scrjabin, una canzone di Maurice Chevalier, e da frammenti di cinema, estratti sia da documentari, sia da film (Arsenal di Dovzenko, Chaplin).
Ne La rivoluzione teatrake (1929-1930) il Mejerchol'd afferma: "Noi che costruiamo il teatro che deve concorrere con il cinema, diciamo: Lasciateci realizzare fino in fondo il nostro obiettivo di "cineficazione" del teatro, lasciateci realizzare sulla scena le tecniche dello schermo (non solo nel senso di appendere uno schermo sopra la scena), dateci la possibilità di occupare una scena attrezzata con tecnologie nuove, secondo le esigenze che imponiamo allo spettacolo di teatro oggi, e noi creeremo degli spettacoli che attireranno tanti spettatori quanti il cinema".
L'uso delle proiezioni sulla scena da parte di Erwin Piscator.
In Germania, Erwin Piscator conduce questa impresa ancora molto più lontano… In Bandiere di Alfred Paquest (1924) il quadro dell'azione è dato da un film proiettato sul fondo del teatro. In Oplà, noi viviamo! di Toller (1927) alla proiezione di un piano lungo degli edifici di una prigione segue uno "zoom scenico" sulla cella dove si svolge l'azione teatrale. Piscator in un altro momento di questo spettacolo accosta in sincrono l'immagine radiografica di un cuore che batte, un annuncio fatto per altoparlante ed un testo pronunciato da un attore. In Rasputin, nel 1928, moltiplica le superfici di proiezione - semisfera, tulle, schermi - e le loro funzioni, servendosi di esse per proiettare il dramma nel futuro. Bisogna rileggere Il teatro politico di Piscator, ma anche capire che egli non è il solo a muoversi in questo campo e che altre personalità (Wilhem Reinking, Nina Tokumbet, etc.) dovrebbero essere ricordate e studiate.
Piscator afferma verso la fine degli anni Cinquanta: "La tecnica a teatro ha la reputazione di essere un male necessario che ostacola l'esercizio di un'arte piuttosto che favorirla", ma subito aggiunge: "La tecnica è una necessità artistica del teatro moderno". Essa fa esplodere l'antica forma della scatola ottica per "elevare la scena al piano della storia". Permette inoltre al teatro di sviluppare dei nuovi contenuti, di far entrare sul palcoscenico i conflitti contemporanei, e di rispondere ai mutamenti dei ritmi percettivi del pubblico, delle sue abitudini temporali e spaziali. Una nuova drammaturgia deve scaturire da questi possibili dispositivi tecnologici.
Tuttavia, nel 1928, Mejerchol'd aveva avanzato una notazione critica di capitale importanza: "Piscator non ha compreso il problema che gli si poneva. In sei mesi ha creduto di poter creare a Berlino un teatro rivoluzionario, ha costruito una scena moderna e ha concentrato tutta la sua attenzione sul perfezionamento materiale della tecnica teatrale. Questo significa essere unilaterali. Il problema che si pone al regista è che bisogna proporzionare a tale nuovo contesto i gesti e la voce dell'attore. È quello che Piscator non ha cercato. Ha costruito una sala nuova, ma ha fatto recitare degli attori vecchi." È per questo nuovo attore, che cerca di formare, che Meyerhold concepirà fin dagli anni Venti, il progetto di un nuovo teatro, che non sarà mai terminato per delle ragioni politiche. Prevedeva delle aree di azione trasformabili e delle superfici multiple di proiezione, sui muri e sul soffitto, evocando allo stesso tempo l'impianto del "Teatro totale" di Gropius e Piscator, anch'esso mai realizzato, e alcuni dispositivi posteriori di Jacques Poliéri.
Negli anni Sessanta, l'avanguardia americana propone delle installazioni, delle performance intermediali, in cui l'attore e il danzatore si misurano con l'immagine. Le forme che esse assumono sono molto diversificate: proiezioni su un grande pallone sonda, sulla schiena degli artisti, esperienze di "cinema allargato", poi di "teatro allargato", happening filmici. Nel 1967 il cineasta Jonas Mekas scrive su una rivista di danza: "La danza la musica, la poesia, il teatro, l'architettura, il canto, il cinema, si trovano in un periodo di transizione, interferiscono in maniera tale che riscoprono nuovamente la loro vera e propria identità; tutte le arti sono divenute multimediali. Parliamo di cinema allargato (expanded cinema), di scultura cinetica, di pittura tridimensionale. Il cinema ha del tutto a che fare con la danza. La danza ha del tutto a che fare con il cinema."
È a Praga, nel 1958, che Josef Svoboda inventa le tecniche della Lanterna Magika, presentata all'esposizione di Bruxelles, e in seguito quelle del Polyécran. Egli le applicherà al teatro. La Lanterna Magika combina in una composizione sincronica, plastica e sonora, l'azione dell'attore o del danzatore, la scena cinetica (tapis roulant, girelle..), il suono stereofonico, gli schermi mobili e il cinema, con le sue possibilità di montaggio e di effetti speciali. Il circo incantatore (1977) sarà rappresentato più di 2500 volte alla Lanterna Magika, scena multimediale dapprima inserita nella struttura Teatro Nazionale di Praga poi divenuta autonoma.
Napoléon di Abel Gance (1925).
Per quanto riguarda il Polyécran, si tratta di "un audace prosecutore" del Napoléon, trittico realizzato nel 1925 da Abel Gance, per citare le parole stesse del cineasta, che confessò di non avere neanche mai sognato una tale discendenza. Nel Polyécran, le immagini sono più numerose che nel progetto di Gance e le superfici di proiezione sono separate, in maniera tale da creare delle architetture modificabili. Lanterna Magika e Polyécran miravano entrambi ad un largo pubblico, ma possedevano anche una valenza politica. Nel 1965 per Intolleranza (opera atonale di Luigi Nono, presentata al Group Opera a Boston), quando Svoboda decide di utilizzare dei muri di luci, delle proiezioni multiple ed una proiezione televisiva a circuito chiuso – sorta di contrappunto ottico – compie anche un gesto politico. Ricordiamo infatti che questa scelta gli creò dei problemi al ritorno nel suo paese…
È preoccupante osservare che in Francia si ha tendenza a riferirsi poco sia all'opera di Svoboda sia a quella del francese Jacques Poliéri, entrambi grandi precursori-visionari. Dal suo universo chiuso appartenente al blocco sovietico, Svoboda, finirà per essere riconosciuto a livello internazionale, ma la Francia, nonostante gli studi di Denis Bablet, l'accoglierà assai raramente. Poliéri d'altra parte riceverà più richieste dall'estero che dal suo paese.
Se l'uno, autore di quasi 700 scenografie e inventore dei dispositivi tecnici appena citati, resta essenzialmente un artigiano del teatro, che ha lavorato con i più grandi registi del suo tempo, l'altro, da subito scenografo e regista lui stesso, diventa rapidamente un architetto di sale e un creatore di eventi interattivi. Rivolge la sua attenzione alla concezione dei luoghi, aspirando a quello che dal 1957 chiama "Teatro del movimento totale", e che in seguito chiamerà cyberteatro o cybercinema, proiettando la sua creatività verso una scena planetaria.
Entrambi si nutrono delle avanguardie che li hanno preceduti: hanno della memoria. Ad esempio Poliéri, nel 1958, pubblica un numero speciale della rivista d'arte "Aujourd'hui", in cui divulga delle informazioni importanti sulle avanguardie russe e tedesche, allora dimenticate o assai poco conosciute. Si interessa a Velemir Chlebnikov, il principe dei poeti futuristi che allora è uno dei pochi a citare. Lavora inoltre con il pittore russo Iuri Annenkov, emigrato a Parigi, uno di coloro che hanno teorizzato e praticato agli inizi degli anni Venti, della "circhizzazione" del teatro in Unione Sovietica. Per quanto concerne Svoboda, trova le sue fonti nel suo passato ceco, nell'avanguardia fra le due guerre, e poi amplia questi riferimenti volgendosi al costruttivismo russo, e a Mejerchol'd, Tairov, Vachtangov, Okhlopov: i suoi legami con i grandi nomi delle rivoluzioni sceniche dell'inizio del Novecento sono radicati nell'eredità del "teatro della luce" ceco, quello di Honzl, Burian e Frejka, conosciuti attraverso il suo maestro, lo scenografo Frantisek Tröster, che utilizzò in maniera molto innovativa le proiezioni sulla scena negli anni Trenta. Proprio perché il terreno era stato ben preparato dal passato brillante e inventivo della scenografia dei paesi dell'Est degli anni Venti e Trenta, Svoboda nel 1957 può trovare un orecchio propizio al suo desiderio di intraprendere delle ricerche sulle tecnologie al Teatro Nazionale di Praga. "Otterremo i più grandi successi non appena avremo realizzato il mio progetto: ingaggiare degli specialisti altamente qualificati per tutti i campi del teatro: tecnica tradizionale, superfici riflettenti e assorbenti, chimici, ingegneri ottici, proiezionisti, tecnici del suono elettronico." Entrato nel 1946 al Teatro Nazionale di Praga, Svoboda, allora direttore tecnico, dieci anni più tardi si vede offrire la possibilità di trasformare l'atelier di scenografia in un vero e proprio laboratorio di ricerca. Non smetterà mai di considerare il teatro come un laboratorio, allo stesso modo di Mejerchol'd che, rispondendo agli aguzzini di Stalin che gli ordinarono di fare autocritica, non poté evitare di definirsi "inventore"…
Interessati alle tecnologie, Svoboda e Poliéri intuiscono ed interpretano ciascuno a suo modo le vie del teatro del XXI secolo, ma prendono due direzioni opposte, determinate dalla diversità delle loro personalità e dei contesti socio-politici e culturali in cui operano – direzione centripeta dell'uno, che rimane rivolto verso i segreti dello spazio teatrale, vuole risvegliare la tradizione e mostrare in maniera differente i suoi enigmi; direzione centrifuga dell'altro, che da subito è più attirato dall'astrazione, dal non-figurativo, e che vuole far uscire il teatro dal teatro.
Esploratore delle potenzialità della luce, adepto di una scena cinetica in cui l'attore polivalente conserva integralmente il suo ruolo all'interno di una scenografia complessa, Svoboda crea un teatro totale e multimediale in cui permane la magia del vuoto misterioso, che per lui si sprigiona dalla scena all'italiana, alla quale continua ad essere legato. Utilizza la fotografia proiettata e il video (Intolleranza di L. Nono, Venezia 1961; Boston 1965), il film (I soldati di B.A. Zimmerman, Monaco, 1969), si appropria del laser (Il flauto magico di W.A. Mozart, Monaco, 1970) e delle tecnologie digitali (La trappola, Lanterna Magika, 1999). Svoboda fa variare all'infinito gli schermi utilizzati (piatti, sferici, inclinati, opachi, trasparenti, mobili) e i tipi di supporti: proietta le immagini su oggetti, tessuti, tende di corda o di tulle metallico, fabbricando lui stesso le sue diapositive colorate e sovrapponendole nella proiezione.
Esploratore di nuove dimensioni spazio-temporali ibride, Poliéri utilizza il digitale dall'inizio degli anni Ottanta, e immaginerà per l'arte dello spettacolo delle nuove e grandiose modalità di realizzazione, come il via satellite, la messa in rete, Internet. Egli mette in movimento lo spazio dello spettacolo e l'area d'azione attraverso proiezioni fisse o mobili. Le proiezioni, il cinema, l'immagine a 360° aprono la strada ad una nuova estetica della mutevolezza e della complessità, che distrugge la frontalità della scena, ne fa esplodere la compattezza, la fa uscire dal suo contenitore e la moltiplica nella sala. Spingendosi ancora più in là, Poliéri dà un impulso di movimento all'intero spazio teatrale, non in senso metaforico, ma in senso concreto. La scena (1968, Grenoble), come la sala (1970, Esposizione Universale di Osaka) diventeranno mobili. Declina diverse modalità di messa in movimento dell'edificio stesso in numerose affermazioni e in alcune realizzazioni: "scena anulare" che circonda gli spettatori a 360°, "sala giroscopica", "scena tripla", "sala automatica mobile", "scena e sala telecomandate, ruotanti e modificabili", scena elettronica (destinata alla "città nuova" de Les Ulis nella cintura parigina) le cui superfici nella loro totalità sono alla stesso tempo degli schermi e delle superfici neutre, e permettono sia la proiezione di immagini che la realizzazione di riprese in studio.
In un manifesto del 1955, Poliéri "prediceva" ciò che si verifica oggi quando gli attori, attrezzati di appositi sensori, iniziano ad essere capaci di generare da soli la propria regia luminosa o musicale. Egli proclamava già allora ciò che continua a dire oggi a proposito del teatro elaborato nel web: "Le stesse forme solide, sotto l'occhio dell'attore, un vero e proprio mago, potranno muoversi, cambiare, animarsi, vivere insomma su tutti i piani del teatro ed in tutti i sensi. Ma che mi sia ancora permesso di immaginare adesso lo spettatore futuro in una gabbia di plexiglass con due busti e due volti come i personaggi delle tele cubiste di Picasso. Circondato da suoni, da luci, da colori, da forme, da ombre, sarà sensibile, e con tutti i suoi sensi, a tutte le moltitudini di combinazioni, di armonie, di ritmi, di motivi melodici, sensibile a tutti i punti, rette, curve, angoli conici, linee visive, uditive, statiche, che si svolgono nel magnifico e straordinario caleidoscopio teatrale. I binari della ferrovia dello spettacolo si avvicineranno, si incroceranno e poi, dopo essere stati per un po' paralleli, si allontaneranno l'uno dall'altro in un fuoco d'artificio eternamente rinnovato e in una festa perpetua. Per il momento, tranquillizziamoci, non abbiamo che uno stomaco ed un cervello. Ma tutto è possibile."
Bisogna interrogare ancora altre opere, dimenticate troppo in fretta, ad esempio anche quelle del regista Virgilio Puecher, che ha lavorato con Svoboda e montato un notevole spettacolo nel 1969 alla Piccola Scala di Milano: L'istruttoria di Peter Weiss – che tratta del processo di Norimberga – con un complesso sistema integrato a una struttura metallica e composto da un eidoforo, da proiettori di diapositive e di film, da macchine da presa su carrelli. Questa messa in scena molto tecnologica realizza pienamente il teatro documentario di Peter Weiss, con un impegno politico senza compromessi.
Un ultimo punto: si ha la tendenza a dimenticare il lavoro svolto in questo campo in Francia da Jean-Marie Serreau, con il suo direttore tecnico P. Pavillard (costruzione di un canovaccio in cui si succedono gli attori, le loro fotografie ingrandite, dei disegni di Siné proiettati e delle ombre per Biedermann e gli incendiari di Max Frisch, Théâtre Lutèce, 1960) e proseguito da André-Louis Périnetti (proiezioni di foto di fatti violenti di attualità, di disegni di Folon e di video in circuito chiuso per Api 2067 di R. Gurik, Théâtre de la Cité Universitaire, Paris, 1969).
Alla rivoluzione dello sguardo dello spettatore determinata a partire dagli anni Venti dal cinema, e dalle immagini analogiche di ogni tipo di formato, e che conduce la scena a trasformarsi in profondità, segue la rivoluzione della presenza e della virtualità, indotta dal digitale, e la trasformazione dell'antica ed ancor valida interazione fra sala e scena in possibile interattività. Ma già Jean-Marie Serreau considerava che con le proiezione, l'azione scenica si fa più distanziata che nelle teoria brechtiana,e che soprattutto non si ha più bisogno dello sfondo scenografico. Egli diceva che il luogo scenico diviene "l'intelligenza e i sensi dello spettatore, il suo campo mentale". È ciò che Mejerchol'd affermava prima ancora, ne La rivoluzione teatrale a proposito degli scopi della cineficazione del teatro, che evidenziano l'intenzione di "chiamare il pubblico a partecipare alla messa a punto dello spettacolo" e che mettono in valore, accanto a quello dell'attore, di cui, come abbiamo visto, un teatro che utilizza le tecnologie deve occuparsi in primo battuta, il ruolo dello spettatore la cui attività di "quarto creatore", di "correttore" ("il compimento definitivo dello spettacolo e la sua fissazione in tutti i dettagli, è il pubblico a realizzarla insieme all'attore") sarà tanto più sollecitata quanto si reclamerà un teatro meglio attrezzato a livello tecnico.
Abel Gance nel 1962 scriveva: "L'unione dell'immagine e della realtà conferisce all'immagine e alla realtà una dimensione nuova, una sorta di quarta dimensione che arricchisce incontestabilmente uno spettacolo. A mio avviso le arti non mirano che a questo. Si tratta di creare una dimensione nuova nello spirito degli spettatori." Ciò che John Mekas diceva a suo modo, nella stessa epoca, quando insisteva sulla maniera in cui le tecnologie applicate alla scena ci "aprono".
Questo ritorno al passato non è nostalgia, vuole semplicemente porre le ricerche teatrali che si fanno oggi con le NTI, con l'intelligenza artificiale (ad esempio il progetto di "scena vivente" di Jean-Marc Musial) nel grande e magnifico slancio della ricerca artistica del Ventesimo secolo, con il quale quella del Ventunesimo deve essere nello stesso tempo in continuità e in rottura.
NOTE SULL'AUTORE
Béatrice Picon-Vallin è direttore del Laboratorio di Arti dello Spettacolo del CNRS francese, che si è da sempre caratterizzato per un'attenzione particolare al teatro contemporaneo in quanto fatto spettacolare. Fulcri dell'attività del Laboratorio sono la regia e la nozione di opera d'arte totale. Fondamentali sono le ricerche di Picon-Vallin su Meyerchold, i cui frutti sono un ricchissimo volume della collezione "Les voies de la création théâtrale", e la traduzione degli scritti editi e inediti del regista russo, pubblicati in diversi volumi. Da diversi anni dirige un gruppo di ricerca sulle implicazioni dell'utilizzazione nuove tecnologie sulla scena teatrale. Da questo lavoro sono nati i volumi da lei curati Les écrans sur la scène, Paris, L'Age d'Homme, 1998; La scène et les images, Paris, CNRS, 2002
NOTE
1"Arts vivants": l'espressione è tipicamente francese, e viene utilizzata sia dalla critica per determinare un campo di studio o per definire un genere sia nel linguaggio istituzionale, per determinare una categoria a cui indirizzare determinate sovvenzioni. Con tale espressioni vengono indicate tutte le arti dello spettacolo fondate sulla "presenza dal vivo" di performer di vario tipo.
2 Direttore dell'IRCAM e vicedirettore dell'INA , filosofo e direttore di ricerca all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e al Collège International de Philosophie. Ha scritto due volumi intitolato La technique et le temps, del 1994 e del 1996; insieme a Jacques Derrida ha redatto il testo Ecografia della televisione, pubblicato anche in Italia nel 1997.
3 Il termine francese è "laborantin": indica il carattere insieme artigianale e scientifico-sperimentale dell'attività teatrale di Mejerchol'd.
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Della presenza invisibile della maschera Voyage di Dumb Type e Le dernier caravansérail (Odyssées) del Théâtre du Soleil di Erica Magris |
Voyage di Dumb Type, è stato presentato nei dintorni di Parigi, alla Maison des Arts de Créteil dal 3 al 13 dicembre 2003. È il risultato scenico di un progetto artistico di lunga durata, nato all'indomani dell'11 settembre, nel cui ambito è stata realizzata anche una videoinstallazione intitolata Voyages. Lo spettacolo consiste in un'azione di poco più di un'ora, composta di diversi quadri fra loro indipendenti ed è fondato sull'interazione di tecnologie digitali all'avanguardia e movimenti di danzatori-attori. Dumb Type, infatti, è un collettivo giapponese di sperimentazione multimediale, nato a Tokyo nel 1984 e composto da artisti provenienti dalle arti plastiche, dalla danza, dalla musica, dalla videoarte e dall'informatica. Le dernier caravansérail del Théâtre du Soleil è il titolo di un work in progress che attualmente è composto da un dittico di spettacoli: Le fleuve cruel e Origines et destins. La prima parte è in scena alla Cartoucherie a Parigi dall'aprile del 2003. Nel novembre le si è aggiunta la seconda: insieme costituiscono un tutto unitario, che consta complessivamente di sei ore di rappresentazione. Il dittico richiede quindi agli spettatori un investimento di tempo, di energie (e di denaro!) molto forte e ne sconvolge l'intera giornata: nel periodo invernale capita di raggiungere il teatro verso mezzogiorno e mezza, quando il sole è alto, per poi uscirne a sera, avvolti dall'oscurità. Il Théâtre du Soleil è una troupe permanente guidata da Ariane Mnouchkine la cui ricerca, iniziata nel 1964, si fonda sul lavoro dell'attore, nella riscoperta e nella reinvenzione di forme teatrali occidentali e orientali, in un territorio di confine fra tradizione e avanguardia, fra internazionalità e radicamento nella società e nella cultura francese. Quest'ultima creazione si inserisce coerentemente nel percorso di Mnouchkine e del suo gruppo, da sempre impegnato nella realizzazione di un teatro storico e impegnato: tratta infatti del attuale e bruciante problema dei rifugiati, che fuggendo dai loro paesi devastati dalla guerra, si avventurano in cammini impervi e crudeli verso un Occidente sognato che in realtà non può o non vuole accoglierli.
Voyage.
Perché parlare insieme di due spettacoli all'apparenza così distanti ed eterogenei? Le forti emozioni suscitate dalle due rappresentazioni hanno sollecitato pensieri e interrogativi comuni. Le riflessioni sull'una e sull'altra opera si sono così intrecciate, costituendo un tessuto di questioni che coinvolge il teatro in generale, il suo valore e la sua funzione nel mondo contemporaneo. Una ragione profonda si trova al fondo della vicinanza di queste due creazioni, una rarissima presenza le unisce: la maschera.
Le dernier caravanserrail.
Mnouchkine ama spesso dire che nel Teatro con la T maiuscola la maschera c'è sempre, che può essere più o meno trasparente fino ad essere invisibile, ma c'è. Fernando Mastropasqua definisce la maschera un "grembo risonante", il luogo di un "passaggio estremo" dal "tempo del vivere al tempo del morire", che non è annullamento ma "assunzione di altre, irraggiungibili, desiderate identità" e "deifica potenza di creare enti, persone, mondi". In ognuno di questi spettacoli la maschera c'è: maschera del digitale in un caso, maschera arcaica e tecnologica insieme della Babele dei luoghi e dei linguaggi nell'altro. Si tratta di una maschera che non si appoggia sul volto degli attori, ma che ingloba la scena intera. Il palcoscenico diventa uno spazio in movimento al servizio della metamorfosi dell'attore e dell'esperienza di rivelazione, liminale tra realtà e immaginario, vissuta dallo spettatore. Seguendo un percorso di comparazione critica delle due creazioni, tenterò di spiegare questo nodo, che è a mio avviso fondamentale nella comprensione del senso del teatro e che possiede una portata particolare per quel che concerne il rapporto dell'arte teatrale con le nuove tecnologie.
Voyage.
Il viaggio: una corda tesa sul palcoscenico
La considerazione è sicuramente banale, ma entrambi gli spettacoli sono imperniati sul tema del viaggio, vale a dire dello spostamento, reale o metaforico, nello spazio e nel tempo.
Essi condividono un’immagine scenica forte dell'attraversamento, del pericolo, del tramite che può unire un punto ad un altro: la corda tesa da un lato all'altro del palcoscenico. Nel secondo quadro di Voyage, due attori immersi nell'oscurità di una cavità sotterranea esplorano lo spazio buio con i loro caschi muniti di lampade. Ad un certo punto iniziano a percorrer uno stretto cammino all'orlo dell'abisso, reso da una sottile striscia di sassi parallela alla linea del proscenio. In questo percorso obbligato, si tengono ad una corda tirata da un lato all'altro del palco, posta sulla verticale della striscia pietrosa. I due si incoraggiano e si rincuorano reciprocamente, si aiutano per superare il precipizio: ma uno di essi cade, la corda non l'ha salvato, e il sopravvissuto cerca invano di riportarlo alla vita con la sua danza. Le fleuve cruel si apre con una scena intitolata "Un passage": i personaggi, devono traversare un fiume impetuoso, reso acusticamente da un frastuono di acque e visivamente da un telo plumbeo mosso da alcuni attori, che copre interamente la scena. Qualcuno è già passato, qualcuno è rimasto dall'altra parte. Il passaggio si fa attraverso una piccola imbarcazione appesa ad corda tesa da una parte all'altra. La scelta è di separarsi o di correre il rischio di essere inghiottiti dai flutti, e cadere in una separazione irrimediabile.
Per Dumb Type, il viaggio, come suggerisce l'indeterminatezza del titolo dello spettacolo, è una metafora della condizione umana contemporanea ed è affrontato da differenti punti di vista: da situazioni concrete, come il sistema delle comunicazioni aree, con le sue hostess militarmente e ridicolmente sorridenti, le esplorazione, le missione militare, fino ai viaggi della mente nei sogni e nella memoria fino al "viaggio" per eccellenza, il passaggio dalla vita alla morte e al distacco netto ed irreversibile che esso genera fra "chi è andato" e "chi resta".
Le dernier caravanserrail.
Il Soleil si concentra, come abbiamo visto, su un volto particolare del viaggiare, trattando dei viaggi dei profughi. Ma come indica già la scelta del termine "odissee" nel sottotitolo, il Soleil non ha inteso costruire una cronaca né un documentario, ma di dare una voce poetica alle testimonianze raccolte da Ariane Mnouchkine, elevandole alla dimensione di "mito" della contemporaneità. Le vicende dei personaggi in scena, pur delineati con estrema precisione e concretezza, diventano il luogo di esperienze e di questioni che coinvolgono l'umanità nella sua dimensione esistenziale e sociale.
Il tema del viaggio si combina nelle due creazioni con la rottura della linearità dell'azione teatrale a vantaggio di una forma esplosa che renda conto del movimento caotico e dello spaesamento: scene separate in cui lo spettatore deve trovare un proprio orientamento personale, i propri fili conduttori, il proprio percorso. Il viaggio diventa quindi metafora a sua volta del teatro, dello spostamento insieme fisico e mentale che costituisce lo spettacolo teatrale per attori e spettatori. Viaggio percettivo dal cosmo all'inconscio nel caso dei Dumb Type, un viaggio nella memoria degli individui dimenticati e persi nelle strade del mondo per il Théâtre du Soleil. Il teatro si qualifica quindi come esperienza e come conoscenza. Torna alla mente il saggio di Walter Benjamin Il narratore e riaffiorano queste parole, a proposito della trasmissione dell'esperienza nella narrazione:
Il narratore prende ciò che narra dall'esperienza - dalla propria o da quella che gli è stata riferita -; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia.
Questa caratteristica della narrazione secondo Benjamin scaturisce dalla capacità del narratore di svolgere il suo racconto lasciando all'ascoltatore-lettore-spettatore il compito di relazionare gli eventi e la libertà di spiegarseli attraverso il filtro del proprio intelletto e della propria sensibilità:
Se l'arte di narrare si è fatta sempre più rara, la diffusione dell'informazione ha in ciò una parte decisiva. Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il pianeta. E con tutto ciò difettiamo di storie singolari e significative. Ciò accade perché non ci raggiunge più alcun evento che non sia già farcito di spiegazioni. In altri termini: quasi più nulla di ciò che avviene torna a vantaggio della narrazione, quasi tutto a vantaggio dell'informazione. È, infatti, già la metà dell'arte del narrare, lasciare libera una storia, nell'atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni. Lo straordinario, il meraviglioso, è riferito con estrema precisione, ma il nesso psicologico degli eventi non è imposto al lettore. Che rimane libero di interpretare la cosa come preferisce; e con ciò il narrato acquista un'ampiezza di vibrazioni che manca all'informazione.
Il Soleil e Dumb Type hanno quindi costruito due forme di narrazione che, nella trasmissione dell'esperienza, hanno la capacità di coinvolgere sia la dimensione individuale che la dimensione collettiva degli spettatori, di coinvolgerne le corde più intime e di indurre degli interrogativi di portata sociale e politica. Nell'incontro dell'umanità trasfigurata della scena e dell'umanità comunitaria della sala riposa l'essenza dell'evento teatrale. Come afferma in una frase illuminante Elie Konigson, lo spettatore è uno sciamano, investito dalla società a percorrere il cammino di conoscenza del teatro: "Lo spettatore si trova in posizione intermedia fra la città e la scena, fra la società civile e la società teatrale (cioè scenica). Il ruolo propriamente sciamanico dello spettatore, questo delegato della città, verso i mondi impossibili dell'aldilà scenico, si esprime anche attraverso questi corpi in apparenza assopiti, immobili, presenza pesante del retro-teatro urbano, attento alle ombre mobili della scena". Entrambi gli spettacoli agiscono in questo campo di intersezione di pubblico e privato, e fanno della scena il luogo altro in cui interrogarsi sulla vita e sul mondo.
Il teatro faccia a faccia con il mondo contemporaneo
Voyage e Le dernier caravansérail nascono entrambi dalla volontà di interrogare il ruolo dell'arte teatrale di fonte agli avvenimenti del mondo contemporaneo. Interessante a questo proposito è comparare i programmi redatti dal gruppo giapponese e da quello francese. Dumb Type scrive:
Un'atmosfera di opaca incertezza senza precedenti ci circonda. Addormentati o svegli, se cercate di dimenticarla e di paralizzare il vostro spirito, essa non vi lascia, come una seconda pelle di ansia e di paura. Simulate indifferenza, non resisterete a lungo, non ci metterete una croce sopra, come se si trattasse di problemi altrui o di eventi separati da voi dallo schermo della televisione. Molte più persone di quante possiamo immaginare si confrontano con un sentimento di crisi, lottando per trovare un nome per questa condizione. In queste circostanze, cosa potrebbe risultare più ridicolo e derisorio che delle innocenti "attività artistiche"? Dobbiamo chiederci incessantemente perché proviamo ancora ad esprimerci attraverso le arti dello spettacolo, perché perseveriamo nella nostra attività creativa. Abbiamo deciso deliberatamente di non ricorrere al linguaggio né di commentare in altro modo le circostanze che ci circondano attualmente. Cerchiamo di ritrovare una comunicazione reale senza utilizzare le parole. È possibile? Ancora una volta dobbiamo rimettere in questione l'essenza stessa dello spettacolo.
Hélène Cixous, la scrittrice da anni legata al Théâtre du Soleil, scrive nella premessa che apre il libretto-programma:
Oggi, nuove guerre gettano sul nostro pianeta centinaia di migliaia di nuovi fuggitivi, frammenti di mondi disgregati, brandelli tremanti di paesi devastati i cui nomi non significano più rifugi-riparo natali, ma rovine o prigioni: Afghanistan, Iran, Irak, Kurdistan…, la lista dei paesi avvelenati aumenta ogni anno. Ma come raccontare queste innumerevoli odissee? Quanti nuovi piccoli teatri bisognerebbe inventare per dare a ogni destino impazzito il suo effimero asilo? Come non sostituire la tua lingua straniera con la nostra lingua francese? Come conservare la tua lingua senza mancare di gentilezza e di ospitalità nei confronti del pubblico, il nostro ospite nel teatro? Come comprendersi col cuore senza comprendersi a parole? Come non appropriarsi dell'angoscia altrui facendone del teatro? Come non sbagliare per illusione o per paura di comprensione? Come dire tutto senza una parola? E se non ci riusciamo? È la domanda del rifugiato nel suo viaggio.
Il faccia a faccia con il mondo contemporaneo ha quindi costituito per entrambi i gruppi la scintilla che ha innescato il processo della creazione teatrale. L'imperativo della realtà pone al teatro il problema cruciale di trovare nuove forme di spettacolo, che le corrispondano e che sappiano dare un senso all'attività artistica. Come affermava Mejerchold agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso "il fattore principale che dalla scena influenza lo spettatore, la carica interna che noi gli dobbiamo fornire, il nucleo centrale di cui abbiamo voluto parlare è senz'altro il pensiero, l'idea, il contenuto è quel che passa da un cervello all'altro […]. Ma il fatto è che quando desideriamo che il nostro pensiero si travasi nella sala teatrale, che l'idea giunga allo spettatore e questi ne afferri il contenuto, dobbiamo perfezionare, affilare, rendere duttili e veramente efficaci i mezzi di espressione. […] La preoccupazione del "che cosa" implica la preoccupazione per il "come" ".
Sia Dumb Type sia il Soleil nel loro confronto fra "cosa" e "come" partono dalla constatazione dall'inadeguatezza del corrente linguaggio verbale. Tale punto di partenza esclude sia ovviamente la messa in scena di un testo teatrale preesistente sia una scrittura drammaturgica testuale appositamente messa a punto per lo spettacolo. È la scrittura scenica nel suo insieme a dover essere inventata, avendo sempre presente la necessità di rispondere adeguatamente al mondo. Le risposte date dal Théâtre du Soleil e da Dumb Type sono chiaramente diverse. Nonostante ciò, mi pare fondamentale che esse scaturiscano da un'esigenza forte e comune.
Dumb Type, proseguendo nel suo particolare percorso di ricerca, risponde con l'immersione, tanto del performer quanto dello spettatore, in un universo teatrale che si serve delle nuove tecnologie, per esplorare la nostra mente in reazione alla realtà. A livello spaziale, questo universo è determinato da uno schermo gigante, che ricopre il fondo scena e che viene duplicato dal pavimento a specchio, in un gioco di doppi e di inganni percettivi che riverbera nella sala fino ad immergerla nello spazio-tempo dello spettacolo. Il suono e la sua amplificazione sono altrettanto importanti nella definizione dell'ambiente teatrale, che viene a coincidere con il territorio di confine fra il dentro di noi stessi e il fuori del mondo. Lo schermo, su cui sono proiettate immagini ad altissima definizione o luci colorate nettissime, riflette la visione mediatizzata e digitalizzata del mondo che caratterizza la nostra epoca. La percezione digitale della realtà si trasforma sulla scena in organismo poetico, in cui la presenza dei performer ne innesca le vibrazioni. La compenetrazione dell'umano e del tecnologico è totale. Nel quinto quadro una ragazza distesa al centro di un tappeto verde circolare posto al centro del palco, immobile, come se stesse dormendo, enumera con la formula "I wish I was" una serie di sogni, aspirazioni, desideri. La voce ci giunge mediata dall'impianto di amplificazione. Sul fondo dello schermo scorrono immagini bellissime di elementi naturali, probabilmente anche di sintesi, in cui i cambiamenti dell'inquadratura non sono più i movimenti della macchina da presa cinematografica, ma gli spostamenti propri del digitale. Queste visioni digitali acquistano un senso profondo nel momento in cui diventano la manifestazione dell'inconscio della figura umana sul palco (e delle figure umane nella sala), che, a sua volta, riceve il senso della sua presenza dall'ambiente tecnologico in cui è immersa. La stessa sinergia è evidente nel settimo quadro: gli attori si avvicendano in un ritmo lento al centro del palcoscenico con il viso rivolto al pubblico. Rimangono fermi, in piedi ed il loro corpo viene attraversato da parole: la pronuncia della parola genera un segno scritto fatto di luce, che scorre dall'alto verso il basso passando sugli attori. Le parole ("per sempre", "adesso", "una volta", "ogni momento", ecc.)evocano la temporalità della vita ed il suo inesorabile trascorrere in ogni istante: ogni attore, con essenziali gesti e espressioni minime, dà un vissuto a queste parole, la carica con le sue emozioni, le sue contraddizioni, le sue paure, i suoi interrogativi senza risposta e le sue incertezze.
La parola, con il suo duplice valore di segno sonoro e grafico, ha una fondamentale importanza anche nello spettacolo del Théâtre du Soleil. La maledizione biblica di Babele e la frammentazione dell'umanità in centinaia di lingue e di culture è uno dei fulcri su cui ruota la forma de Le dernier caravansérail. Gli attori si esprimono non solo in francese, ma anche in inglese, persiano, bulgaro, russo, e altre lingue che non sono stata in grado di riconoscere, e si muovono nell'impasto sonoro creato da Jean-Jacques Lemêtre, composto da musiche originali, da canti di altri popoli, dalle voci reali di chi ha raccontato la sua storia a Mnouchkine, e dai rumori a volte assordanti del mondo. La tecnologia rende virtualmente possibile il dialogo fra le parti eterogenee di questo magma linguistico: il passaggio dal suono al segno proiettato sul fondo del palco è infatti il passaggio da un idioma all'altro. La sincronia fra scritto e orale è il simbolo della possibilità dell'incontro. Nella griglia costituita da questo insieme di suoni e parole, gli attori entrano ed escono dalla scena su carrelli mobili senza mai toccare col proprio corpo la superficie del palcoscenico: si tratta di piccole scenografie praticabili, il cui movimento sul palcoscenico vuoto induce lo spettatore ad una percezione multipla dell'azione teatrale, di ispirazione cinematografica. Il riferimento al cinema, ed in particolare al cinema muto, è molto forte, evidente anche nell'uso dei titoli proiettati sul fondo grigio ad introdurre ogni scena. Inoltre, i media entrano direttamente in scena in due sequenze che raccontano gli assurdi interrogatori subiti da un rifugiato kurdo in un campo di detenzione in Australia. L'interrogatore e l'interrogato comunicano attraverso una telecamera a circuito chiuso che trasmette in diretta da un set nascosto: noi vediamo il funzionario del governo australiano a mezzo busto su un carrello al centro del palco. Nella parete del carrello di fronte al pubblico è incastrato un monitor, su cui è trasmessa l'immagine del rifugiato. L'immagine elettronica e lo schermo diventano un'altra figurazione delle griglie e delle barriere, che trionfano nella realtà, ma che il teatro ha il potere di annientare temporaneamente proprio nell'atto di metterle in scena.
Voyage.
Dietro queste soluzioni complesse non c'è una mente unica, ma un lavoro collettivo. La valutazione dell'unione di "cosa" e "come" di cui stiamo parlando non può prescindere dall'esame del processo creativo. La dialettica fra mondo e teatro, fra individuale e collettivo che sono alla base del contenuto degli spettacoli e del loro rapporto con gli spettatori, si rispecchiano nei procedimenti della creazione.
La creazione collettiva dietro una perfetta concertazione
Voyage, è il risultato del lavoro di sei sotto-gruppi della compagnia: ognuno di essi ha elaborato a suo modo il tema comune del viaggio. Ne è sortito un mosaico di scene, dai toni e dalle atmosfere molto diverse, che però stupisce per la coesione e per la perfetta sincronizzazione nella composizione dei diversi materiali utilizzati. Corpo, immagine e suono non sono posti l'uno accanto all'altro, ma sembrano scaturire contemporaneamente dalla stessa fonte di energia. Traspare inoltre l'urgenza dell'opera teatrale, un bisogno che si incarna ugualmente in ogni elemento dello spettacolo e che secondo me ne fa l'intensità. Anche il lavoro del Soleil è una "creazione collettiva", portata al suo estremo. Un segno di questa radicalizzazione: se negli anni Settanta, nel periodo d'oro della creazione collettiva al Soleil, Mnouchkine poneva ancora il suo nome in locandina all'ultimo posto, ma sotto la dicitura "mise en scène", in questo caso, tutti, attori, aiutanti, musicista e regista, sono ugualmente ritenuti responsabili della creazione ed inseriti in un lungo elenco in ordine alfabetico sotto la dicitura "Odissee raccontate, ascoltate e comprese, improvvisate e messe in scena da". Nello spettacolo, lascia a bocca aperta come tutte le azioni e tutti gli elementi scenici siano perfettamente coordinati in un concertato in cui la troupe teatrale si trasforma in un'orchestra perfettamente accordata.
Mi sembra che entrambi gli spettacoli, posseggano quella organizzazione musicale del teatro di cui erano alla ricerca Appia, Craig, Meyerchold per creare la "nuova scena" del Ventesimo secolo. proprio grazie alla responsabilità comune del processo creativo, la sintonia musicale degli elementi dello spettacolo dà origine ad una partitura "calda", in cui individuale e collettivo si fondono in un'intensa fonte di energia emozionale.
L'opera d'arte totale: composizione scenica e posizione dello spettatore
Per le complessità degli elementi messi in gioco sulla scena teatrale, per i modi della loro combinazione e per la loro perfetta concertazione musicale, Voyage e Le dernier carvansérail possono essere inseriti nella scia delle sperimentazioni imperniate sul concetto di "opera d'arte totale", che ha suscitato le più interessanti ricerche del secolo scorso, come mostra il fondamentale volume curato da Elie Konigson L'oeuvre d'art totale (Paris, Editions du CNRS, 1995). La riflessione sulle possibilità e sulle modalità di realizzazione dell'opera d'arte totale portano gli sperimentatori più innovativi a superare la sintesi delle arti propugnata da Richard Wagner, perseguendo un distacco dalla mimesi della realtà ed il raggiungimento di una nuova teatralità. Fondamentale a questo proposito risulta il breve scritto Kandinski La composizione scenica del 1912, che, potremmo dire, esprime non solo le idee del pittore sull'arte scenica, ma anche le esigenze comuni e le aspirazioni che animavano i tentativi di riforma e rinnovamento dell'arte teatrale degli uomini di teatro della stessa epoca. Kandinski propugna una composizione scenica sinestetica, in cui a coordinare gli elementi della scena, il suono, la visione, l'azione non è un insieme di dati esteriori, quali ad esempio la trama e l'ambientazione, ma una serie di connessioni interiori. libertà di trasformazione continua dettata da una rete di connessioni interiori. Questa composizione astratta complessa, costruita su una libertà totale di trasformazione, attraverso l'utilizzazione di assonanze e dissonanze, di cooperazioni e di reazioni, non rappresenta la realtà, ma costituisce un evento spirituale di vibrazioni condivise dagli spettatori. L'attenzione allo spettatore e la sua inclusione nell'evento spettacolare, costituisce un altro aspetto caratterizzante della tensione all'opera d'arte totale fin dalle origini rinascimentali del teatro moderno, come ha sottolineato Elie Konigson. Egli riscontra due tendenze generali nell'arte teatrale occidentale: l'una riposta sul rapporto dell'attore con il testo, l'altra fondata su "uno spazio di azione teatrale che attinge le sue strutture fra i resti recuperati e riaggiustati della ritualità". Guardando storicamente a questa tendenza, Konigson afferma che "a partire dal Rinascimento, unitamente alla classificazione delle arti […] si verifica l'inclusione determinante dell'architettura come contesto e attore della collaborazione fra le arti. L'architetto, superando il ruolo assegnatoli, diventa regista e organizzatore della festa nell'edificio ecclesiastico, nel palazzo e in seguito, nel XVIII secolo nel monumento teatrale. In questo modo, l'apparato include per la prima volta anche il partecipante, fedele, cortigiano o spettatore, come elemento costitutivo dello spettacolo […]. Ciò che ci interessa è che nel seguito delle arti riunite, lo spettatore sia alla fine incluso".
In Voyage e in Le dernier caravansérail l'inserimento dello spettatore nell'apparato scenico e la sua messa in vibrazione con la scena, si intrecciano alla scelta degli elementi di composizione utilizzati. Sia Dumb Type che il Soleil si preoccupano di costruire nello spettacolo la percezione dello spettatore attraverso l'integrazione sulla scena di elementi che costituiscono la realtà tecnologica attuale. Dumb Type, servendosi della proiezione di immagini digitali ad altissima definizione, di un sistema di illuminazione complesso e di un impianto di diffusione del suono estremamente potente, crea un ambiente immersivo, in cui la sala e la scena sono investite dalle medesime vibrazioni acustiche e visive. Significativo è il quadro in cui una danzatrice si muove in maniera scarmigliata davanti allo schermo su cui sono proiettati dei segnali elettronici impazziti, cui corrispondono dei fortissimi segnali acustici. Lo spettatore, coinvolto in questo delirio sensoriale, diventa il doppio immobile della danzatrice sul palco: uno stato di emozione e di ansia pervade la scena e la sala; la rappresentazione diventa una discesa nelle profondità travagliate e lacerate dell'interiorità umana. Il quadro conclusivo dello spettacolo, che chiude circolarmente lo spettacolo, perviene invece ad una diretta implicazione del pubblico nell'azione. Nella scena di apertura infatti, lo spettatore si trova davanti al palcoscenico scuro in cui spiccano tra sfere di luce al centro delle quali una ballerina compie pochi gesti lenti e ieratici. Tuoni, rumori di bombardamenti accompagnano i suoi movimenti in un crescendo del volume. Si diffonde una condizione di irrequietudine, di attesa, un'evocazione di cose terribili ma ancora lontane. Agli spettatori viene dato di guardare la terra dall'alto dell'universo. Questa distanza, alla fine del "viaggio-spettacolo" è irrecuperabile. Torna sul palco la stessa ballerina, a compiere i medesimi gesti sui medesimi suoni; ma questa volta sullo schermo e rfilesso nello specchio appare l'immagine di un mirino digitale, di quelli utilizzati dai moderni bombardieri per compiere "attacchi intelligenti". Il mirino ruota su se stesso, punta strade, edifici, in un movimento circolare multiplo che ipnotizza lo spettatore. Spettatore che diventa ora carnefice, e la cui responsabilità nella storia viene invocata da un percorso visivo e uditivo vertiginoso.
Nel lavoro del Soleil, il punto di vista dello spettatore diventa una componente fondamentale della composizione scenica: esso è introdotto e moltiplicato sulla scena in una duplice maniera. Da un lato grazie ai carrelli mobile, al loro movimento, alle loro "finestre", l'occhio dello spettatore acquista la molteplicità di prospettive della macchina da presa o della videocamera, e la capacità di concentrarsi ora sull'insieme ora sul dettaglio. Inoltre l'entrata e l'uscita dei carrelli per ogni singola azione, sottolinea il valore di "apparizioni" di questi brandelli di vita, che tornano a scorrere per brevi tratti sulla scena. Dall'altro, l'utilizzazione delle proiezioni di sottotitoli per la traduzione dei dialoghi e delle testimonianze registrate, genera una partizione dell'attenzione spettatoriale, che si divide fra parola scritta e parola detta, fra azione e scrittura. Infine la presenza del complesso impasto sonoro creato da Jean-Jacques Lemêtre genera un’ulteriore complicazione percettiva.
Per entrambi gli spettacoli le nuove tecnologie con i loro linguaggi e con i modi di percezione cui esse danno luogo, sono un punto di riferimento imprescindibile per creare una composizione scenica che tocchi il vivo della contemporaneità. La questione cruciale che essi pongono è però un'altra: il valore di maschera che le tecnologie devono assumere sulla scena per dare luogo ad una valida creazione teatrale.
Maschera e tecnologia
Voyage e Le dernier caravansérail mostrano che non è la quantità e la qualità delle tecnologie utilizzate sul palcoscenico ad essere fondamentale, ma il fatto che le tecnologie diventino un mezzo per dare respiro alla scena, per offrire all'attore una nuova base all'azione e alla trasformazione, per coinvolgere gli spettatori nell'esperienza teatrale.
Abbiamo parlato della maschera come cavità risonante e strumento di metamorfosi. Questa cavità, negli spettacoli di Dumb Type e del Soleil, diventa la scena intera, che da fissa diventa mobile, al contrario del volto che con la maschera da mobile diventa fisso. La maschera rende possibile un ribaltamento e un superamento della realtà nell'invenzione di un nuovo universo. Nel caso del Soleil, i carrelli diventano insieme l'essenza dei personaggi e l'occhio degli spettatori. Essi portano ad una trasfigurazione degli attori e ed evocano suggestioni profonde. I profughi, sempre in movimento, non sono in realtà liberi di costruirsi il percorso della propria vita. Le lingue parlate dai personaggi non sono un elemento di realismo, ma anch'esse sono una parte di questa maschera: nella loro presenza caotica sul palcoscenico e nel loro divenire scrittura francese sono l'emblema dell'incomunicabilità, della differenza, che il teatro può trasformare in un'effimera ma preziosa occasione di incontro e comprensione, facendo risuonare queste parole nel suo ventre ed trasformandole in scie di scrittura luminosa. In Dumb Type la visione digitalizzata del mondo diventa la maschera degli attori, che si muovono in quest’universo ove tutto è mediato dall'artificiale. Lo schermo e il palco, il gioco di riflessioni e di doppi percettivi, acquistano il loro senso nel momento in cui sono agiti dagli attori e condivisi dagli spettatori.
Questi spettacoli hanno quindi creato delle maschere contemporanee che abitano la scena e invadono la sala, coinvolgendo gli spettatori in una partecipazione profonda, individuale e collettiva, agli eventi e alle lacerazione del mondo contemporaneo.
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Grafie Animalie di Roberto Paci Dalò con una intervista al regista-musicista di Anna Maria Monteverdi |
E' il regista-musicista stesso a spiegarci la genesi del nuovo spettacolo Animalie presentato al Teatro Petrella di Longiano: "Animalie è nato ad Atene nell'ottobre 2002 come risultato di una complessa coproduzione tra Belgio, Italia, Grecia, Estonia ed è pensato come commentario scenico al testo L'aperto, l'uomo e l'animale del filosofo Giorgio Agamben (con cui collaboro da più di dieci anni).
Foto Chico De Luigi.
La drammaturgia di questo pezzo si riferisce al testo di Agamben come glossa o contrappunto e nello spettacolo si può sentire la sua voce registrata elaborata elettronicamente in modo tale da avvicinarla – nella concretezza del suono stesso – alle voci degli animali da lui evocati nel testo fino a far scomparire il testo nel puro suono. Nello spettacolo sono usate le abituali tecnologie audio/video e motion capture per catturare ed elaborare alcune delle immagini riprese in tempo reale. Lo spettacolo ruota a un concetto molto chiaro e ben espresso da Agamben citando Uexküll: "Questa illusione riposa sulla credenza in un mondo unico in cui si situerebbero tutti gli esseri viventi. Uexküll mostra che un tale mondo unitario non esiste, così come non esistono un tempo e uno spazio uguali per tutti i viventi. L'ape, la libellula o la mosca che osserviamo volare accanto a noi in una giornata di sole, non si muovono nello stesso mondo in cui noi li osserviamo né condividono con noi – o fra di loro – lo stesso tempo e lo stesso spazio"
Foto Chico De Luigi.
Approdato in Italia, lo spettacolo ha avuto come protagonista la danzatrice/performer Azzurra Migani, la cui bravura ha convinto Roberto Paci Dalò ad applicarsi alla creazione di un vero e proprio spettacolo teatrale, mantenendo intatta sia l'ispirazione al testo del filosofo che la forma tipica del suo teatro tecno-musicale, quella di un "concerto scenico" e di uno spazio di sensorialità, come lui stesso lo chiama: un ambiente acusticamente e visivamente avvolgente e risonante che privilegia un uso sofisticato e minimale del suono live e della musica elettronica e un'esplorazione digitale dentro le pieghe dell'infinitamente piccolo. Le architetture di luci ritagliano forme geometriche che seguono il ritmo musicale, come nei film astratti di Hans Richter.
Foto Chico De Luigi.
Il testo di Agamben viene proposto attraverso una curiosa corrispondenza della performer con gli animali evocati: una prova fisica quella che la porta a creare microcoreografie "a loop" a turno con piccoli gesti della mano, come un linguaggio muto, o come un typewriting; e ancora con la testa, con il busto e con i piedi. Uno specchio rimanda la sua immagine, incorniciandola e facendola sobbalzare dal nero della scena. Davanti a lei una garza che accoglie immagini in proiezione e dettagli del suo volto catturate in video fuori scena. Di grande forza visiva e in un contrasto deciso bianco e nero, i bellissimi disegni di Oreste Zevola, dal gusto primitivo, la cui grafia impronta – anche che nel senso originario e etimologico del termine: incisione – l'intero spettacolo, composto appunto, da molte scritture. Da molte grafie.
Foto Chico De Luigi.
Animalie
di Roberto Paci Dalò
Longiano, Teatro Petrella, 14 febbraio 2004
INTERVISTA
A.M.M. La tua attività è straordinariamente ricca di progetti e opere che spaziano dalle installazioni-performance video-sonore interattive alle performance via web e via radio. Quale è il denominatore comune? E quale la funzione delle tecnologie oggi: può a tuo avviso, una scena – anche tecnologica – attivare socialmente il pubblico, come diceva Brecht nella Teoria della radio?
R.P.D. Le tecnologie non sono un fine nei miei lavori. Però sono molto utili per poter vedere il mondo "analogico" in maniera diversa. Mi piace lavorare con il digitale per amplificare ed elaborare suoni altrimenti inaudibili e spostare il rapporto col testo dal significato alla sua presenza acustica e corporea. Il suono è per me il veicolo principale dell'elaborazione drammaturgica ed è grazie all'elettronica e al campionamento che posso creare l'"architettura invisibile" degli spettacoli. Le mie opere sono create all'insegna di un incontro di tutte le arti e per la definizione di spazi di sensorialità. Penso che il teatro possa agire a livello sociale in maniera profonda e Brecht (e successivamente Heiner Müller) è fondamentale ancor oggi. Per completare la triade aggiungerei anche Walter Benjamin.
A.M.M. Il gruppo giapponese Dumb Type parla della nascita di una nuova narrazione che in epoca tecnologica ha superato la parola per produrre ambienti acusticamente e visivamente avvolgenti, fatti di flussi di immagini ad alta definizione e sonorità granulari a formare una sorta di spazio ritmico-visivo attivato dai corpi del performer e che arriva al pubblico per risonanza percettiva ed emotiva. Ti riconosci in questa sorta di aggiornamento del concetto di opera d'arte totale, di nuova "composizione scenica", per ricordare Kandinskij?
R.P.D. Si, mi ci riconosco e il lavoro di Dumb Type mi piace molto fin dalla prima volta che li ho visti ad Ars Electronica diversi anni fa. Anche se per me la parola resta importante al di là della sua presenza riconoscibile all'interno di un'opera. Molti dei miei lavori hanno riferimenti letterari ed è molto forte il mio rapporto con scrittori come Gabriele Frasca (il curatore delle opere di Beckett per Einaudi e autore di un testo teatrale straordinario come Tele, Cronopio ed.), Predrag Matvejevic' e Giorgio Agamben. Un aspetto che mi interessa particolarmente è quello di partire dalla parola proprio per creare territori come quelli evocati nella domanda: "ambienti acusticamente e visivamente avvolgenti..." (d'ora in poi userò questa descrizione per i miei spettacoli!) Non è un caso che il lavoro sulla "trance" sia una costante fin dai primissimi pezzi negli anni Ottanta. Una trance che lavora sui grandi numeri (come nel rave & theatre TRANCE BAKXAI presentato in grandi spazi e archeologie industriali) a micro azioni legate a una percezione sottile.Tutti i miei spettacoli sono lavori di cosidetto "teatro-musica" anche se solitamente sfuggono a questa etichetta. E' per me importantissima la struttura compositiva di un'opera. Qualunque sia la sua forma e linguaggio e anche al di là dell'utilizzo di musica. Volendo pensare al cinema, struttura compositiva significa per me non tanto la colonna sonora quanto piuttosto il montaggio.
Blue Stories.
A.M.M. Il live cinema e il "cinema cinema"
R.P.D. "Il cinema mi interessa molto e mi interessa su più livelli in una scala che va dal "live cinema" al "cinema-cinema". Live cinema è uno sviluppo a partire dalla ricerca del montatore e regista sovietico Dziga Vertov col suo Kinoglaz. Con Blue Stories ho voluto creare un road-movie girato, montato e presentato in performance (anche il suono è dal vivo) il giorno stesso. Ma non ho voluto mischiare la comunicazione per cui Blue Stories è presentato come film tout-court (e non come performance o concerto). I suoi riferimenti sono tutti cinematografici e le sue modalità percettive sono tutte cinematografiche. E' per questo che fa parte dei programmi di festival di cinema (notoriamente non molto aperti a linguaggi "altri"). Cinema-cinema sono le opere esclusivamente pensate per la proiezione. Tengo a sottolineare che non amo molto i televisori per cui chiedo sempre che i miei lavori (tutti video) siano visti in proiezione. Il cinema è per me creazione di spazio".
A.M.M. Qualcosa sulle tue collaborazioni: con Mario Martone, con Studio Azzurro, con Jaromil, con Luca Ruzza: un regista teatrale e cinematografico, un ambito di ricerca specializzato nelle installazioni interattive e che spesso ha sconfinato nel teatro, uno scenografo che utilizza sistemi di realtà virtuale, un net artist di culto...
R.P.D. Martone mi ha invitato a lavorare con lui sul progetto del Teatro di Roma. Li' ho creato nel 1999 Itaca - il palcoscenico elettronico del Teatro di Roma. Itaca e' stato considerato, durante il brevissimo periodo di presenza di Mario alla guida di questa istituzione, uno dei palcoscenici del Teatro di Roma. Mi è sembrato molto bello dare questa importanza a un palcoscenico elettronico all'interno di un mondo in fondo così conservatore come è quello dei teatri più o meno stabili.
Ho conosciuto Jaromil come mio studente all'università di Siena dove ho insegnato per diversi anni "Drammaturgia dei media", uno strano corso basato sul lavoro di Giardini Pensili. Per uno dei miei progetti ho portato Jaromil a Ars Electronica e lì è rimasto. Continuiamo a lavorare insieme cercando di far coincidere i calendari!
Con Paolo Rosa di Studio Azzurro c'è un'amicizia che ci lega da tanti anni. Paolo è nato a Rimini e, anche se cresciuto a Milano, è legatissimo a questa città dove ha una casa ed è lì che generalmente ci incontriamo. Da anni volevamo lavorare insieme e ora abbiamo finalmente avviato due progetti: un workshop all'Accademia di Brera dove lavorerò con i suoi studenti in una sezione del nostro progetto Gramsci/Leopardi/Pasolini" (spettacoli e installazioni in piu' sezioni sparse tra Europa e Messico) e nell'installazione suono/video interattiva che creeremo a Bolzano all'interno di en:trance un progetto dedicato alla "trance" curato da Anomos e Giardini Pensili.
Con Luca Ruzza abbiamo realizzato un primo progetto a Copenhagen (al museo d'arte contemporanea Charlottenborg Exhibition Hall http://www.disturbances.org) lo scorso anno e ora stiamo lavorando su più cose. Ci troviamo fin dal nostro primissimo incontro – via mail – in una sintonia quasi soprannaturale anche grazie alla sua formazione scandinava che mi fa impazzire! Devo dire che ho un'ossessione giudaica per il cosmopolitismo per cui mi trovo piu' a mio agio in luoghi dove si debbano usare almeno 3 lingue contemporaneamente (cosa che spesso provoca il blackout piu' totale... ma questa e' un'altra storia) per cui il "profondo nord" europeo e' uno dei luoghi perfetti per esercitare questo multi-tasking linguistico.
A.M.M. Perché le performance tecnologiche stentano in Italia ad avere il giusto riconoscimento e spazi adeguati mentre all'estero si moltiplicano strutture polivalenti atte proprio ad accogliere questo genere ibrido che ormai ha già una lunga storia?
R.P.D. Ancora non l'ho capito. Vero è che l'Italia ha questa necessità tutta sua di codificare/incasellare (spesso non certo per ragioni artistiche) ogni tipo di esperienza artistica e le performing arts non sfuggono a questo. Credo che in Italia un uso talvolta smodato di alcune parole-slogan (multimediale, interattivo, nuove tecnologie, etcetera) in particolare da parte delle istituzioni che lavorano sullo spettacolo dal vivo, non corrisponda in realtà a una vera comprensione del significato - e di conseguenza delle possibilità! - di queste che non sono solo parole ma anche modalità di azione che modificano profondamente la creazione; in tutti i suoi aspetti. C'e' ancora molto da fare.
Roberto Paci Dalò, fondatore della compagnia Giardini Pensili con una lunga attività estesa a tutti gli ambiti tecnoperformativi (installazioni video/sonore, film, musica elettronica e cinema live, radio works, progetti di web theatre, spettacoli che utilizzano il sistema di motion capture) è forse l'artista italiano che vanta maggiori collaborazioni con strutture e formazioni internazionali. Tra gli altri, Ars Electronica, Locarno Film Festival, Transcultures; Art Zoyde, David Moss, Scanner, Olga Neuwirth, Kronos Quartet, Hebbel-Theater Berlino. Tra i suoi lavori ricordiamo il progetto Blue Stories (live cinema o cinema performativo) dedicato a Jarman e Klein, dal libro di Ingeborg Bachmann Il libro del deserto: immagini della città girate la sera prima e poi sonorizzate live a restituirgli respiro, tempo, pause. A (ri)costruirgli intorno una memoria. E ancora gli spettacoli multimedia: Metamorfosi (con A. Bonaiuto) e Stelle della sera (scritto con Gabriele Frasca) e le opere radiofoniche (Transfert).
Con lo scenografo Luca Ruzza ha recentemente realizzato un progetto a Copenhagen per il Museo d'Arte Contemporanea Charlottenborg Exhibition Hall mentre è in corso il progetto Gramsci/Leopardi/Pasolini all'interno del quale si presenteranno tra gli altri: Petrolio/México on-site/on-line/on-air (Mexico City e Vienna), Filmnero (performance/installazione, net/ radio works) per la Galleria d'Arte Contemporanea di Villa Croce di Genova, gli spettacoli Schwarzfilm (Le Manège, Mons) e Italia anno zero (Wien Modern). L'installazione videosonora Beck/ett -omaggio a Julian Beck, realizzata per la mostra internazionale dedicata al Living Theatre Labirinti dell'immaginario (Napoli, Castel S. Elmo), sarà riproposta per Riccione TTV 2004 in un particolare allestimento site specific tra spazi interni ed esterni. Wax and Time (titolo di lavoro) - installazione interattiva audio video e performance in collaborazione con Paolo Rosa/Studio Azzurro (Bolzano, maggio 2004). Per uno sguardo ai lavori passati e in corso: http://giardini.sm/
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Teatro e Internet informazione, diffusione e formazione dello spettatore in Italia di Irene Giorgi |
Siamo testimoni di come nel corso degli anni le nuove pratiche affiancatesi alle vecchie le abbiano inevitabilmente modificate e allo stesso tempo ne siano state influenzate. L’arte e il teatro in particolare hanno da sempre sfruttato la tecnologia del proprio tempo adottando, a seconda delle situazioni, un rapporto di dominio o sudditanza. Partendo dal presupposto che il rapporto del teatro con la tecnologia è stato ed è comunque molto controverso, dato che da un lato si tende a rimanere ancorati alla tradizione, mentre dall’altro c’è questa esigenza di sperimentare sempre nuove possibilità, talvolta il teatro si è servito e si serve della tecnologia anche quando non la teorizza e usa esplicitamente, questo per sottolineare la grandissima influenza che quest’ultima ha comunque da sempre esercitato su di esso. Detto questo, il ricorrere del teatro alla tecnologia, e in particolare ai mezzi di comunicazione di massa, è dovuto non solo alla volontà e necessità di migliorarsi per rimanere al passo con i tempi e sostenere la competizione che sorge inevitabilmente con la nascita di altre forme di intrattenimento, ma anche per la naturale propensione della gente di teatro a sperimentare e sfruttare tutte le possibilità, a livello comunicativo ed artistico, che man mano si presentano. Con il progredire delle tecnologie si sono presentate al teatro nuove possibilità e nuovi usi sia nel modo di fare teatro sia nel modo di fare e diffondere informazione teatrale sia, infine, nella maniera di comunicare e di instaurare rapporti con lo spettatore.
Il computer sta diventando, nella nostra società, un elemento fondamentale dello sviluppo economico, sociale e culturale. Anche se la quantità di persone che ne possiede uno è ancora lontana dal corrispondere alla totalità degli individui, è assodato che gran parte delle operazioni svolte al computer facciano ormai parte della nostra quotidianità. In particolare Internet è diventato uno degli strumenti principali su cui si basa la società dell’informazione, grazie alle sue qualità di immediatezza, praticità, capacità di diffusione, interattività e ipermedialità. E’ inevitabile quindi che anche il mondo del teatro, che pone le sue radici nella società ed è sempre stato influenzato dai vari mutamenti intercorsi, lo sia anche in questo caso.
Ma che tipo di rapporto ci può essere oggi tra teatro ed Internet?
E’ da dire innanzitutto che è difficile circoscrivere in uno spazio specifico il rapporto instaurato tra Internet e Teatro, prima di tutto per le potenzialità e le numerose funzioni di questo nuovo media e poi per l’approccio ancora recente ad esso del mondo del teatro e le varie possibilità di usi e sperimentazioni che si vengono a presentare a chi si occupa di teatro e a chi lo fruisce. Il fatto che la Rete di fatto possa svolgere molte funzioni diverse moltiplica i suoi possibili usi da parte del mondo del teatro, da una parte Internet può essere usato per un fine pratico, come sterminato archivio di informazioni, come nuovo mezzo per promuovere e diffondere la cultura teatrale, come via per stabilire nuovi e più immediati rapporti interpersonali e nuove modalità di conoscenza e formazione; dall’altra sono nate sia questioni teoriche sia alcune sperimentazioni pratiche, sulla possibilità di creare, attraverso la contaminazione tra teatro e Internet, risultati artistici. Considerando il fatto che le funzioni di quest’ultimo aumentano sempre di più, essendo in costante mutamento, e considerando anche le continue sperimentazioni, risulta quasi impossibile passare in rassegna le molteplici possibilità offerte dalla Rete, qualsiasi tentativo di inquadrare il rapporto teatro-Internet può apparire inevitabilmente incompleto e in un certo senso datato. Detto questo le potenzialità e le numerose funzioni di questo nuovo media e l’approccio relativamente recente ad esso del mondo del teatro, hanno fatto sì che gli aspetti principali assunti oggi da questo rapporto, nel panorama italiano, siano: informare, diffondere e formare lo spettatore.
L’informazione costituisce senza dubbio una delle prime funzioni della Rete, tramite un sito Internet è possibile raggiungere una quantità di utenti potenzialmente infinita, il sito costituisce quindi una buona vetrina per le attività organizzate da teatri, compagnie, attori, festival, registi e non solo, ultimamente infatti i siti e le informazioni, anche in base alle esigenze degli utenti, sono aumentati sempre di più ampliando anche i settori di teatro presi in considerazione. Si è quindi iniziato a fornire informazioni specializzate a seconda del settore e della tipologia di teatro (drammaturgia, costumi teatrali, teatro di strada, ecc…) e dell’utente di riferimento (spettatore, professionista, studioso). Proprio per venire incontro a questa maggiore richiesta e disponibilità di informazioni, e per fornire delle basi di partenza per avventurarsi in questo immenso serbatoio di informazioni che è Internet, ci si può affidare oltre che ai vari motori di ricerca anche ai portali, accanto ai più conosciuti si stanno sviluppando da qualche tempo anche portali tematici, alcuni dei quali si riferiscono ad una determinata fascia di utenti (spettatori o professionisti).
Grazie a Internet la diffusione della cultura teatrale, è molto più rapida e comprende la possibilità di raggiungere molte più persone di quanto sia possibile con altri mezzi mettendo a loro disposizione una vasta quantità di materiale di diverso tipo. Internet può infatti essere considerato, tra le altre cose, anche un enorme archivio; il materiale archiviato in Rete può essere aumentato costantemente ed essere di vario tipo (testi, file audio e video, immagini), compresi materiali inediti o che, per varie ragioni, normalmente non sarebbero più fruibili dall’ utente medio. Oltre a questo le possibilità dello spettatore di documentarsi in maniera più completa sono aumentate notevolmente anche grazie alle riviste digitali specializzate, che da qualche anno si sono affacciate anche sulla scena italiana, e a forum di discussione on line e mailing list.
La possibilità di interagire nella comunicazione permette di avere delle relazioni più immediate e produttive. Internet è uno strumento fluido nelle mani di chi lo usa ed è in grado di creare nuovi modi di fruire e di informare, nuovi modi di rapportarsi al mondo del teatro ed allo spettatore. Grazie alle caratteristiche di ipermedialità e interattività, Internet sta diventando sempre di più un mezzo ideale anche per la formazione dello spettatore, da qualche anno ormai si sta cercando di usare la Rete sia come supporto al tipo di formazione tradizionale sia come mezzo per sperimentare un nuovo approccio ad essa dove lo studioso o il semplice spettatore acquistano un ruolo attivo e imparano ad apprendere in un ottica di interazione e cooperazione. Carlo Infante con Teatron e con il Laboratorio d’Arte dello Spettatore è stato il primo in Italia ad occuparsi del tema della formazione del pubblico in Internet (già dal 1994 ha curato, insieme al Gruppo Entasis, i primi progetti sul Multimedia Educativo) e ultimamente anche il Piccolo Teatro di Milano sta sfruttando la Rete per dar vita a progetti interessanti di "alfabetizzazione" teatrale.
Quella che appare evidente è la volontà, da parte di chi si occupa di teatro, di creare un luogo dove i professionisti, gli studiosi e gli spettatori siano coinvolti sempre di più e possano intergire tra loro, un luogo dove trovare nuovi modi di comunicare e di parlare di teatro, dare nuovi input e creare rapporti produttivi.
BIBLIOGRAFIA
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- Aluisi Tosolini, Sebi Trovato, New Media, Internet e intercultura, ed. EMI, Bologna 2001
Per il rapporto arte e tecnologia
- Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ed. Einaudi, Torino 1972
- Mario Costa, L’estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, ed. Castelvecchi, Roma 1999
- Pier Luigi Capucci, Arte & tecnologie. Comunicazione estetica e tecnoscienza, ed. dell’Ortica, Bologna 1996
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- Teresa Macrì, Il corpo postorganico. Sconfinamenti della performance, ed.costa & nolan, Milano 1998
- Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia "senza combattimento", ed.Bruno Mondatori, Milano 1999
Per la formazione dello spettatore
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- Carlo Mariani, Il Laboratorio degli Ipertesti. Teorie , metodi ed esperienze di didattica multimediale, ed. del Cerro, Pisa 2002
- Marina Savoia, Giorgio Scaramuzzino, Tutti giù dal Palco, ed. Salani, Milano 2002
- Luigi Scaramuzzino, Fiabe e Computer. Il Computer creativo per il bambino, ed. Kybernet, Pistoia 2002
Per il rapporto teatro e nuovi media
- Andrea Balzola, Franco Prono, La nuova scena elettronica. Il video e la ricerca teatrale in Italia, ed. Rosenberg & Sellier, Torino 1994
- Brenda Laurel, Computer as theatre, Addison – Wesley Publishing Company, New York 1991
- Anna Maria Monteverdi, La maschera volubile, ed.Titivillus, Corazzano (PI) 2000
- Fabio Paracchini, Cybershow. Cinema e teatro con Internet, ed. Ubulibri, Milano 1996
- Emanuele Quinz , Nuovi media per la danza, ed Marsilio, 2001
- Elisa Vaccarino, La Musa dello schermo freddo. Videodanza, computer e robot, ed. Costa &Nolan, Genova 1996
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Per il teatro
- Peter Brook, Lo spazio vuoto, ed. Bulzoni, Roma1998
- Mimma Gallina, Organizzare il teatro. Produzione, distribuzione, gestione nel sistema italiano, ed. Franco Angeli, Milano 2001
- Giorgio Guazzotti, Teoria e realtà del Piccolo Teatro di Milano, ed. Einaudi, Torino 1965
- I teatri milanesi in rete: cooperare per competere, indagine economico organizzativa sul sistema dei teatri milanesi, rapporti di ricerca a cura di S. Salvemini, S. Bagdadli, P. Dubini, G. Soda, Università Bocconi, Milano 1999
SITI CONSULTATI
Molte informazioni sono state reperite su Internet. Quello che segue è un sommario elenco dei siti consultati.
Piccolo Teatro di Milano
- http://www.viaggionelteatro.it
- http://www.strehler.org
- http://www.piccoloblu.net/index.html
- http://www.albacom.it/press/word-doc/cssitoPiccolo.doc
- http://www.tophat.it/eventi/eurolab.html
Sito di Oliviero Ponte di Pino
- ateatro
Sito di Teatrionline
Teatro Studio di Scandicci
Siti di teatri
- http://www.tpo.it/htm/lab3.htm
- http://www.teatridivita.it
- http://www.teatrodiroma.net/
- http://www.teatromassimo.it/frameset.html
- http://www.teatrodellatosse.it/
- http://www.teatroallascala.it/
Sito del Teatro di Piazza o d’Occasione
Sito del TAM
Sito del Teatro delle Albe
Sito di BUMA: Museo virtuale del Burattino e della Marionetta
Sito della compagnia teatrale Giardini Pensili
Sito di Dario Fo
Siti di critica teatrale
- Zonegemma
- www.teatron.org
Tesi di laurea on-line
- http://www.forcom.unito.it/baudhaus/ricerca/corino/index.html
Siti di riviste teatrali
- http://www.tuttoteatro.com
- http://www.proveaperte.it
- http://www.fucine.com/experience-e.htm
- http://www.comunedibologna.it/iperbole/arto/arto4/index.htm
- http://www.centoteatri.com
- http://www.tophat.it/
Sito di rivista di Internet
- http://internetnews.tecnichenuove.com/
Siti di eventi teatrali
- http://www.romaeuropa.net
- http://www.biennaledivenezia.it
Siti di quotidiani
- http://www.repubblica.it
- http://public.wsj.com/home.html
- http://www.ilrestodelcarlino.quotidiano.net
Sito della Biblioteca del Burcardo
- http://www.theatrelibrary.org/bibliot.htm
Italian Theatre Web Ring
- http://www.theatrelibrary.org/ring/ItalianTheatre.html
Portali di teatro
- http://www.comoedia.com
- http://www.luccaonstage.it
- http://www.palcoscenico.to
Sito di produzione teatrale
- http://www.ragdoll.it
Sito di archivio teatrale
- http://www.mclink.it/mclink/teatro/suggeritore.html
Sito dedicato alla drammaturgia in rete
- http://www.dramma.it
Sito del Centro Nazionale di Drammaturgia contemporanea
- http://www.outis.it/
Sito dedicato alla scenografia
- http://www.scenografia.rai.it
News Group
- http://www.dreamvideo.it/newsgroup/it_arti_teatro.htm
- http://www.zonegemma.cjb.net
Siti di formazione
- http://www.teatroescuola.it/
- http://www.gruppoentasis.com/teatro/it-s/
- http://www.teatron.org
- http://www.mediamente.rai.it
- http://www.media.mit.edu
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Le recensioni di "ateatro": L’asino albino di e con Andrea Cosentino Regia di Andrea Virgilio Franceschi di Andrea Balzola |
Forse qualcuno si ricorda del carcere di "massima sicurezza" situato nell’isola della Sardegna del nord che porta il nome di "Asinara"?
Era in "voga" tra i detenuti considerati più pericolosi degli anni settanta: camorristi, mafiosi e soprattutto terroristi. Un’aura maligna e quasi leggendaria circonda questa isola: ora è area naturale protetta, ma in passato ha ospitato un Lazzaretto per la quarantena dei malati infettivi, poi trasformato nella prima guerra mondiale in un campo di concentramento, dove sono morti ben settemila prigionieri austro-ungarici. Infine, ed è storia ancora recente, il supercarcere "Fornelli". Simbolo dell’isola è un fantomatico "asino albino", specie endemica in via d’estinzione e dalle origini misteriose. A questo luogo accedono oggi solo gite turistiche guidate, a visitare le terribili vestigia di quel passato e soprattutto la bellezza naturale delle spiagge e del mare. Il giovane attore e autore Andrea Cosentino (con una ricca ed eclettica formazione teatrale, che va dal Living a Marisa Fabbri e Dario Fo, da Manfredini ai poeti improvvisatori toscani e si specializza a Parigi nel teatro comico e gestuale della scuola di Philippe Gaulier e Monika Pagneux) ricrea appunto una di queste gite, moltiplicandosi in una quindicina di personaggi emblematici, su una scena spoglia, circolare, abitata soltanto da pochi oggetti utili alla caratterizzazione dei personaggi: occhiali da sole, un telefonino, cappellini, un pupazzo di plastica gonfiabile, un megafono...
In questo debutto, sia pure ancora in fase di rodaggio, Cosentino si conferma un virtuoso della metamorfosi (aveva già interpretato da solo tutti i personaggi dell’Andromaca di Euripide) e una personalità emergente di originale spessore nel panorama dei nostri monologanti attori-autori. Il tono iniziale con cui presenta i suoi personaggi e l’arrivo della comitiva turistica sull’isola è quasi da cabaret, per quanto già da subito incline al paradosso e allo humour amaro. Poi, poco alla volta, insieme alla moltiplicazione dei personaggi, si assiste alla moltiplicazione e alla stratificazione dei registri espressivi. Il comico si apre al drammatico, quando Cosentino racconta delle migliaia di prigionieri morti in uno dei più dimenticati campi di concentramento, oppure quando fa rivivere, riprendendo frammenti di una testimonianza autentica, il progetto fallito di evasione e la rivolta dei brigatisti rinchiusi nel supercarcere. O ancora, quando l’unico asino albino visibile dell’isola è un cadavere, forse ucciso dai raggi solari non più filtrati dall’ozono. I personaggi sono tipici dell’italietta turistica, con efficaci marcature gestuali e vocali: oltre all’imperturbabile guida sarda, il coatto romano esistenzialista con la fidanzata remissiva, l’ignorante pontificatore, i due amici ossessionati dal cellulare, la single in crisi, il milanese berlusconiano con la famiglia, la coppia omosessuale italo-inglese occupata soltanto ad abbronzarsi, il babbo pugliese con la figlioletta pestifera. Aleggiano spietati (però mai diretti) riferimenti ai finti esuli delle televisive "isole dei famosi", ultima spiaggia per l’omologazione seriale di qualsiasi emozione. Un campionario di maschere dove la parodia dello stereotipo, sempre più dilagante nella nostrana popolazione telecomandata, non si limita però alla facile caricatura, ma apre un sottotesto metafisico, costellato di interrogativi filosofici ed esistenziali portati a paradossi mai banali (incentrati soprattutto sul tema del tempo). E alcuni personaggi, anche tra i più rozzi, acquisiscono così una dimensione poetica originale, tanto più sorprendente in quanto inconsapevole. Questa capacità di visione epifanica è sostenuta da un sottotesto politico, o quanto meno etico: la desolazione di quest’isola, dove la bellezza della natura è schiacciata dai fantasmi di una memoria insopportabile, riflette metaforicamente la desolazione di un’umanità allegramente alla deriva. Turisti naufraghi di un viaggio mancato nella memoria storica, anche la più recente, e incapaci di essere all’altezza di aspirazioni autentiche, non clonate, perché ormai privi sia di radici culturali che di utopie, anche le più piccole e personali. "Va tutto bene", ripeteva ossessivamente il comico Albanese, duplicando lo slogan dominante dell’attuale via italiana alla bancarotta morale e culturale (economica pure). L’isola è una specie di paese dei balocchi, dove ci si trasforma in asini. Ed infatti, la storia di Pinocchio che diventa asino è raccontata dal babbo alla figlioletta, in modo frammentario e ripetuto per l’intero arco dello spettacolo, nel vano tentativo di tenerla tranquilla. Una bimba annoiata dal padre e intestardita solo nel desiderio di vedere l’asino bianco, pubblicizzato sul depliant turistico. E’ questo un ulteriore registro metaforico di notevole forza espressiva (anche per il gioco linguistico con cui il testo è elaborato). Collodi, e prima di lui Apuleio, rappresentavano nella trasformazione in asino del protagonista l’interruzione e lo scacco della crescita spirituale, che coincide per Pinocchio con la perdita della parola, di quel logos che per i filosofi greci cercava e fondava il senso stesso dell’esistenza umana. Oggi quella trasformazione è metafora di una parola che perde la facoltà di dire e che non accoglie nemmeno il silenzio della riflessione, restando parola ininterrotta e vana che sfila, esibita, come il Pinocchio-asino nel circo (oggi sarebbe il set televisivo).
Perciò il finale dello spettacolo non poteva essere più riuscito: prima una progressiva e assoluta spogliazione della scena, dei personaggi e delle parole, poi, finalmente, l’apparizione, in un controluce abbagliante e metafisico, dell’attore trasfigurato (qui d’inquietante bravura) nel tanto atteso asino bianco, che saluta gitanti e pubblico con un prolungato e disperato raglio di dolore.
L’asino albino di e con Andrea Cosentino
Regia di Andrea Virgilio Franceschi
Collaborazione artistica di Valentina Giacchetti
Scene di Ivan Medici
Anteprima presso il rialtosantambrogio di Roma
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Croff ce l'ha fatta: è presidente della Biennale Dopo mille polemiche di Redazione ateatro |
Dopo un tortuoso cammino, Davide Croff forse ce l'ha fatta. La sua nomina a presidente della Biennale - precedentemente «bocciata» in senato - è stata approvata dalla Commissione cultura della camera con 26 voti a favore e 12 contrari su 38 votanti: contro i Ds (9 componenti), Vittorio Sgarbi e Titti de Simone di Rifondazione comunista. Croff aveva annunciato che se il parere fosse stato negativo - nonostante non sia vincolante - si sarebbe dimesso. Gongola naturalmente il ministro Urbani e ringrazia sentitamente il presidente della regione Galan, sostenitore della candidatura fin dal primo momento. Anche il sindaco di Venezia Paolo Costa si dichiara soddisfatto: «siamo finalmente pronti per rimetterci al lavoro». Per Sgarbi, la scelta di Croff non è così luminosa e anzi è un segno che va in direzione opposta alla cultura: «È un momento buono per i banchieri» ha commentato. Andrea Martella dei Ds ha spiegato così il no dei democratici di sinistra: «il nostro giudizio è negativo sull'atteggiamento che ha avuto il governo e sul decreto di riforma che non risolve i problemi della Biennale. Apprezziamo le qualità professionali del presidente Croff ma riteniamo che in queste condizioni non può essere autonomo. L'istituzione resta in uno stato di incertezza, paralisi e ritardo nella programmazione a causa delle scelte del governo di centrodestra». E Martella non ha mancato di sottolineare il proprio disagio per il voto (positivo) della Margherita, «che pure - dice - aveva condiviso con noi tutte le critiche».
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Risposta all'interrogazione parlamentare dell'On. Chiaromonte discussa in Commissione VII il 12 febbraio 2004 Interrogazione n. 5-02853 Chiaromonte: Gestione dell'Ente teatrale italiano (ETI) di On. Nicola Bono, Sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali |
In ordine all'interrogazione parlamentare indicata in oggetto, relativa alle sponsorizzazioni asseritamente concesse all'ETI dalla Società Lottomatica, rappresento, quanto segue.
La Società Lottomatica, a seguito di un'attività di sensibilizzazione svolta dall'espresso vari soggetti economici, per la ricerca di risorse aggiuntive con finalità di promozione e sostegno delle attività di erogare direttamente (e pertanto senza l'intermediazione dell'ETI) ad alcune primarie compagnie teatrali italiane dei fondi a titolo di sponsorizzazione per consentirne la presenza nel programma delle attività organizzate dal Teatro Valle.
L'ETI è stata interessata all'operazione di sponsorizzazione solo in via indiretta, nel senso che, grazie alla erogazione disposta autonomamente e direttamente dalla Società Lottomatica, ha potuto iscrivere nel programma delle attività del Teatro Valle, della cui elaborazione è responsabile, la partecipazione di compagnie quali «Il Piccolo di Milano» per L'Arlecchino servitore di due padroni, il Teatro Carcano per La scuola delle mogli e il Teatro Stabile del Veneto per Memoires.
Da quanto esposto risulta evidente che il consiglio di amministrazione dell'ETI nulla aveva da deliberare in proposito non essendo stato l'Ente in alcun modo destinatario della somma erogata quale sponsorizzazione o intermediario nella sua assegnazione e riparto alle compagnie sopra citate.
Devo, comunque, sottolineare che, in assenza della sponsorizzazione in questione, sarebbe stata impossibile la presenza delle suddette compagnie all'interno della programmazione dell'ETI per la stagione del Teatro Valle.
Resoconto della replica dell’onorevole Chiaromonte
Franca CHIAROMONTE (DS-U) replicando, si dichiara parzialmente soddisfatta, manifestando apprezzamento per la puntualità della risposta del rappresentante del Governo, ma ribadendo le perplessità circa le modalità con cui gli organi di vertice dell'ETI si sono comportati in questa vicenda. Auspica pertanto che sia possibile avere un diretto confronto con i componenti del consiglio di amministrazione dell'Ente, tramite una apposita audizione informale.
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Il programma di Riccione TTV Festival A Bologna dal 3 al 14 marzo & a Riccione dal 26 al 30 maggio 2004 di Riccione TTV |
Cinema Lumière - Sala Auguste,
Manifattura delle Arti, via Azzo Gardino 65, Bologna
Laboratori di musica e spettacolo- Auditorium
Manifattura delle Arti, via Azzo Gardino 65, Bologna
Il Cassero
ex Salara, via Don Minzoni 18, Bologna
Galleria d’Arte Moderna/Spazio Aperto
Piazza della Costituzione 3, Bologna
TTV FESTIVAL
17° EDIZIONE
Bologna 3-14 marzo 2004
Riccione 26-30 maggio 2004
Nuovo scenario per la diciassettesima edizione del TTV FESTIVAL PERFORMING ARTS ON SCREEN che quest’anno approda per la prima volta nel capoluogo emiliano: dal 3 al 14 marzo Bologna è la prima tappa dell’edizione 2004 del TTV, l’unico festival italiano dedicato a film, video, programmi televisivi e altri media e formati riguardanti il complesso delle arti sceniche e visuali: teatro, danza, opera contemporanea.
Sotto le Due Torri il festival presenta la sezione internazionale dei programmi, per proseguire poi a Riccione (dal 26 al 30 maggio) con la sezione italiana, che contiene le opere finaliste di CONCORSO ITALIA e EXPANDED THEATRE, dedicato alle contaminazioni tra il teatro italiano di arte e ricerca, i nuovi media e le arti visive.
IL TTV FESTIVAL, fondato da Franco Quadri nel 1985 e diretto da Fabio Bruschi, si svolge in collaborazione con la Cineteca del Comune di Bologna, con il Comune di Bologna - Cultura, il Progetto Iceberg, la Galleria d’Arte Moderna di Bologna/Spazio Aperto, il Circolo Arcigay il Cassero e con il contributo del Goethe Institut Mailand, della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma e dell’Ambasciata del Canada a Roma. Media partner: Cult Network Italia.
Tra i punti forti di questa edizione la VIDEOTECA DEL FESTIVAL: una parte consistente del grande patrimonio video di TTV Festival, forte di 3500 titoli, si trasferisce per tutta la durata del festival a Bologna a disposizione del pubblico, come anticipazione di quella che sarà la collaborazione permanente tra TTV Festival e la Cineteca del Comune di Bologna (Videobiblioteca, sala video, via Azzo Gardino, 65).
Quattro le sezioni presentate nelle giornate bolognesi: OPERA VIDEO, VIDEODANZA, VIDEOTEATRO e VIDEO ARTE/ GIOVANI ARTISTI.
OPERA VIDEO è un excursus tra le opere musicali composte per il video e la televisione. La rassegna si inaugura al Cassero ( 3 marzo, ore 18) e si svolge successivamente al Cinema Lumière - Sala Auguste e ai Laboratori di musica e spettacolo- Auditorium (via Azzo Gardino, 65).
Al grande compositore inglese Benjamin Britten è dedicata l’apertura del festival con la conferenza–spettacolo di Luca Scarlini dal titolo Suonare lo sguardo: film e video di Benjamin Britten (Cassero, 3 marzo, ore 18) e a seguire Benjamin Britten- Peter Pears: Folksongs; chiude la serata (ore 21.30) il documentario di Theresa Griffiths Benjamin Britten: The Hidden Heart sul sodalizio amoroso e artistico tra Britten e il tenore Peter Pears.
Il giorno successivo, 4 marzo, (presso il Cinema Lumière) un secondo programma dedicato a Britten: il War Requiem per la regia di Derek Jarman e l’Amore Vincitore, ritratto-intervista di Roberto Nanni su Derek Jarman. Il War Requiem, capolavoro britteniano, composto nel 1961 in occasione della ricostruzione della cattedrale di Coventry, distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, viene presentato ad un anno dall’inizio della seconda guerra del Golfo.
Numerose altre opere di Britten si possono consultare presso la videoteca del festival: tra queste Owen Wingrave, opera per la tv, commissionata al grande maestro dalla BBC nel ’71, di intento pacifista, tratta dalla novella omonima di Henry James e il rifacimento di Margaret Williams per Channel 4 nel 2001, in occasione del trentennale.
Opere per la tv di più recente produzione sono al centro del terzo programma con Trouble In Tahiti (2002) di Leonard Bernstein, deliziosa operina anticipatrice di temi alla "Far from Heaven", per la regia di Tom Cairns. A seguire Hello Dolly, Goodbye Mummy, ispirata alla truculenta fiaba russa BabaYaga, lavoro a quattro mani della compositrice inglese Judith Weir e della regista Margaret Williams. Ancora dalla serie Sound on Film, originale format televisivo della BBC imperniato sulla collaborazione tra compositori e registi, il bellissimo ed elegiaco Blight, ode alla scomparsa di un quartiere londinese cancellato dalla costruzione di una nuova autostrada. Chiude Toothpaste, divertente micro-opera in 5 minuti diretta per Bravo! FACT dal brillante regista canadese Larry "September Song" Weinstein, dove un matrimonio è distrutto da un tubetto di dentifricio mal chiuso.
Il quarto programma prevede Sonata For Viola, straordinario ritratto del compositore russo Dimitri Shostakovic realizzato dal regista di culto Alexander Sokurov e In Absentia, un paesaggio del dolore, dalla ultima serie di Sound on Film, regia dei Brothers Quay su musiche originali di Karlheinz Stockhausen. Il quinto programma presenta, in anteprima per l’Italia, il cartone animato d’autore per la BBC The Cunning Little Vixen, realizzato per la BBC dallo specialista Geoff Dunbar, su musiche di Leos Janacek; a seguire due corti: Another City di Carlo Ippolito (2004) sulla colonna sonora composta nel 1929 da Arnold Schönberg per un film mai fatto e Chop, Chop, Chopin (2004), cartone polacco con musiche di Chopin riviste dal trio jazz di Michal Urbaniak.
The Cunning Little Vixen.
Le migliori serie di videodanza, prodotte dalle più importanti reti televisive internazionali, tra cui ARTE, CHANNEL 4, BBC, NPS sono al centro della sezione VIDEODANZA (Laboratori di musica e spettacolo- Auditorium e Cinema Lumière, 8-14 marzo).
A testimonianza del lavoro inglese: Body Of Water, nuovo formato di Dance for the Camera, la fortunata serie televisiva ideata dalla BBC e dall’Arts Council of England, basata sulla collaborazione di coreografi e registi. A seguire 4Dance, corti di danza prodotti da Channel 4 e realizzati in collaborazione con artisti e festival non inglesi, tra cui per l’Italia Anna de Manincor e il TTV.
Moving North è una serie di 10 corti di danza coprodotti dal Nordic Centre for the Performing Arts di Copenaghen con le televisioni di Danimarca, Norvegia, Svezia, Islanda e Finlandia. Sarà presente Magne Antonsen, ideatore e curatore del progetto.
A rappresentare il Canada, una selezione di corti di danza prodotti da Bravo! FACT Foundation to Assist Canadian Talent. Sarà presente Judy Gladstone, direttore esecutivo di Bravo!FACT.
Il festival propone, inoltre, tre notevoli mediometraggi di videodanza realizzati dal canale televisivo satellitare ARTE France: dalla serie Danse Danse Danse: Black Spring di Heddy Maalem, Chrysalis di Wayne Macgregor, sperimentale coreografo inglese pioniere delle nuove tecnologie, oltre al recentissimo Usez Quintet, diretto da Catherine Maximoff.
Particolarmente interessante il recentissimo Dominique Mercy dances Pina Bausch di Règis Obadia, con estratti dalle più importanti coreografie di Pina Bausch. Il film, che ha come protagonista il primo ballerino e principale collaboratore di Pina Bausch, evidenzia la magia tra maestra e allievo: una relazione unica che combina la vita con l'arte in una ricerca permanente. La relazione tra le coreografie di Anne Teresa de Keersmacker, in occasione dei vent’anni della compagnia Rosas e le musiche di Thierry De Mey è al centro di Dance Notes, film belga del 2003.
Largo spazio è dato anche ai film di danza: tra questi In the mirror of Maya Deren, bellissimo documentario con materiali inediti sulla cineasta sperimentale americana che ha inventato il film di danza; Hit and Run, film di teatrodanza irlandese dall’intrigante atmosfera dark, Beau Travail, sognante e visionario poema dai toni cupi di Claire Denis e per finire Dracula, pagine dal diario di una vergine del regista di culto canadese Guy Maddin, vincitore dell’ultimo Dance Screen, che in questo lavoro fa rivivere il linguaggio filmico del cinema muto in salsa camp.
Grandi nomi e prestigiose anteprime nella sezione VIDEOTEATRO (Cinema Lumière- Sala Auguste e Laboratori di musica e spettacolo- Auditorium, 8-14 marzo).
A Jon Fosse, il maggiore scrittore norvegese contemporaneo e drammaturgo di successo europeo, il festival dedica un omaggio, presentando alcuni suoi lavori, tra cui Naustet, Husa I Ein By e Traum In Herbst.
In collaborazione con Theaterkanal, canale satellitare tematico della seconda rete pubblica ZDF dedicato alle arti sceniche, TTV presenta una selezione delle migliori produzioni di videoteatro, con una particolare attenzione all’ultima generazione di registi teatrali. Tra i film proiettati, Emilia Galotti di G.E. Lessing, regia teatrale di Michael Thalheimer, regia televisiva di Hannes Rossacher, produzione del Deutsches Theater di Berlino; Nora di Henrik Ibsen, regia teatrale di Thomas Ostermeier, regia televisiva di Hannes Rossacher, produzione della Schaubuhne di Berlino; Traum In Herbst di Jon Fosse, regia teatrale di Luk Perceval, regia televisiva di Theo Roos.; Leonce e Lena di Büchner, regia di Robert Wilson, musiche di Herbert Grönemeyer.
Saranno presenti Bettina Petry, responsabile della programmazione di ZDF Theaterkanal e il giovane regista Michail Thalheimer, la cui versione di Emilia Galotti ha ottenuto a Berlino uno straordinario successo.
Della famosa regista francese del Thèatre du Soleil, già nota in Italia per 1789, Ariane Mnouchkine, il TTV presenta Tambours sur la digue, film inedito per l’Italia, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale, di grandissimo impatto visivo ispirato allo stile bunraku.
Non poteva mancare uno sguardo oltremanica; nel 2002 la BBC ha lanciato il nuovo canale satellitare BBC4, interamente dedicato alle arti e all’aggiornamento culturale con un ampio spazio alle arti sceniche. In esclusiva per l’Italia TTV presenta la programmazione di BBC4 dedicata al grande drammaturgo inglese con, in particolare, un inedito Pinter attore in ‘Sketches’, ‘One for the road’, e nell’inquietante ‘Catastrophe’ (dalla serie ‘Beckett on film) con Sir John Gielgud.
Un confronto di creatività è quello che propone la sezione VIDEOARTE/GIOVANI ARTISTI realizzata in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Bologna. La rassegna si articola in tre parti, con una selezione degli artisti segnalati al concorso bolognese Iceberg a cura del critico Marco Altavilla, il meglio della videoarte tedesca, realizzata dai giovani artisti dell’Accademia di Arte dei Media - KHM di Colonia e gli interessanti documentari della BBC e di Channel 4 dedicati al Turner Prize e agli YBA’s-(Young British Artists), una storicizzazione di alto profilo della commistione tra arte contemporanea e massmedia nella ‘cool britannia’ degli anni ’90. Una selezione di videodanza italiana sarà visibile presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna/Spazio Aperto dall’8 al 14 marzo.
Presso la Manifattura delle Arti venerdì 12 e sabato 13 saranno presenti la videoartista Anja Struck del KHM e i curatori Andreas Altenhoff e Vera Firmbach. Chiudono la sezione videoarte la presentazione al Cassero (sabato 13 marzo alle 23) dei video inglesi di ultima generazione, con Mixtape di Nick Relph e Oliver Payne.
Per il rilancio della comunicazione e del marketing il TTV Festival – Performing Arts on Screen ha scelto di affidarsi a The Culture Business – fanaticaboutfestivals: società specializzata in consulenze e servizi integrati per manifestazioni cinematografiche. L’attività di The Culture Business mira ad implementare la qualità organizzativa degli eventi e ad incrementarne il potenziale di visibilità, di comunicazione, di valorizzazione economica, creando sinergie e costruendo complementarità inedite tra l’universo della produzione culturale e quello del marketing. www.theculturebusiness.it
PER INFO:
TTV Festival: 0541 694425 (dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle 13)
fax: 0541 475816
e-mail: ttv@riccioneteatro.it
www.riccioneteatro.it
Ingresso gratuito per le sezioni ARTI VISIVE/VIDEOTEATRO
mentre per le sezioni VIDEO DANZA e VIDEO OPERA a partire da 5,50 euro
STUDENT CARD: 14 euro/8 proiezioni
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Pantani Blues Dedicato al Pirata di Roberto Traverso |
La scomparsa di Marco Pantani, il 14 febbraio scorso, ci ha molto colpito. Abbiamo chiesto a un drammaturgo-ciclista come Roberto Traverso di regalarci un ricordo del campione. Lo ringraziamo di cuore per questo blues.
E’ morto un uomo al residence Le Rose di Rimini.
Che idea morire così, il giorno di San Valentino.
E’ bastata una manciata di pillole
Control, Flunox , Surmontil e qualche altro pasticcio
ma i mandanti hanno altri nomi.
Sono quelli degli sponsor, i signori della pubblicità.
Uomini d’affari, gente importante.
Sono i padroni dello sport.
E chi se ne frega se te la passi da schifo.
E’ morto un uomo al residence Le Rose di Rimini.
Aveva dentro una rabbia, ma una rabbia che non ne poteva più.
Era un piccolo uomo che ha fatto grandi cose.
Uno dei tanti che non ce l’hanno fatta, direte.
Ma lui era veramente speciale con quell’idea fissa di diventare un campione.
Era orgoglioso, caparbio.
Un bulletto di provincia che si credeva chissà chi.
Voleva diventare una star. Vincere, fare soldi, essere amato.
E lui ha avuto tutto questo, anzi di più.
E’ morto un uomo al residence Le Rose di Rimini
Uno che ci credeva, che sulla bicicletta soffriva come una bestia
Solo che non sempre la vita va per il verso giusto.
Non so se lui era sbagliato
ma sono sicuro che è sbagliato questo sport.
Devi fare l’impresa. Ci vuole lo spettacolo. Devi vincere ancora.
Prima sei un eroe, poi non stai più in piedi se non prendi qualcosa.
E allora non sei più nessuno.
Questo sport è droga pesante che uccide.
E’ morto un uomo al residence Le Rose di Rimini.
Dopo tanto chiasso, voleva solo essere lasciato in pace.
Non ce la faceva più a reggere la parte del perdente
Lui questo coraggio non l’ha mai avuto.
Era un bulletto di provincia che si credeva chissà chi.
Come milioni di ragazzi era unico
Non serve a niente farne un eroe.
Era solo un piccolo uomo che ha fatto grandi cose.
Uno di noi, ma con un buco dentro.
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Massimo Munaro ritratto ateatro Quattro frammenti di Orsola Sinisi |
Questo è un esperimento.
ateatro presenta in anteprima quattro frammenti del ritratto ateatro di Massimo Munaro realizzato da Orsola Sinisi, in occasione di una replica dell'Inferno del Teatro del Lemming.
Per scaricare e vedere i video è necessario Quicktime (ed è opportuna una connessione veloce: ogni video pesa 10000-15000 KB). Vi saremo grati se ci segnalerete problemi tecnici e ci darete suggerimenti. (redazione ateatro).
Massimo Munaro 1
Massimo Munaro 2
Massimo Munaro 3
Massimo Munaro 4
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