Il valore d'uso del teatro L'editoriale di ateatro 58 di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and1 Le recensioni di "ateatro": Le Dernier Caravanserrail regia di Ariane Mnouchkine, Théâtre du Soleil di Oliviero Ponte di Pino http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and11 Le recensioni di "ateatro": Le Dernier Caravanserrail regia di Ariane Mnouchkine, Théâtre du Soleil di Andrea Balzola http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro57.asp#57and12 Le recensioni di "ateatro": La casa degli spiriti dal romanzo di Isabel Allende regia di Claudia Della Seta, Teatro Arabo Ebraico di Jaffa e Compagnia Teatrale Integrata Diverse Abilità di Roma di Andrea Balzola http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and15 Dacci oggi il nostro burattino quotidiano Alpe Adria Puppet Festival 2003 di Fernando Marchiori http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and20 Lettera aperta ai "critici impuri" Sul documento apparso su "Lo Straniero", ottobre 2003 di Oliviero Ponte di Pino http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and40 Libri & libri Segnalazioni bibliografiche di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and50 La stagione dell’India Un grande abbraccio e molti begli spettacoli di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and80 I finalisti del Premio Riccione La premiazione il 27 settembre di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and81 Le borse di studio "Fufa Onlus" Per giovani laureati che vogliono approfondire gli studi nel settore giornalistico e teatrale di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and82 I vincitori del Premio Riccione Edizione 2003 di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and83 Il programma della Biennale Teatro 2003 Spettacoli e workshop dal 23 ottobre al 1° novembre di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and84 In mostra Vittorio Alfieri aristicratico ribelle All'Archivio di Stato di Torino, 5 ottorbe 2003-11 gennaio 2004 di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro58.asp#58and285
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Il valore d'uso del teatro L'editoriale di ateatro 58 di Redazione ateatro |
Quello tra il teatro e la realtà è un corpo a corpo costante, continuo. Da un lato come tutte le arti il teatro ruba suggestioni e frammenti dal mondo reale, e al tempo stesso influisce sul modo in cui leggiamo il mondo che ci circonda e può modificare i nostri comportamenti - anche se in maniere a volte misteriose e imprevedibili.
A tratti questo corpo a corpo con la realtà diventa ancora più serrato: quando il teatro decide di confrontarsi con i conflitti che attraversano la società, e quando la pratica teatrale si insedia là dove ci sono disagio e marginalità, conflitti e – là dove fare teatro significa dare un linguaggio al corpo, consapevolezza di sé e parola a chi non ce l’ha.
E’ su queste basi che il teatro può trovare, oggi, la sua valenza politica. E non a caso è su questo terreno che si stanno muovendo numerose iniziative, sia a livello di spettacoli sia a livello di studio e approfondimento.
Così in questo ateatro58 si parla molto dell’ultimo spettacolo del Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine, Le dernier caravasserrail, un grandioso reportage teatrale sul mondo dei profughi e degli esuli affidato a una compagnia di profughi ed esuli: ma i saggi su questo lavoro sono solo una ulteriore tappa di un percorso che è passato per il Teatro multietnico delle Albe e per Gli Eraclidi secondo Peter Sellars (e non a caso il programma della sua Biennale è centrato proprio su questo tema, spaziando dalla Cambogia alle isole del Pacifico). Non a caso sullo stesso tema dell’emigrazione e dell’esilio stanno lavorando due work in progress visti nelle scorse settimane a Castiglioncello: il nuovo lavoro di César Brie (per ora ancora in fase di assestamento) e Il custode delle partenze. Pagine di diario per attore solo, il lavoro di Renata Molinari e Massimiliano Speziani tratto da personaggi, storie e parole della Trilogia della città di K. di Agota Kristof.
Accanto agli spettacoli, si moltiplicano le iniziative di approfondimento e di studio: vedi quelle legate al Festival TIS (Teatro di Interazioni Sociali), convocato in Emilia da Claudio Meldolesi e Franca Silvestri (il programma e il documento programmatico nel forum dei festival); o la nuova tornata dei Teatri delle Diversità a Cartoceto (vedi il programma nel forum delle Segnalazioni).
Certo il teatro uscendo dai propri confini, cercando di contaminarsi, può trovare nuove necessità e nuove energie, e sperimentare diverse modalità creative e produttive e di rapporto con il pubblico. Al tempo stesso, rischia di mettersi al servizio di qualcos’altro, di perdere la propria specificità, di retrocedere nella scala delle priorità, lasciando la profondità e il respiro del lavoro in secondo piano rispetto al «messaggio». Privilegiando insomma le buone intenzioni e la sincerità rispetto alla qualità e alla novità. Non a caso su queste problematiche tende spesso ad accendersi la discussione sul teatro, sul suo valore e sul suo valore d'uso.
Ecco, di questo, anche di questo sta provando a parlare, in questi mesi ateatro.
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Le recensioni di "ateatro": Le Dernier Caravanserrail regia di Ariane Mnouchkine, Théâtre du Soleil di Oliviero Ponte di Pino |
Ariane Mnouchkine e il suo Théâtre du Soleil rappresentano da quarant’anni un modello di fedeltà a una idea di teatro e a un modo di concepire il rapporto con lo spettatore. Un teatro consapevole della propria specificità, ovvero del fatto di creare un rapporto di grande immediatezza e quasi complicità con il pubblico, e dunque sempre alla ricerca di una comunicatività immediata. Al tempo stesso, per raggiungere questo obiettivo, il punto di partenza sono le grandi tradizioni teatrali del passato, in grado di parlare direttamente all’essere umano: dunque la commedia dell’arte, ma anche le diverse tradizioni orientali, ma anche Shakespeare e Molière. A sostenere questo impegno è anche però un forte impegno etico, e dunque politico. Non tanto per utilizzare il teatro come mezzo di diffusione di un’idea o di una ideologia o posizione politica, quanto per utilizzare il teatro come occasione di conoscenza e di riflessione sulla storia, quella del passato e quella del presente, dai lontanissimi 1789 e 1793, fino ai lavori sulla Cambogia dei khmer rossi.
Il suo ultimo spettacolo, Le Dernier Caravanserrail (che si avvale al solito della collaborazione drammaturgica di Hélène Cixous), rientra alla perfezione in questo itinerario. Fin dal tema, la situazione dei profughi vista da un lato in rapporto con la Storia e dall’altro con i grandi luoghi della letteratura – in questo caso, ovviamente, l’Odissea.
Nella prima fase del lavoro Ariane Mnouchkine e i suoi collaboratori hanno condotto una serie di interviste in numerosi campi profughi(a Sangatte, in Francia, non lontano dall’imbocco del tunnel che conduce in Inghilterra, ma anche in Thailandia e Australia),
Il punto di partenza è il confronto con la realtà, un vissuto che entra nello spettacolo sia in quanto racconto di vita, attraverso le storie che troveranno forma nello spettacolo; sia in quanto corpi, perché gran parte degli attori sono per l’appunto profughi inglobati nella tribù del Théâtre du Soleil. La materia della vita, l’esperienza, il vissuto viene attraverso il teatro trova una forma: quella che ha deciso di dargli Ariane Mnouchkine è una forma duplice. Da un lato i racconti vengono narrati per brevi frammenti: sono brani di vita vissuta in Afghanistan o in Iran, in un campo profughi o sui marciapiedi di una grande città, di un realismo in apparenza fotografico – o meglio, da documentario, visto che sono ripresi dalla «vita vera», senza alcuna elaborazione poetica, con tutto il patetico e il tragico della vita (che in teatro paiono sempre un po’ eccessivi, forzati).
In realtà nella resa teatrale sono raffinatamente stilizzati. Per esempio gli attori (come le essenziali scenografie) vengono sospinti a servi di scena attraverso l’ampio spazi scenico sopra piccoli carrelli a rotelle, come se fossero i piedistalli delle figurine di un presepe; il movimento dei carrelli non segna solo l’ingresso sulla scena di un personaggio, o il suo percorso nello spazio; avvicinandosi o allontanandosi dal proscenio svolge le funzioni dello zoom cinematografico, spostando l’attenzione dal campo lungo al primo piano. Allo stesso modo anche l’intreccio delle storie – brevi sequenze abbandonate e riprese fino a comporre una sorta di minitragedia – rimandano al montaggio filmico.
La stilizzazione avviene anche a livello di gesti e comportamenti, in uno spazio ampio e astratto che valorizza la dimensione grafica, la geometria delle figure e dei movimenti.
Dall’altro lato, quella che viene rappresentata nel corso di una serata è solo una piccolissima parte delle vicende portate in scena dal Théâtre du Soleil: nelle tre ore delle repliche romane (rispetto alle cinque delle prime rappresentazioni alla Cartoucherie) tre o quattro storie rispetto alle quindici-venti portate in scena, le quali rappresentano certamente una scelta rispetto alle storie raccolte da Ariane Mnouchkine e soci, le quali a loro volta rappresentano una parte infinitesima delle storie dei milioni di profughi delle guerre di queste anni. La frammentarietà dello spettacolo non dipende, insomma, dallo scarso rodaggio dei raccordi (i frammenti di lettera e di poesia letti da una voce fuori campo, i febbrili attraversamenti da parte dei servi di scena che spingono i loro carrellini di qua e di là nel vuoto scenico); al contrario, è uno degli elementi essenziali del lavoro: rimanda a insiemi più vasti di eventi e di destini, che qui vengono esemplificati – e non tipizzati.
Il senso profondo dell’operazione sta proprio in questa umiltà: la consapevolezza che non esistono una storia o un destino esemplari, che sono tutti equivalenti. Queste vite improvvisamente sbalzate dal loro corso dopo l’impatto con la Storia (con una delle tante guerre del nostro tempo, con uno dei tanti regimi sanguinari del nostro tempo, con uno dei tanti integralismi del nostro tempo) hanno tutte lo stesso valore. Quel destino – la vita quotidiana che si fa impossibile a causa delle angherie dei fanatici e dei repressori, la fuga attraverso un torrente in piena, con poche cose e vecchi e bambini, la fatica e la paura, l’umiliazione del campo profughi, la miseria e la nostalgia dell’esilio – potrebbe accadere a chiunque di noi, in qualunque momento, e vale quanto il nostro. E’ vero, queste storie sono «tutte uguali», in fondo, riconducibili a quel grande archetipo narrativo che è l’Odissea. Che però è la vicenda di un vincitore. Qui i protagonisti sono le vittime, gli sconfitti, i fuggiaschi. E’ una storia vista dal basso, dal punto di vista di chi ha perduto tutto – o meglio, di chi ha conservato solo la memoria del passato – un passato che in alcuni casi è stato anche felice.
Tuttavia con Ariane Mnouchkine non si corre il rischio di un generico umanitarismo, anzi. Nello spettacolo, all’interno delle singole storie, non mancano precise prese di posizione politiche: contro la repressione e l’ottusità burocratica della politica sui profughi da parte dei francesi ma anche contro la violenza e l’arroganza sessuofobica dei taliban afgani. Insomma, da un lato il dolore e la violenza hanno responsabili e vittime ben precisi – esseri umani gli uni e gli altri. Dall’altro questo pulviscolo di esistenze (e di scelte individuali) porta alla creazione di questo «popolo di profughi» accomunati dalla fuga, dal vagabondaggio e dall’esilio. E’ nel tentativo di conciliare questi due piani l’ambizione di Ariane Mnouchkine, in uno sforzo che ricorda quello del Karl Kraus degli Ultimi giorni dell’umanità, il grande affresco dell’apocalisse bellica, narrato anch’esso per frammenti di cronaca. Dove però l’accento cadeva sulla distruttiva stupidità della violenza, sull’incapacità di misurare le conseguenza dei propri atti, su una frenetica follia suicida collettiva. Qui, invece, in questo mosaico dalla parte delle vittime, l’accento finisce per cadere sull’umanità dei personaggi, sulla loro disperata volontà di vivere, sul loro desiderio di normalità e felicità. Come se dai massacri e dai campi profughi, da questa umanità vera e concreta rispetto alle astrazioni della storia, potesse risorgere una speranza.
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Le recensioni di "ateatro": Le Dernier Caravanserrail regia di Ariane Mnouchkine, Théâtre du Soleil di Andrea Balzola |
L’inestinguibile ondata migratoria di profughi e disperati d’ogni continente, che si riversa ormai da molti anni sul territorio privilegiato della vecchia Europa, ha invaso ormai anche le scene di molti gruppi e registi teatrali, sensibili più dei governi all’odissea di questa gente di tutte le etnie e le età. Da Marco Baliani alle Albe (bianche e nere) di Ravenna, da Peter Sellars a César Brie, diversi autori e registi s’interrogano su un fenomeno che destabilizza radicalmente, irreversibilmente, i fragili equilibri della convivenza tra i popoli, le culture e le lingue. Tra questi non poteva mancare Ariane Mnouchkine e il Théâtre du Soleil, fin dalle sue origini avamposto di un teatro concepito come laboratorio di riflessione e impegno civile, mai subalterno ma nemmeno distaccato rispetto alle problematiche sociali e politiche della contemporaneità. Com’è sua consuetudine, ma forse più che in altre occasioni, il lavoro della Mnouchkine sul tema dell’immigrazione è un lavoro di lunga durata e di ampio respiro. L’idea portante è quella di far raccontare ai rifugiati (per guerra, persecuzione o per fame) ciò che accadeva nei loro paesi d’origine e quale causa li ha spinti ad affrontare l’odissea della fuga verso l’Europa. Infatti, quando noi vediamo i volti di questa gente, nelle immagini televisive o per strada, tutto pare confondersi in una massa indifferenziata, nella quale fatichiamo a distinguere nazionalità ed etnie. Eppure dietro a ciascuno di quei volti c’è una storia individuale e unica, spesso terribile, maturata all’interno di una tragedia collettiva, una storia che raramente può essere raccontata e che forse pochi vogliono ascoltare. La Mnouchkine e i suoi collaboratori danno voci e figure proprio a queste storie, nella loro lingua originaria (tradotta mediante i sottotitoli elettronici) e con una folta e affiatatissima schiera di interpreti che vengono da ogni parte del mondo. Poiché queste storie sono moltissime, quasi infinite, potremmo dire una sorta di nuovo patrimonio orale della civiltà (e soprattutto dell’inciviltà) del secondo millennio, la Mnouchkine ha voluto raccogliere quanto più materiale possibile dalle testimonianze dirette dei rifugiati, in forma scritta e verbale, dividendolo per aree geografiche di provenienza. Poi ha selezionato i materiali più emblematici, per ricavare da questi dei brevi episodi teatrali che possono essere rappresentati in modo autonomo oppure concatenato fra loro, come miniserie a puntate. L’insieme di tutti i "racconti" rappresentabili raggiunge il numero di cento (come i canti di un poema epico), per ogni replica, della durata media di tre ore, vengono scelti una ventina di episodi, secondo differenti combinazioni, in modo tale che lo spettacolo non è mai rappresentato per intero (lo spettacolo con tutti gli episodi durerebbe più di quindici ore) e ogni volta "viaggia" tra vicende e luoghi diversi. Molta parte di questi racconti sono stati raccolti nel campo profughi di Sangatte, nel nord della Francia, uno dei "luoghi" principali in cui sono ambientati gli episodi teatrali, insieme alle terre di confine come Calais o di passaggio come la Grecia, l’Oceano Indiano, gli altri "luoghi" sono soprattutto quelli delle recenti guerre, l’Afghanistan, l’Iran, l’Iraq, la Bosnia e poi l’est europeo disfatto dalla miseria: Mosca, la Bulgaria, l’Albania. Lo spettacolo ha un inizio straordinario e simbolico: gli attori, che di volta in volta si trasformano in macchinisti al servizio dei loro compagni di scena, corrono sul grande palcoscenico dispiegando su di esso un enorme telo grigio e agitandolo come un fiume arrabbiato, la colonna sonora (tutta rigorosamente dal vivo) fa soffiare il vento e scrosciare l’acqua mentre due "guide" mercenarie di un gruppo di profughi afgani cercano avventurosamente di far passare i loro "clienti" da una sponda all’altra del fiume, sospesi a una corda. Questo quadro, così dichiaratamente finto nella sua invenzione teatrale eppure così vero nel pathos che comunica, introduce subito alla dimensione poetica del grande racconto, dove i singoli, brevi e fulminanti episodi si alternano a frammenti di lettere scritti (elettronicamente) sul fondale e letti nella loro lingua originale. Continuamente, per tutto lo spettacolo, gli attori, vestiti negli abiti tradizionali delle varie etnie oppure nelle "divise" (tute o abiti recuperati) da profughi, attraversano la scena correndo, non è dato sapere da dove vengano e dove vadano, sono anime perennemente in fuga, perennemente alla ricerca di una terra. I personaggi protagonisti degli episodi si muovono invece in scena sempre ed esclusivamente su piccole pedane mobili (come rudimentali skateboard), abilmente manovrate da altri attori. Come per evocare il passaggio veloce ed effimero sulla terra, fantasmi in carne ed ossa che scivolano sulla superficie della terra, senza lasciare traccia, senza potersi radicare, irreversibilmente staccati da un suolo di appartenenza. Così appaiono e scompaiono anche alberelli veri, sinonimo di speranza o di disperazione. Questa è senz’altro una delle idee registiche più forti dello spettacolo, che si coniuga con un’analoga soluzione adottata per le scene: il palcoscenico rimane sempre vuoto, è solo provvisoriamente occupato da piccole scene mobili (anch’esse su ruote, trasportate dagli attori-macchinisti) che sono frammenti di spazi, così come i dialoghi sono frammenti di storie. Un palo del traliccio della luce, una baracca afgana, un container per profughi, un gabbiotto della croce rossa, una cabina telefonica, una fermata di autobus, un pezzo di rete di confine divelta per il passaggio dei clandestini..., la scenografia è metonimica, una parte che evoca il tutto e lo riduce alla sua essenza, come un quadro tridimensionale o una scultura-installazione. Queste scene così leggere avanzano e arretrano, ruotano su se stesse, offrendo allo spettatore diversi punti di vista e spiazzanti sorprese. Tutto, la presenza umana, la sua voce, il suo ambiente naturale o domestico, appare e svanisce come sospinto da un soffio di vento. E su tutto prevalgono una crudeltà e una spietatezza che sembrano tanto inesorabili quanto insensate, come "se Satana si fosse seduto sulla nostra tavola" (lo dice un’ intensa poesia proiettata sul fondale). Insieme alle vittime innocenti, le donne e i bambini, anche i carnefici risultano a loro volta vittime dei concorrenti, ma più ancora sembrano vite perdute nell’accecamento prodotto dalle nuove divinità pagane del denaro, dai signori della guerra o dagli imperituri fanatismi "religiosi". E’ un’odissea senza eroi e senza ritorno, che tende piuttosto all’apocalisse, un affresco animato di grande forza comunicativa, dove la complessa machina teatrale di questa famiglia molto numerosa che è il Théâtre du Soleil funziona perfettamente, con un rigore raro per le scene nostrane. Qui la limpida sobrietà e la disinvoltura degli attori, sempre bravissimi (li vediamo truccarsi ed entrare nei personaggi a lato della platea, li vediamo trasformarsi in atleti e macchinisti a seconda delle necessità del momento), esalta i valori poetici e drammatici della messinscena, evitando sia il mimetismo naturalista sia qualsiasi ombra patetica o retorica. Uno spettacolo "antispettacolare" che apre le finestre della nostra indifferenza o della nostra assuefazione al dolore altrui per farci vedere e sentire, quasi toccare con mano, quanto costa oggi per molti uomini, donne e bambini la sopravvivenza, non solo del corpo ma anche dell’identità culturale e della dignità umana.
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Le recensioni di "ateatro": La casa degli spiriti dal romanzo di Isabel Allende regia di Claudia Della Seta, Teatro Arabo Ebraico di Jaffa e Compagnia Teatrale Integrata Diverse Abilità di Roma di Andrea Balzola |
Nella selezione del festival "Enzimi", e subito dopo al Teatro dell’Orologio, ha debuttato una originale versione teatrale del romanzo best seller La casa degli spiriti di Isabel Allende. La fortunata saga famigliare cilena, già vista in una discussa riduzione cinematografica, ha una struttura narrativa molto canonica e piuttosto meccanica, nobilitata da una tematica politica di fondo che parte dallo sfruttamento latifondista dei contadini fino alle efferatezze del golpe e della dittatura sanguinaria di Pinochet, con un tentativo finale di indicare nell’arduo ritorno alla democrazia una possibile strada verso la riconciliazione nazionale. Ed è proprio su questo sottotesto che lo spettacolo mette l’accento, attraverso l’adattamento di Claudia Della Seta, anche regista, e di Nili Agassi, con la supervisione di Daniel Horowitz. Sia nella costruzione dei personaggi, sia nella chiave psicologica del racconto è il punto di vista femminile a prevalere, e quest’impostazione, tipica della scrittura della Allende, viene conservata ed esaltata dalla messinscena. Il progetto nasce infatti dall’incontro tra due registe, Claudia Della Seta e Glenda Sevald, e dalla collaborazione tra due compagnie: il Teatro Arabo Ebraico di Jaffa e la Compagnia Teatrale Integrata Diverse Abilità di Roma. Due compagnie con alle spalle una storia di forte impegno civile, la prima agisce nel difficilissimo contesto attuale israeliano, cercando un’integrazione artistica e culturale tra la comunità ebraica e quella palestinese, la seconda da molti anni conduce un lavoro laboratoriale di grande rigore per il sostegno e l’integrazione dei soggetti disabili o in condizioni di disagio mentale. Questo lavoro teatrale è nato proprio a Tel Aviv, durante i mesi più duri, nel periodo di Jenin e dei quotidiani attentati in Israele, dove la tematica della riconciliazione appariva tanto più utopistica quanto più necessaria. I caratteri dominanti dell’adattamento teatrale e della sua messinscena sono sostanzialmente tre: l’incontro interculturale tra attori e tecnici israeliani e italiani, in prevalenza giovani; l’idea di creare una narrazione a flash-back dove nipote ex-rivoluzionaria e nonno ex-reazionario si ritrovano nella vecchia casa di famiglia per tentare una riconciliazione che passa soprattutto attraverso la rievocazione e il racconto della storia famigliare; la ricostruzione degli episodi salienti della vita famigliare in un innesto cronologico che apre le porte della cucina, dove si trovano i due "narratori", agli altri ambienti animati dai fantasmi (appunto gli "spiriti") del passato. Lo spettacolo, diviso in tre atti, ha una durata complessiva di tre ore e mezza, una lunghezza impegnativa per pubblico e attori che potrebbe essere ridotta tra il secondo e il terzo atto, ma che regge l’attenzione e il coinvolgimento emotivo grazie al ritmo serrato degli episodi, creato dall’efficace regia e alla buona prestazione degli attori. Quelli stranieri sanno volgere a loro favore le difficoltà della pronuncia, sfumando con il loro accento il pericolo accademico che incombe su molta "corretta dizione" dell’attore medio impostato italiano. Per aumentare la disinvoltura "casalinga" dei due narratori, sempre presenti in scena, la regia sceglie di far muovere il vecchio Esteban (Maurizio Marchetti) sulla carrozzella e di mettere ai fornelli la nipote Alba (Maria Serrao), la quale cucina per davvero piatti semplici poi serviti al pubblico negli intervalli. Ai due lati della cucina appaiono i differenti ambienti e i personaggi di tre generazioni (il passaggio dell’età dei protagonisti è sottolineato dal cambiamento di attori), dal vivo, o, nelle scene più dure, mediante il gioco delle ombre cinesi, o infine, al momento del golpe, con la proiezione di documenti video originali. Forse sarebbe stato drammaturgicamente più interessante, anche se più difficile, mescolare i diversi momenti temporali evocati dalla memoria dei narratori, invece di rispettare strettamente la cronologia, anche perché la memoria non è mai lineare, procede appunto per salti e associazioni spesso imprevedibili. In ogni caso, il delicato equilibrio tra la dimensione tragica, sicuramente dominante, e la vena ironica è ben calibrato nel naturalismo lievemente caricato della recitazione, soprattutto in alcuni personaggi come la sorella del patriarca, Férula (la brava Barbara Porta), Esteban il giovane (un vigoroso Stefano Viali) Blanca (la versatile Sofia Diaz) e Clara, moglie sensitiva di Esteban, il personaggio più sfaccettato e amabile (interpretata nelle tre età della vita dalle brave e belle Tamara Stiel, Mira Anwar Awad, Alba Caterina Rohrwacher).
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Dacci oggi il nostro burattino quotidiano Alpe Adria Puppet Festival 2003 di Fernando Marchiori |
Storie narrate con foglie, corde, pezzi di bambù; borse per l’acqua calda che diventano pupazzi; un Orfeo fatto di ombre; un intero spettacolo costruito sul gioco di carta-sasso-forbici. Siamo a Gorizia, naturalmente, una delle capitali europee del teatro di animazione e di figura, dove l’Alpe Adria Puppet Festival, lontano dalle polemiche che hanno accompagnato le principali rassegne dell’estate teatrale italiana, continua a proporsi come incrocio di esperienze e generi, di tendenze e geografie culturali.
Reinventare il mito: Canto a Orfeo del Teatro d'Ombre di Torino, ideazione, drammaturgia e regia di Massimo Arbarello e Paola Bianchi.
Non che manchino i problemi, a cominciare da quelli economici che hanno impedito l’ormai tradizionale, festosa conclusione transfrontaliera tra Gorizia e Nova Gorica, e da un rapporto ancora da sviluppare tra il festival e la stessa città giuliana. Ma il lavoro che Roberto Piaggio e Antonella Caruzzi pazientemente conducono con l’obiettivo di riportare il teatro di figure tra le forme espressive della contemporaneità offre sempre uno spaccato interessante di quest’arte antica e multiforme, capace di rinnovarsi coniugando mimo e teatro d’ombre, cabaret e animazione, videoart e teatrodanza. Anche per questo le produzioni, le ospitalità internazionali, il recupero di un patrimonio straordinario (basti ricordare il progetto di creazione, a quasi cinquant’anni dalla morte di Vittorio Podrecca, di un centro europeo intitolato al suo nome che raccolga a Cividale centinaia di marionette, bozzetti, documenti e insieme diventi un luogo di formazione, ricerca e promozione) meriterebbero maggiore attenzione da parte delle istituzioni e della critica.
Reinventare il romanzo: Don Chisciotte - una storia per un sogno del Teatro del Mediterraneo (Torino) con Beppe Rizzo.
Tra le linee di forza di questa dodicesima edizione del festival va segnalata la sempre sorprendente capacità di reinvenzione dei classici per bambini, dalle fiabe di Andersen (La pastorella e lo spazzacamino dello Zasyrova Jedovate Divadlo di Praga) ai canovacci ottocenteschi (La colombina furiosa dell’ADM! di Cervia), dal Pulcinella di Luca Ronga al piccolo principe nel Viaggio in Aereo della compagnia ravennate Drammatico Vegetale, fino a un Alì Babà del Teatro della Tosse di Genova con i burattini disegnati da Emanuele Luzzati.
Reinventare le favole: Il gatto con gli stivali.
Emerge con crescente consapevolezza l’importanza del rapporto attore-marionetta, alla ricerca forse di una ridefinizione teorica di questi teatri spesso più vivi di quelli ‘maggiori’ proprio perché imperfetti e marginali. Così nella rilettura grottesca del Lear presentata dal MatherialTheater di Stoccarda la struttura formale si basa sulla continua sovrapposizione e separazione di ruoli e figure dei personaggi-attori e dei personaggi-pupazzi. Karin Ersching in Second hand puppets condivide una parte del corpo con un grande pupazzo, quasi un gemello siamese, creando una metafora viva della propria arte.
Ma il tratto più innovativo sembra rivelarsi nella riscoperta e nel riuso di materiali quotidiani o di scarto nelle pratiche manipolatorie e di animazione. Claudio Cavalli, che ha debuttato in prima nazionale con le Storie della Genesi (dove dialogano ebraismo, islam e scienza), fa nascere giardini, costellazioni, città dagli oggetti informi e confusi buttati via dagli uomini. Le marionette di Antonio Panzuto rivivono le loro Mille e una notte in un’ambientazione di corde, lampade, foglie.
L’esito più radicale è tuttavia l’Idio-Tisch dell’austriaco Christian Suchy. Il personaggio in scena è incapace di fare il giocoliere e il saltimbanco, ma attorno a lui gli oggetti si animano, vivono incontri e conflitti, passano da silenzi metafisici a sfoghi di pura aggressività. Il tedesco idiotisch significa idiota, ma ha in sé anche il termine tisch, tavolo.
Su un tavolino prendono infatti vita gran parte dei personaggi di questo spettacolo duro e divertente. Un teatro dell’assurdo senza testo e senza personaggi umani, come sarebbe piaciuto a Beckett. L’attore assume i tratti del nanetto posto sul proscenio a indicare al pubblico il preciso punto di vista da cui scaturisce questa visione tragicamente postmodern di un interno domestico.
Una borsa per l’acqua calda, gialla e quasi interattiva alla manipolazione spasmodica dell’attore, incontra i marziani, che sono delle arance atterrate a bordo di una astronave-catino. La violenza di un coltello che sventra un marziano farà vomitare alla borsa la sua acqua dentro l’ufo rosso ridiventato catino. Lo straccio per asciugare il palco diventa un rospo saltellante, un mostro grigio.
Un nodo in un angolo ed ecco la testa di un uccello, che svolazza un po’ prima di schiantarsi sul fondale.
Suchy travolge le convenzioni rappresentative con una gestualità inconsulta e una tecnica sporca, regolate però da una sensibilità verso la poetica degli oggetti che richiama alla memoria l’universo di Munari. Da una parte colpisce la precisione geometrica nell’accostamento spaziale di oggetti e forme: l’arancia perfettamente all’incrocio delle gambe dello sgabello, la prospettiva del nanetto accuratamente calcolata. Dall’altra l’uso funzionale creativo delle piccole cose incontrate in un orizzonte tutt’altro che pascoliano, piuttosto giocosamente industriale: le palline da ping-pong, l’imbuto, il bacile, coi loro colori chimici che sembrano contagiare e rendere inorganici persino il giallo del limone, l’arancione delle arance.
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Lettera aperta ai "critici impuri" Sul documento apparso su "Lo Straniero", ottobre 2003 di Oliviero Ponte di Pino |
Cari amici,
ho letto e riletto con attenzione il vostro documento sulla critica pubblicato sullo «Straniero» di ottobre (Il critico impuro di Fabio Acca, Carla Romana Antolini, Andrea Lissoni, Andrea Nanni, Barnaba Ponchielli, Rodolfo Sacchettini e Cristina Ventrucci, ovvero il gruppo di lavoro sulla critica tenuto a Prato dal 10 al 12 giugno 2003 nell’ambito del festival Contemporanea 03 - Lo spettacolo e le arti delle nuove generazioni), per capire lo stato dell’arte e alla ricerca di suggerimenti e indicazioni.
Pur trovandomi con voi in sintonia su diversi temi e provocazioni, mi ha molto colpito, in un testo così ambizioso, l’assenza pressoché totale di due orizzonti che invece per me sono sempre stati molto importanti.
Perché nel vostro elogio del «critico partigiano» mi sembra mancare quasi totalmente ogni riferimento alla storia, e questo vuole dire sia la storia del teatro sia la storia tout court. Di conseguenza rifiutate ogni «esercizio di marketing da condurre secondo una logica ormai esaurita di ricerca di ricorrenze e contiguità e similitudini fra oggetti (opere) più o meno contemporanei» e vi distanziate «dalle fonti e dalle ombre della poetica degli autori». Si parla, è vero, di tradizione, ma in termini piuttosto generici. Per me, la stessa definizione di tradizione è un problema aperto e irrisolto. Che cosa è oggi per noi «tradizione»? Mimmo Cuticchio? Luca De Filippo o Luca Ronconi? Carmelo e Leo? Pasolini o Testori? Giorgio Albertazzi o Giorgio Barberio Corsetti? Senza capire un po’ meglio di che cosa stiamo parlando, «una presa di posizione politica in rapporto alla tradizione» diventa piuttosto difficile.
Un secondo aspetto che mi pare trascuriate riguarda la politica e l’economia dello spettacolo. Insistete molto, e giustamente, sull’importanza dei processi e delle esperienze rispetto alle opere, ma non si accenna mai alle condizioni materiali che rendono possibili (o impossibili) gli uni e le altre. Il teatro non sono solo gli artisti, le opere e i processi, ma anche un sistema con i suoi centri di potere e i suoi margini, i suoi ricchi e i suoi poveri (per scelta o necessità), e dunque i suoi conflitti. E’ soprattutto di fronte a questo scenario e alle sue convulsioni che – soprattutto di questi tempi – ogni atto critico è inevitabilmente «di parte».
Va bene, risponderete, queste cose le sappiamo bene anche noi. Non si può chiedere di avere tutto da un sintetico documento programmatico. Tuttavia queste rimozioni mi paiono il frutto dell’impostazione generale del vostro testo, che è fondato in sostanza sull’esaltazione della soggettività del critico e sul suo rapporto diretto, immediato, quasi intimo, con i processi creativi e produttivi, con l’opera e con gli artisti che li generano.
Se si pone davvero in questa prospettiva, il vostro «critico impuro» mi sembra alla fine assai «puro»: un lettore e traduttore di sistemi di segni, un testimone di processi, aperto e disponibile, che però fatica a trovare punti d’appoggio e un quadro di riferimento per le sue analisi. Insistete molto – tanto che alla fine inserite addirittura una postilla – sulla «umiltà, onestà intellettuale, sincerità, autenticità» del critico impuro. Fermo restando che ammiro in voi queste qualità, non mi sembrano quelle più adatte a discriminare un bravo critico da uno mediocre, così come conosco tanti artisti onesti e sinceri (fin troppo, aggiungerei) che fanno spettacoli assai poco interessanti. Peraltro, onestà e sincerità sono qualità assai difficili da giudicare in qualunque situazione e in qualunque essere umano. Lo sono e a maggior ragione in un campo di forze complesso come quello della creazione artistica e della comunicazione. Le nostre motivazioni sono insieme troppo complesse e vaghe, la consapevolezza di noi stessi troppo fallace perché questo tribunale della coscienza critica possa avere un qualche esito. Se non – parzialmente – di fronte a noi stessi e, appunto, alla nostra coscienza.
La moralità (e la responsabilità) si misurano piuttosto sugli atti, sulle pratiche, a cominciare dall’antico e volgare «Chi ti paga?» Ma qui bisognerebbe aprire un dibattito troppo lungo sul «critico impegnato» o «militante», quello che si sporca le mani e genera dunque possibili compromessi e conflitti di interesse tra la «purezza» richiesta a un osservatore neutrale, distaccato, oggettivo, e la necessità di sostenere in tutti i modi il teatro che si ama. A questo punto bisognerebbe fare nomi e casi concreti: voi signorilmente non li fate, e dunque eviterò di farli io.
Un’ultima annotazione. Esordite interrogandovi sul mestiere del critico (sulla sua sopravvivenza) e accennate alla necessità della pratica critica di conquistare altri spazi e di emanciparsi da «un linguaggio spesso usurato e inefficace». Queste buone intenzioni restano però tali, nel senso che non si precisano le forme e i luoghi dove si potrebbe (o dovrebbe) praticare l’esercizio critico. Anche questo mi sembra un tema che varrebbe la pena esplorare in futuro.
Oliviero
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Libri & libri Segnalazioni bibliografiche di Redazione ateatro |
Marco Baliani, Corpo di stato. Il delitto Moro, Rizzoli, Milano, 2003, 110 pp, 7,00 euro.
La collana Sintonie, dedicata all’esplorazione della realtà italiana attraverso la narrativa (e non solo: basti pensare al monumentale Patrie impure, un autoritratto italiano a più voci), pubblica il testo del monologo prodotto e trasmesso da Raidue. Per approfondire alcuni dei motivi d’interesse del testo, prova a leggere Un po’ dopo il piombo (sul caso Moro), un testo di Oliviero Ponte di Pino sullo spettacolo. E naturalmente nel sito trovi molto altro materiale su Baliani e sul teatro di narrazione.
A proposito, nella collana sintonie è uscita di recente la seconda parte dei Canti del caos di Antonio Moresco: il grande ciclo romanzesco (sentimentale, erotico, politico) sta ispirando il progetto pluriennale di Teatro Aperto che questa webzine segue da tempo.
Sempre a proposito di narrazione e voce (il tema dello speciale di "ateatro 56"), da segnalare:
Franco Del Moro, L’arte della narrazione, Ellin Selae, Murazzano (CN), 2003, 168 pp, 14,00 euro.
Il volume raccoglie un saggio sulla narrazione a cura di Franco Del Moro (che da 15 anni dirige la rivista letteraria «Ellin Selae»: da una sua costola è nata la casa editrice), il suo monologo «agrodolce in quattro quadri» Il funzionamento dell’uomo e una serie di testimonianze e consigli di alcuni attori- autori e scrittori (Ascanio Celestini, Laura Curino, Play Magliano, Raul Montanari, Tiziano Scarpa e Stefano Tamburrini.
Nevio Gàmbula, La discordia teatrale, Pendragon, Bologna, 2003, 96 pp., 9,00 euro.
I lettori di "ateatro" conoscono Nevio Gàmbula per diversi interventi sui forum e per il bel saggio sulla voce nel mitico numero 56. Ma Nevio è anche lui autore-attore: chi vuole conoscere meglio questo percorso trova in questo volume, oltre a tre suoi testi per il teatro (Esecuzione capitale ispirato ai fatti di Genova del luglio 2001, La lingua recisa, ovvero «il tragico monologo di Calibano, ultimo proletario nel suo amore smodato della libertà, e il monologo mülleriano Le varianti del sicario) gli sguardi critici di Roberto Di Marco e Francesco Muzzioli.
Tiziano Fratus, Limina [intarsia di tiziano fratus | poesie], Editoria & spettacolo, Roma, 2003, 104 pp., 5,00 euro.
Tiziano Fratus, L’architettura dei fari. 1990-2003 - la nuova drammaturgia italiana, Edizioni Atelier, Borgomanero (NO), 2003, 64 pp., 6.00 euro.
Tiziano Fratus è drammaturgo, saggista, poeta, e nel frattempo gestisce Manifatturae, che è anche uno dei migliori siti di teatro italiani. Limina è la sua più recente raccolta poetica, L’architettura dei fari, dopo un saggio introduttivo, raccoglie una serie di recensioni a una ventina di novità italiane del decennio, da Testori a Letizia Russo passando per Tarantino e Emma Dante, Chiti e Baricco, Scipione-Sframeli e Emma Dante.
Piero Colaprico, L’estate del Mundial, Marco Tropea Editore, Milano, 2003, 224 pp., 10,00 euro.
Che c’entra con il teatro un giallo del maresciallo Binda, la fortunata serie scritta a quattro mani da Piero Colaprico e Pietro Valpreda? Beh, la vittima, Lavinia, un tempo faceva la soubrette nei teatri di varietà, e spesso – nel corso di un’indagine che s’intreccia con il caso Calvi– quel mondo riaffiora, ricostruito con affetto e attenzione.
Carolina Guzman, Sculture che danzano. Società, teatro, arte nell’India antica, il principe costante, Pozzuolo del Friuli (UD), 2001, 232 pp., 16,50 euro.
Jean Epstein, Alcol e cinema, il principe costante, Pozzuolo del Friuli (UD), 2002, 160 pp., 12,50 euro.
Matteo Casari, La verità dello specchio. Cento giorni di teatro No con il maestro Umewaka Makio, il principe costante, Pozzuolo del Friuli (UD), 2002, 160 pp., 12,50 euro.
Evgemij B. Vachtangov, La gioia della scena. Diari, lettere, appunti di lavoro, il principe costante, Pozzuolo del Friuli (UD), 2002, 128 pp., 10,00 euro.
Il principe costante è una delle case editrici di guerriglia nate in questi ultimi anni nel difficile settore dell’editoria dello spettacolo, per iniziativa di V & V (Valeria & Vanessa): struttura leggera, basse tirature con print on demand, distribuzione mirata e vendite via internet. Per ora si caratterizza per l’attenzione ai teatri orientali e per due interessanti riproposte, ma con le prossime uscite il progetto si allargherà al teatro italiano conte poraneo.
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La stagione dell’India Un grande abbraccio e molti begli spettacoli di Redazione ateatro |
Riapre dopo una lunga inattività India, il grande spazio industriale recuperato e trasformato per il Teatro di Roma da Mario Martone ma chiuso da un paio d’anni. A benedire la riapertura, in un grande abbraccio il sindaco di Roma Walter Veltroni, il presidente e il direttore del teatro, Oberdan Forlenza e Giorgio Albertazzi (sempre più fiero del suo passato repubblichino), e il neo-assessore alla cultura della provincia recentemente riconquistata dalle sinistre (ambiando gli equilibri politici complessivi della capitale e del suo teatro), Vicenzo Vita. Il volemose bene comprende anche Mario Martone, cacciato dallo stabile romano un paio d’anni fa, e Giorgio Barberio Corsetti, che a lungo è stato candidato alla direzione dell’India. Ha scritto Gianfranco Capitta sul «manifesto» del 19 settembre:
«E' ovvio che c'è da rallegrarsi, o da commuoversi come hanno fatto i molti che hanno dedicato al rientro di Martone un lunghissimo applauso. Se non fosse che Martone dello stabile romano è stato direttore, e pure costretto a una fuga con perdite; allo stesso modo, Barberio è stato per più di un anno direttore in pectore, o aspirante tale tra polemiche vistose e pubbliche con il direttore "vero" Albertazzi, dell'India. Il loro rientro, come scritturati e senza colpo ferire, dà un lieto fine improvviso senza che ci sia stata, almeno in pubblico, alcuna "catarsi", e neanche uno straccio di dibbattito. Che per lo sviluppo di qualsiasi drammaturgia è indispensabile, come insegna proprio la tragedia classica, di Edipo e degli altri. E qualche teatrante più avvertito non nascondeva, dopo la conferenza stampa, il disappunto nel vedere Martone e Barberio, che dovevano essere il riferimento istituzionale delle ultime generazioni, "inglobati" a loro volta in semplici produzioni.»
Il programma è in ogni caso assai ricco, con spettacoli e progetti di grande interesse.
Si parte con Querelle (dal testo di Jean Genet, regia di Antonio Latella, prodotto dal Teatro Nuovo di Napoli e dal Garibaldi di Palermo; il regista tornerà a Índia anche con Porcile (10-21 dicembre). A seguire Le Vie dei Festival con il bellissimo Cinema Cielo (5-9 novembre) di Danio Manfredini, Cortile da un testo di Spiro Scimone con la regia di Valerio Binasco (22-30 novembre). Dal Metastasio di Prato arriva il copione che lo scrittore Sandro Veronesi ha tratto dal film premio Oscar No man's land di Danis Tanovic, regia di Massimo Luconi, protagonista Marco Baliani (3-7 dicembre). Il 2004 si apre con Cara professoressa (20 gennaio-1 febbraio), regia ancora di Valerio Binasco. Tocca poi a Emma Dante con l’attesa rilettura di Medea, con Iaia Forte e Tommaso Ragno (10-22 febbraio). Seguiranno prove e allestimento di Edipo a Colono, la regia con cui Mario Martone torna al Teatro di Roma, con debutto il 27 aprile (fino al 6 giugno). A settembre tocca a Giorgio Barberio Corsetti con Paradiso. Tra le «ospitalità», anche il festival europeo Temps d'Images, coordinato da Barberio Corsetti, con le presenze, tra l’altro, di Hanna Schygulla in Protocole de Reves (18-19 ottobre) e di Comprè una pala a Ikea para cavar mi tumba (21-22 ottobre) del lanciatissimo Rodrigo Garcia.
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I finalisti del Premio Riccione La premiazione il 27 settembre di Redazione ateatro |
Qui sotto il comunicato stampa che annuncia l'edizione 2003 del Premio Riccione.
PREMIO RICCIONE PER IL TEATRO 2003
Istituito quest’anno un nuovo premio intitolato a Marisa Fabbri.
Sabato 27 settembre la cerimonia di premiazione preceduta da una lettura a cura di Renata Molinari.
Quattrocentosettantuno copioni originali mai rappresentati, firmati da autori italiani, costituiscono un nuovo record per il Premio Riccione Teatro, confermano un crescente prestigio che conta sempre di più sulla risposta di firme note e di un folto numero di teatranti, senza dimenticare l’importante contributo allo sviluppo della drammaturgia contemporanea. Siamo ormai alla quarantasettesima edizione del Premio nato nel 1947 (l’anno di Calvino vincitore con "Il sentiero dei nidi di ragno"), subito dopo consacrato definitivamente alla scrittura teatrale e divenuto biennale nel 1985 (è l’anno di Enzo Moscato con "Pièce noire").
Ma torniamo al presente e alla cerimonia di premiazione di sabato 27 settembre al Teatro del Mare di Riccione dove Renata Molinari presenterà al pubblico la lettura di una serie di combinazioni di brani estratti da un ristretto numero di testi selezionati . Dopo il fortunato esito della precedente edizione del Premio, la dramaturg conduce anche quest’anno il laboratorio di una settimana con 12 allievi-attori provenienti dalla Scuola di Teatro del Piccolo di Milano, dall’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’amico di Roma e dalla scuola di Teatro di Bologna. "Mi interessa – afferma Renata Molinari, - il rapporto attore-testo specialmente laddove si tratta della scrittura contemporanea che, di per sé, mette in gioco categorie non convenzionalmente drammaturgiche, impone misure di lavoro diverse rispetto ai classici. Sono testi con una voce che agisce. Spesso usano la musicalità dei dialetti (non parlo di teatro dialettale) per rappresentare una realtà. Quando il filo emotivo di un testo si relaziona al presente, il rapporto con l’attore cambia e la lettura ad alta voce aiuta a rintracciare una linea di approfondimento, di azione scenica. Era importante creare a Riccione un’esperienza di lavoro che implicasse la partecipazione attiva dei fruitori del testo, ovvero degli attori che dovranno metterlo in scena. La formula dell’ascolto è un buon approccio al testo, ne rende il valore e la potenzialità".
Nei mesi scorsi, dei 471 copioni pervenuti alla segreteria, la giuria ne ha selezionati 15 tra i quali scegliere il Premio di 7.500,00 € e un Premio Speciale intitolato a Paolo Bignami e Gianni Quondamatteo. Inoltre, saranno assegnati il Premio Pier Vittorio Tondelli (2.500,00 €) al testo di un giovane autore under 30, il Premio Aldo Trionfo (fuori concorso) a quei teatranti che siano riusciti a coniugare la tradizione con la ricerca e, per la prima volta, il Premio Marisa Fabbri (la grande attrice scomparsa di recente che, peraltro, ha fatto parte della giuria delle ultime edizioni del Premio Riccione).
La giuria del Premio 2003 è composta da Franco Quadri (presidente), Roberto Andò, Sergio Colomba, Elena De Angeli, Luca Doninelli, Edoardo Erba, Mario Fortunato, Maria Grazia Gregori, Renata Molinari, Giorgio Pressburger, Luca Ronconi e Renzo Tian, ha scelto 15 finalisti tra i 471 pervenuti alla segreteria del Premio.
I finalisti della 47° edizione del Premio Riccione diretto da Fabio Bruschi sono:
Massimo Bavastro ("25 Apocalissi"), Augusto Bianchi Rizzi ("Veronica ha bruciato la torta"), Agatino Caspanello ("Mari"), Davide Enia ("Scanna"), Angelo Ferracuti ("Anitre"), Enrico Fink ("Le ombre"), Fulvio Fiori ("Veglia su di me"), Livia Giampalmo ("Breve luce"), Andrea Malpeli ("Io ti guardo negli occhi"), Giuseppe Manfridi ("Una storia cattiva"), Sergio Pierattini ("Quando ci siamo ritrovati"), Massimo Salvianti ("Il permesso"), Massimo Sgorbani ("Le cose sottili nell’aria"), Giorgio Taschini ("Diamante"), Paolo Trotti ("Come Camus").
Sabato 27 settembre, Teatro del Mare di Riccione
ore 15,30 sessione finale del laboratorio "L’esperienza del testo"
ore 19,00 aperitivo
ore 21,00 Cerimonia di premiazione
Info 0541.608275
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Le borse di studio "Fufa Onlus" Per giovani laureati che vogliono approfondire gli studi nel settore giornalistico e teatrale di Redazione ateatro |
L'associazione culturale "Fufa onlus" è nata nel marzo 2002 per ricordare Fulvia Bardelli, per vent'anni una delle protagoniste del Teatro dell'Archivolto, scomparsa improvvisamente nell'aprile del 2000. Fufa era il nome affettuoso di Fulvia Bardelli e ai suoi amici, a coloro che hanno condiviso con lei la passione per il teatro, la letteratura, il giornalismo, il suo lavoro di ufficio stampa, costituire un associazione in suo nome è sembrato il modo migliore per ricordarla. La Fufa Onlus promuove e sviluppa programmi e progetti nel campo della cultura e dell'arte e dello spettacolo in genere. In particolare con i fondi raccolti nel corso di due serate al teatro Gustavo Modena e con i diritti d'autore provenienti dalla riedizione un libro scritto da Fulvia, Ancora un tango (Sperling & Kupfer), nel dicembre dello scorso anno l'associazione ha istituito una borsa di studio per giovani laureati che vorranno approfondire i loro studi nel settore giornalistico e teatrale.
Nel dicembre 2002 è stato pubblicato un bando, in collaborazione con il Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Arti e Spettacolo dell'Università di Genova, per due borse di studio: la prima per uno stage - area ufficio stampa e comunicazione - in una struttura teatrale da individuare in accordo con la Commissione giudicatrice e la seconda per una ricerca scientifica su argomento teatrale, entrambe dell'importo di euro 2.500. Il successo dell'iniziativa è testimoniato dai ventinove lavori giunti da nove diverse università italiane. Nel luglio scorso la commissione giudicatrice, formata da Giulio Bardelli, Alberto Beniscelli, Eugenio Buonaccorsi, Pietro Cheli, Giorgio Scaramuzzino, Stefano Tettamanti e Franco Vazzoler ha attribuito i due premi a Sara Poeta dell'Università di Torino e a Silvia Bajardo dell'Università di Genova.
Il premio sarà consegnato venerdì 3 ottobre alle ore 11.30 al teatro Gustavo Modena di Genova.
Tra ottobre e novembre 2003 l'associazione bandirà il nuovo concorso.
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I vincitori del Premio Riccione Edizione 2003 di Redazione ateatro |
La 47° edizione del Premio Riccione per il Teatro ha visto l'assegnazione, nel corso della serata svoltasi al Teatro del Mare di Riccione sabato 27 settembre, dei riconoscimenti relativi ad un'edizione particolarmente ricca del Premio: 471 i testi partecipanti, scritti da autori di età compresa fra i 19 e gli 84 anni, testimonianza di una ritrovata vivacità della scrittura teatrale italiana che, ogni anno, per la quantità di copioni inviati, fa infrangere il record di partecipazione alle edizioni precedenti, sismografo dei tanti teatri e delle problematiche umane più sentite e più attuali in Italia.
La giornata è stata aperta dalla sessione conclusiva del laboratorio L'esperienza del testo, condotto da Renata Molinari con Claudio Longhi e Renato Gabrielli e i giovani attori provenienti dalla Scuola di Teatro del Piccolo di Milano, dall'Accademia d'Arte Drammatica di Roma e dalla Scuola di Teatro di Bologna impegnati per una settimana sui testi premiati.
L'edizione 2003 è stata anche l'occasione per celebrare il fecondo rapporto di collaborazione ventennale tra Franco Quadri e il Premio, iniziato nel 1983 con l’incontro di Riccione per il rilancio del Premio e della drammaturgia italiana.
I VINCITORI
La giuria, composta da Franco Quadri (presidente), Roberto Andò, Sergio Colomba, Elena De Angeli, Luca Doninelli, Edoardo Erba, Mario Fortunato, Maria Grazia Gregori, Renata Molinari, Enzo Moscato, Giorgio Pressburger, Luca Ronconi e Renzo Tian, ha proclamato vincitore della quarantasettesima edizione 2003, all’unanimità
Andrea Malpeli per Io ti guardo negli occhi: "Un’opera che sa raccontare il mondo degli altri con straordinaria forza poetica e profonda partecipazione umana, ambientata tra il Marocco e l'Italia, in cui, per una volta, le vicende dell’emigrazione sono viste dalla parte di chi resta, forte della vitalità del proprio mondo, senza compiacimenti e situazioni di maniera, in un racconto giovane e diretto come i suoi personaggi".
Il Premio Pier Vittorio Tondelli per il testo di un giovane autore sotto i trent’anni è stato attribuito all’unanimità a Scanna di Davide Enia, voce giovane del nuovo teatro italiano, già affermatasi con testi noti al pubblico come "Italia-Brasile 3 a 2" e il recente "Maggio '43". "L'autore, restando nella sua Palermo e facendone felicemente risuonare la lingua, nel suo primo testo a molte voci che ha l’ambizione della tragedia, ambienta in un rifugio antiaereo – nel quadro storico immaginario ma riconoscibile di una lotta di resistenza – il trapasso generazionale di una famiglia patriarcale, in un contesto addirittura biblico".
Il Premio speciale della Giuria, intitolato a Paolo Bignami e Gianni Quondamatteo, fondatori del Premio, è stato assegnato all’unanimità a:
Mari di Agatino Caspanello: "Delizioso duetto musicale in dialetto messinese, dedicato dall’autore a coloro che "amano senza parole".
Con i vincitori dei Premi Tondelli e Bignami-Quondamatteo si affermano i dialetti del Sud e della Sicilia: è il meridione, d'Italia e del mondo, con le sue lingue storte e i riti e i problemi sempre lontani dalla risoluzione, a fare specchio dell'arte-teatro al palcoscenico-mondo.
Un ricordo particolarmente commosso, per una grande attrice e amica del Premio Riccione e del teatro italiano tutto, ha accompagnato l'assegnazione del Premio Marisa Fabbri, istituito quest'anno per ricordare la grande attrice scomparsa, e destinato a indicare un'opera particolarmente impegnata nella ricerca di un linguaggio aperto e poetico. Il Premio è stato attribuito a Le ombre di Enrico Fink: "una "storia ferrarese" lieve lieve, dove la poesia si contrappone alla narrazione drammatica e da questa trascorre al dialogo tra figure e temi, realtà e poesia".
La Giuria ha segnalato all’unanimità due testi:
Come Camus di Paolo Trotti "per la potenza visionaria delle immagini e del linguaggio con cui affronta, col limite di un frettoloso finale d’effetto, una storia di violenza, schiavitù e morte in un’Africa purtroppo ben radicata nell’attualità".
Breve luce di Livia Giampalmo "per l’autoanalisi di una vita, travestita da monologo di una donna di mezz’età in attesa di un tardivo e per lei inusuale appuntamento amoroso, che rivela la sua necessità in un’attenzione quasi morbosa verso una raffinatezza di scrittura caparbiamente costruita".
La Giuria ha manifestato inoltre il suo apprezzamento per la continuità della ricerca dimostrata da Massimo Sgorbani anche nella sua nuova prova, Le cose sottili nell’aria, "monologo di una madre e di un figlio avviati sulle strade maniacali di "normali" diversità".
PREMIO ALDO TRIONFO
Particolare importanza ha rivestito l'assegnazione dell'ottavo Premio Aldo Trionfo, al regista Egisto Marcucci "per la ricchezza nervosa e originale di un’opera di ricerca che, in un quarantennio di attività, non ha mai smesso di essere disuguale da se stessa, pur mantenendo una ferma fedeltà a precisi principi, a partire dalla scelta di testi non ovvi da interpretare nel profondo, applicando i moduli non tradizionali dei grandi maestri della rivolta teatrale".
Il lavoro di Marcucci si è concretizzato in memorabili spettacoli come "Le sedie" di Ionesco e "La dodicesima notte", il suo ultimo allestimento prima dell'incidente che gli ha privato la possibilità di continuare a lavorare in ambito teatrale. Il Premio Aldo Trionfo assume il significato di un riconoscimento alla carriera ma anche la speranza di poter rivedere presto il regista al lavoro.
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Il programma della Biennale Teatro 2003 Spettacoli e workshop dal 23 ottobre al 1° novembre di Redazione ateatro |
Peter Sellars ha presentato il programma dell'edizione 2003 della Biennale Teatro. Il regista americano ha così illustrato le linee portanti del suo progetto:
"La Biennale di Venezia 2003 per il 35. Festival Internazionale del Teatro riunisce artisti che rappresentano nazioni e popoli ancora oggi in lotta per l'indipendenza, l'autodeterminazione, il diritto alla loro terra, l'equità culturale e la giustizia economica, dall'estremo nord del pianeta fino alle isole dei mari del sud. Il tema portante è quello dei popoli che cercano di superare il genocidio, di ricostruire, formare una nuova comunità rinnovando le proprie radici culturali. In primo piano è la rivendicazione dei linguaggi, la reinvenzione del ruolo delle donne, la riconciliazione tra culture globali e locali.
L'interazione tra le tecnologie più arretrate e quelle più avanzate e le aspirazioni delle società più antiche e di quelle più nuove daranno forma alle storie che si racconteranno nel XXI secolo, influenzando la scelta dei temi da raccontare e il modo in cui le nuove generazioni le ascolteranno e le tramanderanno. Otello è una delle storie centrali della città di Venezia. Durante il primo fine settimana il programma esplora questa storia ancora una volta, alla ricerca di nuovi significati e di nuove possibilità."
Il progetto è assai ambizioso ed è ovviamente impossibile - anche per una istituzione relativamente ricca come la Biennale veneziana - pensare di condurre una ricognizione a tutto campo. Così Sellars si limita a un paio di esemplificazioni dal gusto esotico. Dalla Cambogia arriva una versione di Otello, rivisitata dalla coreografa Sophline Chema Shapiro attraverso il filtro della grande tradizione della danza cambogiana: Samritechak, interpretata dall'Ensemble di danza e musica della Royal University of Fine Arts di Phnom Pehn, sarà dal 23 al 25 ottobre al Teatro alle Tese.
Il secondo spettacolo arriva dalle isole del Pacifico, con il il gruppo MAU, il cui nome deriva dal movimento indipendentista omonimo che in samoano significa "visione". Fondato dal regista Lemi Ponifasio nel '95 per presentare storie miti e leggende del Pacifico, il gruppo raccoglie 19 elementi dalle diverse provenienze. Il loro Paradise si annuncia come una riflessione sui rapporti tra un mondo primordiale e ancestrale e la moderna civiltà tecnologica. Lo si potrà vedere al Teatro delle Tese dal 30 ottobre al 1° novembre.
Completano il programma di questa Biennale Teatro le prove aperte del workshop condotto da Peter Sellars sul Kalidasa, una rassegna cinematografica e gli incontri con gli scrittori Amin Maalouf (24 ottobre) e Toni Morrison (25 ottobre).
Info più dettagliate sul sito della Biennale.
IL PROGRAMMA
La Biennale di Venezia
35. Festival Internazionale del Teatro
Visionaries & Peacemakers: building and rebuilding
Direttore Peter Sellars
Venezia, 23 ottobre > 1 novembre 2003
23 ottobre
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 18.00
incontro con Sophiline Cheam Shapiro
Teatro alle Tese ñ ore 19.30
Samritechak
ideazione, coreografia, arrangiamenti msuicali Sophiline Cheam Shapiro
Dance & Music Ensemble della Royal University of Fine Arts (Phnom Penh)
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 22.00
S21 The Khmer Rouge killing machine
regia Rithy Panh (Francia ñ Cambogia, 101í)
24 ottobre
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 15.00
Songs of my motherí s homeland
regia Baham Ghobadi (Kurdistan ñ Persia 2002, 1h.43í)
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 17.00
incontro con Amine Maalouf
Teatro alle Tese ñ ore 19.30
Samritechak
ideazione, coreografia, arrangiamenti msuicali Sophiline Cheam Shapiro
Dance & Music Ensemble della Royal University of Fine Arts (Phnom Penh)
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 22.00
S21 The Khmer Rouge killing machine
regia Rithy Panh (Francia ñ Cambogia, 101í)
25 ottobre
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 15.00
Beneath Clouds
regia Ivan Sen (Australia 2001, 87í)
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 17.00
incontro con Toni Morrison
Teatro alle Tese ñ ore 19.30
Samritechak
ideazione, coreografia, arrangiamenti musicali Sophiline Cheam Shapiro
Dance & Music Ensemble della Royal University of Fine Arts (Phnom Penh)
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 22.00
S21 The Khmer Rouge killing machine
regia Rithy Panh (Francia ñ Cambogia, 101í)
28 e 29 ottobre
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 19.30
The Love Cloud (Il nuvolo messaggero)
da Meghaduta di Kalidasa
prove aperte a cura di Peter Sellars
30 ottobre
Teatro alle Tese ñ ore 19.30
Paradise
di Lemi Ponifasio
Compagnia MAU (Nuova Zelanda)
31 ottobre
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 15.00
Beneath Clouds
regia Ivan Sen (Australia 2001, 87í)
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 17.00
incontro con Norman Cohn e Lemi Ponifasio
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 19.30
Atanarjuat
regia Zacharias Kunuk (Canada 2000, 167í)
Teatro alle Tese ñ ore 19.30
Paradise
di Lemi Ponifasio
Compagnia MAU (Nuova Zelanda)
1 novembre
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 15.00
Songs of my motherí s homeland
regia Baham Ghobadi (Kurdistan ñ Persia 2002, 1h.43í)
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 17.00
incontro con Alice Waters
Teatro Piccolo Arsenale ñ ore 19.30
Atanarjuat
regia Zacharias Kunuk (Canada 2000, 167í)
Teatro alle Tese ñ ore 19.30
Paradise
di Lemi Ponifasio
Compagnia MAU (Nuova Zelanda)
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In mostra Vittorio Alfieri aristicratico ribelle All'Archivio di Stato di Torino, 5 ottorbe 2003-11 gennaio 2004 di Redazione ateatro |
In occasione del bicentenario della morte dello scrittore astigiano, si apre domani 5 ottobre presso l'Archivio di Stato di Torino la mostra Vittorio Alfieri, aristocratico ribelle, una ricca esposizione celebrativa con oltre 130 capolavori tra dipinti, disegni, sculture, stampe e arredi, corredati da edizioni e documenti autografi, attraverso cui si rivelano la vita e la modernità del poeta piemontese. La mostra resterà aperta fino all'11 gennaio 2004.
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