Dedicato a Marisa Fabbri L'editoriale di Redazione ateatro
ateatro 54 è dedicato a Marisa Fabbri. Il perché lo spiega bene Andrea Balzola, nel ricordo che apre il numero: «Tra le molte cose che ho imparato, lavorando insieme a Marisa, la più rilevante è stata forse proprio la sua determinazione a rimettersi continuamente in gioco, a non sostituire mai la forma con la formula e la ricerca con il repertorio, anche quando, all’apice della fama, della carriera e in un’età avanzata avrebbe potuto limitarsi a gestire la sua "icona" pubblica».
Nel teatro italiano di questi anni, Marisa Fabbri ha rappresentato per molti un punto di riferimento, ma purtroppo anche una eccezione, una delle tante anomalie che faticano a incidere sul sistema. Però è anche grazie alla pratica artistica e alla carica umana di persone come Marisa Fabbri che le nostre scene, ogni tanto, hanno ancora qualche sprazzo di vita e di autenticità, e costruiscono occasioni di incontro e di scambio.
Uno degli obiettivi di ateatro (un obiettivo troppo ambizioso per le nostre forze) è di fare in modo che percorsi come il suo suscitino interesse e curiosità, possano essere meglio conosciuti e studiati, vengano inseriti in un sistema teatrale più aperto, trovino condizioni di lavoro più adatte alle loro necessità.
Pochi giorni dopo Marisa Fabbri è mancato anche Enrico Baj, patafisico e artista, ma anche scenografo teatrale e inventore di straordinarie marionette per Massimo Schuster. Nel mitico ateatro45, numero monografico sul Teatro di figura, lo stesso Baj ha raccontato la sua carriera teatrale, in una divertente e gustosa testimonianza intitolata Colui che mi fa giocare: un testo bellissimo, corredato da alcune fotografie che aiutano a cogliere la leggerezza del suo genio.
In ateatro 54 tiriamo qualche altro sasso nello stagno. Per prima cosa ricordiamo per l’appunto Marisa, grazie a Andrea Balzola che con lei ha lavorato in diverse occasioni. Poi lanciamo qualche grido d’allarme sull’involuzione dello scenario teatrale italiano: parliamo dei Premi Olimpici per il Teatro, con qualche gustoso "dietro le quinte" (ma nel forum NTVI trovate anche qualche gustosa info sul Premio Almirante); riprendiamo il grido d’allarme lanciato a Prato, in occasione di Contemporanea 03, da un gruppo di operatori teatrali (al quale ateatro si associa); e rilanciamo la discussione sulle Giornate Professionali italo-francesi, che sul versante italico paiono attraversare una fase di stallo (e infatti si parla anche di questo, in giro per il festival...).
Da diversi mesi (o meglio, anni) i segnali che arrivano dal nostro teatro sono sempre più inquietanti. Sono il sintomo di un’involuzione e di una crisi che non riesce a trovare sbocchi, malgrado la qualità di alcuni spettacoli. Le risorse pubbliche sono sempre minori (e sempre peggio distribuite), e continueranno a diminuire (e verranno distribuite sempre peggio). I teatri stabili, l’ossatura del nostro sistema teatrale, non fanno (quasi) nulla per ritrovare il loro ruolo e la loro funzione, e si trovano in evidente difficoltà: basti pensare che il Piccolo Teatro di Milano non riesce più a produrre gli spettacoli di Luca Ronconi se non attraverso complessi meccanismi di coproduzione. Le realtà del nuovo teatro continuano ad avanzare in ordine sparso, senza trovare comuni terreni di intervento, cercando di salvarsi singolarmente la pelle, al prezzo di compromessi sempre più al ribasso (ma è un copione già visto e rivisto). Non si vedono alternative agli attuali canali di distribuzione degli spettacoli, sempre più strozzati, sempre meno disposti al rischio. Basta guardare i cartelloni dei teatri, caratterizzati da un livellamento verso il basso, verso la banalità e la routine.
Ma l’estate non è solo il momento dei Premi e delle polemiche: è anche la stagione dei Festival (trovate i programmi di decine e decine di manifestazioni estive nel forum apposito, e se non li trovate aggiunte le vostre segnalazioni).
A proposito di Festival, ateatro 54 offre un’anteprima di alcuni degli spettacoli che debutteranno al Festival di Santarcangelo: In fondo a destra di Raffaello Baldini, regia di Federico Tiezzi con Silvio Castiglioni, Cinema Cielo di e con Danio Manfredini e I canti del caos di Teatro Aperto dal fluviale romanzo di Antonio Moresco.
Per tnm, Andrea Balzola recensisce il saggio L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, mentre Anna Maria Monteverdi intervista l’autrice Laura Gelmini.
Si torna anche a parlare di quello che i britannici definiscono «in yer face theatre», con la recensione a Polaroid molto esplicite di Mark Ravenhill, regia di Elio De Capitani per i Teatridithalia, e con il saggio di Gaia Paggi su Amore e violenza nel teatro di Sarah Kane.
Ciao, Marisa Un ricordo di Marisa Fabbri di Redazione ateatro
La scomparsa di Marisa Fabbri lascia un enorme vuoto nel teatro italiano.
Lo lascia perché non potremo più godere delle sue straordinarie interpretazioni - tra tutte leggendaria quella delle Baccanti (1976, Premio Ubu per la migliore attrice) all’interno del Laboratorio di Prato, dove era l’unica interprete della tragedia di Euripide, in un tour de force interpretativo che era anche una riflessione sul teatro, una rivelazione sul rapporto tra attore e spettatore.
Ma Marisa Fabbri lascia un vuoto anche e soprattutto per la sua generosità e per il suo amore per il teatro, vissuto sempre come luogo in cui mettersi in discussione e aprire un rapporto di comunicazione con il pubblico. Dal punto di vista tecnico, poteva rivaleggiare con Carmelo Bene, come ha dimostrato nel suo assolo V.O.C.E., ovvero Virgilio, Omero, Gregory Corso ed Euripide (1983). Così come erano straordinarie la sua intelligenza e acutezza nel leggere i testi: grazie a questa capacità analitica le sue interpretazioni erano anche acute operazioni critiche.
Nel corso della sua carriera, Marisa Fabbri ha lavorato con alcuni tra i maggiori registi del dopoguerra: Aldo Trionfo per Dialoghi con Leucò da C. Pavese (1964), Vinzenz e l'amica degli uomini importanti di R. Musil (1964), dove si esibiva in stile Marlene Dietrich, Elettra di Sofocle (1974); Giorgio Strehler per I giganti della montagna di Pirandello (1966) e Cantata del fantoccio lusitano di P. Weiss, (1968); e soprattutto Luca Ronconi per I lunatici di Middleton (1965), l'Orestea di Eschilo (1972), dove era Clitemnestra, Spettri di H. Ibsen (1981), Ignorabimus di A. Holtz (1986), dove per nove ore recitava in panni maschili in un cast tutto femminile premiato con l’Ubu, I dialoghi delle Carmelitane di G. Bernanos, Le tre sorelle di Cechov, L’uomo difficile di H. von Hofmannsthal (Premio Ubu per l’interpretazione particolarmente singolare), Gli ultimi giorni dell'umanità di K. Kraus (1990).
Nel corso della sua carriera Marisa Fabbri ha anche voluto e saputo rischiare collaborando con giovani registi: Cherif per Bestia da stile di Pasolini (1986) e Il Corano al Teatro di Roma (2000), dove leggeva il testo su Sabra e Chatila di Jean Genet, Mauro Avogadro per Il dolore da Marguerite Duras e La democrazia di Andrea Balzola (1999), Barbara Nativi per Io, Paola la commediante di Mario Luzi (2000).
Senza dimenticare che l’impegno artistico era strettamente legato a quello civile, come ha testimoniato di recente nell' intervista a Anna Monteverdi (da ateatro 25)
Nel prossimo numero di ateatro cercheremo di ricordare Marisa Fabbri nella maniera migliore: il nostro piccolo e doveroso tributo alla sua umanità, alla sua disponibilità e alla sua generosità.
Marisa Fabbri: una filmografia Gli astronomi (2002)
Ybris (1984)
Milarepa (1974)
Non ho tempo (1973)
La Tosca (1973)
Diario di un maestro (1972)
Quattro mosche di velluto grigio (1971)
Sacco e Vanzetti (1971)
L'asino d'oro: processo per fatti strani contro Lucius Apuleius cittadino romano (1970)
Il teatro come arte del cambiamento Un ricordo di Marisa Fabbri di Andrea Balzola
La scomparsa di Marisa Fabbri non lascia soltanto un grande, incolmabile, vuoto per coloro che le sono stati amici e compagni d’arte, ma è come l’inquietante sigillo messo a una stagione straordinaria del teatro italiano. In lei la vita e il teatro s’identificavano completamente, non per il narcisismo inesorabile delle prime attrici (il suo era consapevole e ironico), ma perché il teatro per Marisa era laboratorio sperimentale di un altro modo possibile di essere e di un nuovo mondo possibile. Allora, nella vividezza della sua presenza che comunque prevale sull’inaccettabilità della sua assenza, voglio interpretare la sua uscita di scena, involontaria e dolorosa ma ancora una volta coraggiosa (fino a una settimana prima di morire è stata sulla scena), come l’ultimo atto di protesta contro un teatro che sembra aver chiuso le palpebre e le porte alla ricerca pura, a quell’esigenza di sperimentazione che è e sempre sarà la sua linfa vitale. Un atto "metafisico" di dissenso nei confronti di un teatro malato di codardia, sempre più "teledipendente" e "divodipendente", incapace di nutrire e promuovere il nuovo ma esclusivamente aggrappato ai monumenti della sua storia.
Mi torna in mente una frase di Dario Fo che piaceva anche a Marisa: "Quando vedo i cartelloni delle stagioni teatrali italiane mi sembra di essere al cimitero, ci sono soltanto autori morti." E a chi diceva che il grande teatro in Italia non si apre alla nuova drammaturgia perché questa non ha qualità sufficienti, Marisa rispondeva che quest’atteggiamento era il segno dell’inguaribile provincialismo delle istituzioni teatrali italiane, perché la drammaturgia può crescere e maturare soltanto sul palcoscenico e attraverso di esso, le produzioni, i registi e gli attori devono investire sul nuovo perché il nuovo possa trovare le sue forme migliori, come accade nelle roccaforti teatrali europee che coltivano i loro talenti alla pari di una preziosa risorsa. E queste non erano solo parole, perché per decenni Marisa ha dedicato con entusiasmo il suo tempo a formare nuovi attori, sia all’Accademia d’arte drammatica di Roma sia nelle scuole fondate e dirette da Ronconi (dal Laboratorio di Prato alla scuola del Teatro Stabile di Torino), per decenni ha letto e valutato centinaia di copioni di giovani autori nell’ambito del Premio Riccione diretto da Franco Quadri e di altre giurie, cercando poi, in particolare nell’ultimo decennio, di trovare – non senza fatica – le occasioni produttive per portare in scena testi teatrali inediti di giovani autori italiani, o di contemporanei stranieri, o volentieri affidandosi alla regia di giovani registi. Tra le molte cose che ho imparato, lavorando insieme a Marisa,1 la più rilevante è stata forse proprio la sua determinazione a rimettersi continuamente in gioco, a non sostituire mai la forma con la formula e la ricerca con il repertorio, anche quando, all’apice della fama, della carriera e in un’età avanzata avrebbe potuto limitarsi a gestire la sua "icona" pubblica. La sua curiosità e la sua apertura intellettuale, si combinavano in modo rarissimo con una cultura appassionata (costruita appunto dalle passioni più che per erudizione), permeata da un sincero impegno etico e politico, mai tralasciato, e con una eccezionale capacità attoriale di immersione nella parola, nelle sue sfumature di senso e di suono. E proprio su quest’ultimo terreno l’incontro con Ronconi, all’inizio degli anni Settanta (ma già nel 1964 I lunatici di Middleton li aveva apparentati), fu per lei una folgorazione, tanto che, dopo essersi affermata con Strehler nei "favolosi anni Sessanta" del Piccolo, e con Aldo Trionfo al Teatro Stabile di Trieste, non disdiceva essere considerata "attrice ronconiana". Lei era stata una delle anime protagoniste, insieme al grande Gian Maria Volontè, dell’ala radicale del Piccolo, fautrice di una scossa sessantottotesca alla quarta parete culminata con la fuoriuscita dal Piccolo e l’avventura del Fantoccio lusitano, un duro testo antifascista di Peter Weiss rappresentato nelle Case del Popolo prima che nei teatri tradizionali. Il distacco da Strehler, che pure Marisa ha continuato a stimare per tutta la vita come un Maestro, era non a caso avvenuto anche in seguito all’intuizione che il regista demiurgo avrebbe preferito infine rinchiudersi nel castello delle proprie creazioni, impegnato forse più a costruire il proprio monumento che ad accogliere e interpretare le trasformazioni in atto oltre le mura.
Di Ronconi invece ammira subito il titanismo, il gusto per le imprese "impossibili", la fortissima personalità nell’impostare in chiave antinaturalistica una nuova modalità recitativa degli attori, la straordinaria capacità di penetrare e quindi di rimodellare teatralmente la partitura drammaturgica, e una concezione sperimentale dello spazio e della macchina scenici. Da parte sua Ronconi riconosce in Marisa l’attrice "intellettuale", capace di capire e di restituire nella voce, nei gesti e nel corpo, tutta quella complessità di sfumature, di motivazioni, di elaborazioni drammaturgiche e registiche che costituiscono la dimensione originale, distintiva e "autorale" del suo lavoro. Marisa, infatti, in una conversazione sul bilancio della sua esperienza di "attrice ronconiana" mi diceva:2 "Luca non è tanto un regista, quanto un autore, e quando dico autore non significa che lui prenda dei testi a pretesto e ne faccia una sua opera, al contrario è autore nella misura in cui li legge così bene, attraverso il significante riesce a captare tutto il loro spessore." Ronconi crea così per lei personaggi difficili e indimenticabili come la Clitennestra dell’Orestea, il vecchio dottore di Ignorabimus di Holz, una delle regine del Riccardo III, una delle Tre sorelle di Cechov, o la chiaroveggente in Affabulazione di Pasolini, ma soprattutto reinventa per lei Le Baccanti di Euripide, trasformandolo nel monologo di una spettatrice che rivive le azioni di tutti i principali personaggi.
Proprio quelle Baccanti era lo spettacolo a cui Marisa era più affezionata, la pietra miliare di riferimento della sua ricerca di attrice e anche della sua esperienza di formatrice di tante nuove generazioni di attori. Quella sua peculiare capacità di far vivere ogni parola dall’interno (l’ammirava per questo anche il più spietato censore dei suoi "colleghi", Carmelo Bene), maturata pienamente nella sua lunga frequentazione ronconiana, voleva essere costantemente nutrita, arricchita e rimessa alla prova, e dagli inizi degli anni Novanta Marisa si avventura alla ricerca di nuovi percorsi drammaturgici. Il punto di svolta è il monologo su un testo letterario di Italo Calvino (il suo scrittore preferito): Dall’opaco, presentato a Parigi, al Théâtre de l’Odéon, e poi ripetutamente ripreso, dove lo scrittore cerca di raccontare ciò che appare irraccontabile, cioè l’esperienza visiva del mondo. Questa sfida di Calvino, di "far vedere" con le parole, viene raccolta e rilanciata da Marisa che "fa vedere" con la sua voce. Passando da un’esilarante Madre Ubu di Jarry (in un registro comico grottesco ripreso anche nei Parenti terribili e nella toscanissima Gallina vecchia di Novelli) a un testo della Battaglini con la regia di Tiezzi, ai monologhi di Dacia Maraini, di Marguerite Duras o di Heiner Müller, lei amava ripetere che il teatro doveva ritrovare quella capacità di raccontare la contemporaneità, così come accadeva nel cinema.
Forse il suo unico rammarico di attrice era proprio quello di non aver avuto più opportunità di lavorare per il piccolo schermo, dove pure aveva dato una prova straordinaria nel ronconiano John Gabriel Borkman di Ibsen, e soprattutto per il grande schermo. Le sue esperienze cinematografiche con Cavani, Montaldo, Dario Argento, De Seta fino al recentissimo Gli astronomi di Roncisvalle, dove interpreta un personaggio maschile (come più volte le era capitato a teatro), le avevano lasciato il gusto di un’altra carriera possibile, per la quale sarebbe stata altrettanto grande.
Ricordo in proposito che quando allestimmo lo spettacolo Democrazia (Lia e Rachele) al Teatro di Roma, dove lei recitava i ruoli di due sorelle, opposte e complementari, era previsto dal testo un dialogo finale tra i due personaggi che dopo molti anni si incontrano, una dal vivo e l’altra in video. In questo dialogo di Marisa con la sua immagine (teatralizzato da un’originale soluzione scenica ideata da Ronconi), emergeva non solo un’ardua sfida tra l’attrice e il suo doppio, ma anche il confronto tra due chiavi interpretative diverse – una più passionale e generosa, l’altra più asciutta e tagliente – che diventavano metafora del confronto tra i due linguaggi teatrale e video e anche metafora delle due anime attoriali di Marisa. Franco Quadri la riconosce "magistrale anche sullo schermo in un finale che sposta il duello sul non detto e quindi anche sulla sfida artistica: Marisa Fabbri da Lia e Rachele a Eva contro Eva, in un delirio di applausi."3 Ed è così che io voglio ricordarla.
Dal testo alla scena, con Marisa Il dolore di Marguerite Duras nello spettacolo di Andrea Balzola e Mauro Avogadro di Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi
Il dolore della Duras nell'adattamento teatrale di Andrea Balzola - che si è avvalso della traduzione originale di Monica Rapetti - per la regia di Mauro Avogadro, con Marisa Fabbri unica magistrale interprete, è stato prodotto dal Teatro Stabile di Torino e ha debuttato il 2 marzo 1999 al Teatro Carignano.
Il dolore: diario di un'attesa infinita (Andrea Balzola).
Marguerite Duras entra nella resistenza al nazifascismo nel 1943 insieme a suo marito Robert Antelme e al loro inseparabile amico Dionys Mascolo. Il gruppo di cui fanno parte è il "Movimento Nazionale dei Prigionieri di Guerra e dei Deportati" guidato da François Mitterand con lo pseudonimo di François Morland. Nel giugno del 1944 Robert Antelme e sua sorella Marie-Louise sono arrestati dai tedeschi e deportati a Dachau. Nella primavera del 1945, alla vigilia della resa tedesca, Marguerite non sa se Robert è vivo o morto, aspetta il suo ritorno; al suo fianco c'è Dionys, che diverrà dopo la guerra, il suo secondo marito e padre del suo unico figlio, Jean.
Durante questi mesi Marguerite scrive un diario.
Decenni dopo ritrova questo diario nella sua casa di campagna, non ricorda più di averlo scritto. Lo pubblica quarant'anni dopo, nel 1985. Non può ricordarlo perché quelle pagine coincidono con l'esperienza di un dolore assoluto: il dolore dell'attesa e il dolore del ritorno. Non sono parole, è respiro, battito cardiaco, ansia, soffocamento, rabbia, angoscia, solitudine allo stato puro. Non è letteratura, è vita. Un delirio lucidissimo, perché in queste pagine c'è anche una limpida radiografia di come le ragioni della politica post bellica abbiano prevalso anche in quella circostanza su migliaia di vite umane, di come l'ipocrisia della Destra gaullista abbia gestito la fine della guerra, celebrando se stessa e tacendo sull'Olocausto. Soprattutto appare profetico l'invito della Duras a non liquidare con la Germania nazista tutto il peso di questo atroce crimine di massa ma a farsi carico di quella che è stata innanzitutto, secondo le parole di molti deportati, una sconfitta dell'uomo. Di tutti gli uomini. Il cosiddetto "dopoguerra" ha dimostrato che una pace autentica non è mai giunta e che le radici dei "crimini contro l'umanità" sono sempre fertilissime: gulag, desaparecidos, deportazioni e genocidi etnico-religiosi, lager di bambini per pedofili, strumenti di tortura esposti e venduti legalmente in apposite fiere (vedi le denunce di Amnesty International e altri). Oggi siamo informati di tutto ma digeriamo tutto. Il testo di Marguerite Duras non è digeribile. Lei stessa ha dovuto dimenticarlo per poter continuare a vivere. Lo ha pubblicato alla fine della propria vita, come dono del proprio dolore, non alla memoria ma per un presente più consapevole.
L'adattamento teatrale (Andrea Balzola)
Ho pensato di portare sulla scena italiana Il dolore nella convinzione che questa scrittura così profonda, insieme immediata e visionaria, avesse una forza drammatica tale da far rivivere quel dolore oltre la memoria dell'Olocausto, come coscienza del presente. Perché non c'è ritorno da quel dolore, finché deportazioni, esodi di profughi, campi di concentramento e di sterminio continuerannno a riprodursi. Questo spostamento al presente è originale, perciò ne ho attualizzato in alcuni passaggi, il tempo verbale e ho tolto all'inizio del testo teatrale i riferimenti cronologici e geografici in modo da creare una attesa "assoluta", al presente, lasciando trapelare, poco alla volta, gli indizi della connotazione spazio-temporale. Fin dall'inizio, l'adattamento teatrale è stato concepito per Marisa Fabbri, strordinaria interprete di un teatro inteso come laboratorio artistico della coscienza contemporanea e la redazione finale del testo è il risultato di un work in progress di interazione tra ipotesi drammaturgica e verifica interpretativa.
Con lo stesso spirito Mauro Avogadro regista molto sensibile alla qualità letteraria e ai temi dell'impegno civile nella drammaturgia contemporanea, ha reso possibile l'allestimento dello spettacolo. Il mio lavoro di adattamento è stato ispirato al massimo rispetto del senso del ritmo della scrittura durasiana, perciò mi sono avvalso di una nuova traduzione originale di Monica Rapetti. Mi sono limitato perlopiù a ridurre la lunghezza del racconto e a rimontarne alcune parti, drammatizzandole in funzione della recitazione di una sola interprete. Ho diviso il continuum diaristico del racconto in due parti e cinque quadri: "L'attesa (tre quadri) e "Il ritorno" (due quadri), immaginando una scena molto essenziale e non naturalistica, con un doppio sonoro - affidato alla maestria di Hubert Westkemper - che interagisce come traumatica memoria esterna con il soliloquio dell'attrice.
La tortura della speranza (Anna Maria Monteverdi)
Viene spontaneo l'accostamento di questo testo della Duras con scrittori che di torture, reali o immaginarie, hanno parlato – Villiers de L'Isle d'Adam, l'uruguaiano Mario Benedetti – o registi e interpreti come il Living Theatre che quel dolore lo hanno presentato in scena con una crudeltà che è inscritta, innanzitutto, nell'evidenza della sua esistenza nel mondo. Un dolore che si manifesta come una ferita aperta non ancora rimarginata, attraverso una scrittura estrema, impossibilitata a raccontare di più e oltre quell'essenziale e terribile verità che la follia del mondo ha prodotto. La Duras ha la capacità di rendere contemporaneamente concreto e assoluto quel dolore: la parola, rigorosa e inequivocabile, insostenibile, come la scossa prodotta dall'elettrodo conficcato nei genitali del torturato, dà voce alle urla dei deportati di tutte le guerre, alle vittime di ogni intolleranza, pregiudizio razziale, proiettando il ricordo in una dimensione che scavalca il tempo e la memoria storica dell'Olocausto.
La scrittura della Duras non è solo scarna. È carne viva, è materia cellulare che respira colta nella sua distruzione quotidiana: partecipe in prima persona del dramma, ha acquisito la facoltà di sentire, di ansimare, di soffrire. Passa dalle sue breve frasi, a brandelli come il corpo che arriva dal lager, tutta la gravità di un'attesa che è già dolore. Di quel corpo inerme, privato di tutto, narra le vicende sanguigne, i bisogni fisici, solidarizza con ogni porzione della sua forma scheletrica, con il suo istinto primario di conservazione (la ricerca del cibo, la persistenza della memoria). Il rigore della forma con cui la Duras dà corpo a una vicenda illeggibile è crudeltà nel senso artaudiano del termine: è la vita in ciò che essa ha di irrappresentabile; le parole comunicano quella verità inaudita della progressiva deriva dell'uomo a tollerare l'intollerabile.
Come la scrittura della Duras è parte stessa del corpo violato, così la voce della Fabbri si rivela come un tracciato elettrocardiografico in costante oscillazione: comunica il senso estremo di una lotta senza tregua alla terribilità dell'attesa di una morte o di una vita, attraverso un convulso vomitare di parole, quelle dette, quelle pensate, quelle impresse sul foglio della macchina da scrivere. Tutto accade in una stanza, ridotta ai suoi segni essenziali, come quell'esistenza di cui va a raccontare l'immobilità generata dalla lunga permanenza sul baratro dell'attesa.
Non vediamo materialmente il ritorno dell'uomo dal campo di concentramento ma le parole della Duras – e la voce della Fabbri – sono altrettanto concrete, fisiche e ripugnanti nelle loro descrizioni, come lo è il cadavere – "la forma" – da resuscitare. Nella resa teatrale non rimane più alcuna traccia di un tempo determinato: quel dolore che ci riguarda – metafora di un oggi/sempre – racconta di sofferenze antiche e di tragedie recenti e si traveste ora nell'agonia dell'attesa, nel supplizio della speranza, ora nel terribile atto di accusa di chi lucidamente valuta l'esperienza del dramma personale alla luce di una tragedia globale che chiama in causa l'uomo, o meglio l'assenza di ogni umanità.
Contro l'abitudine all'indifferenza, contro l'ingessamento della memoria, contro la mutilazione del passato, nel racconto della Duras, il ricordo del dolore quale appare nella scrittura scenica di Andrea Balzola, si impone come cicatrice che segna la coscienza collettiva e insieme come valore da conservare, da condividere e comunicare. Nel presente.
(Questi tre testi sono stati pubblicati in A.M.Monteverdi, La maschera volubile, Corazzano-Pisa, Titivillus, 2000; il testo La tortura della speranza è stato pubblicato anche in "Baubo", 2000; )
Baci da New York Le copertine di Art Spiegelman per "The New Yorker" di Redazione ateatro
La Galleria Nuages di Milano ha ospitato dal 4 al 27 giugno l'esposizione Baci da New York, dedicata alle copertine del disegnatore per il "New Yorker".
Con grande disappunto da parte dei suoi pochi ma fedeli lettori, dal 1993 a tutto il 2002, Spiegelman ha fatto parte della redazione di "The New Yorker", la più insigne delle riviste americane, come artista ed editorialista e, nei primi tre anni, ne è stato consulente redazionale. I dieci anni al "The New Yorker" sono stati come dice lo stesso Spiegelman “ il risultato di un esperimento scomodo, sebbene spesso proficuo e sfuggito al mio controllo, un tentativo d’innestare le mie molecole danneggiate nel consolidato DNA della rivista”.
Dalla prima copertina quella del bacio tra un ebreo chassidico e una ragazza di colore, immagine ispirata ai tragici fatti accaduti in quel momento in un quartiere di New York dove la convivenza era quasi impossibile, immagine forte e universale, un vero inno all’integrazione; a quella comica di un Clinton intervistato con tutti i microfoni rivolti alle sue “parti più intime” , a quella di denuncia a poliziotti dal grilletto facile sino a quella, completamente nera, sull’11 settembre le immagini di Spiegelman sono fatte per colpire, per preoccupare. A proposito delle copertina sull’11 settembre Paul Auster (che considera questo il capolavoro di Spiegelman) nella bellissima introduzione scrive “ ... aveva trovato la direzione da prendere. Non nel silenzio, ma nel sublime. Per notare le torri bisogna guardare l’immagine con molta attenzione. Sono là e non ci sono, cancellate eppure ancora presenti, ombre che pulsano nell’oblio, nella memoria, nella spettrale emanazione di un aldilà tormentato. La prima volta che vidi l’immagine fu come se Spiegelman mi avesse appoggiato lo stetoscopio sul petto e mi avesse registrato metodicamente ogni battito del cuore che aveva scosso il mio corpo dopo l’undici settembre. Poi gli occhi mi si riempirono di lacrime. Lacrime per i morti. Lacrime per i vivi. Lacrime per gli abominii che ci infliggiamo reciprocamente, per la crudeltà e l’efferatezza di tutta la schifosa razza umana. E poi ho pensato: “dobbiamo amarci o morire”. (Paul Auster, dalla prefazione al volume Baci da New York, che accompagna la mostra).
(insomma, un disegnatore non c'entra forse molto con ateatro, ma Spiegelman, l'autore di Maus, è un genio....)
La notte dei poeti Il festival di Nora 2003 di Anna Maria Monteverdi
FESTIVAL "LA NOTTE DEI POETI"
Nora (Cagliari) 11 luglio-10 agosto 2003.
Giovedì 19 giugno al Teatro Alfieri di Cagliari, attuale sede del Teatro di Sardegna, è stato presentato il calendario della ventunesima edizione del Festival estivo di prosa e musica "La notte dei poeti" che si tiene ogni anno da luglio alla prima decade di agosto nel Teatro romano di Nora che si affaccia sul mare, nella splendida cornice delle rovine dell'antica città prima fenicia poi romana. Un evento che richiama cultori del teatro classico e molti turisti in cerca di attrazioni culturali. E' stato annunciato da Antonio Cabiddu presidente del CeDac (Centro diffusione attività culturali) che gestisce il Circuito Teatrale Regionale Sardo (curando il cartellone di 17 località per un totale di 200 recite annuali) e organizza il Festival di Nora. Cabiddu è inoltre presidente del Teatro di Sardegna, organismo artistico nato nel 1973 e che da un decennio ha anche intrecciato un forte legame con il prestigioso Istituto Internazionale del Teatro del Mediterraneo diretto dallo spagnolo José Monléon.
Nel ventennale la direzione del Festival e il Comune di Pula aveva stampato un bel catalogo fotografico in cui troviamo immortalati gli ospiti che si sono avvicendati nel Teatro di Nora proponendo spettacoli, recital, monologhi, canzoni e poesie necessariamente riadattati al contesto e all'atmosfera di Nora: Giorgio Albertazzi, Franca Nuti, Moni Ovadia, Giancarlo Dettori, Gabriele Vacis e Alessandro Baricco, Lina Sastri, Lella Costa, Anna Schygulla, Juliette Greco, Michele Placido, Valeria Moriconi, Raf Vallone e Luca Coppola all'esordio con la Yourcenar (e del giovane artista tragicamente scomparso Franco Quadri lascia nel catalogo un commosso ricordo).Tra gli spettacoli Dafne e Penelope di Paolo Puppa interpretati da Anna Bonaiuto e Medea material di Müller per la regia di Theodoros Terzopoulos con l'attrice russa Alla Demidova; il regista greco ha anche diretto gli attori del Teatro di Sardegna in Paska Devaddis dal testo dell'autore sardo Michelangelo Pira. Personalmente ricordo nell'estate del 1998 la straordinaria voce e interpretazione di Beppe Servillo e la musica degli Avion Travel.
Allineandosi alla fortunata serie di produzione di spettacoli internazionali che vedono lavorare insieme la compagnia del Teatro di Sardegna con artisti stranieri, quest'anno il Festival ha puntato su Lisistrata da Aristofane firmata da Robert Rapoja (11-12 luglio). Cabidda ha spiegato come questa Lisistrata sia nata dall'incontro con il giovane ma già affermato regista croato in occasione di una missione a Sarajevo per portare solidarietà alla popolazione civile in tempo di guerra e continuata successivamente con reciproci scambi di ospitalità artistica, sotto l'egida dell'Istituto Internazionale del Teatro del Mediterraneo e il Festival Internazionale del Teatro giovane. Così Rapoja ci racconta, con l'ausilio di un traduttore, come ha pensato di allestire questa Lisistrata per il Teatro di Nora:
"Credo nel teatro moderno che cancella qualsiasi confine tra cantante, attore e danzatore e penso che qualsiasi interprete debba avere queste qualità. Il mio approccio al teatro è conosciuto in Croazia e negli altri Paesi dove ho lavorato, ma per approfondire questo approccio ho fondato il Festival Internazionale del Teatro Giovane di carattere educativo, dove arrivano i più importanti maestri e pedagoghi internazionali, dove ci si prepara, si scambiano informazioni, ci si allena in diverse tecniche di recitazione, danza, movimento, stile. Ci siamo avvicinati così alla Lisistrata. Credo che il teatro greco sottintendesse un collegamento tra ritmo, voce e movimento ed è quello che cercheremo di realizzare. Abbiamo iniziato a lavorare prima dello scoppio della guerra in Iraq (...)C'erano molti movimenti pacifisti e i media hanno ignorato tutto questo. Se non ci fossero stati questi movimenti pacifisti la situazione sarebbe stata più drammatica. Lo scopo della cultura è di avvisare sempre di queste situazioni estreme che mettono in pericolo la comunità. Questo c'è in Aristofane. Noi seguiamo il ritmo della commedia perché la realtà che ci circonda è troppo spesso troppo tragica".
Lo spettacolo sarà presentato quest'estate anche al Festival di Todi e alla Versiliana.
Il programma de "La notte dei poeti" prosegue il 18 e 19 luglio con il concerto di Ute Lemper (Voyage), un omaggio del regista Marco Parodi alla scrittrice Marguerite Yourcenar in occasione del centenario della nascita (si tratta di due monologhi Maria Maddalena o della salvezza e Alexis o il trattato della lotta vana interpretati rispettivamente da Benedetta Buccellato e Emilio Bonucci. 25-26 luglio). Ancora, Elisabetta Pozzi interpreta Fedra del poeta greco Yannis Ritsos con musiche dal vivo di Daniele D'Angelo (30-31 luglio). Il 2 agosto Omero Antonutti, già attore di molti film dei fratelli Taviani, interpreta il Breviario del Mediterraneo di Predrac Matveyevic (regia Maurizio Panici). Leo Gullotta e l'ensemble di musica siciliana antica Al Qantarah propone Lapilli. Voci e suoni dall'Isola, percorso poetico-musicale sulla Sicilia che parte da Federico II e Cielo D'Alcamo fino a Tomasi di Lampedusa e Andrea Camilleri (5-6 agosto).
Spicca senz'altro tra gli ospiti di questa edizione del Festival, il nome di Antonio Latella che a Nora proporrà l'8 e il 9 agosto, con un cast di sole donne La dodicesima notte, spettacolo selezionato anche al Festival di Avignone. Si tratta della nota più "trasgressiva" di un Festival ancorato decisamente alla tradizione della prosa e alla formula del recital poetico di grandi nomi del teatro ufficiale. Paolo Rossi infine, animerà nella serata finale (10 agosto) la piazza di Pula coinvolgendo gli abitanti con trascinanti happening cercando di soddisfare le richieste degli amministratori comunali di una maggior partecipazione della popolazione residente all'evento festivaliero tanto prestigioso quanto troppo spesso estraneo al "colore locale".
In occasione della conferenza abbiamo scambiato qualche parola con Antonio Cabiddu che ci ha raccontato in breve, la storia del Teatro di Sardegna. Cooperativa dal 1973, composta da 9 attori-soci, il Teatro di Sardegna ha da pochi giorni ottenuto il riconoscimento ministeriale di "Teatro stabile"; è passato da una fase amatoriale (nasce come teatro Universitario) alla svolta professionista nel 1980. Grande attenzione è rivolta alla storia e alla cultura sarda (tra gli altri ricordiamo il recente Canto dell'isola bambina). Si è affidato alla direzione artistica di Marco Parodi, Beppe Novello e attualmente Paolo Bonacelli (attore di punta dal 1991). Oltre al nucleo di soci sono stati scritturati attori di fama nazionale (come Raf Vallone) per i diversi allestimenti scenici. La prossima stagione prevede una coproduzione con il Teatro di Bolzano per La pulce nell'orecchio di Feydeau con Patrizia Milani, Carlo Simoni e Paolo Bonacelli (sarà in tournée dal 20 ottobre e arriverà anche a Milano, al Teatro San Babila). La collaborazione con il regista greco Terzopoulos ha dato vita a una commistione tra poetica classica greca e storia sarda con Paska Devaddis, storia di una faida barbaricina narrata secondo le modalità tipiche della tragedia classica. Ricordiamo anche l'attività legata all'Istituto Internazionale del Teatro del Mediterraneo con convegni e incontri come "Teatro e teatralità popolare del Mediterraneo", e le "Giornate lorchiane" che sfociarono nello spettacolo La Barraca (poi presentato a Granada e a Madrid).
A proposito dei Premi Olimpici per il Teatro Quattro mail di Oliviero Ponte di Pino e Maurizio Giammusso
Sono in corso le votazioni per i Premi Olimpici del Teatro, indetti dall’ETI e dal Teatro Stabile del Veneto, in accordo con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che verranno assegnati il prossimo 27 settembre in una grande Festa del Teatro, sul palcoscenico del Teatro Olimpico di Vicenza.
Il regolamento (e altre info) sulla faccenda, li trovate naturalmente nel forum Nuovo Teatro Vecchie Istituzioni.
Qui di seguito la corrispondenza tra uno dei 200 votanti del Premio e il Segretario Generale della manifestazione.
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Date: Wed, 18 Jun 2003 06:29:56 +0200
From: Oliviero Ponte di Pino
To: premi.olimpici@enteteatrale.it
Subject: PREMI OLIMPICI
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Gentile Maurizio Giammusso,
il 9 giugno scorso ho ricevuto la sua cortese missiva in cui mi chiedeva di prendere parte alla votazione dei Premi Olimpici del Teatro e mi invitava, quello stesso giorno, alla serata in cui si sarebbe conclusa la prima fase del premio, quella della scelta dei tre candidati nelle varie categorie.
Confesso di essere rimasto sorpreso nel vedere che della giuria selezionatrice facevano parte, tra gli altri, il direttore del Teatro di Roma, il presidente dello Stabile del Veneto, il direttore del Teatro di Genova e alcuni tra i maggiori impresari privati. "Non potranno votare i loro spettacoli", mi sono detto. "Una gran parte del teatro italiano si è autoesclusa da questo premio". Più malignamente, mi è anche venuto da pensare che lo sanno anche loro di fare spettacoli brutti assai, che nessuno si sognerebbe di premiare, più o meno olimpicamente...
In ogni caso, forte del senso critico (e autocritico) dei giurati, ho atteso fiducioso le nomination. Ho subito misurato la mia ingenuità, nella patria del conflitto d'interessi. Ma questo è un dettaglio.
Sono rimasto allibito quando ho visto la terna della categoria «Miglior spettacolo d'innovazione». Non certo per i tre registi candidati, che conosco, apprezzo e sostengo da molti anni. Quello che mi risulta assolutamente incomprensibile è come si possano inserire in questa categoria artisti come Federico Tiezzi e Pippo Delbono che lavorano ormai da decenni, con importanti successi anche all'estero. Non capisco perché, per esempio, Sabato, domenica e lunedì con la regia di Toni Servillo (che è più o meno loro coetaneo) debba di fatto essere considerato «non innovativo» (o regressivo?) rispetto all'Ambleto. La scelta di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi di lavorare su uno dei più importanti drammaturghi italiani copre il colpevole vuoto su questo fronte dei teatri stabili. Per certi aspetti Quel che sapeva Maisie (tra parentesi, uno spettacolo che ha debuttato la scorsa stagione) è un lavoro decisamente «innovativo» sul piano del lavoro sul personaggio: la regia di Antonio Latella, certo interessante, mi parrebbe assai meno «innovativa» di quella di Luca Ronconi (anche se almeno, rispetto a Tiezzi e Delbono, Latella ha dalla sua l'anagrafe), mentre sono certo più innovativi i suoi Trionfi testoriani, dal punto di vista del linguaggio teatrale. Soprattutto, Pippo Delbono e Federico Tiezzi hanno da tempo affinato gli strumenti del loro arsenale drammaturgico e registico: inserirli oggi in questa categoria mi sembra umiliare il loro percorso artistico.
Fermo restando che stimo e apprezzo (quasi) tutti gli artisti nominati ai Premi Olimpici, se queste sono le antenne che dovrebbero non dico cogliere, ma almeno registrare l'«innovazione», mi paiono del tutto inadeguate rispetto a quello che accade oggi sulle nostre scene.
I miei potrebbero essere considerati giudizi di valore, criticamente opinabili e discutibili, se presi singolarmente, uno per uno. Tuttavia mi sembra di dedurre, da queste scelte, una visione del teatro italiano che non condivido, che non posso condividere e che combatto da anni. Questa visione è fondata sull'equivoco che esista un teatro ufficiale, tradizionale, degno dei velluti e degli ori, e un teatro "altro" (di ricerca, di sperimentazione, d'avanguardia, o se si preferisce un termine più neutro di «innovazione»), che deve starsene nelle sue cantine. Il primo destinato al grande pubblico e ai grandi circuiti, il secondo alle élite e alle rassegne di fine stagione (aggiungo che, venendo dall'ETI, questa è una considerazione assai inquietante), con i suoi avanguardisti più o meno attempati. Salvo qualche (temporanea) eccezione, quando finalmente uno di questi fanatici si rassegna a fare uno spettacolo «normale», di quelli che si possono mostrare agli abbonati...
E' una visione in base alla quale, dopo decenni di attività - e dopo numerosi riconoscimenti di critica e di pubblico - un certo teatro viene pervicacemente tenuto nel ghetto, e nuovamente marginalizzato non appena gli viene affidato qualche spazio e responsabilità: la vicenda di Mario Martone al Teatro di Roma e la degradante parabola dell'India restano esemplari.
Mi si potrà chiedere: "Perché invece di rompere le scatole non voti Antonio Latella, che ti piace tanto ed è pure giovane?". Semplicemente perché con queste nomination i Premi Olimpici ratificano una situazione contro cui combatto (invano) da anni: uno stallo che ha portato il nostro teatro a una progressiva asfissia e a una drammatica involuzione creativa. Mi ritengo dunque costretto a declinare l'invito a partecipare a questa votazione, ringraziando ancora per avermi inserito nelle liste elettorali.
Cordialmente
Oliviero Ponte di Pino
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From: premi.olimpici
To: olivieropdp@libero.it
Sent: Wednesday, June 18, 2003 4:18 PM
Subject: Re: PREMI OLIMPICI
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Gentile Oliviero Ponte di Pino,
La ringrazio della bella lettera e delle articolate ragioni critiche con le quale declina l'invito a partecipare alla votazione dei Premi Olimpici.
Proprio dal Suo scritto mi pare di cogliere delle ragioni culturalmente serie sull'organizzazione dei Premi e sul Teatro Italiano in generale, che in larga misura condivido io stesso. Per queste ragioni mi affretto a risponderLe, anche se brevemente, augurandomi di avere presto l'occasione di conoscerLa e parlarLe a voce.
Per chiarezza procedo per punti:
1 - Nel Paese del "conflitto di interesse" la presenza di tanti consolidati interessi artistici e produttivi nella giuria ristretta può giustamente sollevare sospetti. Ma lo spirito è esattamente il contrario: rendendo espliciti, visibili e addirittura portati su un palcoscenico davanti al pubblico di addetti ai lavori quei potenziali "conflitti di interesse" assumono tutt'altro significato; il significato di un insieme di competenze e responsabilità, che coralmente - e ripeto davanti ad un pubblico - vengono messe a disposizione dei Premi; Premi che - ci perdoni l'ambizione - puntano a rappresentare il teatro italiano nel suo insieme e nelle sue verità.
2 - Tale meccanismo è usato in quasi tutti i grandi premi. La stessa Accademy americana è formata - come sa bene - da alcune centinaia di persone che hanno diretti interessi nella produzione cinematografica. L'unica alternativa possibile credo sia o quella di formare una giuria tutta di critici (ma sono davvero al di sopra di qualsiasi conflitto di interesse?) o di incompetenti.
3 - Lei è rimasto "allibito" leggendo le terne finaliste, anche se mi dice di stimare ed apprezzare quasi tutti gli artisti nominati: perché allora tanta contrarietà? Forse perché il Teatro italiano ha una geografia diversa da quella che Lei preferirebbe? Se è così non so darLe torto: lavoro da 30 nel teatro, per 17 anni ho fatto il critico del "Corriere della Sera" a Roma, ho scritto sei libri, tenuto dozzine di conferenze e mostre. E quasi mai mi sono trovato d'accordo con la geografia del Teatro italiano.
A questo punto non voglio approfittare troppo della Sua attenzione, se vorrà dare un po’ di credito alle mie intenzione e di chi organizza Gli Olimpici ne sarò felice. Altrimenti spero che i fatti potranno nel futuro farLe cambiare opinione.
Con stima
Il Segretario Generale
Maurizio Giammusso
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Date: Fry, 20 Jun 2003 07:12:26 +0200
From: Oliviero Ponte di Pino
To: premi.olimpici@enteteatrale.it
Subject: R: Re: PREMI OLIMPICI
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Gentile Giammusso,
la ringrazio della sua cortese risposta.
Ma a mio modesto avviso il problema non è che il teatro italiano è diverso da quello che lei o io vorremmo.
Il problema è che la geografia del teatro italiano, così come emerge dalle scelte della giuria dei Premi Olimpici, è diversa da quello che il teatro italiano effettivamente è.
Il problema è che non capisco la logica culturale che sottende quelle terne.
Non capisco per esempio che cosa la giuria intenda per "innovazione".
Il problema è che un premio indetto dall'ETI - un ente che avrebbe, tra le altre sue funzioni, il compito di cogliere e sostenere le novità che compaiono sulle nostre scene - non "vede" quello che sta accadendo (a differenza di molti enti e istituzioni straniere, che coproducono ormai molti giovani gruppi italiani, con maggiore curiosità e generosità dei teatri italiani).
Il problema è che scelte di questo genere rendono il teatro italiano - che già se la passa piuttosto male - sempre meno interessante, sempre più diverso da quello che vorremmo che fosse.
Ringraziandola ancora per l'attenzione, cordialmente
Oliviero Ponte di Pino
PS mi sono permesso di pubblicare la mail che le ho mandato nel sito "ateatro", dove ai Premi Olimpici è dedicato ampio spazio. Se lei me lo concede, pubblicherei sul sito anche il nostro scambio.
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Date: Fry, 20 Jun 2003 20:43:13
From: Maurizio Giammusso
To: Oliviero Ponte di Pino
Subject: PREMI OLIMPICI
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Gentile Ponte di Pino,
le sue righe sono sempre tanto stimolanti, da smuovere la mia pigrizia a rispondere.
Le questioni che pone sono serie e bene argomentate. Provo a replicare telegraficamente, ma so bene che certe cose non si risolvono per telegrammi:
1) Può darsi che le scelte della giuria non rappresentino la geografia del Teatro italiano, quale essa è. Tuttavia un qualche credito a quei quattordici signori, fra i quali quattro nostri colleghi, io glielo darei. Certo può apparire sottovalutata un'area più innovativa, sperimentale o di nuovo teatro (lo chiami come vuole); certo la categoria del "miglior spettacolo di innovazione" non può bastare a chi come Lei l'apprezza in modo particolare. Proprio per questo una delle persone che contattai per prima per la giuria dei 14 fu un celebre e potente nostro collega, al quale offrì anche di indicarmi una persona di suo gradimento "per non sentirsi troppo solo" insieme agli altri. Lui accettò ed accettò anche l'altra persona. Era l'inizio di ottobre. Due mesi dopo, proprio la sera prima di comunicare alla stampa la composizione della giuria, il nostro collega mi telefonò e si dichiarò indisponibile. Dopo dieci minuti fece lo stesso l'altra persona. Peccato, con loro due in giuria, forse le terne sarebbero state più vicine alla sua sensibilità.
2) Lei dice che "un premio indetto dall'ETI - un ente che avrebbe, tra le altre sue funzioni, il compito di cogliere e sostenere le novità che compaiono sulle nostre scene - non "vede" quello che sta accadendo". Ebbene io non sono l'Eti e giro al suo Presidente la sua osservazione. Quanto alla presunta "cecità" del Premio, le rispondo con un altro piccolo retroscena curioso, perché sono sicuro che apprezza il "dietro le quinte". Fra i 258 artisti e professionisti invitati a partecipare alla giuria, solo sette o otto (fra i quali Lei) hanno declinato l'invito. Fra questi - e in modo piuttosto sdegnato, chissà perché - anche una giovane autrice, che forse non si fidava di una giuria così borbonica. Ignoro cosa avrà pensato la stessa autrice, quando ha avuto la notizia che il suo giovane nome compare ora nella terna dei migliori autori, insieme a Magris e Salemme. Mi chiedo se - con lo stesso sdegno - rifiuterà eventualmente anche il premio, caso mai vincesse nella votazione-referendum.
3) Infine il suo ultimo affondo: "scelte di questo genere rendono il teatro italiano - che già se la passa piuttosto male - sempre meno interessante, sempre più diverso da quello che vorremmo che fosse." Caro Ponte di Pino, l'impegno è proprio di soccorrere il Teatro che se la passa male: magari anche attraverso questa nostra piccola polemica. Non credo invece che possa nuocere a nessuno, ma proprio a nessuno applaudire nella stessa serata tanti artisti, così diversi, compreso qualcuno che non mi saluta e che non andrei mai a vedere.
Con stima.
P.S. Davvero vuol pubblicare le nostre e-mail? Io non ho nulla in contrario, ma spieghi bene che non erano affatto scritte (le mie almeno) per essere pubblicate.
Per lo spettacolo contemporaneo Lettera aperta a politici, operatori, artisti di AA.VV.
Premessa
I sottoscritti, operatori, programmatori di avvenimenti e di festival legati alle arti performative, si sono riuniti a Prato, nell’ambito del Festival Contemporanea 03 – Lo spettacolo e le arti delle nuove generazioni, realizzato dal Teatro Metastasio – Stabile della Toscana, in un gruppo di lavoro che ha discusso sul tema L’ECCEZIONE E LA REGOLA: GLI SPAZI E LA PROGRAMMAZIONE DELLO SPETTACOLO CONTEMPORANEO NEL SISTEMA TEATRALE ITALIANO FRA FESTIVAL E STAGIONI.
Premettiamo che in questa sede non rappresentiamo altro che le libere voci di persone che hanno a cuore l’avvenire della nostra scena, minacciata da superficialità, da mancanza di regole certe, da concezioni che vogliono la cultura direttamente produttrice di consenso, strettamente legata alla politica e alle sue alternanze, sempre più appiattita sulle modalità del consumo televisivo.
Lo spettacolo "contemporaneo"
L’attività culturale, crediamo, dovrebbe essere invece sguardo sul patrimonio della tradizione viva, sui modi per leggere il presente e apertura di prospettive per il futuro.
La nostra discussione si è incentrata, in particolare, su un nodo irrisolto del nostro disastrato sistema dello spettacolo, e in particolare delle arti dal vivo (rifiutiamo l’incasellamento in recinti come quelli del teatro, della musica, della danza eccetera, che non riescono più a dare conto di una situazione in grande movimento). Il nostro paese per lo più difende il repertorio dello spettacolo del passato, anche se non ha favorito il consolidamento di istituzioni realmente attrezzate neppure in questa direzione. Sicuramente, al contrario, investe molto poco sulla produzione, l’ospitalità, la circuitazione, la promozione dello spettacolo contemporaneo. Di fronte a una ricchezza creativa notevole, rappresentata ormai da varie generazioni di artisti, mancano spazi, finanziamenti, sostegni significativi da parte dei teatri e degli enti teatrali pubblici a questa importante parte della nostra vita culturale.
A dispetto di formulazioni vaghe che - sia a livello di circolari ministeriali, che di leggi regionali, di indirizzi di lavoro dell’Ente Teatrale Italiano, di alcuni circuiti e teatri - parlano di particolare sostegno a iniziative "multidisciplinari", volte verso "l’innovazione", attente agli scambi con "realtà internazionali", molto poco da noi si è fatto e si fa per lo spettacolo contemporaneo, se non come eccezione a una regola che vede la maggior parte degli investimenti convogliati altrove (e per fortuna ci sono anche le eccezioni fra i grandi teatri pubblici, in un quadro però per lo più desolato). Il teatro rimane un’arte del diciannovesimo-ventesimo secolo, mentre poco si mette in atto per sostenere i tentativi di innovare linguaggi, modi di guardare, analizzare, immaginare la realtà, di inventare spazi all’altezza dei tempi per affrontare, con rinnovate forme di relazione, le domande che le arti e la vita pongono.
Per la cultura contemporanea, e in particolare per lo spettacolo contemporaneo, non c’è stata attenzione a canali privilegiati di incremento che favorissero produzioni, progetti, ricerche, momenti di formazione, di residenze, sperimentazioni ai confini tra i linguaggi, sostegno a quegli organismi che spesso in modo del tutto privato (compagnie, network, centri indipendenti, teatri) hanno sviluppato una competenza notevole in questo settore.
Il confronto europeo
Tutto questo pone l’Italia in una condizione arretrata nel panorama europeo, dove strutture industriali ed altri spazi tipologicamente anomali dal punto di vista funzionale sono stati da tempo acquisiti dalle amministrazioni pubbliche, per trasformarli in centri multiculturali o specificamente teatrali, dotati di personale organizzativo qualificato a sviluppare impegnativi progetti artistici e culturali, diventando centri di sperimentazione e riflessione importantissimi, in territori che ritengono che parte della nuova ricchezza sarà creata dall’innovazione culturale. I nomi riempirebbero numerose pagine: si pensi agli oltre venti teatri dedicati allo spettacolo contemporaneo a Bruxelles, a centri quali la Villette, il Beaubourg, il Palais de Tokio, per citare solo i più famosi di Parigi, eccetera, mentre Roma e Milano ancora non hanno uno spazio stabile del genere.
Per un nuovo sistema dello spettacolo
Ma la discussione non ha solo avanzato rilievi critici, che pure sono determinanti, né ha esclusivamente analizzato situazioni di "spreco della memoria", come ha detto il regista Massimo Castri, parlando dell’incomunicabilità fra generazioni artistiche costrette, ogni volta, a disperdere il loro lavoro e a disperdersi in un nomadismo senza memoria. Il dibattito non ha solo analizzato vari assurdi, come quello del nuovo Centro per la sperimentazione teatrale della Sicilia, installato a Catania con un finanziamento europeo e affidato a Pippo Baudo (!) come "consulente in fase di progettazione", senza curare curriculum specifici, competenze, conoscenze peraltro ben rappresentate sullo stesso territorio siciliano.
Dalle due giornate pratesi siamo usciti con la consapevolezza che bisogna iniziare a creare le condizioni per superare questa arretratezza, convogliando gli sforzi di tutte le forze di buona volontà; che è necessario provare a costruire le condizioni perché le esperienze diffuse sul territorio e quelle che possono nascere vengano valutate nel giusto modo, valorizzate, messe nella condizione di lavorare e svilupparsi, di incontrare la richiesta di un pubblico sempre più ampio, curioso, attento.
Chiediamo a tal proposito ai rappresentanti di forze politiche impegnate a livello nazionale e locale sui temi della cultura, a intellettuali e artisti, ad altri operatori del settore di riflettere su questi temi, sul ruolo strategico dello spettacolo contemporaneo, anche uscendo dai canali consolidati (organizzativi, legislativi, di finanziamento).
Proponiamo una serie di incontri, il primo dei quali da tenersi durante il festival Santarcangelo dei Teatri, la mattina del giorno 12 luglio (a partire dalle ore 10) alla Scuola Elementare in piazza Ganganelli.
Per adesioni e informazioni ci si può rivolgere a Silvia Bottiroli, festival Santarcangelo dei Teatri, 0541.620876, silviabottiroli@libero.it.
Un dialogo aperto tra Italia e Francia per teatro & danza A proposito delle Giornate Professionali italo-francesi di AA.VV.
Al termine delle ultime Giornate Professionali italo-francesi (nate nel 1997 dalla volontà reciproca di Italia e Francia, di promuovere i rapporti di collaborazione culturale fra i due paesi, con particolare riferimento al teatro e alla danza, e gestite dall’ETI per l’Italia e da ONDA per la Francia) un gruppo di operatori, al termine di una riflessione sul progetto, hanno stilato il documento che pubblichiamo qui di seguito. A tutt’oggi, malgrado le numerose sollecitazioni, dall’ETI non è arrivata alcuna risposta, mentre sul versante francese ONDA continua a dichiararsi disponibili a far crescere l’iniziativa.
Riflettere sul senso, oggi, delle Giornate non può prescindere dal ribadire il ruolo che esse hanno avuto nel promuovere ed affermare un sistema di relazioni e scambi tra i due Paesi durevole nel tempo.
L’esperienza delle Giornate a permesso di stabilire una metodologia di lavoro che dovrebbe diventare prassi comune nelle relazioni di scambio culturale bilaterale e multilaterale tra i Paesi.
Tale metodologia si basa sulla conoscenza approfondita delle realtà culturali e sociali dei singoli territori, delle loro differenze legislative, economiche e fiscali, sulla diversità dei dispositivi e dei sistemi delle strutture teatrali pubbliche e private.
Richiede un dialogo costante e personale degli operatori e degli artisti.
In definitiva si basa sull’affermazione che il confronto di esperienze artistiche e culturali tra gli operatori, essenziale alla vita artistica e culturale dei singoli paesi, e’ un momento strategico di crescita che non può essere relegato a appuntamenti occasionali all’interno di manifestazioni ufficiali.
Le Giornate hanno favorito, attraverso la moltiplicazione dei canali di scambi, la conoscenza, delle opere, degli spazi, degli artisti, delle compagnie, delle istituzioni perseguendo come obiettivi fondamentali il sostegno alle giovani generazioni artistiche, la promozione delle esperienze artistiche più significative, l’ampliamento delle aree di fruizione degli spettacoli nei due Paesi.
In sostanza, si può affermare che le Giornate hanno permesso un grande salto di qualità che ha creato nuove esigenze ed evidenziato punti critici, che ora devono essere affrontati anche con nuovi strumenti.
Si individua la necessità di adottare una molteplicità di azioni, che possano creare nuovi " circoli virtuosi " nella collaborazione italo-francese, privilegiando campi d’intervento strategici quali la sperimentazione di nuovi linguaggi artistici, la collaborazione fra diversi ambiti disciplinari, la ricerca su molteplici aspetti della contemporaneità, proseguendo sempre di piu’ nell’opera svolta di sostegno a nuove generazioni di artisti, promozione di opere significative, lavoro di allargamento del pubblico.
I punti critici da affrontare riguardano la sostanziale disparità fra i due sistemi teatrali. A forze artistiche e progettuali che si confrontano con continuità non corrispondono uguali opportunità di carattere organizzativo e finanziario, soprattutto nella diffusione dei progetti e delle produzioni.
Le stesse Giornate hanno la necessità di adeguare i loro contenuti alla realtà che hanno contribuito a creare, rinnovando le strutture di confronto.
Le azioni che si intendono strategiche sono :
- stimolare e sostenere le attività di coproduzione e di progettualità comuni tra artisti e teatri dei due Paesi.
- sostenere e incentivare la distribuzione delle produzioni dei due Paesi.
- favorire e sostenere la circolazione di artisti e operatori nei due Paesi.
- sostenere e incentivare i progetti di formazione.
Il riconoscimento della strategicità di queste azioni si traduce nella costituzione di un fondo nei due paesi specificamente dedicato, gestito dall’ETI e dall’ONDA - di cui si ribadisce il ruolo centrale nella cooperazione franco-italiana - che disponga di risorse sufficienti ad equilibrare complessivamente i rapporti dal punto di vista finanziario e quindi delle opportunità artistiche.
Obiettivo fondamentale delle azioni sostenute dal fondo è favorire il lavoro degli artisti, la creazione e il confronto tra metodi e pratiche nel teatro e nella danza.
Si propone come pratica esemplare che, definite le regole, il fondo venga gestito singolarmente dall’ETI e dall’ONDA, in relazione con un collegio comune di operatori italiani e francesi.
La costituzione di questo fondo si pone nella continuità con il ricco percorso compiuto finora dalle Giornate e costituisce la condizione indispensabile per il loro mantenimento e sviluppo.
L’assenza della costituzione di questo fondo adeguato nella sua commisurazione economica renderebbe inutile la prosecuzione delle Giornate, per le quali si intende invece un ruolo strategico.
Da una parte, le Giornate affermano il ruolo dove operatori e istituzioni si confrontano formalmente sulle regole comuni per l’utilizzo dei fondi e dove annualmente si verificano i risultati ottenuti e si ipotizzano gli sviluppi futuri.
Dall’altra, uscendo dalla struttura di vetrina, le Giornate possono ritrovare una loro funzionalità collegandosi annualmente a una o più iniziative che sviluppano una progettualità indirizzata alla conoscenza e al confronto artistico tra l’Italia e la Francia.
E’ necessario dare alle Giornate un nuovo impulso e adattarne lo spirito alle nuove realtà e alle mutate attese degli artisti e degli operatori già a partire dall’edizione 2003.
Le Giornate corrono il rischio di ridursi a una vetrina inevitabilmente parziale e apparentemente casuale di spettacoli : occorre al contrario trasformarle in occasioni di lavoro concrete legate a contesti artistici incisivi e coerenti, per esempio inserendole all’interno di festival, stagioni o percorsi progettuali votati ai rapporti Italia-Francia.
Si propone di moltiplicare gli appuntamenti di incontro fra gli artisti e gli operatori sia in Italia che in Francia ; di dare maggiore spazio agli scambi dei diversi progetti di artisti ; di lavorare alla realizzazione di una sezione di ricerca e laboratorio : ateliers, stage, presentazione di studi e maquettes….avendo come obiettivo principale quello di suscitare un reale investimento da parte dei produttori e degli operatori.
Le Giornate devono diventare un osservatorio permanente per una migliore informazione, circolazione dei progetti, e un migliore incontro dell’offerta e della domanda.
Le Giornate devono diventare il luogo di proposte da parte degli operatori atte a migliorare i dispositivi istituzionali per uno sviluppo solido e durevole degli scambi. Un luogo dove operatori e istituzioni si confrontano formalmente sulle regole comuni per l’utilizzo dei fondi e dove annualmente si verificano i risultati ottenuti e si ipotizzano gli sviluppi futuri.
Tra le proposte si ipotizza l’allargamento delle Giornate ai paesi dell’Europa del Sud. Una tavola rotonda su questo tema potrebbe essere organizzata a Tolosa nel marzo 2004 in occasione delle Giornate franco-spagnole (Mira! 2004).
Per quanto riguarda l’edizione 2003, si propone un primo appuntamento all’interno del Festival delle Colline Torinesi dedicato a progetti produttivi, e un secondo focalizzato a una riflessione sulla danza - creazione e strutture organizzative - all’interno di Torino Danza.
Si propone anche contestualmente l’avvio di momenti di incontro tra operatori in situazioni concrete di lavoro quali festival, stagioni progetti particolarmente significativi e lo studio di sistemi di acquisizione e diffusione di dati sulle realtà artistiche, organizzative e di formazione dei due Paesi.
Paesaggio con rovine Per Santarcangelo dei Teatri 2003 di Silvio Castiglioni e Massimo Marino
Sul manifesto di Santarcangelo dei Teatri 2003 campeggia un teatro squarciato da un bombardamento. E’ il Teatro alla Scala di Milano, poi ricostruito, come ben sappiamo. Altra immagine: un uomo vestito di tutto punto fra le macerie. Ancora un teatro, ma stavolta è irriconoscibile. Macerie, appunto. L’uomo, miracolosamente risparmiato - magari un attore, chissà? - sembra essere stato colto alla sprovvista dal crollo che forse ha sepolto vite. Si volta indietro, quasi a domandarsi cosa sia successo… E così via, con le mille altre storie che la memoria suggerisce a ognuno.
Sono immagini scolpite nella mente di chi ha vissuto la guerra come bersaglio e non come spettatore di un videogioco. Ma a tutti, credo, esse raccontano con immediatezza dell’offesa che la guerra reca alla Polis e della necessità di adoperarsi insieme alla ricostruzione. Veniamo da una guerra di conquista che ha ucciso esseri umani e distrutto città. Una guerra che ha ferito fortemente le coscienze di noi che viviamo lontano dai luoghi del conflitto, che a quella guerra abbiamo cercato di opporci forse troppo debolmente. Abbiamo provato una sensazione di impotenza. La proviamo tutti i giorni, perché il nostro piccolo mondo, apparentemente pacifico e pieno di benessere, in realtà assomiglia sempre di più a una città bombardata. Siamo ridotti a consumatori, viviamo in funzione delle merci e della loro valorizzazione, sudditi acquiescenti accecati con spettacoli mirabolanti. Anche il felice (?) recinto dell’arte è minacciato ogni giorno, abbandonato a se stesso, spinto ai margini dagli interessi della cosiddetta politica culturale, centrale e locale, ignorato nella migliore delle ipotesi, devastato da insipienza e colpevoli calcoli.
Per questo, ai tempi del nuovo impero e dell’imperialismo dell’economia globale, ci piace mostrare quello che siamo, realmente, profondamente: rovine. Perché quando tutto è distrutto qualcuno deve assumersi il compito di ricominciare. Di restaurare luoghi e possibilità per il vivere umano, per la convivenza sociale. Deve provare a riaprire quei teatri, e magari a trasformarli, sostituendo stucchi dorati e velluti con materiali più umili e scabri, deve trasformare i palchetti privati in gradinate dove una comunità possa ricrearsi.
Dalle rovine emergono due aggettivi-sostantivi, in contrasto eppure fra loro connessi: nuovo e deserto. In questi anni abbiamo usato continuamente il primo, in attesa di una impossibile (?) palingenesi, senza definire niente di preciso se non la necessità di un cambiamento che ancor oggi non sappiamo più propriamente nominare. Dall’altra parte il deserto. Poiché oggi in fondo al viaggio (altra parola chiave, variamente usata e abusata) troviamo un deserto. Viaggio che può essere verso il mondo o verso se stessi, verso l’esterno o verso l’interno, verso la convinzione che non siano più possibili panorami emozionanti nel mondo della monocultura, o che l’unico viaggio possa essere proprio dentro la propria crisi, i propri fantasmi; ebbene: in fondo all’idea stessa di viaggio oggi incontriamo la realtà e la necessità del deserto.
Magari un deserto molto popolato, che assomiglia a una delle nostre periferie, come le racconta Raffaello Baldini: "Ma che cos’è questo mondo moderno? A pensarci bene, è una grande, un’enorme periferia… Certo, si costruiscono sempre più condomini, in tempi sempre più rapidi. Ma la periferia resta periferia, tutta uguale, tutte le strade sono uguali, anche la gente, tutti uguali, capisce? E uno può credere d’essersi perduto, cerca, non trova, si dispera… La verità è che si cerca, sempre, si cerca un centro. Ma il centro è ormai impraticabile, sono tutte banche, abbigliamento, pizzerie. E adesso dove si va? a destra? a sinistra? o dritto?".
La periferia assomiglia a un deserto, specie in certe ore di canicola, dalle nostre parti, quando la luce sembra irreale e i punti cardinali paiono svanire. O di notte, con i semafori lampeggianti e gli automobilisti soli, come accucciati nell’abitacolo. Anche del Cinema Cielo, consolazione delle vecchie periferie, è rimasta soltanto l’insegna arrugginita. Verrebbe voglia di morire. Eppure dietro quei palazzoni, sempre sul punto di esplodere, come in una gigantesca crisi psichica di quelle che sembrano aspettarci tutti – insinuerebbe James Ballard – dietro quelle facciate smorte si svolgono vite, affetti, si scambiano parole, sguardi, gesti. Nelle parole, negli sguardi nei gesti ancora non scambiati sta la possibilità. Nell’arte, forse, la capacità di metterli in viaggio verso una vita che chiamiamo nuova, in attesa di parole, di realtà, di capacità di visione.
Perciò l’opera non si fermerà con la doratura dell’ultimo stucco, così come la compagine che a quella costruzione ha lavorato non verrà sciolta con la posa dell’ultima pietra, ma la ricostruzione continuerà con gli uomini e fra gli uomini, giorno per giorno, infaticabilmente. Senza aspettarsi premi o riconoscimenti o consolazioni, come si deve procedere in un deserto: senza speranza e senza disperazione. Poiché "Che importa se una città cade?" – dirà sul letto di morte Sant’Agostino vescovo di Ippona, mentre la sua città è assediata dai Visigoti – "la città non consiste di pietre e di travi, ma di cittadini."
P.S. Il Teatro Chiarella di Torino, distrutto il 20 novembre 1942, non è mai stato ricostruito.
La lettura dell’altro In fondo a destra di Raffaello Baldini, regia di Federico Tiezzi con Silvio Castiglioni di Oliviero Ponte di Pino
Spesso uno spettacolo diventa l’occasione di un incontro necessario, tra persone che si conoscono e si stimano da anni, anche se hanno seguito percorsi molto diversi. Non hanno mai avuto occasione di lavorare insieme, e tuttavia la loro collaborazione pare tutto meno che casuale.
Federico Tiezzi (che firma la regia con il prezioso supporto di Sandro Lombardi come Dramaturg), dopo la stagione del teatro immagine e della post-avanguardia, ha teorizzato il «teatro di poesia» in un saggio che ha segnato una svolta del nuovo teatro italiano; dopo di che ha portato in scena, tra gli altri, Dante (in una memorabile trilogia) e Pasolini.
Silvio Castiglioni, che oltre a dannarsi l’anima come direttore del Festival, è attore e regista, ha iniziato a fare teatro da una sponda lontanissima da Federico e dal suo Carrozzone, come Arlecchino della Commedia dell’Arte, per poi costruire un percorso dove fa continuamente scontare il disagio della modernità con la memoria della tradizione contadina, come nella sua esemplare interpretazione del Filò di Andrea Zanzotto.
Raffaello Baldini (che tra l’altro è stato uno dei primi a essere informato delle gesta del Carrozzone, quando lavorava a «Panorama» e «passava» i pezzi di Franco Quadri) è naturalmente uno dei più grandi poeti italiani, e scrive nel dolce dialetto di Santarcangelo. Ama e frequenta da sempre il teatro, ma se non glielo avesse chiesto Ivano Marescotti probabilmente non sarebbe mai diventato un drammaturgo. Prima ha scritto in dialetto (con Carta canta e Zitti tutti!, entrambi portati in scena proprio da Ivano Marescotti), e poi in italiano, con questo In fondo a destra.
Naturalmente in un’alchimia come questa anche il luogo ha la sua importanza: a Santarcangelo Raffaello è nato, Silvio vive e lavora da anni, e Federico è passato più volte per il festival, anche per una perfomance che ha profondamente inciso sulla sua carriera artistica.
Rispetto alla pratica teatrale, Baldini ha un atteggiamento decisamente laico, con una vena di ironica curiosità. «In teatro l’autore è sempre un co-autore. Quando si lavora a uno spettacolo, è soltanto un ingombro. Il testo scritto è una cosa, la verifica la si fa sul palcoscenico, e lì c’è già un sacco di gente: il regista, gli attori, lo scenografo... Loro devono fare i conti con una carta scritta, non con chi l’ha scritta. Anzi, il regista può essere fastidiosamente condizionato dalla presenza dell’autore. L’autore non ha niente da dire, ma se interrogato può rispondere.»
Infatti ad alcune sollecitazioni Raffaello Baldini ha risposto: rispetto alla versione originaria In fondo a destra, arricchito di prologo ed epilogo, e non sarà solo un monologo.
Ma come ti poni di fronte al lavoro che fa il regista sul tuo testo?
«Mi incuriosisce la lettura dell’altro. Per esempio, in genere le didascalie non vengono assolutamente rispettate dal regista, la qual cosa mi diverte. Vuol dire che qualcun altro legge il testo che ho scritto essendo in qualche modo coinvolto. Se cambia qualcosa, vuol dire che quello scritto lo riguarda. L’importante è che la cosa non riguardi solo te, che riguardi anche qualcun altro.»
Il protagonista monologante di In fondo a destra, perso come tutti noi nel labirinto indecifrabile della vita, è un «mezzo intellettuale così sicuro di sé che si smarrisce in una realtà, oltretutto, immaginaria» (così lo descrive lo stesso Baldini nell’introduzione al volume einaudiano che raccoglie la sua trilogia teatrale). Prenderà corpo in una sera d’inizio luglio: è il primo testo teatrale di Raffaello Baldini scritto in lingua e debutta nel suo paese, nel paese del suo dialetto.
Un sorriso ironico: «Insomma, i testi in dialetto avevano per forza di cose una circolazione limitata.»
Il suo rapporto con il teatro è di affetto e intimità. «Il teatro è una macchina che mi piace, è una bella favola. Quando ero piccolo ho nominato le cose in dialetto. Il dialetto è un parlato, è un animale orale. E con tutto il rispetto per la gestualità, per il corpo, anche il teatro è un animale orale, quindi un minimo grado di parentela c’è.»
Del resto c’è in Italia una straordinaria e ricchissima tradizione di teatro dialettale. «Di più. Il teatro italiano è andato avanti per secoli in dialetto, da Ruzante a Ruccello. L’unica eccezione è Pirandello. In Italia il mestiere di drammaturgo non è frequentatissimo. Il problema è e resta quello della lingua. Una lingua te la puoi anche inventare: in un romanzo, in un racconto, in una poesia puoi inventare la tua lingua, ma in teatro fai più fatica, perché devi inventarti la lingua degli altri.»
E tu hai scelto il dialetto.
«Se ho deciso di scrivere in dialetto, non l’ho fatto perché l’italiano non mi andava bene, ma perché quelle cose succedono in dialetto. Diciamo la verità: la gente parla in italiano. Paradossalmente anch’io quando dico le ragioni del dialetto le dico in italiano. E penso che l’italiano sia una lingua magnifica, lo amo molto. Lo si accusa di essere una lingua bassa, l’italiano parlato. Eppure quello dell’Alcesti di Raboni è un italiano parlato, eppure è scritto in versi. Insomma, l’italiano parlato non è una malattia. E’ una bella lingua: basta pensare all’intolleranza per le ripetizioni.»
E però In fondo a destra l’hai scritto in italiano.
«Carta canta e Zitti tutti sono successi in dialetto, sono due storie di paese. In fondo a destra invece è una storia di città, succede in italiano, quelle cose non le puoi dire in dialetto.»
Quando gli chiedo se gli sembra di essere riuscito a scrivere un italiano orale, guarda lontano e sorride: « La risposta l’avremo a Santarcangelo».
L’arte dura e delicata dell’attore Cinema Cielo di Danio Manfredini di Oliviero Ponte di Pino
«Il teatro è un’arte dura», conclude Danio con la voce appena velata dalla stanchezza. «Attraversi dei tuguri neri, in cui il corpo ti pesa, e non ti muovi più». I suoi spettacoli nascono sempre da viaggi lunghi, dolorosi, dispendiosi, in «quella contrada di me che ho chiamato Spagna», come dice Jean Genet nell’ultima frase del Diario del ladro.
E’ un metodo di lavoro in cui il caso dà forma alla necessità, attraverso continui improvvisazioni, cancellazioni, montaggi e rimontaggi, dubbi e ripensamenti. Un processo di scavo, invenzione e ricombinazione, di sgretolamento e composizione. A volte la spinta nasce proprio dal rifiuto di quell’«arte dura», perché in quel momento la pittura o la scrittura paiono arti meno sofferte, più immediate, meno tormentate. Lì almeno non bisogna ritrovare in ogni replica tutta quell’energia, quella tensione, quella vita pulsante. Una volta che il gesto è diventato un segno, non ha più bisogno della tua carne per essere.
Anche Cinema Cielo nasce da un atto di disamore nei confronti del teatro, da un tradimento. E’ il frutto del desiderio di prendere il romanzo Nostra Signora dei Fiori di Genet, un autore che Danio ama e sul quale ha lavorato spesso, e di trarne un film. Poi, a un certo punto, mentre lavora con due attori, Patrizia e Giuseppe, si accorge che quel progetto non gli interessa più e probabilmente il film non si farà mai, che ama il teatro e non il cinema, e che forse dopo dieci anni di scritture e riscritture è venuto il momento di usare quel materiale, quell’esperienza, per realizzare uno spettacolo teatrale che parta dal quel mondo e da quelle atmosfere. Un nuovo innamoramento, un nuovo viaggio.
Come al solito è un percorso lungo e tortuoso. Oltre un anno di lavoro e di prove, chiedendosi che ruolo dovessero avere sulla scena Genet e il suo romanzo. «Nostra Signora dei Fiori», spiega Danio, «è ambientato negli anni Quaranta, ma a me non interessa una ricostruzione storica o di atmosfera. A me interessa il presente».
Così Genet e la sua lingua poetica - ma spogliata da ogni tentazione intellettualistica o letteraria - si riducono a sfondo sonoro. Diventano il parlato del film porno che si proietta nel Cinema Cielo. Nostra Signora dei Fiori trasformato in un film hard: «In fondo, all’inizio l’opera di Genet veniva considerata pornografia...». Anche l’unico film girato da Genet, Un chant d’amour, è stato a lungo considerato pornografico.
Del resto per gli attori del cinema hard Danio nutre grande rispetto: «Non sopporto quelli che ne parlano come di attori senza dignità. In fondo stanno giudicando attori che offrono, magari inconsapevolmente, la parte più delicata di sé».
Fino a qualche tempo fa i corpi di quegli attori danzavano i loro amplessi sullo schermo del Cinema Cielo, una di quelle sale a luci rosse che hanno prosperato tra la liberazione sessuale e l’avvento delle videocassette. «E’ chiuso da anni, lo stanno buttando giù. Ma era un mondo affascinante, quello dei cinema a luci rosse. Ci andavano persone molto diverse: l’uomo sposato, il gay che voleva fare sesso, il trans in cerca di clienti, il ragazzo curioso, qualche puttana, magari una coppia un po’ strana. Oggi quelle sale sono state sostituite dai club privés, dove inevitabilmente c’è una fauna più selezionata».
Quegli spettatori Danio li ha studiati, come un antropologo in visita a una tribù che si sta estinguendo nel fondo di una foresta equatoriale. Ha inventato una trentina di personaggi che animano la platea, ma anche l’atrio con la cassiera, e i cessi... E’ qui, in questa umanità variegata e fuori orbita, che affiorano il vissuto, la contemporaneità.
All’inizio c’era una grande quantità di appunti, proposte, mondi, idee. Poi bisogna, come al solito, vedere «se la scena ti risponde o no». Perché quello di Danio Mafredini non è il lavoro di un drammaturgo che scrive e poi mette in scena. Non c’è mai un testo (o una partitura gestuale) da rappresentare, una sceneggiatura da eseguire, ma materiali e spunti da ordinare - dopo essere stati sperimentati, forgiati, affinati sulla scena. Dopo aver trovato la loro verità nell’azione teatrale, nel gesto.
Ecco dunque Danio mettere alla prova il suo Cinema Cielo con tre compagni d’avventura e di ricerca, tre attori certo non accademici: «Patrizia è una psicologa di cinquant’anni, che fa anche l’attrice. Giuseppe è più giovane, ha trent’anni, viene dal teatro di strada, ha una natura e una freschezza diverse. Anche Vicenzo è giovane, ha lavorato con i registi dell’area napoletana come Davide Iodice, anche se ha una esperienza di studi e di spettacoli. Gli attori sono sempre stati presenti nel processo di lavoro, anche se ovviamente ero io che aprivo le domande.»
Il percorso non può essere lineare. Le soluzioni non sono mai facili, perché devono apparire necessarie. «Così alla fine ci sono due copioni molto diversi: quello da cui sono partito e quello a cui siamo arrivati dopo un anno di lavoro in sala». Per esempio che fare di Genet e della sua presenza nel romanzo, come narratore e motore della vicenda, come testimone e carburante lirico? «Se si toglie la presenza di Genet, il romanzo si impoverisce. In fondo gli altri personaggi sono caratterizzati per pochi tratti e accadimenti, a dare complessità e densità al romanzo sono le parole di Genet».
Dunque Nostra Signora dei Fiori, ridotto a sfondo sonoro, si specchia in quello che accade nella sala: «Il film e la sala sono due mondi che rimandano l’uno all’altro. Scorrono autonomamente, indipendentemente, ma poi ci si accorge che le parole del film hanno una connessione con quel che accade in sala - anche se sono cose molto diverse».
E’ un mondo complesso, quello di Genet, così come è complesso quello di Danio, denso di influenze colte e di ossessioni personali, che s’intessono in un linguaggio teatrale complesso e articolato. Il loro incontro produce altre stratificazioni, nuove complessità.
«Nella prima parte nel film ci sono amore, sesso, erotismo; in sala ci sono i trans - dunque si va verso una transazione. A quel punto si arriva a un passaggio verso la seconda fase: i personaggio di Genet vanno incontro al loro destino, alla morte, mentre cerchiamo di entrare nell’interiorità dei personaggi in sala.»
Tuttavia l’obiettivo di Danio resta la semplicità, senza mai rischiare la semplificazione. La popolarità, senza mai cercare l’applauso facile, anzi. E’ la ricerca di una comunicazione e di una comprensione immediata, che non abbia bisogno di strumenti culturali complessi per essere decodificata. Perché è un linguaggio che si basa sugli elementi fondamentali del nostro essere nel mondo: il corpo e il suo rapporto con lo spazio, il gesto come espressività immediata, il sentimento - l’amore e l’abbandono. Così, quando questo artista raffinato afferma «Cerco la semplicità, la popolarità», dice semplicemente il vero.
I disegni preparatori di Danio Manfredini per Cinema cielo (clicca sui disegni per la versione ingrandita).
Danio Manfredini Una scheda di Oliviero Ponte di Pino
Danio Manfredini (Casalbuttano, 1957) si è formato con César Brie e Iben Nagel Rasmussen, è cresciuto nell’ambiente dei centri sociali, ha lavorato a lungo anche in strutture psichiatriche. Nel corso di quasi vent’anni ha prodotto rari e preziosi spettacoli, dove spesso recita solo, costruiti attraverso un feroce lavoro su di sé, un maniacale perfezionismo, una grammatica drammaturgica e gestuale complessa e raffinata ma di immediata comunicatività ed efficacia: tra di essi, La crociata dei bambini da Brecht (1984), Miracolo della rosa da Genet (1988), La vergogna (1990), Tre studi per una crocifissione (1997), nume tutelare Francis Bacon, e Al presente, più scopertamente autobiografico, che ha debuttato al Festival di Santarcangelo nel 1999. Di recente ha collaborato con Raffaella Giordano (alla drammaturgia) e con Pippo Delbono (come attore e cantante).
Nel teatro italiano rappresenta una luminosa eccezione. Il suo è un percorso artistico eccentrico, i suoi lavori non sono prodotti più o meno riusciti, ma organismi viventi, che nascono, crescono e poi - forse - muoiono, quando il loro autore percepisce che l’energia che li animava si è spenta, oppure ha preso un’altra direzione e ha bisogno di una nuova forma. Il suo non è solo teatro, o meglio la scoperta - quasi il "miracolo" - di uno dei teatri possibili. E’ pittura, perché nei suoi gesti minimi e ineluttabili si condensano insieme la traiettoria della mano che traccia il segno e il segno stesso. E’ danza, nel ritmo e nella concatenazione dei movimenti, nell’occupazione dello spazio. E’ poesia, nella riflessione sulla marginalità e sul diverso che costituisce forse il filo rosso di tutto il suo percorso: sofferta e mai esibita, che rifugge da ogni sentimentalismo e banalità.
Li mostra di rado, i suoi spettacoli, perché sono viaggi nell’amore e nel dolore, scavi dentro di sé e dentro la propria ricerca dell’altro, e avvilirli nella routine delle repliche e delle tournée sarebbe un inutile spreco, quasi un oltraggio.
Se però parlate con molti degli artefici e degli appassionati del nuovo teatro italiano, scoprirete che Danio è un maestro segreto, che nei suoi seminari ha segnato numerose carriere artistiche: con il suo rigore, la sua esperienza, la sua saggezza, e ovviamente una competenza acquisita attraverso anni di prove, di improvvisazioni e di ricombinazioni drammaturgiche. Ma è soprattutto la sua integrità di artista a offrire un esempio e un punto di riferimento importante per tutti.
I colori del caos I canti del caos di Teatro Aperto dal romanzo di Antonio Moresco di Oliviero Ponte di Pino
Antonio Moresco e Renzo Martinelli sono una strana coppia di amici. Antonio è scrittore, ma alla letteratura è arrivato tortuosamente dalla politica. Renzo è regista, ma al teatro a sorpresa è arrivato dopo aver corso in moto. Antonio diffida del teatro, per esperienza personale di spettatore adolescente e per principio, anche se poi qualche spettacolo in questi ultimi anni l’ha conquistato, suo malgrado. Renzo ama il suo teatro con passione, e a volte si entusiasma anche per il teatro degli altri, anche se le regole della comunicazione e del sistema teatrali gli stanno strette.
Antonio e Renzo hanno cominciato a lavorare insieme - e insieme a Federica Fracassi - quando Teatro Aperto ha portato in scena un testo di Antonio su Santa Teresa di Lisieux. Antonio, mi sembra di capire, prova molta gratitudine per Renzo, per Federica e per tutti gli attori della Santa: li vede fragili ma determinati, ne apprezza l’impegno e la generosità, lo affascina quella loro vita randagia e spesso li accompagna in tournée come passeggero del loro pullmino sgrangherato e stracarico. Il loro spettacolo - quello spettacolo dove Federica non dice una parola ma respira il suo testo, mentre gli altri personaggi raccontano la sua vita, e dove alla fine sulla scena si gonfia un’enorme nuvola bianca - gli è piaciuto. Anche se poi confessa: «Quando ascolto le mie parole sulla scena sento naturalmente un attrito, una sofferenza. Non è un giudizio negativo, solo un fatto. Vedi la tua pelle separata dal tuo corpo, diversa da come l’hai indossata. Non è indolore e non dovrebbe neanche esserlo, altrimenti sarebbe pura didascalia. E’ come un respiro che passa attraverso una grotta.»
Sono tutti e due anime inquiete e affamate, Antonio e Renzo, che usano l’arte per sfogare questa loro inquietudine e saggiarne i limiti, vedere fin dove la possono spingere e fin dove li porta.
Antonio Moresco ha scritto un romanzo torrenziale, un fiume di parole che con un movimento a spirale procede per centinaia e centinaia di pagine. Finora è uscita solo la prima parte (da Feltrinelli, mentre da Rizzoli sta per uscire la seconda, ce ne sarà una terza e poi chissà). Sono centinaia e centinaia di pagine fitte fitte, che ruotano intorno all’ossessione della nascita e della creazione, del sesso e del capolavoro. E’ un romanzo che continua a uscire dai suoi limiti, straripa, quasi si affoga nella sua stessa materia.
Dice Renzo: « Nel movimento dispiegato della scrittura dei Canti del caos c’è qualcosa che non riesce a stare dentro il libro, dentro se stesso. Uno dei modi per uscire dal libro è il teatro, inserire il movimento della scrittura in un movimento teatrale.» Così lui e Federica hanno deciso di fare di questo libro strabordante un loro spettacolo.
Teatro Aperto lavora da sempre su scritture non convenzionali. Renzo Martinelli non si interessa più di tanto ai personaggi, alla trama, ai codici e alle convenzioni del teatro: «Non mi interessa il personaggio, che l’attore entri nella parte. In questo sono brechtiano: mi interessa la distanza tra l’attore e il personaggio, tra l’attore e il racconto. Il campo della mia ricerca drammaturgica non è mai completamente naturalistico, ma è astratto. Non è un problema di identità del personaggio ma di necessità sonora. Voglio che le parole cessino di fare testo».
Così da mesi Antonio, Renzo e Federica si misurano con un’idea folle - folle come il romanzo di Moresco: ricavare uno spettacolo dai Canti del caos. Ovviamente hanno subito escluso la strada più ovvia, quella della trasposizione sceneggiata, dell’illustrazione, della sceneggiatura di un testo peraltro ricco di situazioni, immagini ed eventi - molto spesso di evidente matrice pornografica.
Antonio spiega così il suo interesse per quel mondo, per quello sguardo sul mondo: «La pornografia segue meccanismi e regole astratti, per esempio in un film deve esserci un certo numero di coiti. Mi sembrava interessante far venire allo scoperto la pornografia in un’altra forma espressiva. La pornografia ci dà una certa immagine della realtà, il suo aspetto didascalico, unidimensionale, parcellizzato. Ma ha anche un aspetto più intimo, degradato. Ho voluto entraci dentro per far venir fuori una cosa diversa. Perché di fronte alla pornografia ci sono due possibilità: il moralismo, indossare la maschera odiosa di chi dice che cosa va bene e che cosa no; oppure prendere quello che c’è per salvarlo andandoci dentro fino in fondo per farlo diventare un’altra cosa. E’ un atteggiamento più onesto, più radicale.»
Ancora: «La pornografia è una delle descrizioni che quest’epoca dà di sé stessa. La realtà e la pornografia si rimandano l’una all’altra, come uno specchio. Ma come rompere questo circolo vizioso? Per me si tratta di entrare nello specchio, non di arroccarsi nelle zone protette del letterato che giudica e condanna.»
Dice Federica: «Nel romanzo di Moresco ci sono visioni molto forti, tradurle in immagini sarebbe una via sin troppo facile. E’ un romanzo onnivoro, che prende dentro tutto, e pensarlo dal punto di vista dell’udito e non dello sguardo è molto interessante.»
Antonio annuisce: «Oggi si visualizza tutto, e nel flusso di immagini che ci circonda si appiattisce tutto. Il problema è ridare concentrazione alle cose, di restituire alle cose il loro baricentro, contro l’orizzontalità dell’immagine.»
A Renzo la scrittura di Antonio ricorda la scultura, e dunque ecco il suo metodo di lavoro: «Lavorare sul suono come materia, spostare la recitazione, entrare dentro il canto. Si tratta di non dare al pubblico un unico punto di vista, il tuo punto di vista. Bisogna lasciare allo spettatore una parte del lavoro.»
E’ un percorso che dura da mesi e che Federica riassume così: «Nella prima fase del lavoro abbiamo tirato fuori i singoli canti e analizzato le voci. Nella seconda, presentata a "Teatri 90" nell’autunno del 2002, abbiamo costruito un filo rosso tra dentro e fuori, con un elemento centrale, la creazione del capolavoro e la nascita. Ora, su proposta di Antonio, al centro c’è sempre la creazione ma lavoriamo sulle polarità: nascita-morte, ombra-luce, maschile-femminile. La versione di Santarcangelo avrà una dimensione più densa e concentrata.»
Non è un lavoro semplice, considerando anche la difficoltà di pensarlo e realizzarlo in termini musicali e attorali con un coro. Per Federica «Antonio ha un modo di scrivere ritmico, a volte le ripetizioni e le assonanze mandano in crisi attori anche non sono abituati a questo tipo di scrittura.» Anche se lei, immersa in questa scrittura «non teatrale», si trova benissimo. Per Renzo la difficoltà è un’altra: «Per ogni canto, non posso lavorare separatamente sull’attore e sul coro. Ogni volta, devo trovare un umore, un colore, e partire da lì». I colori del caos.
Teatro Aperto Una scheda di Oliviero Ponte di Pino
Teatro Aperto ha attirato l’attenzione per la prima volta nel 1996, ai tempi di Scena Prima, una rassegna-censimento dei «Nuovi Gruppi Teatrali in Lombardia». Il curriculum di Renzo Martinelli diceva «ha studiato musica, è grafico pubblicitario, dipinge, è attore» (senza dire che correva in motocicletta). Federica Fracassi esibiva una lunga serie di seminari, scelti con cura, un’aspirante prima attrice ma con una sorta di eccesso di consapevolezza, da autrice-attrice. Dalla fondazione nel 1993, Teatro Aperto ha realizzato una decina di spettacoli, nei quali non è pero difficile individuare alcuni elementi costanti. In primo luogo l’attenzione al suono - e questo vuol dire sia la musica sia la parola, ma soprattutto la musicalità della parola, attraverso testi che spesso non hanno in origine una destinazione teatrale, partendo da testi di Marguerite Duras, Alba Merini, Clarice Lispector, Anna Maria Ortese, Sarah Kane (ed è inutile rimarcare l’attenzione per una scrittura femminile). O meglio, lavorando su testi che portano in sé una forte tensione poetico-evocativa. In parallelo, e con modalità per certi versi analoghe, è il lavoro sullo spazio, spesso modulato secondo una sintassi quasi musicale.
La Santa (presentato con vivaci polemiche all’interno della stagione promossa dal Teatro di Roma per il Giubileo del 2000) ha segnato il debutto come drammaturgo di Antonio Moresco e l’inizio della collaborazione tra lo scrittore e Teatro Aperto.
Un ambiente sensibile e perturbante Laura Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, Franco Angeli editore, Milano 2003. di Andrea Balzola
L’incontro tra le nuove tecnologie della comunicazione e la ricerca artistica, sia generata dall’area delle arti visive e sia da quella del teatro, ha prodotto un impatto straordinario non solo sulla trasformazione dei media e delle arti in questione, ma anche sugli scenari presenti e futuri delle interazioni sociali. Il laboratorio dell’arte e il laboratorio delle nuove tecnologie si connettono e si determinano reciprocamente, sperimentando nuove forme di espressione e di comunicazione. E’ questo un fenomeno che dovrebbe essere di primaria attenzione in un mondo sempre più permeato e ridefinito dall’innovazione tecnologica, ma paradossalmente della tecnologia (letteralmente: logos, quindi pensiero e linguaggio, della tecnica) si continua a privilegiare l’aspetto operativo della tecnica rispetto ai modelli di pensiero e ai mutamenti linguistici che esso contiene e induce. Il risultato, a livello di una socialità più diffusa, è una costante estensione del dispositivo tecnologico di comunicazione, per prevalenti ragioni di mercato, inversamente proporzionale allo sviluppo di una creatività di pensiero e di espressione. Ciò che contrasta questa crescente forbice tra le potenzialità tecniche di comunicazione e la creatività collettiva, è proprio la sperimentazione artistica (soprattutto se accompagnata da una riflessione etica e filosofica), che da sempre ha la virtù "magica" di trasformare la tecnica in linguaggio e la capacità di unire la produzione di senso al divertimento.
Laura Gemini, ricercatrice e docente alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino, ha lavorato proprio su questi temi, realizzando un libro molto utile, che ripercorre con un taglio sociologico innovativo lo sviluppo dell’idea e delle pratiche performative dalle origini rituali del teatro fino alle performance interattive e al tecnoteatro contemporanei. Più precisamente, la Gemini unisce in modo puntuale e originale le teorie recenti dei sistemi sociali, gli studi di biologia cognitiva, l’analisi dei media con l’approccio estetico al divenire della ricerca artistica dalle avanguardie storiche alle arti performative multimediali. Un percorso che coinvolge inevitabilmente una riflessione sui modelli cognitivi e comportamentali, oggetto di studio antropologico e scientifico, e fa emergere tutta la complessità dell’arte del Novecento, che rompe gli argini dei generi e delle classificazioni. Forse proprio per sottolineare questa peculiarità sperimentale, l’autrice sceglie un titolo molto azzeccato (che cita Baudrillard): "l’incertezza creativa". Un’incertezza come segno non di debolezza o di confusione ma al contrario come capacità di interpretare e rivelare le contraddizioni del sociale e di rielaborarle creativamente. Incertezza come segno di apertura: diacronica, perché le arti performative mettono l’accento sul processo generativo dell’opera più che sull’opera stessa, in una consapevolezza dell’incompiuto che vale come necessità e garanzia di continuità; sincronica, perché le arti performative sono arti della relazione "hic et nunc" tra linguaggi differenti e tra performer e pubblico. Qui sembra trovarsi il nucleo centrale dell’interrogazione della Gemini: l’arte performativa che incontra i mass media e i new media tecnologici, quali modelli innovativi di comunicazione ed espressione genera? In che modo la performance divenuta tecnologica mette in discussione la tradizionale relazione di compresenza tra evento performativo e ricezione, individuale e collettiva? Come mutano, infine, in questa prospettiva di ridefinizione tecnologica dei linguaggi, i modelli comunicativi e creativi di interazione sociale? Sono domande centrali e molto impegnative a cui ovviamente l’autrice non pretende di rispondere con argomenti definitivi, ma accompagnandoci passo dopo passo attraverso le principali tappe evolutive delle performance artistiche, soprattutto teatrali.
La tesi che viene verificata sul campo è quella dell’esistenza di un "rapporto circolare fra la capacità perturbativa e irritativa dei media rispetto all’arte e dell’arte rispetto ai media". Alla fine di questo percorso, il lettore attento riesce a focalizzare alcuni principi particolarmente importanti e fecondi di sviluppi possibili, tra cui uno mi pare particolarmente rilevante: le pratiche performative tecnoteatrali o tecnoartistiche più evolute dimostrano che non c’è contraddizione tra tradizione (ad es. la cultura orale, la narrazione mitologica, la simbologia archetipica) e innovazione (la multimedialità, l’ipertestualità, l’interattività, la telepresenza). Tramite un progressivo coinvolgimento partecipativo della ricezione, che recupera l’esperienza plurisensoriale all’interno stesso del processo generativo della performance, l’arte prefigura la creazione di un "ambiente sensibile" universale dove la molteplicità dei modelli creativi della comunicazione interagiscano liberamente senza rimozione del corpo naturale e senza timore dell’interfaccia tecnologico. Che poi questo modello possa essere utopico e venga schiacciato o meno da quello puramente mercantile è purtroppo un’altra storia e un’altra sfida.
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Laura Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, Franco Angeli editore, Milano 2003,
192 pagine, euro 15,00.
La società della performance Una conversazione con Laura Gemini di Anna Maria Monteverdi
A proposito dell'impostazione teorica del tuo libro, partendo da Schechner e Turner tu ricordi come tra il processo rituale e le performance postmoderne ci sia un continuum legato all'attività mitopoietica dell'uomo e alla relazione comunicativa e sociale che innescano nella comunità di partecipanti (a partire dalla definizione delle performance come fondamento della vita sociale ovvero, come ricordava Victor Turner, performance come social drama) ed alla dimensione del restored behaviour. Puoi illustrarci più dettagliatamente questo concetto?
Lo sforzo "sociologico" che tento di portare avanti con il mio lavoro consiste nel considerare le performance culturali e artistiche come luoghi di osservazione del sociale. Su questa base l’evoluzione delle forme dell’espressività individuale e collettiva spiega e allo stesso tempo è spiegata dalle trasformazioni comunicative – e quindi sociali – che a loro volta dipendono dal rapporto di co-determinismo socio-mediale.
Ecco perché la teoria della performance che postula un continuum nella gamma dei possibili performativi non può non tentare di distinguere analiticamente – data la "naturale" ibridazione della performance – le forme dominanti in un determinato contesto. In altre parole, si può osservare un rapporto di omologia fra un certo tipo di performance e la configurazione socio-comunicativa corrispondente. È così che il rituale – in estrema sintesi – deve la sua specificità al senso di partecipazione anima e corpo alla comunità di riferimento, tipica delle formazioni pre-moderne e della cultura orale mentre il teatro è moderno, individuale, visivo cioè determinato dalla svolta epistemologica della scrittura e dall’inesorabile processo di virtualizzazione della comunicazione potenziato dai media. Non basta dunque, secondo me, usare la dicotomia rito-teatro, ma occorrono delle categorie di analisi adatte al post-moderno. La performance contemporanea ci aiuta in questa ricerca perché con la sua varietà ci "sbatte in faccia" il sociale offrendoci una possibilità per osservare in modo nuovo il rapporto fra individuo e società. I nuovi bisogni di espressività si traducono in dinamiche performative ibride, contingenti, basate sull’intreccio fra dominanza del visivo e recupero sensoriale così come vuole un’oralità di ritorno (o secondaria) forgiata dalla logica del digitale e dall’idea di interattività. Sono dinamiche che riguardano diversi ambiti – pensiamo ad esempio alla neo-televisione e alle sue grandi cerimonie – ma che l’arte, con la sua specificità, può fare emergere con maggiore evidenza. Uno degli aspetti che volevo sviluppare è l’analisi dell’evoluzione socio-comunicativa che trova nella scena elettronica un caso di studio particolarmente efficace. La sua capacità di assimilare e trattare – dall’interno del sistema dell’arte – le grammatiche mediali e di renderle teatrali ci permette di accedere a quelle forme neo-narrative che paradossalmente si legano alla logica dei media. Le esperienze delle avanguardie storiche, naturalmente, hanno gettato le basi per procedere in questo tipo di ragionamento ma mentre in quei casi la propensione antropologica è dichiarata, è l’anima di quel tipo di ricerca, mi sembra importante cercare di capire cosa voglia dire oggi "partecipazione" e quali forme dello stare insieme si diano allo sguardo.
Diceva Artaud che il punto di partenza del teatro è l'energia vitale rigeneratrice rappresentata dal soffio come "magico agente di trasmutazione", simbolo del potere genesico, vivificante del teatro e ricordava che la ritualità che sancisce il carattere sacro dell'accadimento scenico non significa affatto "ripetizione" bensì quell'unicità, imprevedibilità e irripetibilità che è propria delle vita stessa. E' questo elemento del processo rituale, non indotto, non meccanico, non ripetitivo un altro degli aspetti che permette un legame con la performance intesa come actual?
Il processo rituale – per lo meno così come viene definito dalla teoria della performance – trova nel comportamento recuperato e nell’actual i suoi meccanismi di base. Questo vuole dire che recuperare non significa ripetere ma tenere conto che la comunicazione è un processo ricorsivo che vive nella dialettica fra permutazione e ricombinazione, fra ciò che si ripete e ciò che si rinnova nell’attualizzazione dell’evento comunicativo. Il rito nasce, e si mantiene anche se trasformato, perché i nostri bisogni di metabolizzazione simbolica (della violenza, della morte?…) permangono e cercano i loro spazi "sacri", cioè separati, altri. Non so se ti riferisci a questo e non so nemmeno se per Artaud fosse così. In ogni caso il teatro è una performance e come tale porta in sé il processo rituale con la sua ambivalenza: ripetere vuol dire che la comunicazione si lega ad altra comunicazione e che in questa circolarità non è mai uguale a se stessa ma evolve in relazione alle condizioni della sua realizzazione (tempi, luoghi, soggetti…). Ma forse queste cose le sanno meglio i teatranti…
Come si passa alla performance nei media e come le tesi dell'antropologia teatrale si legano alle teorie sistemiche di Luhmann, e alla sociologia dei media da Mac Luhan in poi?
La sistemica descrive la società contemporanea a partire dalla differenza sistema/ambiente e dalla semantica della società differenziata per funzioni. In quest’ottica è possibile osservare il sistema sociale dell’arte e il sistema dei media tenendo conto della loro (relativa) autonomia e delle proprie modalità di osservare l’ambiente riproducendolo comunicativamente. Il rapporto fra performance, performance artistica (specialmente teatrale) e media mette in evidenza il rapporto di accoppiamento strutturale – la co-evoluzione – che connota da sempre, anche in maniera dolorosa e controversa, questi sistemi.
Nello stesso tempo questo rapporto, e soprattutto l’uso artistico delle tecnologie, permette di osservare i media, di comprenderne i linguaggi e le logiche. Di accedere alle dinamiche dell’immaginario collettivo contemporaneo.
La performance teatrale, che vive nella complessità dei linguaggi, che ri-negozia i concetti di presenza, di interazione e le categorie spazio-temporali, mi sembra essere un caso paradigmatico, particolarmente affascinante (e complicato!) di questo rapporto: ancora una volta un luogo di osservazione privilegiato.
Buona parte della tua ricerca di dottorato riguardava l'indagine della ricezione di alcune performance tecnologiche, che per motivi di spazio non è potuta entrare a far parte del tuo libro L'incertezza creativa. Da queste indagini sono fuoriuscite alcune incongruenze tra intenzionalità creativa del regista-gruppo e sua effettiva comunicazione (l'orizzonte di attesa). Guardare la performance dalla parte del suo effetto sul pubblico ci porta a misurare la distanza culturale tra opera e destinatario, tra artista e spettatore, quest'ultimo spesso fuori dal "frame". Puoi parlare di queste esperienze in sintesi?
La ricerca sulla ricezione – parola che se devo essere sincera non amo molto – dimostra come l’idea di comunicazione come trasmissione di informazioni (molto legata anche al modo di funzionare dei media di massa) non sia adatta a spiegare qualcosa che la biologia cognitiva (e con essa la sistemica) ha espresso chiaramente e cioè che la comunicazione, dal punto di vista del soggetto cognitivo, è un’autoprestazione di ognuno e che non c’è niente da trasmettere.
Quello che mi interessa vedere è come uno spettatore osserva le sue osservazioni, come definisce la sua esperienza spettatoriale, come accetta le sfide cognitive di una scena che si complessifica e come le attualizza.
Su un altro livello, allora, è possibile osservare la relazione che emerge dall’interazione teatrale ma che è anch’essa frutto dell’osservazione. In poche parole: parto dal presupposto che attori e spettatori (così come gli attori fra di loro, gli spettatori fra di loro, ecc.) sono reciprocamente all’oscuro delle intenzionalità e delle aspettative dell’altro. La comunicazione è un fatto improbabile perché nulla ci garantisce che ci capiremo e che accetteremo le selezioni compiute da qualcun altro.
Inoltre il linguaggio, che sarebbe il mezzo evolutosi per abbassare la soglia di tale improbabilità, viene usato dall’arte in generale e dal teatro di ricerca in particolare in maniera non convenzionale e questo naturalmente complica il lavoro dello spettatore!
Ciò che conta però è che l’esperienza spettatoriale e in generale artistica (l’esperienza interiore, direbbe Luhmann) non è un fatto di condivisione e comprensione dei significati immanenti di un’opera ma è produzione (di informazione), riduzione dell’incertezza fra la gamma dei significati possibili. La ricezione, in questa accezione, comporta la produzione del senso ed è questo, credo, che tutti condividiamo. La necessità di fornire senso che è la forma umana di elaborazione dell’esperienza.
Come collochi in questa prospettiva situazioni artistiche di confine - dalla net art alla web performance - in cui la componente artistica è legata a un principio di partecipazione e condivisione reale sia pur attraverso la rete?
La ricerca di nuovi spazi e modi di condivisione mi sembra una costante antropologica del nostro tempo. Come sempre gli artisti si fanno promotori delle nuove istanze che il sociale, forse un po’ inconsapevolmente, produce.
Mi piace pensare che lo spazio della performance non abbia confini e credo che queste esperienze si spieghino così.
Dal punto di vista del sociale il sistema dell’arte si riproduce comunicativamente e l’accoppiamento con le tecnologie non lo impedisce di certo.
Penso però che i problemi in questo caso siano altri, legati alle possibilità di fruizione, al fatto che è ancora più facile andare a teatro o a una mostra che partecipare a una performance in rete. Credo che anche nell’accesso alla rete, e al suo strano modo di essere democratica, ci sia un problema di "abbordabilità" che non è teorico ma pratico, di alfabetizzazione, di usabilità… Oggi la distinzione guida della società è data dal rapporto fra inclusione ed esclusione e dobbiamo stare attenti perché lo scarto di conoscenze e il digital divide hanno ancora un peso nel determinare chi è incluso e chi non lo è.
Laura Gemini, nata a Rimini, vive a Bologna. Laureata in Scienze Politiche – Indirizzo Politico Sociale all’Università di Bologna, ha conseguito il dottorato in Sociologia della Comunicazione e Scienze dello Spettacolo aella Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino. E' attualmente ricercatore della Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo". Insegna Teoria e tecniche della Ricezione al Corso di Laurea Specialistica in Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni della Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino.
Le recensioni di "ateatro": Polaroid molto esplicite di Mark Ravenhill, regia di Elio De Capitani di Oliviero Ponte di Pino
In Polaroid molto esplicite (1999) Mark Ravenhill, esponente di punta dei "nuovi arrabbiati" che hanno ravvivato la drammaturgia inglese degli ultimi anni Novanta, riflette programmaticamente sulle differenze tra due generazioni, separate più o meno da un ventennio, e sui loro atteggiamenti di fronte alla vita e alla società.
La determinazione un po’ astratta del tema della pièce viene tradita dalla scelta di sei personaggi un po’ troppo esemplari. Nick (Giancarlo Previati) è appena uscito dal carcere, dov’è rimasto per quindici anni dopo aver attentato alla vita del capitalista d’assalto Jonathan (Elio De Capitani), su istigazione di Helen (Cristina Crippa), giovane estremista riconvertita al compromesso e alla democrazia, ora in carriera nel partito laburista. I tre ventenni sono Tim (Cristian Maria Giammarini), che sta morendo di Aids e ha comprato via internet i servigi di un giovane go-go boy russo, Victor (Filippo Timi), ed è amico di Nadia (Marina Remi), ballerina di lap dance che ha l’abitudine di farsi massacrare di botte da un brutale cliente-fidanzato.
Il primo terzetto è cresciuto in un’epoca di forti conflitti sociali e ha vissuto il crollo delle ideologie. Grazie a quella macchina del tempo che è il carcere, Nick è rimasto puro e duro, anche se si sforza malamente di adeguarsi alla nuova situazione. Helen, guidata dal principio di realtà, ha rimosso il massimalismo rivoluzionario per approdare al professionismo politico. Jonathan ha scelto di navigare sul caos: il vincente è lui, anche se porta ancora nella carne i segni dell’attentato. Naturalmente ha fatto i soldi ed è diventato potente e disumano, oltre che mefistofelicamente malvagio (e la regia ce lo ricorda attraverso un frammento cinematografico del Faust di Gounod).
I tre ragazzi invece vivono in un’isteria di pseudo-felicità perseguita a tutti i costi. Il conflitto non lo vedono o lo rimuovono, abbagliati dalla superficie e dal trash - e com’è ovvio vanno incontro alla disillusione che è al cuore di ogni romanzo di formazione.
E’ una contrapposizione Sensi di colpa e vendetta contrapposti alla totale innocenza dell’amoralità
Generazionalmente disilluso, Ravenhill si pone a metà tra i due gruppi e lancia uno sguardo criticamente benevolo sugli uni e sugli altri. Guarda la cupa disperazione dei più vecchi, il loro utopismo rivoluzionario o apocalittico, i loro vicoli ciechi ma anche una sostanza umana che l’esperienza ha ispessito e indurito. Vede, dei più giovani, lo slancio vitale e la freschezza, l’ingenua incapacità di guardare oltre la propria esperienza personale, oltre il presente, oltre il piacere istantaneo di sesso e droghe, ma avverte sotto la superficie luccicante dell’ossessiva ricerca della felicità una gelida disperazione. Vede in Tim la volontà di ingannarsi, il Nadia e Victor una esilarante miopia.
Per certi aspetti, Polaroid molto esplicite è una specie di esperimento teatrale: che succede se metto insieme tre personaggi-tipo della generazione che mi precede e tre personaggi tipo di quella che mi segue? In questo (più che nei confronti tra i personaggi), è un testo ideologico, dove gli incontri e le reazioni diventano in qualche modo prevedibili, predeterminati, tanto la rancorosa cupezza dei vecchi quanto la forzata sventatezza dei primi. Ma nel testo se ci sono intelligenza, generosità e mestiere, quella che sembra mancare, alla fine, sono la radicalità e la crudeltà necessarie perché il testo possa davvero graffiare.
La regia di Elio De Capitani costruisce intorno a questo apologo uno spettacolo ambizioso, un melodrammone tra il punk e il porno, ma con venature brechtiane nella recitazione. Carlo Sala ha affrescato una enorme parete-sipario a pannelli mobili, dietro i quali si aprono diversi tre luoghi deputati, mentre il proscenio è invaso dalle sedie e dai tavolini di un bar.
Inserisce nello spettacolo un elemento metaforico: pesanti involti di corde che maneggiano soprattutto Nick e Helen. Ma questo segno resta come un corpo estraneo al tessuto dello spettacolo, senza raggiungere la forza ossessiva del simbolo.
Resta dopo due ore e mezzo l’impressione di un testo e di uno spettacolo più interessante nelle intenzioni che nella realizzazione.
Polaroid molto esplicite
di Mark Ravenhill, regia di Elio De Capitani
Compagnia Teatridithalia
Milano, Teatro dell'Elfo
Nell'era della decimazione emotiva Amore e violenza nel teatro di Sarah Kane di Gaia Poggi
Tra i temi complessi e avvincenti che emergono nei cinque lavori scritti per il teatro da Sarah Kane, spiccano particolarmente quelli dell’amore e della violenza. Se da un lato il teatro della giovane drammaturga è diventato subito celebre in Inghilterra per crudezza di situazioni e immagini, l’amore è il nucleo attorno al quale ruota l’intera produzione, come dall’autrice stessa ampiamente dichiarato.
Per quanto Blasted (1995) esprima con precisione grafica le crudeltà inusitate di un’umanità persa nel caos, si assiste ad un atto conclusivo che ribalta l’esito del dramma.
L’amore viene mostrato attraverso vari aspetti quali la solidarietà e la protezione materna del personaggio femminile, Cate. La ragazza subisce sopraffazioni fisiche e mentali da parte di Ian, ex compagno, durante l’intera pièce. Nella quarta scena, dopo che il torturatore è stato a sua volta vittima di uno stupro, medesima violenza di cui si era reso colpevole nei confronti di Cate, la ragazza gli accarezza teneramente il capo e lo imbocca. Si tratta di semplici ma significativi gesti di solidarietà di individui allo sbando in un mondo dilaniato.
Anche il soldato, mostruoso simbolo dei crimini commessi in Bosnia, non è rappresentato come incarnazione del male, perché viene dato di sapere che anche lui prima di diventare carnefice, è stato a sua volta vittima: Col, la sua compagna, ha subito un martirio simile a quello che egli procura a Ian. Il testo invita soprattuto a non considerare spietatamente gli altri esseri umani e a capire che molte volte l’ingombrante identità di criminale ne cela una precedente di perseguitato. Propone una possibile risposta all’infinita catena di violenze, di cui la pièce è l’emblema. Il vero antidoto è rappresentato proprio dall’atto significativo della carezza di Cate: non un freddo atto di perdono affidato alle mere parole, ma un gesto di tenerezza sgorgato dalla consapevolezza della fragilità umana.
La violenza in Blasted si presenta come una morsa che stritola la coppia Cate-Ian e la camera d’albergo nella quale si trovano. Un nodo fondamentale nella spirale di orrori è rappresentato dalla guerra che irrompe in modo caotico e inaspettato. La coppia e le quattro pareti della loro camera di Leeds vengono letteralmente catapultati nel caos del conflitto. La stanza, che racchiudeva ancora una parvenza di naturalismo, scoppia dando spazio ad una struttura illogica, ad un clima da incubo infernale. Forma e contenuto sono straordinariamente sinergici. La Kane in più occasioni sottolinea come sia l’abuso sessuale di Ian a scatenare l’inferno. Secondo l’autrice non c’è tuttavia differenza tra lo stupro nei confronti di Cate e le violenze di massa in Bosnia. Si tratta solo di una scala diversa con cui considerare un mondo sconvolto dalle brutalità. Di certo la drammaturga voleva scuotere anche la coscienza del pubblico nei confronti di una guerra, verso la quale avvertiva una certa indifferenza nel mondo occidentale. Profeticamente sentiva l’approssimarsi di un momento in cui l’azione bellica si sarebbe percepita più da vicino in Gran Bretagna.
Alcune immagini colpiscono per la loro sconvolgente potenza visiva. L’accecamento di Ian per mano del soldato bosniaco suscita orrore e angoscia. Tutt’altro che raro nella tradizione teatrale inglese, tanto da essere chiamato dall’autrice stessa: "Ian’s Dover’s scene", l’episodio di improvvisa cecità reca alcune implicazioni metaforiche. Oltre a significare, intuitivamente, un crollo nella psicologia del personaggio, l’immagine è stata introdotta dall’autrice a significare una castrazione. Il parallelo si intuisce solo sapendo che per Ian l’organo visivo rappresenta la possibilità di esercitare la propria professione di giornalista. Non gli vengono tagliate le mani, episodio che si verifica invece in Cleansed, ma estratti gli occhi perché Ian si è rifiutato di rendere testimonianza al mondo della guerra di cui vede gli effetti in prima persona.
Altra sequenza molto forte è la sodomizzazione di Ian ad opera del soldato. Una tale rappresentazione non costituisce un evento isolato per i teatri inglesi, anzi la loro messa in scena pare essersi intensificata negli ultimi dieci anni, a simbolo di una più ampia sopraffazione, violenza ed umiliazione. Il fatto che Ian da "penetrator" diventi "penetratee" riveste un significato più vasto, rispetto alla crisi della virilità espressa in The Penetrator di A. Nielson o in Shopping and Fucking di M. Ravenhill. Esso corrisponde al significato centrale dell’opera, svincolato quindi da problemi di identità sessuale: la violenza genera altra violenza, in una spirale infinita a cui solo la compassione umana può porre freno.
Phaedra’s Love (1996) è una rielaborazione in chiave moderna della tragedia senecana, in cui, al pari di Blasted, l’aggressione fisica e psichica gioca un ruolo di rilievo. Rispetto a quest’ultimo, dove il dolore scaturiva dalla specularità tra violenza privata e guerra civile, qui la prospettiva, inizialmente ristretta alla lotta familiare, si espande coinvolgendo la società civile.
I soggetti che interagiscono con il sentimento amoroso sono Phaedra e Hippolytus. Lei è simbolo della passione senza remore, lui incarna il totale rifiuto per ogni legame.
Il tema della passione di Phaedra per il figliastro si sviluppa attraverso tre scene consecutive: la seconda, che ha per oggetto il dialogo tra la regina e il medico di corte; la terza, che vede Strophe, figlia di Phaedra, cercare di dissuadere la madre dal mettere in atto il suo travolgente desiderio; la quarta, in cui la matrigna confessandolo e ricercando una realizzazione di esso, si rende schiava e vittima del principe.
L’incontro tra il dottore e la regina palesa il sospetto del primo per la folle esaltazione della donna. Mentre il colloquio verte sulla crisi depressiva del principe, assistiamo al graduale slittamento dell’attenzione del medico verso la psicologia della sovrana e ad una conseguente ansia per una possibile crisi del regno.
Nella scena successiva le ipotesi del medico riguardanti l’innamoramento di Phaedra appaiono come certezza assoluta. L’amore si palesa come una forza distruttiva, soverchiante, alla quale nulla vale potersi ribellare.
La passione della regina si può spiegare con due categorie di motivazioni. La prima trova origine nell’errore di Phaedra che, pur sapendo quanto Hippolytus maltratti i suoi amanti, si illude di poterlo redimere per mezzo della forza dell’amore, condannandosi ad un’inevitabile e penosa delusione esistenziale. Un'altra causa può essere individuata nel senso di abbandono provocato dalla partenza del marito subito dopo il matrimonio.
Quando la regina entra nella stanza del principe, egli è inizialmente indifferente. Il comportamento nei confronti della matrigna è provocatorio e sfocerà, di qui a poco, nella violenza morale.
Malgrado lui l’avverta che non si parleranno più se avranno rapporti sessuali, la donna gli pratica una fellatio. L’atto di Phaedra sta a significare l’estremo tentativo di compiere qualcosa di unico per il figliastro, perché comprenda e venga sedotto dal suo impeto sentimentale. In realtà la donna non si rende conto di essere strumento di un gioco di erotismo consumistico trito e vuoto. L’atto sessuale è caratterizzato da un intenso squallore. Persino nel momento dell’eiaculazione Hippolytus continua a guardare la televisione e a pescare dal sacchetto dei dolciumi.
Il crudele comportamento del giovane può essere parzialmente indotto dalla mancanza di stima che egli prova per se stesso, che lo conduce al rifiuto dell’amore, sia di carattere sensuale, sia divino. La rinuncia può essere interpretata quale riflesso e manifestazione del suo stato di abulia, una sorta di precauzione affinché nessun sentimento possa scuoterlo. Tuttavia, il problema ha anche una matrice di tipo diverso: nella conversazione che intrattiene col sacerdote, egli dichiara di vedere in Dio l’amante perfetto e la sua solitudine come benedizione. Il rapporto amoroso viene infatti considerato schiavitù, forma di competizione da cui un individuo potrebbe sentirsi schiacciato. Più probabile è che il principe abbia sofferto della fine di una relazione. Phaedra, nominando infatti una conoscenza del principe, Lena, suscita in Hippolytus un’ira selvaggia.
Il disamore che Hippolytus e Phaedra provano per se stessi incide in modo rilevante sia nella loro interiorità, sia nelle loro relazioni affettive. Esso sfocerà nell’autodistruzione.
Altro motivo fondamentale che prendiamo in considerazione è quello della violenza morale esercitata da Hippolytus nei confronti della matrigna e quella fisica della folla che aggredisce Hippolytus.
Il primo tipo di prepotenza che incontriamo nella tragedia è il sopruso sulla persona al fine di allontanarla definitivamente da sé. Mentre Phaedra, ad esempio, si sta preoccupando per la sua infedeltà e per un’eventuale gelosia che si potrebbe scatenare tra padre e figlio, lui, dopo essersi cinicamente tolto la curiosità della performance materna, la maltratta e la denigra per la presunta scarsa abilità amatoria.
Il colpo definitivo con cui il ragazzo assesta in maniera completa la "emotional decimation" è la dichiarazione dell’eventualità di aver trasmesso a Phaedra un’infezione, la gonorrea. Oltre a dare riscontro dello squallore della situazione in sé, alla malattia si può dare altra interpretazione. Essa, infatti, per la sua trasmissività, può essere intesa quale metafora della serpeggiante corruzione sessuale che ha origine da Hippolytus e si propaga di famigliare in famigliare. In seguito a questa rivelazione raccapricciante analizziamo quali siano nella regina gli effetti della violenza. La donna, pur aprendo bocca per protesta o difesa, non riesce per due volte a proferire parola. Per l’autrice la relazione tra la violenza e l’espressività orale è un motivo costante nella sua poetica teatrale. Già in Blasted la protagonista femminile rimane senza parole innanzi alle offese di Ian. In Cleansed, l’aggressione trova attuazione nella mutilazione della lingua.
La donna, profondamente scossa, si suicida dopo aver lasciato un biglietto in cui accusa il figliastro di stupro, anche se un abuso sessuale vero e proprio non c’è stato. Phaedra, prima di uccidersi, riassume l’accaduto in questa parola: "rape", ad indicare il martirio interiore. Un solo sostantivo, lasciato dietro sè dalla regina è sufficiente a far precipitare gli eventi in maniera inesorabile.
In Blasted si è accennato all’esplicita corrispondenza tra violenza privata e pubblica. In Phaedra’s Love la tematica è presente, anche se in quest’ultima pièce il passaggio tra le due sfere d’interesse è più fluido e consequenziale. Anche nella tragedia in esame, tuttavia, si assiste a una cesura tra una prima parte, dedicata alla violenza tra le mura di palazzo, e una seconda, che si concentra sulla furia della piazza contro Hippolytus. L’espandersi a macchia d’olio dell’aggressività sta proprio ad indicare l’inevitabile dilagare del comportamento violento e corrotto della monarchia. Dal dialogo della folla apprendiamo come l’odio per il principe travolga la dinastia reale. Mentre in un primo tempo il principe è venerato dal popolo, a partire dall’ottava scena, ovvero quella dell’esecuzione della condanna a morte, il giovane viene appellato per ben nove volte: "bastard".
Dal momento che l’influenza della monarchia sembra gravare negativamente sulla vita della società, è intenzione della moltitudine di risollevarsi epurando il casato regnante, eliminandone l’elemento corrotto, nella convinzione che uccidendo il principe malato, il regno guarirà. Di conseguenza, con sempre maggiore chiarezza, emerge il ruolo di capro espiatorio di Hippolytus.
I motivi fondamentali della tragedia portano alla dissoluzione del regno tramite il compiersi del destino di morte scelto da Hippolytus, pur potendo evitare la pena capitale confessando lo stupro non commesso, egli rinuncia per onestà. Il principe sembra seguire un percorso di vita simile a quello compiuto da Ian, che lo conduce infine al trasformarsi da carnefice a vittima, per mano del suo stesso popolo che un tempo lo amava, al quale ora appare come mostro, per effetto del preconcetto e della calunnia. Il testo dà espressione all’accanimento della Kane nei confronti del pregiudizio mostrando sulla scena come il "mostro" sia generato dalla necessità dell’opinione pubblica di credere in una netta separazione tra il bene e il male. L’incoraggiamento nasce dalla certezza che la minaccia scaturisce da qualcosa di lontano, da un fenomeno anormale che non ha nulla a che vedere con le zone d’ombra insite nella natura umana.
L’autrice propone, per la seconda volta, un antieroe dalle caratteristiche fisiche e psichiche fortemente negative a simbolo di questa anormalità. Un personaggio tuttavia capace, nel momento di crisi, di esprimere valori positivi, quali onestà e sincerità incondizionate. Hippolytus subisce il martirio per mano di una forza terribile: la zona d’ombra di cui si accennava, che ha origine da una società apparentemente normale. Come in Blasted anche in Phaedra’s Love l’autrice mette in guardia sull’eventuale imprevedibilità dello scatenarsi della bestia nell’essere umano, quando è messo alla prova.
Phaedra’s Love è una tragedia che ha per tema l’amore, la violenza e la ricerca della propria identità. Nel dramma che che gli succede in senso cronologico, Cleansed, assistiamo a come la Kane approfondisca ulteriormente queste tematiche. In questo dramma l’amore viene rappresentato innanzitutto come elemento strettamente collegato alla mutevole identità dei personaggi, come forza capace di far emergere la loro personalità. E’ quello che avviene, ad esempio, tra i due fratelli: Grace e Graham, per i quali esso è esperienza per ritrovare se stessi. Durante la terza scena viene introdotto il tema dell’identità personale associata a quello dello scambio degli abiti. Il corpo di Graham è stato bruciato in conseguenza alla tossicodipendenza, come se si trattasse di una malattia contagiosa. I suoi vestiti, non vengono tuttavia eliminati, ma recuperati. Il motivo del riutilizzo degli effetti personali ricorda pratiche da campi di concentramento. Gli abiti di Graham sono indossati da un giovane, Robin, che li scambia ricevendo a sua volta quelli di Grace. A causa del vestire i panni del fratello, la giovane donna inizia un lungo e doloroso processo metamorfico attraverso il quale lei stessa diventerà Graham, raggiungendo il perfezionamento della propria personale identità. La trasformazione ha inizio con l’incontro con il fratello. Esso permette a Grace e Graham di diventare consapevoli, non solo del vicendevole amore, ma anche del rispecchiarsi, l’uno nell’altro, della propria identità. La metamorfosi di Grace si completa col diventare uomo, quando le vengono asportati i seni e impiantati i genitali maschili. Inoltre, dall’uscita di scena di Graham, Grace e Graham sono anche formalmente indicati sotto il nome del medesimo personaggio: Grace/Graham.
L’amore è un sentimento, ma anche uno stato d’animo che costituisce una particolare occasione di maturazione interiore. La possibilità si presenta, oltre che per Grace e Graham, anche per Tinker e il giovane Robin. Quest’ultimo, malgrado abbia diciannove anni, mostra un particolare infantilismo accompagnato da una pronunciata immaturità sessuale. Con la conoscenza di Grace inizia tuttavia a provare due diversi sentimenti d’amore: quello filiale e quello carnale.
Entrando nella cabina del peep-show solitamente visitata da Tinker, Robin viene immediatamente investito da sensazioni contrastanti. La didascalia indica infatti che egli si sente dapprima impaziente, poi stupito ed infine angosciato. A causa del repentino richiudersi delle tende che gli impediscono di vedere l’oggetto del proprio desiderio Robin è colto da un improvviso senso di desolazione. Il peep-show può simbolicamente rappresentare una finestra aperta sulla psiche dei personaggi. Essa metterebbe dunque a nudo il desiderio e la loro psicologia sessuale. Una volta richiusa, essi si trovano, tuttavia, innanzi all’angoscia della propria solitudine. Ma se per Robin quella finestra si chiude per sempre, a causa del suicidio, per Tinker il rapporto con la donna al di là di essa dà luogo ad un travaglio personale che lo conduce all’esplorazione della propria affettività.
Nel peep-show Tinker ricerca una sua personale forma di soddisfazione sessuale, indotta attraverso la stimolazione visiva. Stupisce la contraddittorietà del comportamento del personaggio, dal momento che Tinker è soprattutto un sadico torturatore che normalmente si accanisce sistematicamente e implacabilmente contro ogni genere di manifestazione amorosa o erotica. L’artificiosità e la situazione di protezione creata entro il piccolo nucleo della cabina, inducono a pensare che egli desideri difendersi dalla perdita della propria personalità, causata da un eventuale rapporto amoroso. Pensiamo che egli ricordi, in quest’ultimo atteggiamento, il personaggio di Hippolytus, avendo in comune il rifuggire dai vincoli sentimentali e la determinazione a preservare la propria autonomia psichica. In seguito, il personaggio entra in crisi ricercando una maggiore intimità con la donna-oggetto. Un decisivo atto di avvicinamento con la Donna del peep-show si verifica con l’offerta del suo aiuto per farla uscire dalla condizione di prostituzione e la pronuncia di promesse amorevoli.
Come per Robin, anche per Tinker lo sportello del peep-show si richiude d’improvviso. L’inaspettato sbarrarsi della porticina sembra esprimere, in questo caso, sfiducia nella vita: come se non si disponesse di abbastanza tempo e risorse per conoscere se stessi e gli altri. La particolarità della situazione risiede anche nel fatto che Tinker è anche agente di una forza malefica che disintegra lo slancio vitale degli altri personaggi. Dopo esserne stato a sua volta vittima sembra decidere, quindi, di intraprendere un percorso di cambiamento verso il prossimo. Esso culmina con il risveglio definitivo di Tinker all’amore che arriva nella penultima scena.
Un rapporto amoroso dove vediamo come l’azione repressiva di Tinker si accanisce particolarmente è quello della coppia omosessuale Carl-Rod. Centrale è il tema del coinvolgimento all’interno del legame sentimentale e della correlata capacità di prestare fede ai giuramenti. Di essi Carl è un vero paladino. Tenta di rafforzare il vincolo amoroso attraverso iperboliche promesse che si rivelano, tuttavia, del tutto prive di fondamento. Egli desidera inoltre dal compagno una promessa per la vita. Rod si manifesta tuttavia sfavorevole, esprimendo sfiducia nell’impegno duraturo. Non cerca il distacco da Rod ma è tuttavia promotore dell’onestà nei rapporti interpersonali. Cinico e concreto, si dichiara scettico sulle promesse del compagno. Palesa inoltre l’unica concezione dell’amore possibile e realistica, l’unica plausibile rispetto alle iperboliche esternazioni di Carl. Il vero amore è, per lui, quello che si attua nel presente. Solo così sarebbe possible essere fedele al proprio sentimento e al proprio partner. Questa concezione dell’amore verrà ribadita nella sedicesima scena, particolarmente pregnante perché dimostra che il sentimento di Rod, contrariamente a quello di Carl, non è fatto di parole vaghe ma del sacrificio quotidiano.
Nel testo prevale un opprimente senso di impotenza di fronte alla forza repressiva di Tinker che schiaccia le personalità degli amanti e prevarica nelle loro relazioni col fine di annientarle. Tuttavia essi rivendicano strenuamente la propria libertà di amare. Carl, ad esempio, una volta mutilato della lingua con cui non può più proferire le sue vane promesse, cercando tuttavia un modo per comunicare con il compagno il proprio rammarico, inizia con greve e patetica fatica a scribacchiare su un tetro quadrato di fango. Di conseguenza Tinker gli taglia ferocemente le mani. Ciononostante Carl rinnova la propria determinazione ad esprimersi con una danza d’amore per Rod, dapprima goffa, poi terribile, folle e frenetica. Dal ballo trapela spasmo, rimpianto e disperazione. La danza è una fra le molteplici immagini di grande potere suggestivo che ricorrono nella pièce tra cui, la visione di fiori gialli che spuntano d’improvviso dal pavimento e quella contrapposta di grossi ratti affamati che rosicchiano gli arti troncati.
L’ultimo atto dell’amore tra Carl e Rod si compie nel sacrificio estremo di quest’ultimo. Quanto assolute erano state le esternazioni del primo, altrettanto lo è il gesto del secondo.
Le violenze contro Carl e Rod rivestono un ruolo ambiguo perché, se da un lato rappresentano la punizione per aver ceduto all’amore, dall’altro consentono ai due personaggi di emergere nella loro autenticità.
Le mutilazioni inflitte a Carl, per quanto dotate di alto potere suggestivo, non rappresentano una particolare innovazione. Il motivo del martirio inflitto tramite l’impalazione, nella quarta scena, sebbene ricordi anch’essa il teatro elisabettiano, è desunta principalmente della recente guerra in Bosnia. Anche la tortura psicologica, determinata dalla detenzione, è ricavata da un fatto d’attualità. Il racconto del suicidio di Robin è basato su i fatti relativi a un giovane di colore che si trovava in prigione a Robben Island con Nelson Mandela.
Robin è il personaggio nei confronti dei quali la violenza psichica e fisica sembra essere soltanto arma di implacabile repressione. Nel momento in cui egli pare aver riguadagnato la speranza e intrapreso la riscoperta del proprio io, viene completamente stroncato da Tinker. Robin cerca di offrire in dono una scatola di cioccolatini a Grace, ma Tinker obbliga Robin ad ingoiarli tutti, dopo averglieli tirati uno ad uno. La scena raggiunge il climax quando, malgrado il bisogno di vomitare, il ragazzo è ugualmente costretto a mangiare. Pensiamo che il gesto sia emblema di ciò che avviene nella psiche di Robin: il "rimangiarsi" i propri sentimenti e il sogno di emancipazione. L’annientamento della personalità del giovane si completa con il rogo dei libri, da lui stesso appiccato per imposizione del suo tiranno. L’analfabetismo di Robin ed il rogo sono possibile metafora della distruzione del potere della parola come conseguenza della violenza.
Le atrocità messe in scena in Cleansed colpiscono fortemente l’immaginario dello spettatore a causa della forza simbolica insita negli atti stessi. Il significato del gesto delle mutilazioni è talmente potente da turbare il pubblico anche se il sangue in scena, almeno nella prima rappresentazione londinese, è costituito da nastri di colore rosso. Specificamente, l’autrice sottolinea, al riguardo delle finalità di una rappresentazione metaforica della violenza, quanto essa faciliti la comprensione del significato del gesto. L’idea sottostante al dramma è la formalizzazione degli orrori, la collocazione entro una cornice di ritualità in favore di un distanziamento delle agonie.
La Kane ha volutamente insistito su una visione del mondo fatta di atrocità che rendono quasi impossibile l’espressione dell’identità dell’individuo, soprattutto qualora si tratti di sentimenti. Tinker il torturatore, agente di un’oscura forza repressiva è giustiziere, ma anche incitatore nel percorso dei personaggi verso la verità, come avviene per Grace che diventa Graham grazie alla metamorfosi fisica e Rod che nella morte esprime la concretezza del proprio amore. Tinker, questo personaggio dall’identità ambigua, sembra sentire anch’egli l’impulso ad amare e riesce ad esprimerlo alla conclusione di una forte crisi. Malgrado le efferatezze messe in scena e il personaggio di Robin, la cui fragile personalità è portatrice di disperazione che sfocia nel suicidio, il dramma esprime una visione globalmente positiva sull’amore.
Il lavoro di Sarah Kane comprende anche la sceneggiatura di un cortometraggio, Skin (1995), trasmesso dall’emittente televisiva Channel 4 nel 1997. E’ opportuno prendere in considerazione Skin per il fatto che anch’esso, come Blasted, propone la pietà umana come bilanciamento di una violenza disumanizzante.
In Crave (1998), penultima opera, l’azione drammatica si annulla e così la ricostruzione scenica. I personaggi sono ridotti a quattro semplici lettere. La teatralità è unicamente affidata al potere della parola di queste quattro voci che si uniscono in un tutt’uno straordinariamente musicale per descrivere i loro itinerari esistenziali. Anche in questo dramma ritroviamo l’espressione di molte forme di amore: sensuale, materno e, ancora una volta, l’aggressione.
Nell’opera ultima 4.48 Psychosis (2000), rappresentata postuma, è assente del tutto la distinzione tra le voci recitanti. A prima vista il testo appare come un monologo, nel quale manca l’azione, mentre il linguaggio si fa più poetico e evocativo, raggiungendo direttamente, senza mediazioni intellettuali l’interiorità dello spettatore o del lettore. La scena diventa l’interiorità dell’autrice. In effetti i paesaggi sono fatti di ricordi e pensieri visionari e allucinati. All’apice della carriera, la drammaturga colloca nell’interiorità la dicotomia irrisolta tra amore e violenza.
Appuntamento al
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