L'editoriale Nell'inverno del nostro scontento di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and1 Le notizie L'estate dei Festival di amm http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and2 La casa delle origini e del ritorno Discorso in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa dall’Università di Varsavia, 28 maggio 2003 di Eugenio Barba http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and3 Sistemi teatrali: competenze, convenzioni, contributi Relazione tenuta a Bari, 21 marzo 2003 di Fabio Abagnato (Ufficio Spettacolo e giovani artisti – Comune di Bologna) http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and10 Una legge dalla parte del nuovo teatro? Osservazioni e proposte aperte alla Regione Lombardia in relazione ai mutamenti normativi del settore spettacolo di Compagnie di produzione della Lombardia http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and11 Una anteprima da "Zapruder": La scena del conflitto Con l'indice del numero zero di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and29 La scena del conflitto Il teatro in piazza del Living Theatre di Carla Pagliero http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and30 Via Crucis Lettera da un amico lontano di Francesco Niccolini per Sandro Lombardi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and31 La scena delle identità elettroniche e genetiche Subtle tecnologies, Toronto, 22-25 maggio 2003 di Roberta Buiani http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and51 net art & altro Intervista a Valentina Tanni di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and52 Clicparade Le pagine più viste in questi ultimi tre mesi di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro53.htm#53and95
|
L'editoriale Nell'inverno del nostro scontento di Redazione ateatro |
«Non credo che lo scontento – questo spirito di ribellione che mi cavalca – possa alla fine acquietarsi», diceva Eugenio Barba lo scorso 28 maggio, concludendo il discorso in occasione del conferimento della laurea honoris causa dell’Università di Varsavia.
Il discorso tutto intero (breve ma forte) lo potete leggere su ateatro 53, e qualche pizzico dello spirito di ribellione di cui parla il fondatore dell’Odin Teatret lo trovate sparso qua e là nel numero.
Perché spesso ateatro sembra parlare di cose molto lontane tra loro, così diverse e divergenti. A unirle, insieme alla felicità della scoperta, al piacere della bellezza, è spesso la necessità di scavare e riflettere su questo scontento, in un inverno che sembra troppo lungo...
Così anche questo ateatro 53 torna a riflettere suoi suoi temi. In particolare ampio spazio è dedicato alla discussione su NTVI (nuovo teatro vecchie istituzioni): forse voi ve ne siete dimenticati, ma noi no. Così questa volta si parla della discussione sulle leggi regionali per il teatro, attualmente in corso di elaborazione: Fabio Abagnato racconta l’esperienza (o il modello?) emiliano-romagnolo, mentre dai gruppi del nuovo teatro della Lombardia arrivano una serie di richieste e proposte precise ai legislatori. Naturalmente nel forum apposito trovate altre info, aggiornamenti, pareri, dibattito.
E potete (anzi, dovete!!!) dire la vostra: che si fa nelle altre regioni? La situazione del teatro (e in particolare del teatro d’arte, per usare una etichetta di comodo) nel nostro paese si fa sempre più difficile: era prevedibile, è una crisi che riflette quella generale della cultura italiana e, a sentire il Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, anche il declino dell’intero paese. Il problema (almeno per quanto riguarda il teatro) è che le forze più vitali della nostra scena sono da sempre relegate in una condizione di marginalità e di debolezza. La reazione dei teatranti, in genere, è quella di salvare il proprio orticello, sperando che la nottata passi. Oggi questo non basta più, ma il Nuovo Teatro non sembra avere altre strategie, se non accodarsi a vecchi e nuovi potentati, sperando in un trattamento di favore. Non è un caso che l’ambiente diventi sempre più malsano, ed è inutile lamentarsi quando ci facciamo tutti complici di questo degrado.
Al dibattito sulla politica e sull’economia della cultura, ateatro affianca l’attenzione al teatro politico. Carla Pagliero riflette sull’esperienza del Living Theatre (un’anteprima per i frequentatori di ateatro: gli affezionati della carta potranno leggere il suo testo sul numero 1 della nuova rivista «Zapruder»). Francesco Niccolini ci regala Via Crucis, la lettera che ha scritto a Sandro Lombardi e che l’attore ha letto in piazza della Signoria in occasione del decimo anniversario delle stragi mafiose del 1993.
Per tnm, uno sguardo sul teatro che esce dai propri confini e incrocia le nuove tecnologie, nuovi materiali arricchiscono lo speciale teatro & nuovi media dello scorso numero: il reportage di Roberta Buiani da Toronto, sulla rassegna Subtle Techonologies illustra alcune esperienze di punta della sperimentazione internazionale, mentre l’intervista di Anna Maria Monteverdi a Valentina Tanni esplora la net art sia nei suoi incroci con le arti visive sia nel suo aspetto «militante».
Per quanto riguarda il teatro-teatro, nella sezione delle news trovare una prima panoramica con i consigli di ateatro per i Festival dell’estate.
Infine, un paio di comunicazioni di servizio.
Un po’ per gioco un po’ per narcisismo, abbiamo preparato una classifica delle pagine di ateatro più visitate in questi tre mesi (tra quelle nel database). I risultati sono interessanti, perché ci aiutano a cogliere il tipo di attenzione che suscita la nostra webzine e l’uso che ne viene fatto. Ma ricordate che le pagine nettamente più frequentate (com’è giusto su internet) sono quelle dei forum.
In secondo luogo, abbiamo ricevuto in questi mesi diverse offerte di collaborazione, da diverse città italiane. Purtroppo non siamo in grado di rispondere a tutti e per il momento non siamo in grado (organizzativamente) di allargare la redazione. Ma vi ringraziamo di cuore perché questi messaggi sono per noi molto incoraggianti: testimoniano di un’attenzione e di un desiderio di scambiare esperienze che danno speranza.
Dunque, fermo restando che ateatro è una struttura aperta, preghiamo tutti quelli che ci hanno chiesto di collaborare di postare i loro testi sui forum: sia nella pagina delle segnalazioni (dove si possono segnalare anche gli spettacoli...) sia in quella dei festival. I frequentatori del sito saranno certamente felici di trovare i vostri pareri sugli spettacoli che avete visto (e magari di discuterli).
Ancora, se volete collaborare con ateatro, ci serve un aiuto semplice semplice: volete inserire le segnalazioni della locandina di ateatro (magari con un vostro sintetico parere nella casella "Perché devo andarlo a vedere?").
Ma questi consigli (o richieste?) valgono per tutti, chi ci ha scritto ma anche ci finora si è limitato a leggere...
|
Le notizie L'estate dei Festival di amm |
7Dust-non lavoreremo mai della compgnia spagnola Conservas.
METAMORFOSI, Teatro Politeama di Cascina (Pi), 5-6-7 giugno.
Diretto da Alessandro Garzella il festival si apre con due nuovi studi produttivi: Crazy Shakespeare - performance a canovaccio con la presenza di attori e persone con disturbi mentali, ideato da Fabrizio Cassanelli e Alessandro Garzella e Preghiera bastarda - azione scenica su testi di Violette Leduc, Alda Merini e Patrizia Valduga ideata da Alessandro Garzella e Letizia Pardi.
Tra gli eventi speciali, Affronti di Alfonso Santagata. Grande attesa per la compagnia spagnola Conservas, con Simona Levi che presenterà 7Dust-non lavoreremo mai, spettacolo con attori, danzatori e videoproiezioni. Xear.org, il gruppo di tecnoteatro diretto dall'eclettico Giacomo Verde, presenterà oVMMO ovidiometamorphoseon live sound/video/action in cui una macchina scenica caleidoscopica esplora i miti del racconto di Ovidio. La Compagnia Pippo Delbono sarà presente con La rabbia dedicato a Pier Paolo Pasolini; la compagnia Ferdydurke Agon presenta Vendutissimi - asta d’anime in tv. www.politeama.net
CONTEMPORANEA 2003. Lo spettacolo e le arti delle nuove generazioni, Prato, 5-13 giugno.
Terza edizione per un festival che sarà dislocato oltre che al Teatro Metastasio e al Centro per l'arte contemporanea "L.Pecci", al Fabbricone, a Palazzo Vaj, ex sede dei maestri della lana, al nuovo Museo del Tessuto (ex fabbrica Campolmi), ai Cantieri culturali di Officina Giovani (un ex macello riconvertito in spazio espositivo) in cui le diverse proposte di performance e spettacoli cercheranno di esplorare una significativa interazione con questi ambienti che trattengono significativamente i segni di una techne antica e che riportano idealmente l'arte alla sua etimologia originaria. La sezione Alveare ospita performance e percorsi appositamente concepiti per questi spazi e a loro volta da questi condizionati, tra gli altri di Anonimascena, Arbus, Claudia Triozzi, Kinkaleri, Compagnia Virgilio Sieni, The Brads, LaPetitMort, Nic Rebes e il gruppo della lavanderia strepitosa, Pierre Bastien & Pierrick Sorin, Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino. La sezione dedicata al Teatro contemporaneo è divisa in proposte di spettacoli di compagnie che traggono motivo di ispirazione drammaturgica e comunicativa dal cibo (Laika, Famiglia sfuggita, Teatro delle Ariette), che si rivolgono all'infanzia (Giallo mare minimal teatro di Renzo Boldrini e Vania Pucci, Tpo di Davide Venturini, Teatro delle Briciole, Kismet, Compagnia drammatico vegetale, Koreja), che guardano alla interdisciplinarietà (Company Blu, Elsinor, Malpelo, Laboratorio Nove, Isole comprese, Skalen). La sezione include anche incontri e dibattiti su danza e teatro (a cura di Nico Garrone e Marinella Guatterini) e sul mestiere dell'attore (a cura di Gianfranco Capitta, che dialogherà con Federico Tiezzi e Massimo Castri). Confronti con critici, artisti e programmatori saranno coordinati da Andrea Nanni, Kinkaleri, Massimo Marino e Davide Venturini. www.contemporaneafestival.it
IL CAVALIERE AZZURRO, FESTIVAL DEL TEATRO DI PROSA, Piacenza, 21 giugno-7 luglio.
Con la direzione dell’attivissima Paola Pedrazzini, già ideatrice di un interessante cartellone invernale a Fiorenzuola d'Arda, molto spinto sui nuovi gruppi della ricerca teatrale, Piacenza inaugura quest'estate IL CAVALIERE AZZURRO, FESTIVAL DEL TEATRO DI PROSA a cui auguriamo lunga vita. Protagonisti: il Teatro del Lemming (già ideatore del festival Opera Prima di Rovigo, punto di riferimento per i gruppi della "terza onda" e da quest'anno clamorosamente chiuso per mancanza di finanziamenti adeguati) con Odisseo, viaggio nel teatro (24-25-26 giugno), una "drammaturgia dei sensi" che esplora il corpo del mito, Filarmonica Clown con il Don Chisciotte di Bolek Polivka (30 giugno), e Pippo Delbono con Enrico V (7 luglio); le tre compagnie realizzeranno per l'occasione laboratori sull'arte dell'attore, sulla clownerie e sulla regia, mentre Pippo Delbono e Pepe Robledo lavoreranno alla costruzione del coro dell'Enrico V offrendo allo spettatore sia la possibilità di indagare il processo creativo che conduce all'opera finale sia di prenderne parte attivamente. Per informazioni, prenotazioni, prevendita dei biglietti e iscrizioni ai laboratori: 0523/ 305254.
SANTARCANGELO DEI TEATRI, 4-13 luglio.
Dislocato tra Santarcangelo, Longiano, Cesena e San Mauro Pascoli, l'edizione 2003 di uno dei più importanti festival teatrali italiani sarà dedicata a drammaturgia e coreografia. Le coproduzioni (con anteprime assolute) riguardano spettacoli di nomi "storici" del teatro di ricerca italiano: la compagnia Lombardi-Tiezzi con In fondo a destra. Omaggio a Raffaello Baldini, protagonista Silvio Castiglioni; Danio Manfredini con il nuovo Cinema cielo, liberamente ispirato a Nostra Signora dei Fiori di Genet; il Teatro delle Albe, che riprenderà un testo di Marco Martinelli, I Refrattari. Due invece le coproduzioni per spettacoli della nuova scena: la compagnia di teatro-danza Kinkaleri per il progetto I Cenci (il gruppo toscano ripropone anche Otto, lo spettacolo che li ha imposti all'attenzione del pubblico internazionale); e il milanese Teatro Aperto con I canti del caos da Antonio Moresco, un lavoro che, come ricorda Federica Fracassi "si incentra su tre linee fondamentali: suono (un coro di 9 elementi esegue vocalmente tutto dal vivo), drammaturgia (rapporto con Antonio Moresco e eleborazione drammaturgica di un romanzo di più di 1500 pagine), scena (una distesa di mattoni, un deserto, una zona in deflagrazione)".
Tra i progetti speciali e le compagnie ospiti: Teatrino Clandestino (La bestemmiatrice) e Fanny & Alexander (Ada; Alice vietato>18 anni); Teatro della Valdoca (Imparare è anche bruciare); Davide Enia (Studio su Maggio '43); Ascanio Celestini (Radio clandestina; Fabbrica); Zimmer frei (Sporting life); Leonardo Capuano-Renata Palminiello (Due, primo movimento, prova aperta).
Tra i debutti: Marco Berrettini (Sorry, do the tour!), la compagnia Ferdyurke-Agon (Vendutissimi) e Vladimir Alelksic Damir Todorovic (Fratelli di Fausto Paravidino).
FESTIVAL VOLTERRATEATRO 03. I teatri dell’impossibile (14 - 27 luglio).
Diretto da Armando Punzo con l'organizzazione dell'associazione Carte Blanche, il Festival si svolge tra Volterra e alcune località limitrofe: Peccioli, Pomarance, Castelnuovo Val di Cecina, Montecatini Val di Cecina e Monteverdi Marittimo. Grande attesa per la presentazione del lavoro della Compagnia della Fortezza, composta da attori-detenuti che quest’anno festeggia i quindici anni di teatro. Titolo del nuovo spettacolo è I pescecani - ovvero cosa resta di Bertolt Brecht, che sarà rappresentato dal 21 al 24 luglio 2003 all’interno del Carcere di Volterra. Un primo studio era stato presentato lo scorso anno e giocava sulle suggestioni musicali di Kurt Weill adattate al dialetto napoletano, su quelle pittoriche di Grosz e Otto Dix e sull'atmosfera dei roaring Twenties. E' in programma anche la presentazione di uno spettacolo della Compagnia della Fortezza all’esterno del Carcere. Di grande rilievo, fra gli ospiti internazionali, la presenza del grande drammaturgo svedese Lars Norèn che presenta in prima nazionale Kyla, lavoro forte e realistico sui temi dell’intolleranza razziale, dell’alcolismo e della tossicodipendenza nel mondo giovanile. www.volterrateatro.it
INTEATRO FESTIVAL INTERNAZIONALE, Polverigi, Ancona, 4-12 luglio.
Nel piccolo centro a ridosso delle spiagge adriatiche del Monte Conero - il Festival Inteatro diretto da Velia Papa si presenta ancora una volta in questa sua XXVI edizione, originale e assai variegato nelle proposte (dal tecnologico al noveau cirque) con un'attenzione significativa alle nuove proposte artistiche. Innanzitutto, imperdibile per il pubblico appassionato di scena tecnologica, lo spettacolo Flicker del Big Art Group (4-5-6 luglio), giovane formazione newyorchese fondata nel 1999 da Caden Manson che il Festival di Polverigi si è assicurato con una esclusiva nazionale che avrà senz'altro echi importanti nella stampa.
Flicker del Big Art Group a Polverigi.
Come si legge dal comunicato "Flicker è un ‘real time Film’ in cui teatro, televisione e movimento sono un tutt'uno e replicano, in tempo reale, le azioni di un misterioso serial killer e delle sue vittime. Uno sguardo divertito, grottesco, dove si mescolano le trasmissioni trash, le serie Xfile, Tarantino e la strega di Blair". La compagnia cilena Teatro del Silencio, una delle prime ad aver realizzato il progetto di un nuovo circo che coniuga il virtuosismo tecnico con originali forme di scrittura teatrale presenterà dall’8 al 12 luglio, in prima Mondiale, O' divina la comedia del regista cileno Mauricio Celedon, già noto in Italia per Alice UndeRground. Altre presenze: Antonio Rezza e Flavia Mastrella (Foto Finish, prima assoluta) e Sidi Larbi Cherkaoui (It di Wim Wandekeybus).
All'interno del festival le 4 giornate di A_D_E_ Art_Digital_Era (Villa Nappi, 2/5 luglio 2003), a cura di Carlo Infante, dedicate alle tecnologie digitali e alle nuove forme di creatività. Al Racconto Digitale è dedicato il workshop (aperto a bambini ed educatori) con Joe Lambert co-direttore del Centro per il Digital Story Telling di San Francisco. www.inteatro.it
|
La casa delle origini e del ritorno Discorso in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa dall’Università di Varsavia, 28 maggio 2003 di Eugenio Barba |
Rettore Magnifico, professori, autorità, studenti, signore e signori,
permettetemi, come segno di gratitudine, in questa cerimonia che onora i miei compagni dell’Odin Teatret e me, di ricordare gli inizi: le prime parole di un noto testo teatrale:
- Merdre!
Il più conosciuto fra gli incipit del dramma europeo, forse andrebbe evitato in questo solenne consesso. Ma non si può, perché questa sorprendente esclamazione è, senza dubbio, la più significativa.
La provocazione con cui Jarry aprì Ubu Roi, quando fu scritta e detta la prima volta, dovette essere deformata (Merdre!) per risultare accettabile. Oggi, se non fosse deformata e contraffatta, sarebbe talmente banale da passare inosservata. Questa parola distorta dovrebbe essere scritta sulle bandiere dei nostri teatri, se i teatri alzassero ancora bandiere in cima ai loro tetti, come a Londra ai tempi di Shakespeare.
Quella parola sulla bandiera non è un insulto. È un rifiuto. È questo che il teatro, lo sappia o no, dice al mondo che lo circonda. E, per dirlo con efficacia e coerenza, deve allontanarsi dal linguaggio quotidiano, rielaborarlo e situarlo in uno spazio paradossale.
Lo spazio paradossale è l’unica patria del teatro.
Per questa patria Jarry ha creato un’immagine sarcastica e antitetica, degna di figurare come emblema su una bandiera:
Quant à l’action, qui va commencer, elle ce passe en Pologne, c’est à dire Nulle Part.
Era il 10 dicembre 1896, quando alla ribalta del Théâtre de L’Oeuvre di Parigi Jarry pronunciò queste parole, che possono risultare amare, ironiche, persino disperate – tutto tranne che tristi o provocatorie. Sono allegre e piene di vitalità, come l’humour noir che ho imparato a conoscere ed ad apprezzare qui in Polonia. Dovremmo però riflettere su un fatto: quando Jarry mise sulla carta quelle parole gioiose e nichiliste, Nulle Parte lo scrisse con le iniziali maiuscole. Non come un’assenza, ma come un’identità.
La Polonia è la mia patria professionale. L’ho sempre pensato perché qui ho vissuto gli anni fondamentali del mio apprendistato. Qui assimilai la lingua di lavoro, l’atteggiamento critico verso la storiografia, le basi del sapere e le tensioni ideali dell’artigianato teatrale. La Polonia fu l’ambiente che guidò i miei primi passi verso il mio destino. Oggi, nel momento del ritorno alla casa delle mie origini, dopo quasi mezzo secolo, mi chiedo se la Polonia non sia rimasta la mia patria professionale soprattutto per la sua forte vocazione a rappresentare per me il reame di Nulle Part.
Che cosa voleva dire Jarry con quell’espressione, nel lontano 1896? Accennava soltanto allo smembramento politico della nazione polacca? E a che cosa accennava scrivendo le parole maiuscole? Il greco l’aveva studiato seriamente, a scuola. E in greco nulle part diventa oû-tópos, Utopia. Era anche a questo che alludeva nel suo gaio e vitale humour noir? Noi lo sappiamo fin troppo bene, attraverso le nostre esperienze e la Storia che ha accompagnato le nostre vite, quanto l’Utopia abbia a che vedere con l’humour noir.
Parlo di Jarry, pensando alla mia Polonia di più di quarant’anni fa, ed ecco emergere Witold Gombrowicz e il suo Ferdydurke. Lo sapevamo a memoria. Il libro di Gombrowicz, come un grande mito beffardo, forniva le parole, i paradigmi e le tipologie attraverso cui Grotowski ed io ci parlavamo. Ed immediatamente, nel teatro interiore della mia mente, Gombrowicz e Jarry si accostano ad un artista che ha popolato di immagini indelebili il teatro del secondo Novecento, e del quale vorrei evocare la presenza: Tadeusz Kantor.
Di nascita e scuola sono italiano. D’educazione politica, norvegese. Professionalmente, polacco. Nel 1963, quando nel teatro-laboratorio 13 Rzedów di Jerzy Grotowski e Ludwik Flaszen dovevo mettere in scena un testo per il mio saggio di regia, pensai alle mie radici, alla Divina Commedia di Dante Alighieri. Progettavo uno spazio teatrale doppio, due palcoscenici ai due estremi della sala, e il viaggio di Dante in mezzo, fra gli spettatori, nello spazio del Disordine - una parola anche questa da scrivere con la maiuscola, come Nulle Part. Cercavo uno scenografo e mi rivolsi a Kantor. Ci incontrammo e parlammo a lungo. Era curioso e gentile. Non mostrò affatto il caratteraccio che si diceva. A Opole? E in quale teatro, al Ziemi Opolskiej? Gli risposi che lavoravo con Grotowski. Ricordo il lampo del suo sguardo. Kantor si alzò senza una parola e mi piantò in asso. Non l’ho più rivisto.
Questa è aneddotica, non è storia. Le rivalità, le gelosie, le glorie e le paure sono schiuma effimera e non vanno confuse con le potenti onde del mare che si accaniscono contro la stabilità della terra ferma.
Se richiamo alla memoria le onde apparentemente scomparse, non faccio l’appello d’una umar³a klasa, di "una classe morta": Tadeusz Kantor, Heiner Müller, Julian Beck, Carmelo Bene, Jerzy Grotowski. Queste onde sono diventate correnti profonde, temperano il clima in cui noi agiamo professionalmente, sono il nostro mondo. Se questo mondo, questo potente reame di Nulle Part, tentiamo di rinchiuderlo nei confini che chiamiamo "passato", siamo noi, in realtà, a morire. Quelle persone apparentemente scomparse non sono i nostri ricordi. Sono il nostro sangue, sono lo spirito vitale che ci mantiene in vita.
Chi mi conosce lo sa: più d’ogni altra esperienza, per me la Polonia fu Grotowski,. Non serve ripetere ciò che ho detto già tante volte. Questa cerimonia del 2003 è la scena più recente di un intreccio che cominciò nel 1961, con l’incontro a Opole d’un italiano di 25 anni, emigrato in Norvegia e che aveva molto viaggiato, e un regista polacco di 28 anni che aveva girato poco per il mondo, ma aveva cominciato a esplorare la geografia verticale, conosceva l’arte della politica e della dissidenza e sapeva metterle al servizio della sola libertà spirituale.
Riconosco in Jerzy Grotowski il mio Maestro. Eppure non mi sento né un suo allievo, né un suo seguace. Le sue domande sono divenute le mie. Le mie risposte sono sempre più diverse dalle sue.
Jerzy Grotowski aveva buon senso, per questo era distruttore del senso comune e delle illusioni. Era l’uomo del paradosso e trasformò il paradosso in un concreto paese. Conquistò la propria autorevolezza nei territori del teatro. Era un profeta, nel senso originario della parola, perché non parlava in nome proprio, ma in nome di un’oggettività poco evidente.
Pose la domanda fondamentale per il teatro del nostro tempo, la più dolorosa e decisiva per il suo avvenire. Il teatro come arte lo interessava solo come punto di partenza, né si illudeva che dall’estetica e dall’originalità dipendesse il suo potenziale futuro.
Chiese semplicemente: che cosa vogliamo farne del teatro?
Le domande profetiche non coniano parole nuove. Sovvertono le espressioni comuni. Quante volte l’abbiamo sentita ripetere questa domanda: "A che serve il teatro?". Le vere risposte non ci raggiungono attraverso le parole, sono fatti.
Che cosa vogliamo farne, del teatro? Dobbiamo rassegnarci ad essere custodi delle sue forme, governati dai turisti, dai funzionari del mecenatismo, dai regolamenti del solenne museo dello "spettacolo vivente"? O vogliamo decidere con le nostre azioni perché questo artigianato sia così necessario ad ognuno di noi, che cosa vada estratto da questo prestigioso reperto d’una società che non c’è più, con chi lottare per riconoscere i segreti e le potenzialità del nostro artigianato, come e dove rifondere ed utilizzare i suoi materiali e le sue sostanze?
Grotowski ha trasformato un modo di dire, un disagio diffuso e la scontentezza della gente di teatro, in una vera domanda. E ha risposto con l’evidenza dei fatti compiuti. Ha preso dalla professione teatrale ciò che serviva per creare una rigorosa disciplina di libertà sganciata da legami con qualsiasi metafisica o dottrina. Ha circoscritto una regione molto particolare del reame di Nulle Part: uno yoga senza una mitologia condivisa. Ha tracciato la rotta di un viaggio verticale a partire dal teatro.
Alla radice della domanda fondamentale, Grotowski piantò un totem: la tecnica. Non si riferiva alla manipolazione degli oggetti e delle macchine, ma all’indagine empirica dell’azione umana, dell’essere umano nella sua interezza e integrità. La tecnica era la premessa per un’unione difficile, a volte precaria, di quel che nella vita quotidiana è diviso: il corpo e la mente, la parola e il pensiero, l’intenzione e l’azione. Il totem era la tecnica dell’attore, cioè della relazione fra un essere umano e l’altro. "Attore" si dice al singolare, ma sottintende sempre due persone: senza spettatore non c’è attore – e neppure Performer, anche se scritto con lettera maiuscola. Qualunque sia poi il modo in cui la nozione di "spettatore" venga da noi interpretata, definita, incarnata o immaginata.
Domande identiche – risposte divergenti. Non è l’ortodossia fedele, ma l’incontro attraverso le differenze che permette al passato di circolare in noi come in un sistema sanguigno.
Il reame di Nulle Part promette accettazione, ispira senso di isolamento, esala chimere e, in alcuni rari casi, spinge verso la profondità. È questo che la tecnica regala, quando si avanza lungo la sua strada: la consapevolezza che la costrizione diventa strumento di libertà.
Nel reame di Nulle Part, sentieri che partono da luoghi distanti, si incontrano e si fondono. Altri, che hanno la stessa origine e sembrano indissolubili, si biforcano. Possiamo scoprirvi le scale che esplorano, verso l’alto e verso il basso, la geografia verticale. E possiamo trovare fortezze "dalle mura di vento" in cui tecnica e tensioni ideali inventano strategie che ci permettono di vivere nel nostro tempo senza essere del nostro tempo. Nello spazio paradossale del teatro si possono costruire storie parallele a quella della Storia che ci ingloba e ci trascina, e trasformare in solide relazioni umane valori che paiono solo sogni e ingenuità.
Parlo di fatti compiuti. Basta avere uno sguardo sufficientemente acuto e sperimentato per distinguere la storia sotterranea del teatro nel mondo moderno.
Cosa farne del teatro? La mia risposta, se debbo tradurla in parole, è: un’isola galleggiante, un’isola di libertà. Derisoria, perché è un granello di sabbia nel vortice della storia e non cambia il mondo. Sacra, perché cambia noi.
Sperimento il reame di Nulle Part come un regno abbandonato dai suoi re e della sue regine. La sua vita è regolata da molte discipline e nessuna Legge. È il luogo in cui si può dire "no" senza sprofondare nella negazione degli obblighi e dei legami. È il luogo del Rifiuto che non si separa dalla realtà circostante, anzi, dove l’atto di rifiutare può essere cesellato come un gioiello, come una favola attraente, che poi ci sorprende, quando ci sembra che parli di oggi e proprio a noi.
Oggi io sono commosso, perché sono dentro una favola, e questa favola è a Varsavia che mi viene raccontata. Quale luogo può rappresentare il castello delle favole meglio dell’università delle origini del mio percorso professionale alla quale ritorno come doctor honoris causa nel quinto atto della mia vita?
Eppure, in questo stesso momento, rivedo le ossa che i bulldozer scavavano alla luce fra le macerie di Varsavia ancora all’inizio degli anni Sessanta. Appartengo a quella generazione di giovani affamati di libri, che quando alzavamo gli occhi rischiavamo di vedere ossa fra la terra e le macerie portate vie dai camion che ricostruivano l’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Scoprivamo un’altra fame, oltre quella per il sapere e i libri. Come se senza leggere non si potesse respirare, ma tutti i libri, poi, fossero lì per nascondere la verità.
Per alcuni di noi che hanno goduto l’eloquenza e la poesia dei libri accanto all’orrido mutismo della ossa degli anonimi assassinati, il teatro è stato un ponte fra la fame di sapere e la fame di quel che si rivela quando si abbandona il sapere. Un ponte che si può costruire con metodo, secondo le migliori regole dell’architettura, ma che non è fatto perché ci si fermi su di esso, come se fosse un traguardo.
Sì, il teatro è un’arte. Ma la sua bellezza non basta a rapirci. Quest’arte è stata a lungo svalutata. Poi finalmente è stata apprezzata e premiata come merita. Degli apprezzamenti e dei premi, i miei compagni dell’Odin ed io vi ringraziamo, commossi. Ma abbiamo visto le ossa. Non si può pretendere che la pompa delle cerimonie teatrali e la loro solennità appaghi la nostra fame. I vasti palazzi delle favole sono fatti per essere visitati e lasciati. Se ci attacchiamo ad essi, ci trasformiamo in figure illusorie nelle mani delle streghe e degli orchi che siamo diventati.
Amo il teatro perché mi ripugnano le illusioni. Non credo che lo scontento – questo spirito di ribellione che mi cavalca - possa alla fine acquietarsi. Quando sembra ridotto al silenzio, sento l’odore della menzogna salire alle nari. Se lo scontento si acquietasse, del teatro non saprei più che farmene.
Ripetere, ripetere, ripetere. L’azione, in teatro, è fatta per essere ripetuta, non per raggiungere uno scopo ed andare oltre. Ripetere significa resistere, opporre resistenza allo spirito del tempo, alle sue promesse e minacce. Solo dopo essere stata ripetuta e fissata, una partitura può cominciare a vivere.
Cadrà ancora molta neve, il gelo tornerà. Dall’interno di questo laborioso scontento fatto di azioni, applicando questo artigianato della dissidenza che chiamo teatro, i miei compagni dell’Odin ed io ci sforziamo di non cedere alle tentazioni del progresso e all’impeto del tempo. Senza turbamento, con accanto i nostri morti amati e per noi sempre in vita, guardiamo quel che di noi giorno per giorno se ne va.
Ancora una volta i miei compagni dell’Odin Teatret ed io vi ringraziamo. A coloro che hanno oggi venti o venticinque anni, da questa cattedra, non abbiamo altra lezione da trasmettere a parole.
|
Sistemi teatrali: competenze, convenzioni, contributi Relazione tenuta a Bari, 21 marzo 2003 di Fabio Abagnato (Ufficio Spettacolo e giovani artisti – Comune di Bologna) |
LE REGIONI E IL FUS
Il rapporto tra le Regioni e lo spettacolo non comincia oggi ed ovviamente ha sempre evidenziato differenze territoriali in larga parte esistenti anche oggi.
Già dal 1977, quando furono fatti i decreti delegati 616,617 e 618, si discuteva dello spettacolo e, si prevedeva l’approvazione di una legge nazionale sulla prosa entro il 31 dicembre 1979. Evento irrealizzato, come si sa.
Da lì alcune regioni trovarono lo spazio autonomo per promulgare alcune leggi finalizzate al sostegno del teatro nel loro territorio, leggi approvate soprattutto nella seconda metà degli anni ’80.
Sono proprio gli anni della istituzione del FUS dell’85 e della circolare Carraro dell’88, episodi fondamentali per meglio orientare la nostra azione istituzionale.
A queste aggiungo quello che presenta più analogie con il momento attuale : l’abolizione del Ministero del Turismo e Spettacolo con il referendum del 1993.
Nei convegni del tempo tutti, mentre da un lato pubblicamente auspicavano le competenze alle regioni, dall’altro plaudivano ad una leggina-ponte di Ciampi che collocava il Dipartimento dello Spettacolo alla Presidenza del Consiglio.
E’ lì che si è persa la grande occasione di riparare ai guasti del FUS, ed è da lì che secondo me si è innescata una azione sempre più difensiva dei rappresentanti del mondo del teatro, che ha prodotto categorie sempre meno corrispondenti al ruolo che i soggetti hanno con la progettualita’ del territorio.
Nonostante ciò, sul finire degli anni Ottanta, mentre il FUS diveniva un po’ come Fort Apache, i Comuni, le Province, le Regioni hanno ristrutturato e aperto teatri e spazi produttivi, hanno promosso festival e rassegne, hanno promosso la creatività giovanile, che soprattutto nel campo delle arti visive e della musica può contare su reti nazionali ed internazionali permanenti e di qualità riconosciuta.
Ma soprattutto hanno letteralmente inventato una nuova giurisprudenza tutta da analizzare, costruita sul campo, fatta di trasversalità disciplinari e anche di approssimazioni successive, che in alcune aree del paese è oggi patrimonio consolidato.
Questa azione culturale è nata per evitare che la politica locale fosse subordinata alle storture evidenziate nella distinzione delle categorie e la conseguente distribuzione delle risorse del FUS.
Cosa sarebbe oggi il teatro in Italia senza l’azione degli enti locali?
Oggi, in giro per l’Italia, la situazione è questa.
Le Leggi Bassanini 59/97 e 112/98 hanno già prodotto nuova legislazione regionale ed il panorama è un po’ a macchia di leopardo, con normative e strumenti amministrativi più o meno rielaborati.
Penso per esempio all’ACCORDO DI PROGRAMMA come metodo di concertazione istituzionale e di programmazione capace di "contenere" gli effetti del ricambio nelle politiche locali di maggioranze e referenti: uno strumento che può dare stabilità agli operatori senza limitare l’autonomia degli enti locali.
Il referendum del 2001 ha assegnato alle Regioni una competenza legislativa, esclusiva o concorrente che sia, e quindi è comunque impensabile che lo Stato possa andare a definire qualcosa di più di una normativa generale, eventualmente solo sostitutiva in caso di Regioni inadempienti, anche mentre il Parlamento discute le proposte di legge presentate.
Il 2003 sarà probabilmente, e speriamo sia così, l’ultimo anno in cui il mondo del teatro viene regolato in modo uniforme da circolari, regolamenti o decreti ministeriali.
Per sperare di raggiungere una veridicità nel rapporto tra attività reale sui territori e categorie di attribuzione, e ammettendo per un momento che questo sia un obiettivo per tutto il mondo del teatro, non possiamo che ricostruire funzioni e missioni a partire dalle Regioni e dagli Enti locali.
Negli ultimi venti anni abbiamo assistito al proliferare di categorie, articoli, rappresentanze, senza mai analizzare con rigore le missioni che le realtà riconosciute svolgevano nei territori e a partire da questi.
Perciò io ritengo fuorviante la definizione di spettacolo come "bene culturale", anche se piace a molti operatori, che pensano di aver finalmente ricevuto un riconoscimento istituzionale "alto";
continuo invece a pensare che il teatro sia un diritto ed una risorsa, ovvero uno degli elementi costitutivi del Welfare locale e una delle forme economiche di un territorio, più vicina all’economia sociale ad alti contenuti innovativi e meno alle forme tradizionali di produzione di beni e servizi.
Regionalizzare il FUS significa soprattutto questo, enunciare la mission di ogni realtà e verificarne la rispondenza con costi e obiettivi, poi si potranno confutare o meno categorie che sembrano acquisite dal 1985 ad oggi, ma che non spiegano niente a chi assiste agli spettacoli; il tutto con gradualità e la stretta collaborazione di Regioni, Province e Comuni, che dovranno promuovere leggi chiare, ma soprattutto dovranno dotarsi di professionalità nuove al loro interno, che sappiano leggere i fenomeni culturali coniugando burocrazia e discipline artistiche; e non sfuggendo alle regole basilari della buona amministrazione, e tra queste nel nostro campo, pur nella discrezionalità insopprimibile, la qualificazione della spesa e la trasparenza delle scelte di fondo.
Nessuno dovrà pensare di esportare modelli nel teatro, ed infatti io mi limito a raccontarvi il sistema bolognese, augurandomi che il metodo delle approssimazioni successive e quelle che l’Europa ha denominato "buone pratiche", possano orientare scelte di politica culturale che riconoscano peculiarità e punti di forza del teatro nelle singole regioni.
La geografia teatrale bolognese
La compresenza di grandi teatri ‘di tradizione’ o ‘a vocazione generalista e di importanti soggetti dell’ambito della ‘ricerca’, l’ampia offerta che va dai legami con la cultura ‘popolare’ alla diffusione della cultura teatrale del novecento, fino alle migliori ed innovative produzioni per il mondo dell’infanzia, indicano la rilevanza della scena bolognese nel panorama nazionale.
L’Amministrazione Comunale ha nel corso degli anni strutturato rapporti diversificati con i soggetti operanti sul territorio, rivelando ed esplicitando un unicum culturale per il rapporto tra numero di abitanti e numero di teatri e compagnie attive.
L’importanza della scena bolognese, soprattutto dal punto di vista della produzione, viene indirettamente confermata dall’analisi dei dati riguardanti i soggetti della provincia di Bologna che hanno ricevuto finanziamenti per il triennio 2000-2002 attraverso l’accordo tra Regione e Provincia, in attuazione della Legge Regionale 13/99 "Norme in materia di spettacolo", dove circa un terzo dell’importo del finanziamento erogato dalla Regione Emilia-Romagna è stato assorbito dalle realtà bolognesi, a conferma della grande vitalità dell’area e dell’alto livello qualitativo dell’offerta.
Rifuggendo per un attimo dalle categorie ministeriali, si può descrivere la geografia teatrale di Bologna secondo differenti modalità, ma se prendiamo il punto di vista dell’ente locale possiamo giungere alle seguenti definizioni :
a) TEATRI COMUNALI
b) TEATRI CITTADINI CONVENZIONATI
c) TEATRI ADERENTI A BOLOGNA DEI TEATRI
d) COMPAGNIE E GRUPPI
TEATRI COMUNALI
La gestione dei teatri comunali fu modificata sostanzialmente nel 1994, quando furono attivate le convenzioni (della durata di sei anni) per la riapertura (avvenuta nel 1995) e la conduzione dei tre principali teatri di proprietà comunale (Arena del Sole assegnata alla coop. Nuova Scena, Teatro Testoni assegnato alla coop. La Baracca, Teatro San Leonardo assegnato al teatro laboratorio diretto da Leo de Berardinis).
Da allora ad oggi, quindi, questi tre teatri sono stati, secondo le loro diverse specificità, i punti fermi della programmazione teatrale bolognese. Il valore della specificità, della vocazione di ogni teatro, è stato intenzionalmente coltivato dall’A.C., seppure con risultati non definitivi ed unilaterali, al fine di permettere ad ogni realtà di trovare il proprio pubblico:
- l’Arena del Sole come ‘teatro popolare ed internazionale’, cioè generalista;
- il Teatro Testoni fu dedicato al ‘teatro per ragazzi’;
- il Teatro San Leonardo, infine, fu affidato all’esperienza di un importante uomo di teatro come Leo de Berardinis perché ne facesse un laboratorio permanente per la sperimentazione e la ricerca teatrale.
Attualmente l’Amministrazione ha ridefinito i rapporti con i primi due gestori fino al 2004, confermandone anche le vocazioni culturali ed è impegnata ad individuare una soluzione gestionale per il Teatro San Leonardo.
Il panorama dei teatri comunali nel 1998 si è arricchito con i "Teatri di Vita", una struttura di proprietà comunale, affidata in gestione, con un’apposita convenzione finalizzata alla rifunzionalizzazione degli spazi, con una concessione dello spazio della durata di 15 anni; è così nato il "Centro internazionale per le arti della scena", la cui vocazione è quella di offrire uno sguardo verso il teatro-danza contemporaneo, con particolare attenzione al panorama internazionale.
Investimento nel 2003 di circa 926.000 euro.
TEATRI CITTADINI CONVENZIONATI
Accanto ai Teatri comunali si situano, poi, altri teatri cittadini di proprietà non comunale, condotti con continuità artistica e gestionale (di programmazione ed ospitalità) da realtà con le quali il Comune ha avviato specifiche convenzioni, sulla base di scelte rinnovate o modificate nel luglio 2001, con durata biennale o triennale:
1. Eti –TEATRO DUSE
2. TEATRO DELLE CELEBRAZIONI
3. TEATRO DEHON
4. PALCOREALE/Elsinor
Investimento nel 2003 di circa 150.000 euro.
BOLOGNA DEI TEATRI
Le politiche per il teatro si sono arricchite nel 1998 con l’avvio del progetto ‘Bologna dei Teatri’.
L’adesione iniziale al progetto di ben 12 teatri cittadini, oggi saliti al numero di 19, estremamente diversi tra loro per tipologia di programmazione e modalità di gestione, conferma la validità dell’intuizione che sta alla base di una formula in costante evoluzione, basata sull’adozione di un’unica strategia informativa per la promozione dell’offerta e l’incentivazione al consumo culturale.
Grazie al coordinamento da parte dell’ente pubblico, ai teatri partecipanti all’iniziativa viene offerta la possibilità di ottenere una visibilità molto maggiore rispetto agli sforzi dei singoli, ed ai cittadini si garantisce il diritto all’informazione culturale.
L’impegno da parte del Settore Cultura consiste :
nella pubblicazione e diffusione di 30.000 guide al sistema teatrale cittadino;
uscite mensili di manifesti/locandine/programmi;
inserzioni pubblicitarie sui quotidiani a diffusione locale;
diffusione dei programmi all’interno di biblioteche, circoli, scuole, facoltà, musei, teatri;
presenza alle fermate dell’autobus;
mailing diretta a cittadini che ne fanno richiesta.
Investimento nel 2003 di circa 25.000 euro.
‘Bologna dei Teatri’ è anche il quadro in cui si inseriscono le campagne Cartagiovani e ‘L’Età d’Oro’ per gli anziani, attraverso cui il Comune offre a queste fasce di età una tessera per usufruire di forti sconti (compresi tra il 20 e il 50%) nei teatri.
Una conferma di queste iniziative è stata l’adesione ad esse di altri luoghi di spettacolo della città e della provincia anche non compresi nel cartellone di ‘Bologna dei Teatri’.
Un’altra campagna per incrementare la fruizione culturale, e nello stesso tempo l’uso del trasporto pubblico, è frutto di un accordo tra Comune ed ATC, che prevede sconti del 20% ai possessori di abbonamenti ai mezzi pubblici.
La forza dell’iniziativa intrapresa dall’Amministrazione Comunale con ‘Bologna dei Teatri’ risiede nell’idea di trasformare un potenziale punto debole, la segmentazione del panorama teatrale cittadino, talmente ricco da poter risultare disorientante, in un punto di forza, garanzia di un pluralismo di offerte a cui l’utente ha la possibilità di accedere in un unico momento informativo. L’obiettivo raggiunto è dunque di soddisfare ad un tempo le esigenze di visibilità, di interazione con l’istituzione e con il pubblico proprie degli operatori teatrali, nonché le esigenze informative e formative degli spettatori.
Teatri aderenti a ‘BOLOGNA DEI TEATRI’ per la stagione 2002-2003
(oltre ai comunali e ai convenzionati)
1. Fondazione TEATRO COMUNALE (rapporto regolato da una convenzione specifica, con contributo di circa 1.400.000 euro)
2. TEATRO ALEMANNI
3. SALA TEATRO SAN MARTINO
4. LA CASA DELLE CULTURE E DEI TEATRI TEATRO RIDOTTO (spazio di quartiere)
5. TEATRO DELLE MOLINE - T.N.E. (sub-concessione spazio)
6. CENTRO LA SOFFITTA (attività dell’Università)
7. TEATRO DEL NAVILE
8. HUMUSTEATER (spazio di quartiere)
9. EUROPAUDITORIUM - PALAZZO DEI CONGRESSI
10. SIPARIO CLUB ASSOCIAZIONE CULTURALE
11. ACCADEMIA 96 TEATRO DEI DISPERSI
In questo elenco permangono soggetti artistici e spazi molto differenti sia per il contesto in cui operano sia per la continuità ed il livello culturale della proposta complessiva, ma è innegabile che attraverso il progetto Bologna dei teatri il Comune è in grado di monitorare la totalità del sistema dell’offerta spettacolare, se si escludono luoghi non esclusivamente deputati e altri spazi di aggregazione giovanile, tipo LINK o TPO.
COMPAGNIE e Gruppi
Esiste a Bologna un panorama variegato e sempre in via di definizione di compagnie, professionali ed amatoriali, nuovi e "storici", che non gestiscono spazi e che divengono più o meno continuativamente interlocutori dell’Amministrazione attraverso il contesto dei finanziamenti relativi alle Libere Forme Associative, un fondo unico del Comune a cui afferiscono tutte le associazioni cittadine iscritte ad apposito Albo, e la cui destinazione per iniziative culturali ammonta nel 2003 a 250.000 euro.
Tra la fine del 2000 e l’inizio del 2001 la riflessione sulle giovani compagnie e sul contributo che l’A. C. può dare al loro sviluppo è maturata, portando all’individuazione di un’ulteriore tipologia di convenzione teatrale che potremmo definire di "terzo livello" e che giunge a configurare, appunto, la possibilità di una rapporto innovativo tra l’A. C. e il territorio del nuovo teatro.
Le convenzioni di "terzo livello" finora stipulate sono quelle con Teatrino Clandestino e Laminarie, più alcuni progetti musicali :
per un totale di circa 90.000 euro.
Si tratta di convenzioni biennali "per il sostegno alle attività di compagnie operanti per il rinnovamento della scena teatrale", che prevedono un finanziamento alle attività del gruppo con un accento posto sul processo creativo e sulla produzione spettacolare, e che si basano sulla convinzione che il sostegno stabile ai progetti culturali, da un lato, debba prescindere dalle attività di gestione e, dall’altro, non possa essere affrontato con la normativa che regola i contributi annuali alle associazioni culturali.
Oltre le convenzioni, i contributi
Le modalità di intervento e sostegno che l’A.C. ha elaborato nel corso degli anni si sono necessariamente diversificate per rispondere meglio allo specifico delle diverse realtà.
Se da una parte, infatti, le convenzioni valorizzano il rapporto tra A.C. e teatri cittadini, i servizi e i sostegni alle attività delle associazioni agiscono per la decisiva trasformazione da emergenza a risorsa del fermento delle realtà giovanili. Solo grazie a queste formula, durante gli anni passati, si è potuto contribuire in modo deciso alla crescita (artistica e produttiva) dei giovani gruppi teatrali bolognesi.
Tra le compagnie nate alla fine degli anni ottanta e nel corso dei novanta, alcune delle più significative sono proprio quelle bolognesi. Ma ciò non stupisce più di tanto, se si tiene conto del terreno assai fertile che Bologna offriva (ed offre), da una parte, con la presenza all’Università del corso di laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (D.A.M.S.), che "garantiva intanto approfondimento teorico, seminari sempre affollati e contatti continui con studiosi e artisti", oltre ad ingrossare, con la sua massa di studenti, le fila degli aspiranti artisti e di un ampio pubblico esperto ed attento, e dall’altra, con un lavoro dell’ente locale che "integrava le lacune o le cecità delle sovvenzioni statali con interventi di sostegno economici e culturali" .
Uno dei progetti più significativi in questo contesto è il Concorso/Festival Iceberg, rassegna di giovani artisti selezionati per discipline artistiche giunta alla sesta edizione, che si presenta come uno straordinario strumento di monitoraggio ed individuazione delle realtà giovani meritevoli di sostegno da parte dell’A. C.
Oggi questo progetto dialoga costantemente con concorsi analoghi della Regione Toscana, del Comune di Roma, del Comune di Milano e della Regione Lombardia, oltre al Premio Scenario, che è un riferimento per molti operatori ed artisti.
L’ondata teatrale di cui si è parlato finora si è caratterizzata per alcune peculiarità che la distinguono nettamente da quelle dei decenni precedenti.
Uno dei punti principali riguarda la tendenza alla sperimentazione dei linguaggi e delle modalità creative, spesso anche senza una finalità esclusiva rivolta allo spettacolo inteso nel senso tradizionale del termine.
La riflessione sulle giovani compagnie e sul contributo che l’A. C. può dare al loro sviluppo è maturata, e si delinea la necessità di sostenere in forme efficaci il processo creativo e la produzione spettacolare, prescindendo dalle attività di gestione.
Il bisogno primario per le giovani compagnie rimane tuttavia quella degli spazi di lavoro e dei servizi; il sostegno economico alla produzione è stato fondamentale (e continua ad esserlo) per le realtà artistiche in grado di programmare la propria produzione (ha reso possibili molte delle creazioni più interessanti della nuova generazione teatrale), d’altro canto ha rischiato di omologare identità artistiche.
L’emergenza di ogni gruppo di teatro, infatti, rimane sempre quella di trovare uno spazio come sede legale o luogo di lavoro e scambio artistico.
L’apertura di nuovi teatri (come è avvenuto massicciamente nel 1996) non è stata una risposta efficace per la nuova creatività, che ha la sua esigenza principale nella produzione.
La maggior parte di questi giovani gruppi non si pone, e non vuole porsi, il problema della gestione (con scambi all’interno di un mercato protetto), bensì esclusivamente quello della propria ricerca artistica.
Soluzioni adottate
Non essendo quasi mai possibile, per motivi finanziari, soddisfare tutte le esigenze, l’Amministrazione Comunale, ovvero Settori e Quartieri, hanno cercato strade che permettessero di rispondere alle necessità, e la valutazione odierna è che in questa direzione non sia stato creato nulla di efficace in forma permanete e strutturale.
Le soluzione principali sono state due:
1. l’evoluzione delle sale prova dei quartieri in forma convenzionata o autogestita dai gruppi che le utilizzavano, come è avvenuto nelle ex scuole F.lli Cervi ( oggi denominate Humus ), o nell’ex centro giovanile F.lli Rosselli;
2. le convenzioni pluriennali stipulate con i gestori dei teatri, che prevedevano un’azione in questo senso: l’impegno dei gestori a concedere ai nuovi gruppi teatrali lo spazio per le prove e lo spettacolo al solo rimborso dei costi vivi.
Tuttavia la vera sfida in questo campo sarà quella di optare per la creazione di un vero ed efficiente centro di servizi alla produzione, che offra un sostegno concreto e flessibile, attento alla qualità e al pluralismo.
La sola scelta di affidare gli spazi in esclusiva alle compagnie, a fronte di un contributo per un servizio "chiavi in mano", ha insegnato che pur in presenza di autonomia imprenditoriale, qualità dell’offerta ed economicità nel servizio, non si è ottenuto un grado di apertura necessario alle proposte che giungevano dalla città e in special modo dalle nuove formazioni; ed è alla base di ciò che si ritiene tale modalità una soluzione gradita alle realtà artistico-imprenditoriali, a volte necessaria per riaprire spazi teatrali, ma non consigliabile quando il sistema deve dare risposte plurime e differenziate.
Al fine di coniugare questa esigenza con la creatività bolognese, lo spazio può avere come attività prevalente le attività performative, ma all’interno di un dialogo tra le discipline che nell’ultimo decennio ha prodotto sempre più commistioni, anche sostenuto dall’evoluzione tecnologica.
Considerazioni e proposte per il futuro
Dopo quasi trenta anni dalla stipula della prima convenzione per la gestione di uno spazio teatrale gli enti locali, quelli delle Aree metropolitane soprattutto, dovrebbero riorganizzare il sistema delle convenzioni, che, fermo restando le titolarità degli immobili, possa ricostruire criteri e modalità del sostegno, un sostegno che non può che produrre aumenti di investimento negli anni a venire.
Quali nuove convenzioni?
Il sistema delle convenzioni potrebbe essere articolato secondo quattro campi d’azione:
1. Adesione ai progetti di promozione del sistema e di incentivazione al consumo
un contributo fisso per le agevolazioni al pubblico previste dal progetto, correlate alla capienza delle sale, e l’impegno a promuovere anche la programmazione degli altri teatri, anche mediante abbonamenti trasversali;
2. Vocazione artistica e imprenditoriale
il tentativo è quello di favorire, a tutti i livelli della programmazione e della progettazione teatrale, il definirsi di vocazioni specifiche, tanto nelle scelte artistiche quanto in quelle gestionali, affinché, per quanto possibile ciascuna realtà si metta in relazione diretta con il suo pubblico, che potrà muoversi all’interno di un’offerta ricca e diversificata.L’onere di questa parte di contributo è legata al progetto artistico.
3. Servizi al sistema cittadino
Per le compagnie cittadine, nuove e/o consolidate, va considerata come necessità prioritaria quella dello spazio per produrre o per presentare gli spettacoli e non essendo possibile soddisfare tutte le esigenze, bisogna cercare strade che permettano di rispondere con i palcoscenici esistenti alle necessità di molti; la sfida per l’A.C., oltre alla sopraccitata creazione di un centro di servizi alla produzione, è premiare i teatri che sostengono la creatività bolognese erogando contributi a stagioni ultimate, oppure riservandosi un adeguato numero di giornate di programmazione da destinare gratuitamente per prove e spettacoli alle compagnie che lo richiedono secondo un progetto condiviso;
4. Struttura della programmazione
questo quarto campo d’azione riguarda la crisi di crescita dell’offerta produttiva e distributiva, che non privilegia una equa presenza della programmazione lungo l’arco dell’anno solare e che, soprattutto, non è sincronizzata con alcuni eventi delle città e del panorama regionale; i rapporti con i teatri cittadini devono incentivare, dunque, un’offerta spalmata anche in stagioni non canoniche del teatro, per arrivare ad una copertura continua senza periodi di sovraofferta, sostenendo l’utilizzo produttivo delle sale anche a stagione iniziata e comprendendo nel contributo anche i progetti estivi più consolidati negli ultimi anni.
In conclusione
Sappiamo quanto è difficile ragionare di ciò con gli operatori, spesso difensori dell’autonomia artistica quanto gli assessori di turno del loro libero arbitrio, ma riteniamo con qualche ragionevole elemento che le autonomie sia politiche sia culturali, saranno tanto più difendibili quanto più inserite in un quadro di stabilità normativa, di certezza dei criteri di giudizio e di condivisione dei percorsi di analisi culturali ed economiche.
La regionalizzazione dello spettacolo sarà raggiunta positivamente solo se la parte sana e innovativa del teatro italiano la saprà interpretare senza titubanze e se saprà accompagnare il processo di appropriazione delle nuove competenze da parte di Regioni, province ed enti locali.
|
Una legge dalla parte del nuovo teatro? Osservazioni e proposte aperte alla Regione Lombardia in relazione ai mutamenti normativi del settore spettacolo di Compagnie di produzione della Lombardia |
Milano, 12 maggio 2003
ALLA CORTESE ATTENZIONE
Assessore alle Culture, Identità e Autonomie della Regione Lombardia
Prof. Ettore A. Albertoni
Unità Organizzativa Spettacolo
Dott.ssa Maria Beatrice Molinari
Dott.ssa Monica Abbiati
PER CONOSCENZA
AGIS Unione Regionale della Lombardia
CONFCOOPERATIVE Unione Regionale della Lombardia
LEGA COOPERATIVE
NTVI Coordinamento nazionale Nuovo Teatro Vecchie Istituzioni
DALLE COMPAGNIE DI PRODUZIONE
A.T.I.R. (Milano)
Teatro Aperto (Milano)
Aia Taumastica (Milano)
Aida (Milano)
Alma Rosé (Milano)
Animanera (Milano)
Ass. Cult. Dionisi (Milano)
Delleali (Milano)
La Fionda (Milano)
Teatro Inverso (Brescia)
Teatro Magro (Mantova)
Xpò/Lis (Milano)
OGGETTO:
OSSERVAZIONI E PROPOSTE APERTE ALLA REGIONE LOMBARDIA IN RELAZIONE AI
MUTAMENTI NORMATIVI DEL SETTORE SPETTACOLO
PER CONTATTI:
Federica Fracassi (TEATRO APERTO)- 02/58319484 333/7177691
teatroaperto@yahoo.it
Michela Cavaterra (A.T.I.R) 02/58325578 348/7736644 atirteatro@libero.it
In relazione agli incontri del tavolo teatrale indetto dalla Regione
Lombardia, nati come confronto sulla prospettiva di una nuova normativa
regionale nel settore cultura e spettacolo, 12 compagnie teatrali di
ricerca, rappresentate da A.T.I.R. e TEATRO APERTO, hanno elaborato proposte
e suggerimenti atti a orientare le prossime decisioni in materia, derivati
da un confronto attivo con i responsabili istituzionali, con altri operatori
del settore e con i protagonisti delle nuove generazioni teatrali.
Alla luce del nuovo Decreto Legge Ministeriale del 27.02.2003, inscritto a
carattere transitorio nel futuro passaggio di competenze tra Stato e
Regioni, e al PdL della Regione Lombardia n. 261 «Norme in materia di beni,
attività e servizi culturali», ci pare quanto mai opportuno e urgente
delineare, sebbene in modo ancora sintetico, contenuti e linee guida che
rivelino esigenze e prospettive delle compagnie teatrali operanti in
Lombardia, compagnie, che svolgono un ruolo centrale e riconosciuto nel
panorama artistico nazionale e che intendono elaborare progetti visibili e
concreti in sinergia con la regione in cui hanno sede.
Le suddette compagnie di produzione si riconoscono come soggetti operanti in
ambito culturale, difendendo quindi il dato della continuità dell’attività
intrapresa.
Al contempo non intendono precludere la loro attività a progettualità
elastiche e innovative.
A questo proposito è di primaria importanza l’elaborazione di nuovi e
diversificati parametri, che consentano di mettere in relazione i «Soggetti»
ai «Progetti».
Il PdL è lacunoso riguardo a questo delicato nodo. Da un lato sottintende
gravemente l’esistenza dei «Soggetti», dall’altro utilizza il termine
«Progetto» senza precisarlo e ancorarlo a dati di realtà del settore.
Pur condividendo gli intenti di flessibilità e semplificazione delle leggi
di settore del PdL e auspicando una maggiore trasparenza e capacità di
valutazione del «nuovo» in relazione al sostegno ai Soggetti, per permettere
quel ricambio generazionale fisiologico, che ad oggi pare preventivamente
bloccato, l’attuale formulazione del PdL non offre la certezza normativa
richiesta dagli operatori di settore.
Date queste premesse e a fronte di gravissimi problemi gestionali legati al
vuoto legislativo e regolamentare nazionale dei mesi passati, le compagnie
sostengono innanzitutto quanto sia fondamentale una legge quadro nazionale
che garantisca, al di là degli specifici regionali, pari opportunità alle
compagnie su tutto il territorio nazionale.
Crediamo inoltre che ciascuna Regione debba dotarsi obbligatoriamente di una
propria legge sul teatro.
E' fondamentale che il passaggio di competenze alle Regioni renda più
diretto il rapporto con l'istituzione senza chiuderlo in un ambito più
ristretto.
Preso atto dell’imminente abrogazione delle leggi regionali lombarde che
regolano gli orientamenti finanziari in materia di spettacolo (che non tocca
peraltro il portafoglio delle leggi speciali a sostegno di organismi di
spettacolo quali La Scala e il Piccolo Teatro) le compagnie propongono:
a - di ragionare intorno a una Legge Regionale sullo Spettacolo,
indipendentemente dal PdL.
b - se questo non potesse avvenire, a causa di una più vasta e già concertata
ristrutturazione del settore culturale, di affiancare fin da subito al nuovo
PdL sulla cultura un regolamento approfondito.
E’ fondamentale, nel momento di un’abrogazione generale dell’esistente,
tutelare il futuro con proposte concrete e già formulate, che tengano conto
del panorama culturale reale della regione.
Di seguito si declinano le linee di orientamento e di intervento che le
compagnie intendono proporre e perseguire in sinergia con la Regione
Lombardia.
FINALITA’
( Quelle che per le compagnie dovrebbero essere le finalità di una legge o
regolamento sullo spettacolo)
1. La Regione riconosce lo spettacolo, aspetto fondamentale della cultura
regionale e della crescita civile e culturale dei cittadini, quale mezzo di
espressione artistica, di formazione, di promozione culturale, di
aggregazione sociale e di sviluppo economico.
2. La Regione con la presente legge fissa gli obiettivi, le modalità, le
tipologie di intervento in materia di attività teatrali, musicali, di danza,
cinematografiche e audiovisive sottolineando la tendenza odierna al
superamento di demarcazioni precise tra i generi.
3. La Regione pone la libertà e l’autonomia della cultura, il pluralismo
culturale e artistico a fondamento delle proprie leggi.
4. La Regione orienta gli interventi in materia di spettacolo incentivando
in particolare la produzione, la circuitazione regionale, nazionale e
internazionale, la mobilità e la formazione del pubblico
COMITATO SCIENTIFICO
( Proposta delle compagnie di un’alternativa all’organismo della Consulta
che viene abrogato dal nuovo PdL)
1.Istituzione di un Comitato tecnico scientifico composto da cinque membri
in possesso di comprovate specifiche competenze professionali di riferimento
2. Caratteristica fondamentale per i candidati alla Commissione è che essi
non versino in situazione di incompatibilità e conflitto d’interesse diretto
o indiretto in rapporto alla contribuzione pubblica ovvero che si dichiarino
disposti a sospendere tali incarichi per il periodo di nomina
3. La Commissione deve avere incarico triennale con possibilità di rinomina
di tre su cinque membri solo per un ulteriore triennio, al fine di garantire
continuità al lavoro svolto.
4. Almeno uno dei membri della Commissione deve avere un’età inferiore ai 35
anni
5. Almeno due dei membri non devono avere coinvolgimenti diretti con la
realtà regionale di riferimento, cioè devono aver svolto la maggior parte
della loro attività professionale fuori dal territorio regionale
6. La composizione, le modalità di funzionamento e i compensi che sarebbe
auspicabile venissero adeguatamente garantiti ai membri della Commissione
per il lavoro svolto sono stabiliti dalla Giunta Regionale in concorso con
Stato, Province e Enti Locali.
Compiti del Comitato Scientifico
1.La Commissione ha potestà di vigilare sulla corretta osservanza delle
leggi regionali di riferimento da parte dei soggetti finanziati
2. La Commissione ha l’obbligo di incontrarsi quadrimestralmente con un
minimo di dieci operatori, scelti annualmente a rotazione, in rappresentanza
di tutte le realtà teatrali presenti sul territorio, di cui almeno un
elemento non appartenente ad associazioni di settore.
3. La Commissione è chiamata a dare un parere valutativo sulle realtà
finanziabili secondo parametri che rispettino un giusto equilibrio tra
storicità, qualità e attività, permettendo il ricambio generazionale
ARTICOLO COMPAGNIE DI PRODUZIONE
Esistono in Italia artisti e gruppi teatrali che non sono legati stabilmente
alla gestione e alla programmazione di un teatro o di altri luoghi di
rappresentazione.
La loro vocazione e il loro principale, se non spesso unico intento, è la
creazione di eventi e spettacoli basati sull’innovazione dei linguaggi
teatrali e direzionati al superamento dei generi.
Le 12 compagnie di cui sopra si riconoscono in questi principi definendosi
compagnie di produzione, che lavorano al di fuori delle logiche proprie di
un’impresa teatrale commerciale. Queste compagnie operano in ambito
culturale con ampi margini di rischio. Sono produttori di bene pubblico e
non di merce.
A questo proposito il concetto di impresa commerciale, che è valido per
altri organismi operanti nel settore, e i parametri ad esso collegati devono
essere reinterpretati alla luce delle reali caratteristiche delle compagnie
di produzione.
La definizione di identità nasce da un’esigenza di chiarezza, conseguente a
un pensiero sull’efficacia operativa di un’intenzione riformatrice. I
contesti indifferenziati celano spesso differenti esigenze, interessi,
vocazioni e realtà di lavoro, mentre ci pare necessario capire le differenze
di contesto e dar loro un posto e un significato all’interno di una
direzione comune.
A questo proposito riteniamo fondamentale tracciare una demarcazione (più in generale in relazione alle vocazioni, più in particolare in relazione ai parametri di valutazione) tra le compagnie di produzione e altri soggetti
(teatri stabili d’innovazione, teatri stabili privati etc.) che ad oggi
partecipano degli stessi articoli della Legge Regionale, sebbene abbiano
vocazioni, caratteristiche e gestioni economiche totalmente non equiparabili
a quelle delle compagnie di produzione.
E’ inoltre questa l’occasione per rilevare come siano pochissime, se non
addirittura un’eccezione, le compagnie di produzione sostenute dalla Regione
Lombardia, benché questo non abbia un riscontro effettivo riguardo alla
realtà territoriale lombarda, una delle più ricche di fermenti teatrali e
benché molte di queste compagnie abbiano pieno riconoscimento nel panorama
nazionale. Questo dato sottolinea una preoccupante lacuna, che le
istituzioni spesso hanno collaborato ad ingrandire, basando la loro politica
su progetti di eccellenza e senza tenere in dovuto conto il sostegno alla
proliferazione di un humus territoriale necessario alla vita culturale della
regione e del paese.
PARAMETRI
Sottolineiamo come gli odierni parametri relativi alla Legge Regionale non
possano tutelare né agevolare le formazioni teatrali di ricerca.
La ricerca ha tempi di produzione, quantità di pubblico e intenti non
equiparabili a quelli di esercizi più commerciali.
E’ necessario innanzitutto rivedere i parametri di accesso al contributo
regionale.
E’ un dato di fatto evidentemente negativo che i parametri d’accesso ad oggi
(costi non inferiori ai 60.000 euro) equiparino i bilanci delle compagnie a
quelli di teatri stabili privati e d’innovazione e inoltre siano identici ai
parametri di mantenimento del contributo, non permettendo a nuovi gruppi di
affacciarsi al riconoscimento istituzionale.
Proponiamo la declinazione di diversi parametri d’accesso in rispetto delle
diverse attività ed esigenze secondo questo modello.
1. La Regione Lombardia riconosce il ruolo rivestito dalle Compagnie
all’interno del sistema teatrale lombardo, volto alla valorizzazione e al
rinnovamento del linguaggio teatrale italiano, alla diffusione della cultura
teatrale e dello spettacolo dal vivo sul territorio regionale, nazionale e
internazionale, nonché allo sviluppo professionale e produttivo del settore
e sostiene la loro attività, che è improntata a criteri:
a - di professionalità artistica e gestionale e continuità del nucleo
artistico
b - di attività di produzione teatrale propria
c - di aggiornamento e perfezionamento professionale e diffusione della
cultura teatrale
d - a modalità operative basate su articolati e organici progetti culturali
2. Il sostegno della Regione Lombardia si articola sulla base delle seguenti fasce contributive:
fascia a)
Contributi a Compagnie teatrali che abbiano sostenuto, nell’anno precedente
al triennio (o annualità) per il quale viene richiesto il finanziamento
regionale, costi non inferiori ai 50.000 euro ( il contributo regionale per
questa fascia di contribuzione non può essere inferiore ai 10.000 euro )
fascia b)
Contributi a Compagnie teatrali che abbiano sostenuto, nell’anno precedente
al triennio (o annualità) per il quale viene richiesto il finanziamento
regionale, costi non inferiori ai 25.000 euro (il contributo regionale per
questa fascia di contribuzione non può essere inferiore ai 5.000 euro )
3. La Regione Lombardia ritiene importanti ai fini di una valutazione
quantitativa tutti i generi di recite certificate da distinta d’incasso o da
attestazione di avvenuta replica sottoscritta dall’ente ospitante.
4. A prescindere dall’ancora non chiara gestione del FUS da parte delle
regioni, sottolineiamo l’importanza di progetti di respiro pluriennale.
Auspichiamo che nell’accesso ai finanziamenti venga introdotto il criterio
della triennalità con verifica di bilancio annuale, che garantisce la
stabilità delle realtà sovvenzionate e una gestione economica di più ampio
respiro.
D’altro canto in linea con il Decreto Legge Ministeriale chiediamo che venga
mantenuta per le compagnie l’alternativa di richiesta annuale di accesso ai
finanziamenti regionali.
GRUPPI ESORDIENTI
Riteniamo fondamentale che venga creato un terreno di crescita e confronto
per i gruppi esordienti, quasi sempre schiacciati dal peso della storicità
di altri organismi.
Tali gruppi saranno da intendersi «giovani» non in relazione all’età dei
componenti, ma in relazione all’avventura produttiva. Essi non avranno
precedentemente avuto accesso stabile al contributo regionale e
ministeriale.
Il riconoscimento dei gruppi esordienti non può esaurirsi in monitoraggi e
tutoraggi temporanei come è stato fino a oggi nel caso di «Scena Prima» (che
partecipa della Legge 9/93).
Riteniamo fondamentale che venga garantito a tali gruppi «un portafoglio per
l’avvio».
In alternativa:
a) che esso sia il portafoglio che fa oggi capo al marchio «Scena Prima» (in
tal caso, anche in presenza di un mutamento del progetto la Regione dovrà
vincolarlo alla tutela dell’avvio delle giovani realtà)
b) che tale portafoglio sia garantito indipendentemente dal progetto «Scena
Prima».
In entrambi i casi chiediamo la creazione di una commissione permanente, in
cui dovrebbero essere presenti almeno due membri delle compagnie di
produzione lombarde (uno di natura più economico organizzativa, l’altro di
natura più artistico cognitiva), che si preoccupi di:
a - non solo di selezionare i gruppi, ma di accompagnarli fin da subito nel
percorso organizzativo (leggi, bilanci, promozione, organizzazione etc;)
b - dare ai gruppi la possibilità di amministrare i fondi destinati
all'iniziativa
c - responsabilizzarli in una progettualità a venire
d - individuare strutture in grado di ospitare la produzione "in stagione" e
non ai margini come è stato specialmente nelle ultime edizioni.
e - Istituire un premio di sostegno economico al gruppo più meritevole
SPAZI
Se da un lato si fa esplicita richiesta alle compagnie di produzione di
avere uno spazio, ritenendolo un indicatore di qualità, dall’altro non si dà
il necessario sostegno nell’individuazione e nell’acquisizione (affitti e
acquisti agevolati) di spazi sul territorio comunale e regionale.
Chiediamo alla Regione un più preciso impegno su questo punto, anche nella
cernita e assegnazione degli innumerevoli spazi regionali o demaniali del
territorio.
L’eterogeneità delle richieste e delle esigenze delle singole compagnie
potrebbe rappresentare una ricchezza nella valorizzazione di spazi
altrimenti non gestiti o abbandonati, di spazi off o teatri minori che
rientrerebbero così nella circuitazione e nella visibilità del progetto
regionale.
5.
RESIDENZE
1. Al fine di favorire una equilibrata diffusione della cultura e dell’arte
teatrale sul territorio lombardo, nonchè di giungere alla creazione di un
organico sistema teatrale regionale in cui interagiscano realtà pubbliche e
private, chiediamo che la Regione Lombardia promuova e sostenga la
diffusione e il radicamento di residenze multidisciplinari.
2. Per residenza multidisciplinare si intende la permanenza di un soggetto
teatrale professionale (compagnia di produzione), con esclusione dei Teatri
Stabili, in un ambito territoriale omogeneo, facente capo a uno o più
Comuni, il cui rapporto con l’ente locale sia regolato da una specifica
convenzione, valida per un triennio e rinnovabile, che preveda:
a - la disponibilità, da parte dell’ente locale, di uno o più spazi idonei
allo svolgimento di attività di spettacolo aperti al pubblico.
b - la disponibilità, da parte del soggetto teatrale, di una adeguata
struttura amministrativa, tecnica e artistica.
c - la realizzazione di un qualificato progetto che sia atto a rispondere
alle necessità di crescita sociale e culturale della comunità locale,
caratterizzato da uno stretto rapporto fra il soggetto artistico e la realtà
territoriale interessata, dall’integrazione delle diverse discipline dello
spettacolo e dell’espressività artistica.
Chiediamo che una parte del FURS venga destinata a un progetto di rete
gestito da compagnie di ricerca. (Le 12 compagnie di produzione di cui sopra
stanno eleborando un progetto di massima intorno a questa possibilità, che
intendono presentare al più presto alla Regione Lombardia)
CIRCUITAZIONE
Nel passaggio di competenze da Stato a Regioni chiediamo che il lavoro delle
compagnie residenti in Lombardia, e la sua circuitazione, debba essere
identicamente considerato e riconosciuto sia che si svolga in ambito
regionale, sia nazionale, sia internazionale.
Nonostante il nuovo Decreto Legge Ministeriale faccia rotta in una direzione
totalmente opposta a queste richieste tagliando di netto la possibilità di
esistenza alle piccole compagnie, chiediamo alla Regione Lombardia un
impegno preciso su questi punti:
a - Abolizione delle quote delle compagnie non sovvenzionate dal Ministero
e/o dalla Regione (ora i Teatri possono ospitare compagnie non sovvenzionate
solo per un 25% di tutta l’ospitalità). La scelta di un progetto non può
essere condizionata dal rapporto che le compagnie intrattengono con l’Ente
pubblico.
b - Pressione sull’ETI affinché svolga un lavoro di sostegno e promozione
indipendentemente dal fatto che le compagnie e gli artisti siano o meno
finanziati dall’Ente pubblico e affinché non rinunci al suo ruolo di
programmazione e distribuzione nazionale.
c - Scoraggiare la modalità di ospitalità a percentuale sugli incassi, che
non dà possibilità alle compagnie di produzione di crescere e di avere un
budget su cui progettare.
In particolare, in relazione al circuito «Altri Percorsi», o ad alternativi
circuiti regionali, le compagnie di produzione chiedono un impegno preciso
per:
d - Ridefinizione delle finalità del progetto e nuove valutazioni per la
selezione delle compagnie promosse dalla regione, a partire dalle
caratteristiche artistiche che devono essere necessariamente legate alla
ricerca e alla innovazione
e - Importanza nel sostegno alla circuitazione della nuova drammaturgia,
delle compagnie giovani e della ricerca di nuovi linguaggi, con particolare
attenzione al superamento dei generi e alla confluenza di differenti
espressioni artistiche.
f - Incentivo per i vari comuni ad includere nella propria programmazione
lavori che siano almeno per il 30% a stagione di compagnie lombarde.
g - 4 anni come limite massimo di riproposta dello stesso titolo per la rosa
dei selezionati.
h - Pressione sui teatri municipali lombardi per una più attiva
collaborazione con le compagnie di produzione.
RAPPORTI CON I TEATRI STABILI
Partendo dal presupposto che le risorse finanziarie per il cosiddetto Nuovo
Teatro sono a tutt’oggi immensamente inferiori di quelle di cui godono il
Teatro di Prosa letteralmente inteso, la Commedia Musicale e gli Enti
Lirici, ci si sta interrogando, tramite coordinamenti nazionali, sulla
creazione di modalità organizzative capaci di reagire a questa scomoda
realtà.
Le compagnie di produzione concordano nel ritenere preziosi i teatri stabili
d’innovazione nella misura in cui si pongono come punto di riferimento per
un ecosistema culturale, imbarcandosi in progetti ministerialmente «a
perdere», essendo essi stessi artisti di ricerca nell'organizzazione,
monitorando i movimenti dei propri territori.
Alcuni Teatri stabili d’Innovazione si sono impegnati per richiedere un
investimento straordinario triennale all’ETI, da aggiungere a quanto già
ricevono per le ospitalità, da dedicare alla creazione di progetti tesi a
vivificare le energie teatrali del proprio territorio, tramite ospitalità,
coproduzioni, collaborazioni, commissioni o accoglienza di progetti
specifici etc.
In relazione a quanto sta avvenendo sul territorio nazionale chiediamo alla
Regione Lombardia di sostenere la collaborazione tra compagnie e teatri nel
territorio come segue:
TEATRI STABILI PUBBLICI
Coproduzioni
Incentivare i Teatri stabili del territorio a produrre o coprodurre un
minimo di 1 progetto di una compagnia lombarda all’anno, definendo minimali
economici di coproduzioni, tempi di visibilità e di sostegno e spazi di
produzione.
Ospitalità
Incentivare i Teatri stabili del territorio a ospitare un minimo 2 progetti
di compagnie lombarde all’anno, definendo minimali economici di ospitalità,
tempi di visibilità e di sostegno.
TEATRI STABILI D’INNOVAZIONE
Coproduzioni
Incentivare i Teatri stabili d’innovazione del territorio a produrre o
coprodurre un minimo 3 progetti di compagnie lombarde all’anno, definendo
minimali economici (non meno 10.000 euro) di coproduzioni, tempi di
visibilità e di sostegno e spazi di produzione.
Ospitalità
Incentivare i Teatri stabili d’innovazione del territorio a ospitare un
minimo 4 progetti di compagnie lombarde all’anno, definendo minimali
economici di ospitalità (pagamento a cachet o a minimo garantito), tempi di
visibilità e di sostegno.
PROMOZIONE
Si richiede alla regione Lombardia un impegno qualificante sulla promozione
a tutti i livelli:
a - Circuitazione nazionale e internazionale, contatti con istituti di
cultura all’estero e sostegno ad ampio raggio delle compagnie lombarde,
coinvolgimento di altri assessorati.
b - Creazione di un centro di archiviazione delle realtà esistenti e delle
nuove realtà consultabile in rete al sito della regione sul modello del sito
di «ateatro» in grado oltre che di raccogliere anche di promuovere gli
iscritti.
c - Aiuto nella promozione di debutti di compagnie lombarde sul territorio
regionale.
BENEFICI FISCALI
1 - Incentivare le giovani compagnie attraverso una politica di
defiscalizzazione in relazione all’acquisto di materiale tecnico e
informatico (fari, furgoni, computer etc.)
2 - Attivare una serie di incentivi fiscali diretti e indiretti, come nel
caso per esempio della detassazione delle elargizioni liberali.
3 - Pensare a un contributo diretto della Regione Lombardia per la
retribuzione di un membro delle giovani compagnie che abbia ruolo
organizzativo
|
Una anteprima da "Zapruder": La scena del conflitto Con l'indice del numero zero di Redazione ateatro |
E' in uscita "Zapruder - Storie in movimento", la nuova rivista di storia della conflittialità sociale.
Qui sotto, tanto per cominciare, l'indice della rivista e poi, in anteprima, il saggio di Carla Pagliero, che racconta la storia del Living Theatre in chiave di teatro politico.
Zapruder Storie in movimento
Rivista di storia della conflittualità sociale
n. 01 maggio-agosto 2003
Posta elettronica: zapruder@storieinmovimento.org (redazione) multimedia@storieinmovimento.org (redazione multimediale) info@storieinmovimento.org (progetto Storie in movimento)
Sito Web del progetto: www.storieinmovimento.org
Telefono: 349-4245545
Quadrimestrale - 168 pagine a 2 colori - ¤ 8,50
Abbonamento ordinario 3 numeri: ¤ 22,00
www.storieinmovimento.org/zapruder/abbonamenti.html
Indice
Presentazione ed editoriale
La redazione, Dalla A alla Z. Altre storie e storie altre
Eros Francescangeli e Paola Ghione, La storia in piazza
Zoom -- Piazze e conflittualità (articoli e Dietro le quinte)
Cecilia Ricci, In ordinem redigere. Polizia e ordine pubblico nella Roma imperiale
Roberto Bianchi, Il ritorno della piazza. Per una storia dell'uso politico degli spazi pubblici tra Otto e Novecento
Marco Grispigni, Figli della stessa rabbia. Lo scontro di piazza nell'Italia repubblicana
Carla Pagliero, La scena del conflitto. Il teatro in piazza del Living Theatre
Le immagini
Tano D’Amico, Piazza bella piazza. Uno sguardo tra storia e memoria
Matteo Dominioni, L’ultima cena. Una fucilazione italiana di giovani abissini
Schegge
Carlo Taviani, Animi ostinati. Una rivolta popolare d'antico regime (Trento 1525)
Silvia Casilio, «Chiedere o prendere? Prendere!». Note sulle pratiche di lotta e sui conflitti sociali nell’Italia dell’austerity
In cantiere
Fiammetta Balestracci, La falce di Weimar. Rivoluzione, consigli e corporativismo nelle campagne prussiane (1918-1920)
Enrica Cavina, Per un atlante delle stragi nazifasciste in Emilia Romagna. Un database on line
Maria Teresa Gavazza, Un laboratorio della memoria. L'esperienza di Quargnento in provincia di Alessandria
La ricerca che non c'è
Simone Ricci, Quando tace la voce del padrone. Storia d’industria e inaccessibilità degli archivi d’impresa nel reggiano
Altre narrazioni
Nanni Balestrini, Antifascismi e "bienni rossi" a confronto. A proposito del radiodramma Parma 1922 (a cura di Margherita Becchetti)
Renato Sarti, Il teatro della memoria. Intervista sullo spettacolo Mai Morti (a cura di Toni Rovatti)
Archivi
Paolo Mencarelli, L'archivio e centro studi "Il Sessantotto" di Firenze
Cristiana Pipitone, La memoria di un sindacato. L'archivio storico della Cgil
La storia al lavoro
Gianpasquale Santomassimo, Fascisti su Marte. L'immagine del fascismo nella science-fiction
Interventi
Appunti di viaggio. Cenni sul dibattito del/sul progetto Storie in movimento (a cura di Carmelo Adagio, Liliana Ellena e Marco Lorenzin)
Recensioni
Giulia Cane e Claudio Venza (Giacomo Verde, S'era tutti sovversivi); Mario Coglitore (Arrigo Petacco, L’archivio segreto di Mussolini); Paola Di Cori (Maria Schiavo, Movimento a più voci); Luciano Franceschetti (Karlheinz Deschner, Storia criminale del Cristianesimo); William Gambetta (Giancarlo Burani, Storie di quartiere); Diego Giachetti (Marco Philopat, La Banda Bellini); Brunello Mantelli (Vincenzo Pinto, I sionisti); Franco Milanesi (Corrado Mornese, Eresia dolciniana e resistenza montanara); Damiano Palano (Ranajit Guha e Gayatri Chakravorty Spivak, Subaltern Studies); Antonello Ricci (Luigi Monardo Faccini, Un poliziotto perbene); Giulietta Stefani (Nicola Labanca, Oltremare)
|
La scena del conflitto Il teatro in piazza del Living Theatre di Carla Pagliero |
Siamo abituati ad associare il termine “teatrale”
a qualcosa di spettacolare, di eloquente …
mi piace invece considerare teatrale un evento discreto,
anche minimo, che conduca all’ascolto di un’immagine silenziosa:
una visione o anche soltanto il titolo che la annuncia.
(Giulio Paolini)
Parafrasando il confronto che l’Alberti fa fra la casa e la città, si potrebbe dire che se il teatro è una città virtuale nello stesso tempo la città è un teatro potenziale. Le tradizioni, il tipo di vita, le strutture urbane di una città formano gli atteggiamenti dei suoi abitanti e disegnano, giorno dopo giorno, quegli aspetti caratteristici che rendono unici e irripetibili i luoghi, i quartieri delle città, i cittadini. Sono aspetti che non si possono ridurre a differenze di dialetti, di usi, orari, arredi urbani e colori, ma che sono tutte queste componenti e ancora altre messe assieme e fuse in un unico spettacolo del quotidiano.
Che tutto il mondo sia un gran teatro, in fondo, è cosa abbastanza scontata. Ognuno di noi recita la sua parte e la città assume l’aspetto di un grande palcoscenico naturale. Si pensi alle scene che si svolgono quotidianamente in una città: al mercato, nelle piazze, per le strade, nei parcheggi…
Non mancano gli attori celebri, le ‘prime donne’: come non citare un Reagan, ex-attore, o Hitler andato a scuola di recitazione per studiare meglio il look dittatoriale da proporre alla popolazione tedesca affascinata: il risultato tragico sono le folle inquadrate dal nazismo e un uso della città come teatro che aveva caratterizzato già le città tedesche della repubblica di Weimar e, anni prima, le città russe percorse dalle manifestazioni popolari che preparavano la rivoluzione d’ottobre.
Nel 1916 Hugo Ball, fondatore e anima del Cabaret Voltaire e del Movimento Dada di Zurigo, parlava di “riportare il gesto provocatorio direttamente là dove esso ha origine”, cioè dal teatro alla città. Majakowskj, alla vigilia della rivoluzione russa, passeggiava per Mosca con il volto dipinto e un mestolo all’occhiello a rappresentare l’uomo-cosa che si cala nella realtà di una città piena di cose in rivolta contro l’uomo che le ha costruite.
Gli sconfinamenti e le contaminazioni fra la dimensione teatrale e quella quotidiana sono frequenti e ricorrenti nel tempo. La città barocca, afferma Christian Norberg-Schulz, è un grande teatro in cui a ciascuno è assegnata una parte specifica. D’altra parte a passare per certe calli veneziane è facile rivivere l’atmosfera settecentesca delle commedie di Goldoni, così come a passare per i quartieri spagnoli a Napoli si incontrano personaggi che sembrano essere appena usciti da una commedia di Edoardo. Il campiello di Goldoni, rappresentato per la prima volta a Venezia in occasione del Carnevale del 1756, riporta la città nel teatro. Protagonista della commedia è il campiello, la piazzetta veneziana-unità minima della società urbana, dove si svolgono episodi di un teatro quotidiano e popolare fatto di chiacchiere, pettegolezzi, conflitti, sentimenti.
Se nella commedia ritroviamo riflessi i modi della realtà urbana, spesso nell’architettura e nella progettazione urbana si ricorre agli strumenti classici del teatro per allestimenti effimeri e non. Alcuni episodi progettuali importanti delle città del Seicento e del Settecento, come Fontana di Trevi, Piazza Navona, la scalinata di Piazza di Spagna, il colonnato berniniano di Piazza San Pietro, sono stati disegnati proprio con l’occhio rivolto alla finzione scenica, alla volontà di stupire e affabulare tipica della dimensione teatrale. Negli anni Settanta, Renato Nicolini, architetto e assessore comunista romano, ripropose la tradizione effimera e teatrale delle piazze barocche cercando di ricostruire il consenso attorno alle istituzioni e all’immaginario urbano, profondamente offeso e sconvolto dalle violenze degli scontri di piazza di quegli anni.
Nella città d’altra parte la piazza ha sempre avuto connotazioni profondamente legate ai sistemi di potere, basti pensare all’articolazione delle piazze medievali che ruota attorno alla triangolazione dei tre poteri forti: la Chiesa, i mercanti, l’amministrazione pubblica che hanno il loro centro ideale e simbolico nella piazza del Duomo, nella piazza delle Erbe, nella piazza del palazzo civico. E’ il luogo dove si costruisce l’afflato unitario e a volte esaltato attorno ad un leader, si manifesta lo spirito collettivo, si consuma il rito antico del sacrificio catartico e/o espiatorio. Se il popolo fruisce la piazza come luogo collettivo della socializzazione e del ritrovarsi assieme il potere ne legge e strumentalizza le potenzialità di coesione narrando un immaginario che va a disegnare con gli strumenti più opportuni avvalendosi delle armi della spettacolarizzazione.
Diversa la situazione dei nuovi quartieri periferici, quelli per intenderci, sorti all’insegna del funzionalismo, dove le piazze e i luoghi pubblici assumono configurazioni formali di tipo astratto-geometrico, pure convenzioni grafiche progettate a tavolino, realtà dove mancano generalmente spazi pubblici che abbiano un aspetto sociale vero e vissuto e dove sopravvivono a stento e con grande malinconia alcune zone temporaneamente autonome, piccole realtà sociali sparse in modo frammentario sul territorio grazie all’iniziativa di piccoli gruppi, centri sociali occupati: isole urbane di resistenza esistenziale1.
Sempre nella dimensione dello spazio frammentario della città moderna Massimiliano Fuksas inserisce la piazza-forum virtuale che si costruisce nello spazio web, dove le persone spesso si incontrano in una dimensione astratta e informale, comunicando a distanza senza vedersi e conoscersi fisicamente, utilizzando linguaggi e simboli comuni.
L’idea di frammentazione è entrata in questi ultimi vent’anni a far parte in maniera prepotente del nostro immaginario culturale e del disegno che ci costruiamo mentalmente della città: come intuiva brillantemente Vittorio Gregotti in un bell’editoriale del 1984 per la rivista Casabella: “Si parla molto, scrive Gregotti, anche in architettura, di frammentazione, di “pensiero debole”, disponibile alla variazione, non in quanto corrispondente ad un temporaneo stato di crisi ma come momento nuovo, e probabilmente di lunga permanenza, di una diversa procedura del pensiero e quindi anche del progetto”2. Da questo punto di vista la piazza è luogo del frammentario per eccellenza e ripensarla vuol dire confrontarsi con un caleidoscopio di ipotesi, di suggestioni, di vissuti collettivi diversi e variegati che fanno della piazza il luogo delle potenzialità.
Le zone temporaneamente autonome che gli individui costruiscono nello scenario urbano sono segni di riappropriazione spontanea, e spesso non consapevole, dello spazio come nel caso delle manifestazioni spontanee di piazza.
Il teatro di strada
Il teatro di strada, fenomeno che negli anni Settanta si è andato diffondendo come pratica artistica e politica, si è spesso assunto il compito di dare consapevolezza a questi fermenti spontanei ed estemporanei offrendo strumenti per l’uso pubblico della piazza e della città, proponendo elementi di cambiamento e progettando scenari nuovi all’interno del vissuto quotidiano3.
Da questo punto di vista il percorso del Living Theatre, gruppo teatrale americano, è particolarmente significativo di una proposta estetica dove prassi politica, artistica ed esistenziale diventano un tutt’uno e si pongono esplicitamente come obiettivo il miglioramento della società e dell’uomo attraverso tecniche di rappresentazione che vanno dallo psicodramma al teatro di strada, attraverso la rielaborazione di meccanismi della comunicazione mutuati dalla tradizione religiosa e rituale orientale, africana, latino-americana.4
L'occupazione, nel maggio del 1968, del Teatro dell'Odeon di Parigi, scrive Julian Beck leader del gruppo del Living Theatre, “è stata la cosa più bella che abbia mai visto in un teatro”5 in quanto i teatri devono essere luoghi al servizio del popolo, dove le persone si riuniscono non per vedere le rappresentazioni dei miti borghesi, ma per interpretare, per progettare, per creare il sogno della rivoluzione.
Il maggio francese è per il Living Theatre un'esperienza esaltante, vissuta come la premessa di una prossima, mitica rivoluzione popolare,- che condizionerà fortemente la loro prassi teatrale e il loro stile di vita. Le rivolte studentesche, le barricate, le manifestazioni di strada, appaiono agli occhi degli attori del Living come unico, vero teatro, spettacolo autentico, in contrasto con le ipocrisie che si portano in scena nei teatri borghesi. Un “teatro libero” senza schemi, canovacci, falsi ruoli: insomma il teatro ideale, realistico che Julian Beck e Judith Malina, sua compagna nella vita e sul palcoscenico, e il loro collettivo perseguivano da tempo: “Teatro azione che va oltre l'occhio e il corpo, che non si limita a vedere ma agisce”. In quei giorni sulle barricate si recitava uno spettacolo eroico, dove ogni personaggio aveva scelto il proprio ruolo, l’oggetto della rappresentazione era la ribellione contro le forze repressive, dice Julian Beck in un'intervista alla rivista americana Yale/Theater6. Il compito che il Living si assume, in questo momento, è quello di affiancare la lotta degli studenti con gli strumenti a loro disposizione: stampando manifesti, poesie, recitando spettacoli nelle strade.
Paradise, Now!
Paradise, Now! forse l'opera teatrale più emblematica del '68, nasce in questo contesto. L'idea che ispira il testo teatrale è l'utopia della ‘Bella Rivoluzione Anarchica Nonviolenta’. “Il teatro è il Cavallo di Legno per prendere la città”7, scriveva Beck nel 1967, e dobbiamo fare modo che “tutti i soldati si dimettano, tutte le porte si aprano, tutti i fucili vengano accecati, tutta la gente abbia da mangiare e tutti gli assassinii finiscano. Questa la sceneggiatura/ per l'unico spettacolo/ che mi interessa”8 Paradise, now è concepito come un percorso politico/ spirituale sulla strada che conduce alla rivoluzione. Un percorso da effettuare per tappe sull'esempio dei rituali religiosi, dove la liberazione di tutti gli uomini, rappresenta l'ultimo atto (non ancora realizzato), l'ultimo gradino di una scala simbolica verso la rivoluzione. Nell'opera confluiscono atteggiamenti ideologici e suggestioni mistiche diverse che danno un respiro cosmopolita e spirituale al programma rivoluzionario. L'uso de I Ching9, ad esempio, suggerisce agli spettatori il senso dell'armonia che esiste fra dimensione casuale e realtà, così la scala attraverso la quale, piolo dopo piolo, si arriva alla rivoluzione si ispira agli Hasidim10, che concepivano la vita come una scala da percorrere tra la terra e il cielo, senza una successione prestabilita, un punto di partenza, una direzione. Il viaggio che il popolo deve fare verso la rivoluzione cercando di attivare le capacità che esistono al suo interno attraverso procedimenti rituali che portano alla consapevolezza, trova la sua fonte ispiratrice nel viaggio di Kundalini11, la forza che esiste in tutti gli uomini per raggiungere la piena Consapevolezza e l'unione con la Beatitudine Suprema, energia che si attiva attraverso la pratica yoga e la meditazione. Il ricorso alla Kabbalah12, infine, porta a comparare i dieci attributi (Sefiroth) dell'Unità Suprema (il Santo Uno) e le componenti del corpo umano.
La struttura rappresentativa è schematizzabile con una scala di otto gradini, composti ognuno di tre momenti, che fanno ricorso a modi diversi di approccio con il pubblico: il rito, la visione, l'azione. Il rito è un occasione di riflessione degli attori, un momento di meditazione attraverso lo yoga. La visione è il momento di confronto con il pubblico, le visioni sono sviluppate come tableaux vivants, gli attori sono in piedi, a braccia alzate: totem umani. L'azione è, invece, un invito esplicito rivolto al pubblico perché partecipi alle situazioni suggerite nelle varie scene. Le varie parti dell'opera venivano adattate alle situazioni che si venivano a creare durante le manifestazioni, un work in progress dove agli attori era lasciato il compito di stimolare le reazioni del pubblico. Il testo, una creazione collettiva del gruppo, venne allestito nel luglio del '68, in occasione del Festival di Avignone. Come si può facilmente intuire, l’happening provocò nette opposizioni e lo spettacolo divenne l’occasione, in prima istanza, di uno scontro duro tra le varie componenti politiche. Il Living richiese la partecipazione aperta del pubblico e l'ingresso gratuito e lo spettacolo in quell'occasione si trasformò in uno scontro aperto con le istituzioni e le forze dell'ordine, con gli attori del Living che cercavano di coinvolgere il pubblico presente e quello rimasto fuori dei cancelli: un invito esplicito all' azione, a muoversi, ad agire. Le parole/slogan finali: “Il teatro è nella strada. La strada appartiene alla gente, Liberate il teatro. Liberate la strada. Cominciate”, avrebbero dovuto segnare l’inizio del vero spettacolo: la rivoluzione che incomincia dalla strada con la partecipazione popolare. In realtà accadeva che, scemata la spinta emotiva iniziale, gli attori non riuscivano a coinvolgere gli spettatori, spaventati all'idea di essere coinvolti attivamente nello spettacolo e impauriti di fronte alla novità della situazione. In questo senso l’esperimento Paradise, now!, non può considerarsi un esperimento riuscito, tuttavia la sua importanza nella storia del teatro degli ultimi quarant'anni è davvero significativa, anche se la sua “qualità magica”, come scrive Massimo Dini si dissolve quando viene a mancare la componente essenziale dell'opera: la partecipazione del pubblico13.
Lo spettacolo venne successivamente portato in giro in America e in Europa, suscitando ovunque reazioni piuttosto dure: il nudo esibito, le idee trasgressive, l’aria elettrica che accendeva le rappresentazioni, andavano a cozzare in maniera evidente con un certo modo di pensare che permeava la società borghese e bigotta di allora. A Torino, dove si svolse la prima rappresentazione italiana di Paradise, Now! lo spettacolo, dopo essere stato programmato al Teatro Alfieri e poi sospeso dalla direzione per motivi di ordine pubblico, venne riproposto all'Unione Culturale, rimasto poi negli anni successivi, assieme al Cabaret Voltaire di Edoardo Fadini, referente di una cultura alternativa e libertaria. A Roma, la rappresentazione, nella Facoltà di Legge, una delle sedi storiche, delle assemblee romane, fu interrotta dalla polizia, giudicata oscena e il Living venne addirittura espulso dall'Italia. Dal 23 luglio 1968 - giorno della prima rappresentazione ad Avignone - al 10 gennaio 1970 Paradise, Now venne rappresentato ottanta volte.
Tornati negli States nel settembre del '68, per una breve tournée, infervorati dall'esperienza del maggio francese e di Paradise, Now!, i membri del collettivo si trovarono di fronte a una situazione politica e culturale più dinamica e contraddittoria rispetto a quella europea. Alcuni gruppi che, come Beck e Malina, negli anni '50 erano stati sostenitori di nuove forme artistiche poi confluite nell'Off Broadway - il movimento dell'avanguardia teatrale americana, che recitava in circuiti teatrali non ufficiali, fuori Broadway, appunto - erano stati contaminati da un rigurgito commerciale, altre troupes si trovavano invece ad affrontare la contraddizione fra il perseguire l'obbiettivo di un teatro d'Azione da portare nelle strade e il proclamare tutto ciò, comunque, in una struttura teatrale. Si avviò un acceso dibattito fra i gruppi dell'avanguardia teatrale e il gruppo di intellettuali che ruotavano attorno al movimento. Per il Living le contraddizioni fra teoria e pratica di Teatro rivoluzionario, si evidenziarono in progressione e culminarono proprio durante le rappresentazioni di Paradise, Now, quando gli studenti contestarono al collettivo di portare il loro spettacolo in giro per teatri invece che nelle fabbriche e nelle strade. “Noi, scrive Beck, che dicevamo a una società: “Respingi le strutture, effettua la metamorfosi, abbandona il bozzolo, tiratene fuori”, eravamo ancora lì, ancora dentro i teatri: gli studenti ci stavano aggredendo con la verità: dovevamo uscirne fuori” 14
Lo scioglimento del gruppo: verso un teatro-azione
Il Living ha in cantiere un nuovo progetto: La città assoluta, una serie di performances da recitare in giro per strade, piazze, mercati, fabbriche, supermercati, metrò, scuole, vetrine, parchi, cortili, vicoli. Obbiettivo: un teatro migliorativo, didascalico, che intende “cambiare le vibrazioni della città. Lampeggiare consapevolezza nella strada”, un teatro che abitui la gente all'azione. Portare a compimento il progetto de La città assoluta risulta però impossibile senza cambiare la struttura operativa di base: il collettivo stesso. Così il gruppo decide di sciogliersi e di ricostituirsi in cellule: quattro, come i vari orientamenti presenti all'interno del collettivo stesso. L'annuncio dell'evento venne dato a Berlino, nel 1970, in concomitanza con l'ultima rappresentazione di Paradise, Now! portata in scena dal collettivo al completo. Una cellula, quella formata da Julian Beck e da Judith Malina, scelse come quartier generale Parigi e decise di darsi delle indicazioni operative sostanzialmente politiche perseguendo forme teatrali di strada. Una seconda, con sede a Berlino, decise di continuare a lavorare su una ricerca di tipo environmentale. Una terza si stabilì a Londra. Una quarta, infine, decise di approfondire la ricerca sui valori spirituali orientali e la pratica Yoga, operando sempre e comunque al di fuori dei circuiti teatrali ufficiali.
Lo scopo della scissione era quello di appoggiare le forze rivoluzionarie e di trasformare la struttura “burocratica-autoritaria-poliziesca”: per far questo era necessario uscire dal luogo-teatro, “trappola architettonica”, dove l'uomo di strada non può entrare. Bisognava abbandonare i teatri, creare un teatro per l'uomo della strada. Creare l’azione: “la forma più alta di teatro”, trovare nuove forme dove l’arte possa servire le esigenze del popolo. La prima occasione per realizzare teatro d'azione in strada, dopo la scissione del gruppo, si presenta a Parigi. Il pretesto: l’aumento delle tariffe del metrò. Il Living allestisce brevi performance da effettuare nelle stazioni del metrò, ma il progetto naufraga alla prima uscita e si conclude con dodici arresti. Subito dopo Beck e il suo gruppo partono per una tournée in Brasile. L'intenzione è di lavorare nelle favelas a contatto con l'umanità misera e disperata dei ghetti brasiliani, quella realtà scomoda che nessuno vuole vedere e che nessuno ha interesse a testimoniare. E' un teatro di trincea quello che si va mettendo in scena, un teatro che tocca i temi più umili e quotidiani e li converte in categorie generali e assolute: il Potere, il Denaro, l’Amore, la Guerra, la Morte, la Proprietà. Il progetto consta di due fasi: una propriamente informativa e di sensibilizzazione e una successiva operativa, l’ideale è la “Bella Rivoluzione Anarchica Nonviolenta”, cui seguirà una “vita armoniosa e libera mentalmente, fisicamente, sessualmente”. In sostanza alla gente per strada si cerca di dire che il denaro non è importante, che si potrebbe anche vivere senza, perché l’esistente sarebbe sufficiente per tutti, che non è il caso di ammazzarsi di lavoro, che è importante anche lo svago; che si potrebbe vivere autogestendo il proprio lavoro e in collaborazione amichevole; che si dovrebbero abolire governo, polizia, eserciti, proprietà, prigioni, istituzioni (“prigioni mal dissimulate”), consumismo, pubblicità, guerre, nazionalismi, tutte quei valori e quei bisogni, che nascono da una struttura sociale che produce odio e lavori inutili.
L’eredità di Caino
La pratica del teatro di strada è la conclusione coerente e necessaria di un discorso portato avanti con una logica quasi messianica, che coinvolge in maniera totale il vissuto pubblico e privato, il rapportarsi, come singole persone e come collettivo con l’apparato repressivo con un atteggiamento di sfida palese, ben sapendo che ciò vuol dire subire una reazione violenta e ottusa che si manifesta con boicottaggi burocratici, ‘pestaggi’, arresti, processi e condanne: sono gli anni de L'eredità di Caino, un'opera da rappresentare nelle strade e in luoghi non teatrali, che riprende il discorso iniziato con Paradise, Now e proseguito con La città assoluta. Anche questo lavoro è pensato come work in progress e incomincia a prendere forma in Francia sul finire del 1969 ma assume una dimensione teatrale vitale solo dopo l'esperienza fatta nelle favelas, in mezzo al vissuto disperato dei ghetti brasiliani.
L'Eredità di Caino è concepita come una costellazione formata da centinaia di stelle: “una costellazione che brilla dentro una città o un villaggio”15 diventandone il suo ‘doppio’ e assumendo, quindi, di volta in volta un volto diverso. I pezzi del ciclo, un centinaio di performances diverse per stile, linguaggio e lunghezza (alcune durano pochi minuti, altri diverse ore) vengono rappresentati fra il 1970 e il 1978. Sono destinati a quelle persone che non hanno l'occasione di andare a teatro per motivi economici e di cultura. L'intento è quello di creare un clima partecipativo che stimoli la gente stessa a riscoprire e reinventare la propria identità e la propria cultura. La scenografia è scarna, essenziale, vengono sfruttati gli elementi esistenti, i corpi stessi diventano oggetti di scena. Il tema è il rapporto che si instaura fra padrone e schiavo, o, più genericamente, fra carnefici e vittime, fra chi comanda e chi subisce: un rapporto basato su una legame di tipo sadomasochistico. L'argomento si ispira al progetto omonimo dello scrittore austriaco Sacher-Masoch: tutti gli uomini sottostanno alla legge della violenza, usata da chi comanda, ma anche accettata, quasi con compiacimento, da chi subisce. Questa violenza si manifesta sotto varie forme: il potere dello stato, il rapporto amoroso, il denaro, la proprietà, la guerra o il militarismo, la cultura della morte. Il padrone, invidiato dallo schiavo, costituisce ai suoi occhi un modello da imitare, un esempio di saggezza, bellezza, perfezione. Alla fine, nella saga di Masoch, il padrone uccide lo schiavo consenziente. Lo scopo, perseguito dallo scrittore austriaco è quello di capire e di svincolarsi da questo tipo di rapporto violento partendo dalla comprensione della componente di amore-odio esistente fra le persone sottoforma di violenza psico-sessuale.
L'eredità di Caino si presenta come una sorta di psicodramma dove gli spettatori dovrebbero raggiungere consapevolezza delle proprie frustrazioni e trovare, quindi, anche se non necessariamente, la capacità di superarle. I pezzi riprendono i temi del ciclo di Masoch, e utilizzano lo stesso schema di intreccio reciproco fra le varie forme di repressione, ma vengono pensati per essere riformulati a seconda delle occasioni, diventando quindi ogni volta una rappresentazione diversa che vuole rispecchiare la realtà contingente. E' il caso di Oratorio di appoggio a uno sciopero, rappresentato a Reggio Emilia in favore degli operai di una fabbrica che erano stati licenziati.
Nel 1975 il Living partecipa alla Biennale di Venezia portando tre pezzi del ciclo: Sette meditazioni sul sadomasochismo politico, La torre del denaro, Sei atti pubblici16.
Le Sette meditazioni sono concepite per spiegare il progetto di L’eredità di Caino e il concetto di meditazione. I registri della narrazione si avvalgono dei modi dei rituali religiosi e magici. Le azioni e i gesti sono ripresi dagli esercizi di biomeccanica di Mejerchol’d: gli attori assumono delle posizioni che poi mantengono per alcuni secondi. L’uso dei colori rosso e nero richiama al simbolismo anarco-comunista. Il dramma si presenta come un percorso attraverso una serie di riflessioni legate fra loro che portano gradualmente alla conclusione che è doveroso e necessario realizzare il sovvertimento, liberare gli oppressi, cambiare il mondo. Sei atti pubblici ha una struttura rituale ed itinerante, si presenta come una sorta di via crucis condotta dagli attori del Living lungo un percorso urbano che rappresenta il canovaccio portante dello spettacolo. Lungo il percorso si toccano i luoghi-simbolo del potere diversi di volta in volta così come diversa è la successione delle case. A Venezia lo spettacolo iniziava in Piazza San Marco si spostava poi alla Borsa (la Casa della Morte), quindi davanti ad una banca (la Casa del Denaro), a una Compagnia di Assicurazioni (la Casa della Proprietà) per ritornare poi in Piazza San Marco, davanti alla Basilica (la Casa dello Stato) dove veniva rappresentato il rito dell’offerta del sangue, per toccare ancora una stazione di polizia, nei pressi della piazza, che rappresentava la Casa della Guerra. Il dramma si concludeva a Piazza San Marco, davanti a Palazzo Ducale dove veniva presentata la scena della Casa dell’Amore. Lo spettacolo durava circa quattro ore. Gli attori ponevano al pubblico delle domande allo scopo di suscitare una meditazione collettiva: “che cosa è la proprietà?”, “chi controlla?”, “chi è controlato?”, “cos’è la violenza?”, “come possiamo liberarci dai nodi che ci legano?”.
Un uomo con un megafono, lo Sciamano del Tempo, annunciava l’ora ogni 15 secondi, ripetendo ossessivamente “exactly”, e accordando il proprio tono di voce con il carattere della scena. Dal luogo di ritrovo-preambolo lo spettacolo si muoveva lungo le varie case-simbolo, come una processione, mentre gli attori si immobilizzavano in tableaux vivants mimando scene di dolore e disperazione.
Gli anni del “riflusso”
Gli anni Ottanta segnano per gli attori del Living una lunga fase di riflessione. In un appunto del 30 gennaio 1982, Beck si lamenta di non avercela fatta e di aver fallito “la campagna italiana e aver perso la rivoluzione culturale”17. Sono anni difficili per chi come lui aveva creduto in una possibile “Bella Rivoluzione Anarchica Nonviolenta”: i tempi non sono maturi. “Il teatro è di nuovo nelle mani della borghesia”18, scrive nel 1983, e, in una riflessione del 1979: “le rivoluzioni falliscono, non accade nulla, il mondo sta cedendo, si sta spaccando e noi ne saremo vittime, indossavamo persino colori dell'arcobaleno e un quinto della nazione fumava erba, la forma che cambia il contenuto non era ancora cambiata abbastanza”19. Il finale stesso di Sei atti pubblici, era emblematico dell'aria che si respirava sul finire degli anni Settanta. Gli attori alla fine della performance gridavano alla gente “Siete liberi?” e il pubblico, seguendo le direttive impartite dal gruppo rispondeva: “Non ancora!”. Stridente la differenza fra il finale pieno di attese di Paradise, now! con la promessa di un teatro nella città, l’invito ad “uscire nelle strade”, perché la strada appartiene alla gente e la conclusione rassegnata di Sei atti pubblici, rappresentato sette anni dopo, dove si evince che, dovendo scegliere fra una splendida libertà e un'umiliante prigionia, spesso, a volte consapevolmente, si ripiega per comodità ed abitudine mentale sulla seconda. Il teatro è stato portato nelle strade ma il popolo non è ancora libero. La risposta agli anni del cosiddetto ’riflusso’ diventa un ripensare il teatro ‘tradizionale’ alla luce delle mille esperienze vissute nella realtà, dei nuovi linguaggi e mezzi espressivi appresi in giro per il mondo, nelle strade, fra la gente tentando di trasporli in una nuova forma teatrale . E’insomma il ritorno dell'azione al teatro, dove il teatro diventa uno strumento di riproduzione e sublimazione e per Julian Beck soprattutto un mezzo per sconfiggere e superare la Morte, grazie all’immortalità dell’opera d’arte. Nella bella prefazione a Theandric, il testamento spirituale del leader del Living, morto di cancro il 14 settembre 1985, Judith Malina scrive che nel libro si assiste alla lotta tra la Morte e il Poeta. e che in questa immagine Beck vede se stesso nell’atto di allontanarsi da noi, lasciando però frammenti di sé che abbiamo il compito di ricomporre, come quell’antico Orfeo/Osiride, riplasmato dall’amore della sua sorella/sposa.20
Resist Now: Il Living e i no-Global
A Genova, nel luglio del 2001, in occasione delle manifestazioni Anti G8, il Living ha portato in piazza Resist Now. Uno spettacolo di strada, emblema di ogni forma di resistenza umana al capitalismo, all’economia globale, alle guerre. Racconta Hanon Reznikov che dalla morte di Julian Beck dirige il Living con Judith Malina:
Sono venuti 700 gruppi - dai trotzkisti argentini ai travestiti tedeschi, e sembra che siamo tutti della stessa stirpe - le persone che hanno voluto spostarsi per far capire al mondo che c'è un'altra via di sviluppo - la maggiore parte sono giovani, con gli obbligatori tatuaggi, piercings e capelli rasta - sono ispirati, ma anche esitanti di fronte a quello che sta per avvenire. Io che sono della generazione del '68 non vedo molte differenze.
Durante i tre giorni degli incontri, abbiamo recitato Resist now!, uno spettacolo creato collettivamente dal Living con 30 artisti liberi che si sono dedicati al progetto - Resist now! comincia con noi che ci leghiamo al pubblico con dei nastri rossi che alla fine tirano tutti in una spirale che ci imprigiona - dove siamo adesso, fermati nella situazione attuale - una voce grida 'merz!' (parola dada inventata da Kurt Schwitters, distillato da "kommerzbank") e ci liberiamo per presentare una serie di ritratti dei problemi che tutti sono venuti ad affrontare - la violenza, la povertà e il resto - una macchina mostruosa prende forma e avanza, consumando gli spettatori. Passa mentre canta 'moloch', la poesia di Allen Ginsberg dedicata al dio del denaro. Poi i partigiani di Rocchetta Ligure riappaiono per convincere la gente di esorcizzare la loro propria violenza per poter smantellare la struttura.
Finito questo, gli elementi umani si riorganizzano in una nuova forma di vita - infine, ci sediamo per terra per ascoltare le sirene che annunciano i prossimi bombardamenti, la nostra presenza forma già un'atto di resistenza.
Il primo giorno, il 19 luglio, abbiamo fatto lo spettacolo a Piazzale Kennedy, dove si radunavano i nuovi arrivati - tra la mensa e le panche per chiedere gli alloggi, abbiamo creato un'atmosfera intensa ma tranquilla. Era il tramonto ed era bello vedere tanta brava gente continuare ad arrivare.
Il giorno seguente, il 20 luglio, abbiamo assaltato Piazza Dante con il nostro teatro pacifico, proprio davanti alla grottesca barriera di acciaio che sigilla la zona rossa - c'era molta energia e lo spettacolo evaporava ogni tanto quando si assediava il confine metallico, ma poi si riprendeva e alla fine si gridava spontaneamente prima 'Genova libera! Genova libera!' e poi 'siamo liberi! siamo liberi!'. E' stato solo più tardi che ha prevalso la violenza …
Il 21 luglio ci siamo uniti all’enorme corteo dei gruppi partecipanti, c’erano forse 150.000 individui che camminavano per tutta la città, una bella dimostrazione di solidarietà, una marea di bandiere rosse, nere, verdi, arcobaleno, accompagnata da tamburi e canzoni. Abbiamo recitato tutti gli elementi dello spettacolo in versione oratorio, marciando con la folla, ma come se il sole stesso fosse impotente a impedirla, di nuovo la violenza è scoppiata… E’stata una diabolica discesa tra gioia e terrore. 21
Il titolo dello spettacolo cita, significativamente, quello di Paradise, Now ed è un adattamento ed un attualizzazione di Resistance, opera ideata nel 2001 per spazi non convenzionali, che si ispira a episodi legati alla Resistenza a Rocchetta ligure, attraverso le dolorose testimonianze dei partigiani della Val Borbera, raccolti dagli attori del Living, assieme ad altro materiale documentario, libri, filmati. Lo spettacolo si riallaccia all’episodio della resistenza partigiana cercando di ricostruire la continuità ideale fra quell’esperienza e altre forme di resistenza umana rivolte a contrastare il capitalismo, la globalizzazione economica e di pensiero, la guerra. L’intento è quello di recuperare valori etici e politici, risvegliando ideali antichi: così come un tempo era necessario opporsi al nemico e agli invasori oggi bisogna fronteggiare nuovi oppressori: l’abuso di potere, lo sfruttamento dei paesi poveri, la violenza. Resistance prende il titolo di un quotidiano anarchico che, nel 1948, ispira al Living la messa in pratica dell’Utopia del Teatro Vivente. Il concetto di resistenza racchiude in sé i due motivi che ispirano la loro ricerca estetica: quello teatrale e quello politico e viene inteso come impegno a portare avanti uniti il lavoro, il vivere quotidiano e l’agire politico utilizzando i soli strumenti della non violenza e prendendo ad esempio la resistenza non armata condotta dalle donne, dai sabotatori, perché alla violenza di chi domina non si può rispondere con altra violenza. “Resistance, scrive Anna Maria Monteverdi, come già Antigone e Frankenstein, ripropone la figura del resistente dell’antico dramma, guardando brechtianamente al presente”.22
NOTE
1 Il termine TAZ (The Temporary Autonomous Zone) viene usato da Hakim Bey nel suo testo: T.A.Z. The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic, Terrorism, Autonomedia, N.Y. 1985; trad. it. T.A.Z. Zone temporaneamente autonome, Shake edizioni underground, Milano, 1998. Il testo, un classico della letteratura anarco-cyberpunk, ripercorre le esperienze di riappropriazione spontanea degli spazi e della storia attraverso esperienze affini quali possono essere quelle dei pirati della Tortuga, del nichilismo anarchico, dei punk e degli hacker.
2 V.Gregotti, Le verità dello specifico in “Casabella”, 1984 n.508, e più avanti: “deve essere però chiaro che la “frammentazione” non si comunica meccanicamente ed in modo infinito sullo specifico, né si offre come modello ad una mimesi visiva, piuttosto essa sospende il proprio giudizio di fronte all’ipotesi anche generalissime che possono essere costruite a partire dalla condizione di campo specifico…”.
3 A proposito del rapporto fra spazio e teatro d’avanguardia cfr.: numero speciale di “TDR-The Drama Review”, 1968, n. 39 dedicato ad “architecture/environment”; H. Lesnick, Guerrilla Street Theatre, N.Y. 1973; J. Weisman, Guerrilla Theater. Scenarious for revolution, N.Y. 1973; F. Quadri, Appunti in morte (e rigenerazione) della neo-avanguardia: teatro-corpo, teatro-occhio, teatro-spazio, in “Humus” 1973 n.2/3 pp. 10ss; J.N.Royo e B.Mc Namara, Environmental Theatre Design, N.Y., 1973; R.Schechner, Environmental Theatre, N.Y. 1973; A. Ronchetta, F. Vigliani, A. Salza, Giubilate il teatro di strada, Torino, 1976; “Casabella”, 1977, n. 431; “Lotus” 1977, n.17; F. Mancini L’illusione alternativa, lo spazio scenico dal dopoguerra ad oggi. Einaudi, Torino, 1980; R. Bianchi, Off Off & Away, percorsi processi spazi del nuovo teatro americano, Studio Forma, Torino, 1981 G. Salvagnini, Il luogo teatrale, Granducato, Firenze, 1984.
4 Sul Living Theatre vedi: P.Biner,Le Living Theatre, L’Age de l’Homme, Lausanne, 1968, trad.it. Il Living Theatre, De Donato, Bari, 1968; The Living Theatre, numero speciale della rivista “Yale/Theater”, Yale University Press, primavera 1969, vol.2, n.1; G. Bartolucci, The Living Theatre, Samonà e Savelli, Roma, 1970; The Living Theatre, Paradise, Now, a cura di Franco Quadri Einaudi, Torino, 1970; Julian Beck, The life of the theatre, San Francisco, 1972. Ed. it. La vita del teatro, a cura di Franco Quadri, Einaudi, Torino, 1975; S. Brecht, Nuovo teatro americano 1968-73, Bulzoni Roma, 1974; M.Dini, Il sogno del teatro vivente. Il Living Theatre: vita, morte (e ascesa al cielo) in , Teatro d’avanguardia americano, Vallecchi, Firenze, 1978; F. Mancini, Artaud, Grotowski, Living Theatre: il corpo come ambiente cinetico, in L’illusione alternativa, cit., pp.78-108; R. Bianchi, Autobiografia dell’avanguardia, il teatro sperimentale americano alle soglie degli anni Ottanta. Tirrenia Stampatori, Torino, 1980; Serena Urbani e Cristina Valenti (a cura di) Dedicato a Julian Beck, Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale, Pontedera, 1986. Julian Beck, Theandric, Harwood Academic Publishers, London, 1992. trad.it. Theandric: Il testamento artistico del fondatore del Living Theatre. Edizioni Socrates, Roma, 1994. Cristina Valenti Dove gli dèi ballano.Living Theatre: una storia lunga mezzo secolo in Ferdinando Mastropasqua (a cura di), Maschera e rivoluzione. Visioni di un teatro di ricerca.Ed. BFS , Pisa,1999. Anna Maria Monteverdi, Frankenstein del Living Theatre, Ed. BFS, Pisa, 2002.
Alcuni film e video, tratti dalle rappresentazioni teatrali del Living Theatre, sono consultabili presso l’archivio video del Centro Teatro Ateneo dell’Università La Sapienza di Roma. Il catalogo è consultabile su Internet.
5 J.Beck, La vita del teatro, cit p. 201.
6 “Yale/Theater”, gennaio 1969.
7 J.Beck, La vita del teatro, cit. p. 241
8 idem
9 I Ching sono consultati 24 volte in tutta la rappresentazione, riprendendo la versione tedesca dal cinese di Richard Wilhelm, tradotta poi in inglese da Gary Baynes.
10 I gradini hasidici sono tratti dagli studi di Martin Buber sulla vita degli Hasidim, raccolti nel volume: Dieci gradini detti hasidici,tradotto in inglese da Olga Marx.
11 Kundalini è rappresentata come un serpente addormentato nel punto inferiore dei Chakra: i punti energetici che rapportano il microcosmo (l’uomo) al macrocosmo (l’universo), e concentrano in alcune parti del corpo l’essenza e l’esperienza di tutto l’universo. Attraverso la pratica yoga Kundalini viene svegliata e comincia il suo viaggio passando da un Chakra all’altro, acquistando Consapevolezza. Giungendo al sesto Chakra si ottiene l’illuminazione e l’identificazione con il divino (samadhi). Dopo aver raggiunto il sesto Chakra, Kundalini ritorna, generalmente, al punto di partenza, il primo Chakra, e ricomincia il suo viaggio alla luce della nuova Consapevolezza raggiunta.
12 Nella Kabbalah il Santo Uno è designato attraverso dieci attributi (Sefiroth), per far comprendere meglio la natura di questi attributi ci si serve di una figura metaforica: Adamo Cadmo immagine in cui il Santo Uno si incarna diventando la versione terrestre dell’altro Adamo, quello celeste. I kabbalisti davano ad ogni Sefiroth una corrispondenza analogica con una parte del corpo umano dell’ Adamo Terrestre. In Paradise Now i dieci Santi Attributi sono distribuiti su otto gradini.
13 Massimo Dini, Teatro d’avanguardia americano, Firenze,1978. pag.48-49.
14 J.Beck, La vita del teatro, cit. Pag 174. La citazione è datata, Croissy sur Seine 6 maggio 1970.
15 ivi, pp. 264-271. “ognuno di noi, scrive Beck, è nato su questo pianeta fra le stelle” e possiamo cooperare e ribaltare il sistema e solo il popolo può avere la forza sufficiente: “perché solo il popolo può liberare il popolo[… ]perché la santità è nel popolo e mai in mezzo a una nazione[…] ognuno potra dire “il mondo è stato creato per il mio beneficio”; e la gente potra dire, “il mondo è stato creato per tutti”.
16 Rappresentato per la prima volta a Pittsburgh, il 6 maggio del 1975, lo spettacolo viene portato quattro giorni dopo al Festival del Teatro sperimentale di Ann Arbor. Il dramma è pensato inizialmente per la comunità di Pittsburgh e si rivolgeva, quindi, ad un pubblico di operai, neri, ed emarginati. In Italia tre pezzi vennero presentati per la prima volta alla Biennale di Venezia: Le sette meditazioni il 18, il 21 e il 23 ottobre 1975, La torre del denaro il 20, 22, 24, 25 ottobre, nella chiesa sconsacrata di San Lorenzo. Il 15 e il 19 ottobre i Sei atti pubblici che ebbero come palcoscenico Piazza San Marco e zone limitrofe. cfr. The Seven meditation on political Sado-Masochism Boston, 1973. ed it. Sette meditazioni sul samdomasochismo politico, trad di Gianfranco Mantegna ed. del CDA, Torino, 1976. Nel ’75 lo spettacolo viene presentato anche in Danimarca per l’Odin Teatret e in Francia, al Festival Sigma di Bordeaux. Nel ’76 lo spettacolo venne portato alla Rassegna Internazionale di Taormina. In Sardegna venne incluso tra le manifestazione della “Marcia Antimilitarista Internazionale”. In ottobre lo spettacolo partecipò al “Progetto di Contaminazione urbana” del Comune di Cosenza e alla “Proposta di Azione Culturale” del Comune di Genova.
17 J. Beck, Theandric, p. 285.
18 ivi, p.232.
19 ivi, p.179.
20 Judith Malina , prefazione a Theandric, op.cit.Pagg. 13-16.
21 Intervista di Andrea Rocco ad Hanon Reznikov tratta dal “Manifesto” del 31 luglio 2001.
22 Anna Maria Monteverdi, Living now, in margine al video Resistance (Living Theatre a Beirut) di Marco Santarelli , l’articolo si trova in ateatro, webmagazine di cultura teatrale cura da Oliviero Ponte di Pino in collaborazione con Anna Maria Monteverdi. (http://www.ateatro.it).
Sull’esperienza dello spettacolo Resistance si veda la tesi di laurea di Lorena Cristini: The Living Theatre: da The Connection a Resistance. (1951-2001), discussa il 9 gennaio 2001 a Trento con Ferdinando Mastropasqua e Michele Bravo, di cui sono pubblicati alcuni stralci sul webmagazine ateatro.
Un video sullo spettacolo portato a Beirut è stato realizzato da Marco Santarelli.
|
Via Crucis Lettera da un amico lontano di Francesco Niccolini per Sandro Lombardi |
consulenza storica Camillo Brezzi
studi e ricerche Fabio Masi e Francesca Botti
Firenze, Piazza della Signoria
26 maggio 2003, in memoria della strage del 27 maggio 1993
E nonostante tutti gli sforzi creativi, il passato poté essere tenuto a bada solo in maniera imperfetta.
Rohinton Mistry, Un equilibrio perfetto
[prologo]
Sotto quale re, doge o imperatore combattemmo questa guerra di cui fummo involontario campo di battaglia? E quando scoppiò, la guerra? Qualcuno la dichiarò, oppure ci trovammo al fronte senza che nessuno ci avesse detto niente?
Tutti abili, ci ritrovammo tutti, sì, al fronte ed il fronte era dappertutto: Milano, Brescia, Roma, Reggio Calabria, Bologna, Palermo, Ustica, Capaci, Firenze. Nessuno si sarebbe salvato e tutti finimmo col piangere i nostri morti e quel dolore – che lento, cupo, toglieva il fiato – ci fece rapidamente comprendere che nessuno poteva sentirsi al sicuro. Anzi… ogni piazza, ogni auto, aeroporto, stazione avrebbe potuto in qualunque momento trasformarsi nel prossimo campo di battaglia, per l’inattesa disfida.
Questo volevano: che non ci sentissimo più al sicuro.
In nome di chi?
In difesa di chi?
Per difenderci da che cosa?
Eccomi qui questa sera con la lettera di un amico.
[ricordi nella nebbia]
Carissimo Sandro,
ti scrivo in questa notte di maggio. Ti scrivo per ricordare.
Ma io ho le idee confuse e più ancora i ricordi, nella nebbia incerta di tutte le storie che ci hanno sfiorato. Nella nebbia di tutto quello che ci è stato tenuto nascosto, raccontato a metà o svelato troppo tardi.
Ciononostante, stasera dobbiamo provare a ricordare.
E sì, io mi ricordo di un cecchino che uccide a caso, senza un solo motivo per mirare a una persona, a un treno o a una città, piuttosto che a un’altra. Ma lo fa, indifferente, quasi annoiato, fumando sigarette su sigarette. Questo gli hanno ordinato: seminare il panico, inviare avvertimenti scritti con un nuovo alfabeto, stroncare indagini ed esistenze, assassinare la speranza. Finché un altro cecchino – che sta in posizione migliore della sua e viceversa sa benissimo a chi deve mirare e chi deve colpire – fa fuori anche lui. Niente di personale, ovviamente, gli ordini non si discutono. E le amicizie non sono mai per sempre.
Mi ricordo che un giorno la guerra è scoppiata, le persone hanno cominciato a cadere. Prima molto lontano, in una piana coperta di ginestre, il primo di maggio di molti anni fa; poi sempre più vicino… sempre più vicino… anche qui, sì, sventrando persone, simboli, palazzi e una terra che sogna e coltiva mondi migliori di questo.
Eppure mi ricordo che un tempo esistevano due luoghi dove morire non era un problema: dentro il gioco di un bambino – ci giocavi tu a ‘indiani e cowboy’? hanno cominciato ad imbrogliarci che eravamo così piccoli… – oppure in teatro. In entrambi i casi bastava smettere e tutti i morti si rialzavano. Fino al giorno in cui ci siamo accorti che in questo teatrino c’era uno strappo nel cielo di carta e nemmeno giocare dormire sognare ci è bastato più, per crederci in salvo.
Mi ricordo quando ancora c’era un futuro. Eravamo pieni di dubbi e speranze. Ora, da questo punto di vista, è tutto più semplice.
In questa notte di fine maggio, forse è giusto provare, ancora una volta, a raccontare.
Raccontare cosa? No, la domanda giusta questa volta è ‘raccontare come?’.
Uno di miei maestri – tu lo conosci certamente, si chiama Giuliano Scabia ed anche lui passa buona parte della sua fragile vita in Toscana – mi ha spiegato un giorno che ogni racconto ha la forma di qualcosa.
E’ vero.
Questo racconto, mio carissimo amico, ha la forma di una via Crucis. Ascolta.
Via Crucis
[prima stazione]
Perché la prima stazione è il bacio, di Giuda, e una condanna, a morte, e di come qualcuno se ne lavò le mani, qualcuno si tappò le orecchie, e ad altri la bocca fu chiusa, per sempre. Lo chiamarono "atlantico", quel patto e servì a difendere la nostra libertà.
Ma sotto quel bacio, si nascosero anche fratelli, compagni d’arme, gladiatori, generali, luogotenenti, uffici riservati, servizi segreti, uomini di stato, uomini di mafia, uomini di massoneria. Hanno scritto la storia. Usando sangue, per inchiostro, misto a pianto.
[seconda stazione]
La seconda stazione è una corona di spine e una croce, imbottita di esplosivo, che trasforma un piccolo aereo in stella cometa che illumina il cielo e indica la strada, che l’Italia deve seguire, senza "rròmpere i cògliòni", senza inventarsi strani accordi con i Russi e con gli Arabi, senza preoccuparsi troppo di gas naturale e altre "minchiaaate" simili: la scelta dell’Italia è il petrolio americano ed il petrolio americano sarà il nostro futuro. Cosa vuole questo democristiano dimmerda? ma non ha proprio capito niente?!
Enrico Mattei si dissolve in una bastarda notte di tempesta, il 23 ottobre di quarant’anni fa, esploso in volo. Di lui, del pilota dell’aereo e di un giornalista che volava con loro restano minuscole tracce di ossa e carne, che soccorsi molto premurosi hanno lavato con estrema cura, per offrire loro pietosa sepoltura. E cancellare per sempre ogni traccia ed impronta degli assassini e del loro esplosivo.
[terza stazione]
…e la terza stazione è un tavolo.
Sotto il tavolo qualcuno ha lasciato una valigia, un atroce vaso di Pandora dal quale in un pomeriggio d’inverno fuggì anche l’ultimo male: la paura, il panico, il terrore. Strategia della tensione fu il suo nome.
Una lunga e dolorosa teoria di morte e di pianto: 2 dicembre 1969, Milano, Piazza Fontana, Banca Nazionale dell’Agricoltura, sedici morti e novanta feriti… avanti! 13 maggio 1973, a Peteano esplode una Cinquecento, muoiono tre carabinieri accorsi dopo una telefonata anonima… avanti! 17 maggio, quattro giorni dopo, bomba alla questura di Milano di via Fatebenefratelli, quattro morti e quarantacinque feriti… avanti! 28 maggio 1974, Brescia, piazza della Loggia, manifestazione sindacale, altra bomba, otto morti… avanti! 4 agosto 1974, due mesi dopo, treno Italicus, San Benedetto Val di Sambro: dodici morti e quarantotto feriti… avanti! …avanti! …avanti!
[quarta stazione]
…e la quarta stazione è un volto, che nessuna Veronica potrà più asciugare. Un volto distrutto e schiacciato, spappolato dai pneumatici di un’automobile che gli passa sopra. E’ il volto di Pier Paolo Pasolini, un poeta, assassinato perché sapeva. Assassinato perché la precisione profetica delle sue parole ebbe il peso di una condanna. Perché gli occhi di chi sa vanno chiusi per sempre. E la memoria calpestata.
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe.
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili della strage di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l’aiuto della CIA (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia) hanno creato una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e in seguito, sempre con l’aiuto e l’ispirazione della CIA, si sono ricostituiti una verginità antifascista.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
[quinta stazione]
…e la quinta stazione è una madre che di nascosto nutre il figlio.
Il figlio è Peppino Impastato, che fu fatto esplodere come un terrorista dinamitardo sui binari di un treno, fatto uccidere da Tano Badalamenti, ‘Tano Seduto’.
Lui, Peppino, cacciato dal padre, protetto dalla madre.
Lui, Peppino Impastato, ucciso poche ore prima di Aldo Moro.
Lui, Peppino, con la sua radio.
Lui, Peppino Impastato, che alla mafia oppose la bellezza.
[sesta stazione]
…e la sesta stazione è una cabina telefonica: un uomo parla, senza emozione, l’altro prima non capisce, poi respira pesante… piange… per favore, non a me, piange… questo calice… non a me... troppo tardi… te la ricordi quella voce?
- Il Professor Franco Tritto?
- Sì, chi parla?
- Senta, indipendentemente dal fatto che lei abbia il telefono sotto controllo, dovrebbe portare un’ultima ambasciata alla famiglia.
- Ma chi parla?
- Lei è il professor Franco Tritto?
- Si ma io voglio sapere chi parla.
- Brigate Rosse.
- Eh?
- Va bene? Ha capito?
- Sì…
- Non posso stare molto al telefono quindi dovrebbe dire questa cosa alla famiglia, dovrebbe andare personalmente, anche se il telefono ce l’ha sotto controllo non fa niente, dovrebbe andare personalmente e dire questo: "Adempiamo alle ultime volontà del… del Presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell'Onorevole Aldo Moro", lei deve comunicare alla famiglia.
- Sì…
- che troveranno il corpo dell'Onorevole Aldo Moro…
- Sì…
- in via Caetani.
- …in via?
- …Caetani che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Va bene?
- Sì…
- Lì c'è una Renault 4 rossa, i primi numeri di targa sono N5…
[Qui Tritto comincia a singhiozzare]
- e non posso…
- non può ?!… Dovrebbe per forza…
- ..per cortesia no….
- …eh… mi dispiace… se lei telefona… verrebbe meno all’adempimento delle richieste che aveva fatto espressamente il Presidente…
- …parli con mio padre la prego…
[silenzio]
Una Renault Rossa… ma allora io non ce l’avevo la televisione a colori e solo un corpo abbandonato, di scuro vestito, la testa reclinata, nel bagagliaio di un’auto nera – non rossa! – con centinaia di persone intorno, mi resta nei ricordi. Più l’amaro, d’un grande inganno.
[settima stazione]
…la settima stazione è un uomo morto che cammina.
Un giusto. Ignaro di tutto.
Nessuno potrà mai spiegare perché la croce fu poggiata sulla sua spalla. Nemmeno lui ne chiese ragione.
Era solo un avvocato, non un magistrato, non un politico, né tanto meno un rivoluzionario. Giorgio Ambrosoli, procuratore fallimentare dei crimini fraudolenti del mafioso piduista Michele Sindona. Fece solo il suo lavoro e per questa imperdonabile colpa fu da tutti abbandonato.
"Uomo-morto-che-cammina": non abitano solo nel braccio della morte delle carceri dell’impero. Talvolta se ne vanno ignari, o pensierosi, per la strada, dopo aver accompagnato i figli a scuola, o prima di rientrare a casa, la sera, a piedi o in bicicletta, pronti ad essere falciati.
[ottava stazione]
…e l’ottava stazione è una profezia mantenuta, vesti strappate e divise, è l’espoliazione sistematica di una terra, di un popolo, di uno stato.
E’ un feroce banchetto al quale sono seduti i caimani, generali e luogotenenti che nella carne affondano i denti. Impuniti ingrassano, unti e volgari. Iene ed avvoltoi spolpano il cadavere che altri hanno già spremuto. Uccidono e già brillano loro gli occhi, per il fiero pasto. E per quelli che verranno.
Un’unica grande famiglia fatta di amici, amici degli amici, fratelli e sorelle, metastasi che corrodono le persone e le cose e l’anima del mondo. Per governare più impunemente un maestro venerabile, Licio Gelli, firmò con loro un "Piano di rinascita democratica". Perché dovevano liberarsi di alcuni ostacoli:
a) i partiti politici democratici, dal PSI al PRI, dal PSDI alla DC al PLI. La disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente a permettere ad [nei quali dobbiamo avere] uomini di buona fede e ben selezionati per conquistare le posizioni chiave necessarie al loro controllo.
b) la stampa, che va sollecitata a livello di giornalisti attraverso una selezione che tocchi soprattutto: Corriere della Sera, Giorno, Giornale, Stampa, Resto del Carlino, Messaggero, Tempo, Roma, Mattino, Gazzetta del Mezzogiorno, Giornale di Sicilia per i quotidiani; e per i periodici: Europeo, Espresso, Panorama, Epoca , Oggi, Gente, Famiglia Cristiana. La RAI-TV va dimenticata;
c) i sindacati, sia confederali CISL e UIL, sia autonomi, nella ricerca di un punto di leva per ricondurli alla loro naturale funzione anche al prezzo di una scissione e successiva costituzione di una libera associazione di lavoratori;
d) il Governo, che va ristrutturato nella organizzazione ministeriale e nella qualità degli uomini da preporre ai singoli dicasteri;
e) la magistratura, che deve essere ricondotta alla funzione di garante della corretta e scrupolosa applicazione delle leggi;
f) il Parlamento, la cui efficienza è subordinata al successo dell'operazione sui partiti politici, la stampa e i sindacati.
[nona stazione]
la nona stazione è un orologio fermo.
Ore 10 e 25.
2 agosto 1980, stazione di Bologna.
Sala d’aspetto. Seconda classe.
In un giorno affollato di partenze e di vacanze.
Un’altra valigia e 85 morti. Per distrarre l’opinione pubblica da qualcosa di molto grave che in Italia si sta preparando e che non si può dire.
Per distrarre l’opinione pubblica, l’opinione pubblica viene sterminata. Ridotta al silenzio. Al pianto. Come un padre sprofondato in una poltrona con gli occhi sbarrati e senza più parole. Come una madre che cucina e piange.
Come un giudice che non capisce perché i colpevoli non debbano essere scoperti:
L’opera di inquinamento delle indagini appare così imponente e sistematica da non consentire alcun dubbio sulle sue finalità: impedire con ogni mezzo l’accertamento della verità. Se ciò è vero, e non sembra si possa minimamente discuterne, diviene legittima sul piano rigorosamente logico una seconda proposizione: soltanto l’esistenza di un legame di qualche natura tra gli autori della strage e gli autori dei tentativi di depistaggio può spiegare un simile comportamento. O perché la strage fu eseguita dai primi su mandato degli altri o perché la strage, benché autonomamente organizzata ed eseguita, rientrava in un comune progetto politico, la cui gestione richiedeva necessariamente che non fossero scoperti gli autori…
[decima stazione]
…e la decima stazione è un unico, lungo, lunghissimo e disperato funerale di uomini della legge e della democrazia, condannati a morte e giustiziati. Boris Giuliano, commissario, cadde sotto il piombo della mafia il 21 luglio 1979, dieci giorni dopo Giorgio Ambrosoli. Anche lui stava procurando fastidio a Michele Sindona. Avanti! Poi fu la volta del giudice Cesare Terranova, assassinato a Palermo il 25 settembre 1979. Avanti! 6 gennaio 1980, giorno della Befana, che tutte le feste porta via, porta via anche il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, giustiziato di fronte a moglie e figli. Avanti! Emanule Basile, capitano dei Carabinieri, successore di Boris Giuliano nell’indagine su Michele Sindona, sparato di fronte a moglie e figlia, il 4 maggio 1980. Avanti! Gaetano Costa, procuratore della Repubblica (ma quale Repubblica?) a Palermo, giustiziato per la stessa indagine il 6 agosto 1980: ma quanto era potente, questo Sindona, ma chi è?! che dio lo stramaledica. Avanti! Pio La Torre, deputato, ucciso insieme al suo autista, il 30 aprile 1982. Avanti! Carlo Alberto dalla Chiesa, Prefetto di Palermo, sparato con moglie e agente di scorta, il 3 settembre 1982. Rocco Chinnìci 1983… avanti! Ninni Cassarà 1985… avanti! Il commissario Montana 1986… avanti! Rosario Livatino, il giudice bambino 1990… avanti! Libero Grassi 1991… avanti! Sì, avanti, fino al 1992 quando Palermo divenne Beirut e tutta la città fu inchiodata alla croce e al pianto… avanti! Giovanni Falcone, sull’autostrada, a Capaci, il 23 maggio insieme alla moglie ed agli agenti di scorta, saltati per aria, esplosi, dilaniati, fatti a pezzi… avanti! Paolo Borsellino con i suoi ragazzi, zio Paolo... 19 luglio 1992, Palermo, via d’Amelio. Autobomba. 15 settembre 1993: don Pino Puglisi viene ucciso a Palermo: ha il tempo di sorridere ai suoi assassini e dire "me lo aspettavo".
Dio, Dio mio… perché mi hai abbandonato?!
[undicesima stazione]
…e l’undicesima stazione sono le donne, le mogli, le madri, le figlie. E’ Rosaria Schifani in chiesa, di fronte alla bara di Giovanni Falcone, di fronte alla bara di suo marito, Vito Schifani, agente di scorta. Te la ricordi? Ti ricordi quelle parole spezzate dal pianto: "Io vi perdono però vi dovete mettere in ginocchio". Io la sogno di notte, Rosaria Schifani ed il suo senso di giustizia, incalcolabile e senza prezzo – e come tutte le cose che non si possono vendere o comprare, totalmente priva di valore, secondo le vigenti regole di mercato.
E Rita Atrìa, la piccola Rita, il dolore più grande: ha diciassette anni, orfana di padre sparato dalla mafia, orfana del fratello, sparato dalla mafia. Decide di parlare e racconta tutta la mmèrda di Partanna, la città mattatoio, dove esiste solo la mafia. E parla, abbandonata dalla madre e dal fidanzato, parla: racconta tutto quello che una ragazzina non dovrebbe nemmeno capire o vedere.
Sono la sorella di Atrìa Nicolò, ucciso a Montevago il 24 giugno 1991. Mi presento alla Signoria Vostra per fornire notizie che riguardano episodi e circostanze legate alla morte di mio fratello ed all’uccisione di mio padre, avvenuta a Partanna nel 1985, ma più in generale per fornire notizie sull’ambiente in cui tali episodi vennero a maturare.
Rita parla, dice tutto a "zio Paolo", Paolo Borsellino, che la protegge, la porta a Roma, la nasconde, la salva, le fa sognare che un’altra vita è possibile.
Paolo Borsellino muore di domenica: eravamo insieme Sandro, te lo ricordi, vero? Eravamo nel cuore di quel Casentino che io e te adoriamo, per bellezza e per nascita. Eravamo al castello di Porciano, che domina Stia. E lì tu recitavi quel che c’è di più lontano da questo mondo, il Paradiso: "…la gloria di colui che tutto move…". Anche Rita muore di domenica, sette giorni dopo: se ne va, vola giù dalla sua terrezza, come l’ultimo dei disperati, perché anche al dolore c’è un limite e dopo c’è solo il nero ed il bisogno di non sentire più.
[dodicesima stazione]
Non ce la faccio più… non pensavo che sarebbe stato così doloroso ricordare, sai? Che sia colpa delle nuove ferite? Degli altri morti, o solo della memoria – peggio – della disperazione di comprendere che nulla è cambiato? Anzi…
…e la dodicesima stazione è qui, è ora, dieci anni fa, è la morte a Firenze, a Milano, le ultime bombe, l’ultimo ricatto: la ‘trattativa’, l’hanno chiamata.
E se un aereo buttasse giù la Torre di Pisa?
Questo gli viene in mente: un’opera d’arte dopo che l’hai distrutta non esiste più… come la vita delle persone, però le persone valgono molto meno di un museo.
Ma in che razza di macello siamo finiti?
E’ l’una di notte, una e zero quattro, del 26 anzi, ormai del 27 maggio 1993. E la mafia uccide ancora, qui, ora. Sono incazzati: quello stramaledetto muro di Berlino, venendo giù, ha travolto anche loro, ha travolto molte persone che ora non servono più, ce ne possiamo liberare, no? È sempre così, mi pare: chi oggi ti stringe la mano, domani ti spara alle spalle. E’ semplice, è la legge dei mafiosi.
Quel muro ha travolto tutto: l’Unione Sovietica, il comunismo, Gladio, Totò Riina, Salvo Lima. Roba vecchia. Ora servono altre cose, altre storie per nutrire lo strapotere di chi questa guerra perenne ha ordinato.
Ma la bestia, ferita a morte, non ci sta ad essere sacrificata e, prima di cedere il passo, colpisce. Colpisce le chiese ed i musei. Colpisce persone, che devono continuare ad avere un nome e un cognome. Perché se ai numeri sostituisci i nomi e i volti, qualcosa cambia: Fabrizio Nencioni ha 39 anni. Angela Fiume ha 36 anni. Nadia Nencioni solo 9. Caterina Nencioni ha 50 giorni. Dario Capolicchio 22 anni. Sono morti qui, per questa guerra che non sapevano di combattere.
[tredicesima stazione]
Poi è tutto cambiato.
Alla tredicesima stazione arrivi ‘navigando’, con bonifici facili e immediati, con il riciclaggio istantaneo del denaro sporco, lontano… lontano… in banche che hanno sede su isolette dall’altra parte del mondo e dal nome perfetto: Isole Caiman. Il denaro, ripulito via internet con pochi comandi scritti in inglese, ritorna pronto per le imprese che senza ombre né rischi potranno trasformarlo in ulteriore ricchezza.
Ma di caimani ne abbiamo davvero tanti intorno e risorgono sempre dalle loro ceneri: diventano nomi nuovi e proclamano splendidi programmi che assomigliano in modo disgustoso a vecchie progetti eversivi, ma con l’eleganza sorridente e rassicurante di chi non ha più bisogno di farci affogare nel nostro sangue per dominarci.
[quattordicesima stazione]
…la quattordicesima stazione sono tutte le bare e i sepolcri ai quali abbiamo dovuto abituarci. Bare, nella maggior parte dei casi vuote, che hanno obbligato familiari disperati a strapparsi l’un l’altro qualche brandello di carne, pur di metterci qualcosa dentro.
E io mi ricordo di me, ragazzino, che guardo in televisione un vecchio presidente, piegato in due, il volto terreo, bianco più di un sudario: Sandro Pertini si china nei miei ricordi a baciare ininterrottamente una bara dopo l’altra. Molti anni dopo, quando anch’io mi sono piegato sulla bara che ha sepolto metà dei miei anni, ho compreso che tutti i morti sarebbero stati i miei morti, per il resto della mia stupida e inutile vita.
[quindicesima stazione]
…e la quindicesima e ultima stazione è…
cosa c’è alla fine di una Via Crucis?
La Resurrezione.
Dei morti, di tutti i caduti, di tutti coloro che per scelta o per caso quella croce hanno portato e su quella croce sono stati crocefissi e dilaniati.
Invece no.
Qui non risorge nessuno.
Al massimo, un’assoluzione.
Per non aver commesso il fatto.
Perché il fatto non sussiste.
Perché il fatto non costituisce reato.
Perché il reato ha raggiunto i termini della prescrizione.
Per insufficienza di prove.
O perché le prove sono state cancellate con tanta precisione e sistematico accanimento che non si può dar luogo a procedere.
Amen.
[tramonto]
E ora è troppo tardi.
Sì, caro Sandro, ho la netta impressione che ti sto scrivendo troppo tardi.
Cosa resta del vecchio mondo, morto e sepolto sotto le macerie di quel livido 1993 di bombe e avvertimenti?
Io credo che i libri di scuola cambieranno presto il punto di vista, e che i vecchi mandanti saranno i nuovi eroi di cui qualcuno loderà le gesta: un corpo scelto di pochi esseri eccezionali che hanno dedicato tutta la vita a questa guerra silenziosa e durissima per salvare la democrazia, la repubblica, l’occidente dalla catastrofe. Accettando l’onta e l’ignominia di passare per assassini, stragisti, fascisti, mafiosi, depistatori, loro che furono i soldati della libertà, in una guerra dalla perdite irrilevanti.
Questo leggeremo nei futuri libri, quando la fine di questa epoca permetterà al nuovo stato – sorto proprio dalle ceneri di quel maledetto 1993 – di togliere ogni segreto e dirci tutta la verità. Una verità splendida, una verità bella e rassicurante in base alla quale stragisti, mafiosi e massoni golpisti riavranno il posto che spetta loro nel Pantheon dei martiri e dei servitori della patria.
Non fa una piega, basta decidere di quale patria stiamo parlando.
E i morti?
Quelle centinaia, quelle migliaia di persone uccise in questi quarant’anni per mano dei nuovi eroi?
E le loro madri?
E i figli?
Riusciremo a non dimenticarli?
[Questi morti semplicemente non esisteranno più, cancellati una terza volta, dopo essere stati dilaniati dalle bombe ed azzerati dalle assoluzioni nei tribunali.
Io credo che li dimenticheremo, nascosti in un rigo e mezzo, come i danni collaterali di tutte le guerre combattute dai paladini della libertà.]
E allora, caro Sandro, ecco perché il teatro, questo teatro della memoria, questa che non ho paura a chiamare "orazione civile per non dimenticare" è per me, qui, questa sera, così necessaria. Per me e, credo, anche per te.
Perché questa è letteralmente un’orazione, cioè una preghiera, di quelle che si fanno a voce alta – anche se sommessamente, perché io non amo le grida né chi alza la voce – e per tutti: vi prego, non dimentichiamo, rimaniamo svegli, vi prego... non facciamo l’abitudine alla notte.
Ora in cui la vergogna regna sovrana su tutto il pianeta, il teatro pare essere rimasto l’unico modo per ascoltare vecchie storie e ripeterci quello che il resto del mondo nega e cancella. L’ultimo modo. Così scomodo, così impopolare, così faticoso. Parla a pochi, non buca nessun schermo, non accetta pause pubblicitarie, non può essere gridato, si nutre di dolore. Ma è fatto di carne, non conosce effetti speciali se non quello – ebbene sì – della coscienza e dell’emozione, tiene in piazza le persone, quelle persone che altri vollero terrorizzate, quelle persone che altri vorrebbero chiuse in casa, di fronte al loro rassicurante televisore. E invece, prima dell’ultima e definitiva lobotomia, io provo ancora a scrivere per te e tu osi ancora raccontare. Nel buio siamo qui. Ma se in guerra il buio è solo odio e vergogna, in amore il buio è stare uno accanto all’altro, sentirsi, conoscersi.
Stanotte siamo qui, ad aspettare che siano passati dieci anni, dall’una e quattro minuti, del 27 maggio 1993.
[il resto è silenzio]
Tutte le guerre hanno una fine. Magari ne comincia subito un’altra – così che qualche popolo rischia di non smettere mai di stare sotto le bombe, o di tirarle, le bombe… – ma ogni guerra ha una fine. E c’è qualcuno che deve essere l’ultimo a cadere sotto il fuoco, ‘nemico’ o ‘amico’, poco importa: non sempre sono facili da distinguere.
Forse, quella notte, qui, a pochi passi da qui, Fabrizio, Angela, Nadia, Caterina, Dario sono stati gli ultimi morti, insieme a quelli di Milano dei medesimi giorni, gli ultimi morti della guerra che l’Italia ha combattuto contro se stessa.
No, non che tutto questo sia terminato con una vittoria. Una tregua, forse, perché qualcosa stava accadendo, qualcosa stava cambiando. In meglio? Sì, lo abbiamo pensato, ma per quanto tempo? In peggio? Ah… le solite vecchie domande sempre senza risposte… abbiamo visto sciogliersi come neve al sole monoliti che ci hanno governato per cinquant’anni, vecchi vampiri e nuovi feudatari rampanti che volevano riscrivere le regole a modo loro. Li abbiamo visti andare via tra i fischi e le monetine, qualcuno anche con la bava alla bocca. Ed abbiamo visto i nuovi paladini scendere in campo… eh sì, volti nuovi, che senza dover sparare più un solo colpo hanno realizzato programmi progetti e leggi che solo vent’anni prima avevamo, sdegnati, rifiutato, dichiarando fuorilegge la P2 ed il suo piano di rinascita democratica, definendolo golpe massone e mafioso.
«Avrei preferenza di no», diceva imperterrito il mio eroe preferito, piccolo uomo totalmente privo di doti, meno importante delle lettere smarrite di cui si occupava dal suo ufficio postale. Bartleby, divenuto scrivano per forza, come me che non ho imparato a fare altro.
«Avrei preferenza di no», a me viene da dire anche ora: scusate, ma – per favore – non dite che lo fate per me, per difendere la mia imbarazzante libertà e la mia imbarazzata e colpevole ricchezza. Se proprio dovete farlo – e mi pare chiaro che non vi fermerete di fonte a niente – dite che lo fate per continuare a dominare il mondo i mercati e gli appalti secondo i vostri interessi ed il vostro profitto. Se è per me, io avrei preferenza di no.
Per questo credo che a noi, ora, al buio, in questa notte di dolore e di vergogna, in questa notte fatta per stare vicini, forse resta una cosa sola.
Il silenzio.
Un silenzio che attraversi il buio e la notte e che senza arroganza, senza retorica, senza sentirsi migliori, sussurri al dolore del mondo il nostro no.
[e qui ci vorrebbe un silenzio interminabile, che faccia male allo stomaco]
…il silenzio… un silenzio così diverso dall’omertà.
Un silenzio unanime di chi non ha più paura di guardare negli occhi gli assassini e smette di assolverli e proteggerli.
Che questo silenzio, fratello mio, sia il canto sacro e civile per tutti i caduti di tutte le guerre.
|
|
La scena delle identità elettroniche e genetiche Subtle tecnologies, Toronto, 22-25 maggio 2003 di Roberta Buiani |
Subtle Technologies chiude i battenti dopo tre intense giornate di discussione, performance, dimostrazioni. Il tutto, come sempre, al crocevia tra nuove tecnologie, scienza e arte e in un’atmosfera più che amichevole - quest’ultimo, un elemento che ha caratterizzato questa manifestazione sin dal primo anno di produzione e che rende Subtle Technologies speciale e unico nel suo genere.
Giunta alla quinta edizione, Subtle Technologies da quest’anno si trasforma in festival: questo titolo, che sembra più una formalità che un vero e proprio segno di trasformazione, in realtà ha portato non pochi benefici. Infatti, grazie a questo riconoscimento ricevuto dal Canada Council e dall’Ontario Arts Council, Subtle Technologies ha potuto beneficiare di un budget finalmente all’altezza delle ambizioni. Gli effetti di questo miglioramento si possono notare nel numero di esibizioni e dalla qualità degli spettacoli offerti quest’anno, nonché dagli ospiti presenti: tra gli altri, la compagnia Palindrome, che ha presentato in prima mondiale un frammento della nuova coreografia, Iacov Sharir, che ha riproposto una carrellata dei suoi progetti di Realtà Virtuale e Simon Penny e Bill Vorn con il loro ultimo progetto di collaborazione, un robot dalle fattezze vagamente umane che danza grazie all’input fornito da videocamere che registrano il movimento del partecipante situato in una stanza all’estremità opposta della galleria.
Un’altra novità che torna decisamente a favore della qualità di Subtle Technologies è la presenza di ospiti selezionati tramite una "call for papers." Questo non solo ha garantito una maggiore qualità delle presentazioni, ben preparate e veramente interessanti, ma ha dato visibilità a nuovi progetti e volti altrimenti sconosciuti nella comunità, un po’ esclusiva e incestuosa degli artisti di Toronto.
Come sempre, Subtle Technologies ha un debole per i progetti che contengono una componente teatrale o performativa. Questo elemento non sorprende se si considera che Jim Ruxton, direttore del festival, proviene dall’ambiente della tecno danza. Prima ingegnere, poi artista specializzato in robotica e membro del gruppo ARG (Art and Robotics Group) presso Interaccess, infine produttore di strumenti elettronici e interattivi nel campo della danza, Ruxton è l’anima e il realizzatore del festival, assieme alla collega Victoria Scott, sin dalla prima edizione svoltasi nel ‘98. Quasi tutti gli ospiti invitati a far parte del festival, infatti, sono persone con le quali Ruxton è venuto in contatto durante la sua pratica artistica.
Il festival non ha un tema specifico, a parte l’imperativo suggerito dal titolo. Tuttavia, ogni anno le presentazioni e le performances tendono a concentrarsi su un numero limitato di temi. Quest’anno una buona parte delle presentazioni si é concentrata su temi attuali, quali la resistenza, il sovvertimento e la trasformazione a uso artistico delle tecnologie della sorveglianza, la pratica ecologica e la biotecnologia associata a varie pratiche culturali. Inoltre quasi tutti gli interventi prevedevano in un modo o nell’altro un certo livello di interazione, tuttavia non concepito come gesto meccanico in relazione ad una particolare tecnologia, ma come elemento sociale e comunicativo tra individui.
Swipe
Non a caso la prima presentazione ha visto protagonista Beatrice da Costa e Brooke Singer, la prima specializzata in Tactical Media, la seconda un’artista elettronica. Il loro progetto, Swipe, presentato a Siggraph e recentemente alla Biennale di Montréal, si ispira alla selvaggia raccolta dati provenienti dalla barra magnetica delle carte d’identità e patenti americane, attraverso l’atto dello "swiping." Ogni volta che il cittadino medio si reca presso i rivenditori di alcolici, tabacco, o varie catene di supermercati, gli viene chiesto di passare la carta d’identità attraverso un lettore di banda magnetica che legge i dati contenuti nella carta. Questa pratica, diffusa in oltre 40 stati americani, è tutt’altro che innocua. Infatti i dati contenuti nella banda magnetica non vengono semplicemente letti, ma raccolti e usati a discrezione di chi li riceve: il governo come i supermercati, senza che il cittadino se ne accorga o ne sospetti l’uso. Il progetto Swipe ha lo scopo di svelare, tramite performance pubblica o installazione in gallerie o musei, il funzionamento e l’uso del lettore. In una prima versione, Da Costa e Singer hanno installato il lettore di banda magnetica presso il bar della biennale di Montréal. A chiunque ordinasse una bibita veniva chiesto un documento di riconoscimento, nonostante la pratica comune preveda tale richiesta solo nel caso in cui il cliente ordini alcolici.
La carta veniva passata attraverso il lettore. I dati raccolti venivano mostrati non solo al cliente, ma a tutta l’audience presente nel bar. In un secondo tempo veniva spiegato al cliente che questo è quanto accade ogni volta che la carta viene passata attraverso un lettore. Le informazioni raccolte sono poi archiviate in un database, usate a discrezione del negoziante, vendute in pacchetti su Internet e spesso concesse ad uso e consumo dell’FBI.
Una seconda versione di Swipe è stata presentata in forma di performance: le artiste, insieme a un gruppo di collaboratori, ha avvicinato passanti per strada o persone nei bar, chiedendo loro la carta d’identità e illustrando il meccanismo di raccolta dati. Come affermano le due artiste, questo progetto ha principalmente lo scopo di informare e di rendere consapevoli i partecipanti del commercio, lo scambio e l’uso malizioso, al limite dell’illegalità, dei dati personali contenuti nei nostri documenti. Tra i partecipanti all’installazione/performance, infatti, molti non avevano la minima idea dell’appropriazione e dell’uso dei propri dati personali. Secondo Da Costa, l’azione di svelare una simile pratica e i retroscena dello "swiping" al maggior numero di persone si è rivelata efficace solo grazie ad una azione pubblica e tramite la pratica artistica.
Pop! Goes the Weasel
Se il progetto Swipe intenzionalmente non prevede alcuna azione sovversiva se non quella di informare e rendere consapevoli del trattamento decisamente aggressivo dei dati personali, il progetto di Nancy Nisbet si spinge ben oltre. Pop! Goes the Weasel, si muove nello stesso ambito tematico: il trattamento dei dati personali e il suo uso a scopo di controllo e sorveglianza. Questa installazione interattiva accompagnata da performance, mostra come sia ipoteticamente possibile sovvertire le tecnologie di sorveglianza, proprio attraverso l’uso delle medesime.
Esibita per la prima volta a Nagoya nel 2002, Pop! Goes the Weasel si presenta come strategia di resistenza alle tecnologie di identificazione a radio frequenza (RFID), che possono essere inserite nel corpo umano tramite impianti. L’RFID è costituito da un chip contenente il numero di serie corrispondente all’identità del portatore ed é normalmente usato per monitorare animali d’allevamento e d’appartamento, nonché figli di ricchi imprenditori a rischio di rapimento.
Durante l’installazione di Nagoya l’artista offriva un cartellino di riconoscimento contenente RFID a ciascun partecipante, che doveva passare attraverso alcune barriere simili a quelle che si trovano negli aeroporti. Una volta stabilita l’identità del partecipante, Nisbet lo invitava a condividere e scambiare il cartellino con altri individui, in modo da confondere il sistema di sorveglianza. Contemporaneamente, su uno schermo situato nella stessa stanza, veniva proiettato una sequenza dell’operazione di impianto dell’RFID in una mano. La persona ritratta nel video é l’artista stessa, che si é fatta impiantare una coppia di questi chips in entrambe le mani. Secondo Nisbet, se ogni individuo si facesse impiantare una coppia di questi chips con due numeri di serie diversi, non sarebbe più possibile riconoscerne l’identità. Resistenza è, per l’artista, caos. Il meccanismo migliore per porre resistenza non è tanto cercare di sfuggire la raccolta frenetica di dati personali, ma semmai il contrario.
WorkHorse Zoo
Con una vena altrettanto propositiva e un tono ironico e decisamente umoristico, che del resto caratterizzano la sua intera pratica artistica, il bio artista/ecologista Adam Zaretzky ha presentato una serie di performances ambientate in laboratori biotecnologici e zoo in America (Salina Art Centre in Kansas) e Australia (presso Simbiotica). In WorkHorse Zoo l’artista si è fatto rinchiudere in una camera asettica trasparente di tre metri per tre per una settimana, in compagnia di varie specie di laboratorio come topi, parassiti e amebe. Il suo scopo era di incoraggiare gli animali a divorarsi a vicenda. Questa performance, durante la quale l’artista ha intrattenuto i visitatori (soprattutto bambini) con diversi travestimenti e numeri satirici, vuole essere una critica dell’impatto della scienza e della biotecnologia sulla nostra società e cerca di mostrare come le nostre scelte culturali influenzino la ricerca genetica. In questo caso, Zaretsky cercava di costringere le cavie a nutrirsi di se stesse.
La sua pratica artistica, a metà tra satira e attivismo, si svolge tutta a difesa degli animali e si presenta come dura critica all’atteggiamento di coloro che ignorano il fatto che questi ultimi, grazie all’uomo, sono stati condannati a vivere in spazi protetti quali zoo e laboratori: durante un anno trascorso ad insegnare alla San Francisco State University, Zaretsky ha costruito, insieme ai suoi allievi del corso di arte concettuale, una serie di "giocattoli giganti" da distribuire a leoni e altri animali selvaggi "internati" presso lo zoo locale, con l’intenzione di rendere la loro vita meno noiosa.
Plant Anima
Restando sempre nel tema delle biotecnologie, l’architetto Aniko Meszaros ha presentato un lavoro visionario e altrettanto affascinante: Plant Anima. Si tratta di un progetto al quale Meszaros lavora da cinque anni. Plant Anima utilizza elementi classici della biotecnologia come strumenti culturali, proponendo nuove strutture architettoniche generate attraverso l’invenzione di nuove specie di organismi vegetali, in una combinazione tra innesti naturali, prodotti artificiali e l’aiuto del computer come mezzo di visualizzazione. Il futuro architetto genetico sarà in grado di sviluppare organismi unici che, grazie alla loro natura organica, possono svilupparsi da soli. Il processo di combinazione e innesto di organismi vegetali è ottenuto grazie ad una infrastruttura automatizzata che combina macrofiti geneticamente creati con altri micro organismi derivati da piante acquatiche e alghe. La combinazione risultante viene trasferita in apposite serre e lasciato crescere indipendentemente.
Meszaros afferma di voler mantenere un atteggiamento di "positivismo tecnologico:" infatti il suo scopo principale consiste nell’esplorare le frontiere del design architettonico e dell’invenzione. Tuttavia, la missione finale del progetto rimane il perseguimento del bello e del piacere estetico.
DNA
Lo spettacolo di Palindrome era forse l’evento più atteso a Subtle Technologies. In occasione delle altre presentazioni il pubblico non ha mai riempito completamente la platea, in questo si è registato il tutto esaurito. Forse la maggior parte degli spettatori si aspettavano di vedere una performance unica come Seine Hohle Form. Al contrario la compagnia ha presentato una serie di frammenti provenienti da vari spettacoli dal 2001 all’ultimo work in progress commissionato per il cinquantesimo anniversario della scoperta del DNA, intitolato, appunto, DNA. Quest’ultimo lavoro combina il sistema Eyecon con NATO, un linguaggio per la manipolazione video: la coreografia è stata sviluppata per visualizzare la struttura della doppia elica e l’intreccio della catena di molecole che compongono il DNA, Carbonio, Idrogeno, Ossigeno e Azoto. Questi componenti sono rappresentati da altrettanti gesti che, combinati tra loro, rappresentano sul palco ciò che simultaneamente viene costruito progressivamente e visualizzato sullo schermo. Secondo Robert Wechsler, fondatore di Palindrome, rappresentare ogni singola parte del DNA è un’impresa impossibile: infatti secondo i suoi calcoli ci vorrebbero almeno 6000 anni per ricostruirlo interamente attraverso la danza. Il pubblico ha così dovuto accontentarsi di assistere alla rappresentazione dell’insulina.
La parte più interessante della performance tuttavia non è stata l’anteprima della nuova produzione che, a dire il vero, qualitativamente e visivamente ha lasciato a desiderare, ma il coinvolgimento del pubblico. Alcuni volontari sono stati chiamati sul palco e, durante la pausa tra i due tempi, è stata creata una coreografia basata in parte sull’improvvisazione e in parte sulle istruzioni fornite da Wechsler. Ovviamente questo esperimento ha provocato non pochi commenti da parte del pubblico: secondo alcuni, i risultati dell’improvvisazione avrebbero potuto essere confusi con lo spettacolo vero e proprio. Da qui la critica, sempre presente durante gli spettacoli di questo genere, che l’uso delle tecnologie nella danza servono a nascondere la scarsa qualità dei performers e coprono il movimento naturale del corpo. Resta il fatto che Palindrome, tra le tante compagnie che fanno uso simile delle tecnologie, costituisce uno dei rari casi in cui queste ultime, i danzatori, i costumi e la coreografia stessa sono ben bilanciati e integrati con successo.
The Wind Array Cascade Machine
Anche Interaccess è sicuramente degna di essere segnalata, sia per il suo contenuto, sia per il modo in cui l’elemento naturale è stato inserito nell’installazione. The Wind Array Cascade Machine è composta da diversi momenti e prende forma in altrettante postazioni. Steve Heimbecker è un artista originario del Sakatchewan, la regione canadese celebre per le sue estese praterie ma é attualmente residente a Montréal, dove si occupa in primo luogo di sperimentazioni sonore. Tuttavia l’installazione presentata a Interaccess non contiene suoni, se non indirettamente. In galleria, è possibile vedere uno schieramento di 64 steli di metallo a cui sono fissati led colorati che si illuminano seguendo una sequenza non immediatamente interpretabile. L’agente che provoca l’accendersi e spegnersi di questi led si trova sul tetto del complesso Méduse a Québec City: si tratta di altri 64 steli che in questo caso si flettono grazie alla forza del vento. A loro volta, gli oggetti presenti in galleria e quelli sul tetto di "la Méduse" si ispirano al movimento e, secondo l’artista, al suono prodotto dal vento sulle praterie del Saskatchewan.
Nonostante la trasformazione di Subtle Technologies in festival, è difficile stabilire se e quali trasformazioni si siano verificate rispetto agli anni passati. Questo rappresenta per Subtle un anno di transizione. L’etichetta di Festival probabilmente è destinata a rimanere, almeno per quest’anno, solo sulla carta. Sicuramente il formato e l’atmosfera sono rimasti gli stessi. Subtle è ancora strutturato in forma di conferenza, in cui i presentatori hanno a disposizione 40-50 minuti a testa per presentare il proprio progetto o le proprie idee. Ovviamente queste devono riflettere il tema generale del festival, cioè essere inserite al crocevia tra arte e tecnologie o scienza e arte, o tutte e tre. Al termine della presentazione, di solito si apre la discussione al pubblico per i restanti 10 o 15 minuti, che ovviamente non bastano mai per costruire un dialogo o per iniziare una seria discussione.
Questo rituale si ripete tutti gli anni, e, nonostante fino ad ora si sia rivelato un formato di successo, sembra arrivato il momento di cambiare aria. Iacov Sharir, presente tra gli invitati ha osservato che il ripetersi di anno in anno dello stesso formato ha probabilmente prodotto un po’ di stanchezza. Quando ciò accade, è bene che gli organizzatori si chiedano come possano trasformare il formato non solo per attirare un pubblico piú ampio, ma anche per crescere e offrire qualcosa che non sia una semplice carrellata di progetti, ma una manifestazione che produce dialoghi e collaborazioni piú complesse. L’assenza di moderatori che indirizzino e stimolino il pubblico e stabiliscano connessioni tra le varie presentazioni è, forse, l’elemento che manca in Subtle Technologies.
Bedlam Telekinesisdi Simon Penny e Bill Vorn.
Per ottenere un programma completo con tanto di descrizioni dei singoli interventi http://www.subtletechnologies.com
Roberta Buiani mail: robb@yorku.ca
|
|
net art & altro Intervista a Valentina Tanni di Anna Maria Monteverdi |
Cosa si intende per net art, termine se non sbaglio coniato da Vuk Cosic nel 1995 e quali forme e linguaggi comprende all'interno del mondo del web? Tatiana Bazzichelli qualche mese fa ha aperto una lista di discussione su Activism, Hacker art, Artivism e ricordo una accesa discussione tra alcuni iscritti su cosa si intenda per net art: la posizione di Tozzi intervenuto in quell'occasione era quella di rinunciare al termine preferendo quello di hacker art (sul tema vedi L'etica hacker di Pekka Himanen, Feltrinelli e Hacktivism di Tommaso Tozzi e Arturo Di Corinto, ManifestoLibri, GNU Free Documentatio License e disponibile anche in rete all'indirizzo http://www.hackerart.org/storia/hacktivism.htm)
La net art è un fenomeno complesso e dalle molte facce. Anche a livello terminologico non c'è completo accordo tra gli artisti e gli studiosi. Alcuni fanno una distinzione tra net art e web art, altri, come Tozzi, preferiscono il termine hacker art, altri ancora usano le diverse etichette in maniera interscambiabile. Personalmente, non sono molto interessata alla diatriba terminologica e utilizzo il termine net art per definire un ambito piuttosto vasto, che comprende una serie di progetti e di sperimentazioni artistiche che coinvolgono la Rete, le sue tecnologie, i suoi protocolli, il suo linguaggio. All'interno di questo ambito esistono esperienze estremamente diverse tra loro. Ci sono opere che decostruiscono criticamente le tecnologie di rete, altre che ne indagano le possibilità estetiche, altre ancora che affrontano le ricadute psico-sociali della rivoluzione digitale. Ci sono progetti che studiano l'interfaccia come soglia manipolabile tra l'informazione grezza e la sua visualizzazione e infine altre che hanno un carattere perfomativo o fortemente politico.
La storia dell'«invenzione» del termine net.art (con il punto tra le due parole) è una leggenda molto divertente diffusa da Vuk Cosic e Alexei Shulgin nel 1997. Si tratta di un racconto che circola ancora oggi per e-mail e che testimonia l'ironia e l'inclinazione situazionista di alcuni dei protagonisti del movimento. Secondo questa leggenda fu il malfunzionamento di un software, un errore di conversione, a generare la definizione «net.art». E questo è un buon indizio perché la potenza creativa dell'errore, il rischio del caos, il fascino del crash è uno degli elementi più ricorrenti nelle opere dei net artisti.
Alcuni artisti e gruppi italiani lavorano soprattutto su tematiche attiviste e di impegno, come Tommaso Tozzi, Giacomo Verde e Stranonetwork e hanno predisposto siti di condivisione, liste di discussione che portano l'opera a uscire dal proprio autore per creare comunità tecnologicamente e politicamente consapevoli. Proprio l'opera Netstrike 24-T di Verde-Tozzi contro la pena di morte che richiedeva di assalire i computer del sito del Ministero della Giustizia nel Texas e qwertyu.net di Verde-Voce-Lupone, «web opera» sulle mine antiuomo, sono entrati a far parte del volume di Lara Vinca Masini Arte del Novecento come esempi chiave di arte multimediale. Tu quale credi sia lo specifico della net art?
Sono molti gli artisti del web che scelgono di affrontare tematiche attiviste e sociali e le loro azioni sono estremamente interessanti. La Rete offre, da questo punto di vista, strumenti molto efficaci che favoriscono lo scambio, la creazione collettiva, la costruzione di comunità. E credo anche che sia di importanza vitale che gli artisti lavorino alla costruzione di una coscienza critica nuova, favorendo una maggiore consapevolezza nell'uso della tecnologia. Credo anche che in questo momento il cosiddetto Hacktivism sia la forma più stimolante di controcultura e attivismo.
Tuttavia non me la sento di individuare lo specifico della net art nel «fattore impegno». Credo che la pluralità di approcci al medium Internet da parte degli artisti vada considerata una ricchezza.
Come curatrice di sezioni di net art all'interno di mostre di arte contemporanea, quali criteri usi per selezionare opere e autori? E nel caso, non è una contraddizione dare loro uno spazio fisico concreto e materiale e soprattutto farli entrare nel cosiddetto «sistema dell'arte» magari per un pubblico fatto di ricchi collezionisti alla ricerca del nuovo artista e della nuova tendenza da lanciare sul mercato?
Ho curato una sezione di Net Art all'interno di una grande mostra soltanto una volta. E i risultati sono stati controversi per molte ragioni. Anzitutto i progetti web che ho selezionato non erano «fisicamente» in mostra, ma solo linkati in un cd-rom allegato al catalogo. Quindi si trattava più di una «guida alla net art» che di una vera e propria esposizione. Inoltre non ho mai avuto molta simpatia per questo approccio ghettizzante nei confronti della Net Art. Preferisco che i progetti web vengano inclusi nelle esposizioni con pari dignità insieme a tutte le altre tipologie di opere: quadri, sculture, installazioni, video. Sono un'espressione della cultura artistica contemporanea e non mi piace quando vengono considerati una tendenza modaiola da inserire per rendere la propria manifestazione «updated» e trendy.
Le altre mostre che ho curato, Netizens (www.netizensonline.org) a Roma e L’oading (www.montevergini.it) a Siracusa, erano interamente dedicate all'arte internettiana ed erano entrambe un tentativo di divulgare l'esistenza di questa area di ricerca, sconosciuta al grande pubblico. Senza alcuna volontà di spettacolarizzazione o mercificazione.
Il trasferimento di progetti pensati per il web in uno spazio fisico rappresenta una problematica aperta e sin dalla prima esperienza, nel 1997 a Documenta, ci si è subito scontrati contro la differenza sostanziale che esiste, a livello di fruizione, tra il rapporto che c'è tra lo spettatore e l'opera di net art nel privato della propria abitazione e quello che si crea in uno spazio espositivo. Nelle mie mostre ho sempre cercato di coinvolgere gli artisti nell'allestimento, chiedendo loro in che modo volessero che la loro opera fosse fruita perché penso che la possibilità di utilizzare uno spazio «fisico» sia una preziosa opportunità per "reinterpretare" i progetti web, immaginando «interfacce alternative» all'opera.
Si possono utilizzare proiezioni, realizzare ambienti interattivi, mettere a disposizione materiale informativo, e organizzare eventi performativi. Mettere una fila di computer collegati in un asettico ambiente in stile «ufficio» non ha senso. Una mostra deve essere un'esperienza che mixa spazio reale e virtuale. Altrimenti lasciamo che la Net Art venga fruita da ogni utente dal computer che desidera, nel luogo che desidera.
Per quanto riguarda la questione dell'entrata nel «sistema dell'arte», mi sembra un falso problema. La natura stessa di questo tipo di arte la rende estremamente restia alla commercializzazione e non mi risulta che esista alcun mercato della Net Art. Si campa di auto-produzione e di commissioni istituzionali. Mi sembra importante invece che l'interesse per i progetti web d'artista sia venuto prima da musei e istituzioni e, solo in seconda battuta e quasi esclusivamente negli Stati Uniti, dalle gallerie private. Il mercato non si interessa alla Net Art per due motivi: prima di tutto non sa come venderla e la fascia di collezionisti disposti a comprare anche solo un video è molto ristretta, figuriamoci un progetto di Net Art, che spesso come residuo materiale è vicino al nulla. Il secondo motivo è di carattere culturale: per apprezzarla è necessario un minimo di conoscenza del digitale, delle Reti, bisogna conoscere l'importanza e i meccanismi della telematica. E in Italia, mi dispiace dirlo, questo tipo di cultura è ancora molto acerbo. Spopolano espressioni ridicole come «cyberpittori» e «pennelli elettronici». Figuriamoci.
Nel libro di Pizzo Teatro e mondo digitale si parla di alcune esperienze internazionali di performance on line o web theatre e i frequentatori della rete teatrale conoscono senz'altro l'esperimento di Hamnet: rientrano nell'ambito delle tue ricerche e se si, conosci qualche nome o qualche gruppo di riferimento?
L'incontro tra il mondo del teatro e quello delle tecnologie digitali è un'area che finora non ho approfondito a sufficienza, essendo per formazione uno storico dell'arte, ma rientra di sicuro tra i miei obiettivi di ricerca. La performatività associata all'uso di dispositivi di trasmissione e di interazione a distanza come chat, web-cam e collegamenti satellitari genera esperimenti molto interessanti. Le reti telematiche favoriscono per loro stessa natura gli eventi diffusi e dislocati e le opere che lavorano sui tempi e sugli spazi. Il qui e ora del teatro tradizionale, in cui attori e spettatori condividono uno stesso spazio, è un fattore che si presta ad essere ridefinito e rimesso in discussione. Bisogna anche ricordare che la Net Art attuale è un po' figlia, nel suo uso creativo dei network e degli strumenti della comunicazione a distanza, di quel filone di sperimentazioni artistiche che possono essere definite «telecommunication art». Mi riferisco alle azioni in tempo reale che nel corso degli Anni Settanta e Ottanta si servivano dei satelliti, del fax, della slow scan tv. Porta quindi l'elemento performativo nel suo DNA.
Oltre naturalmente ad Hamnet, che hai appena citato, e al lavoro di Giacomo Verde (webcamtheatre), che sicuramente i nostri lettori conoscono, tra le esperienze di tipo teatrale che ho apprezzato maggiormente posso citarne due. La prima è Ballettika Internettika di Igor Stromajer ( http://www2.arnes.si/~ljintima1/ballet), un net artista che non a caso ha alle spalle una lunga attività come regista teatrale. Si trattava di una performance in cui si mescolavano il linguaggio della danza con quello informatico dei codici html, il tutto trasmesso via webcam, con un refresh delle immagini effettuato ogni 20 secondi.
L'altra è una performance realizzata da Ricardo Dominguez e Coco Fusco nel 2001 (http://www.kiasma.fi/kiasma01/teatteri/dolores/dolores.php). Fu trasmessa in Rete in diretta dal Kiasma, il museo di Arte Contemporanea di Helsinki ed era basata su una storia vera, quella dell'operaia messicana Dolores rinchiusa dal suo capo in una stanza senza acqua, cibo e telefono per 12 ore, nel tentativo di convincerla a firmare le sue dimissioni. La net performance metteva in scena, sotto gli occhi delle webcam e nell'epoca della sorveglianza globale, una realtà alla quale nessuno aveva assistito.
Tu hai un sito all'interno del portale Exibart - Random - ricco di articoli, recensioni e un blog divertente e frequentatissimo; come li organizzi?
Ho in realtà due rubriche - ExiWebArt( http://exiwebart.exibart.com/) e Random (random.exibart.com) - all'interno del portale Exibart dal 2000. Una dedicata agli approfondimenti e l'altra alle news. Random è poi diventato un sito autonomo a tutti gli effetti, anche se è tecnicamente un sottodominio di Exibart. Per entrambe mi avvalgo della collaborazione di una decina di ragazzi che con entusiasmo e dedizione al progetto mi aiutano nella redazione dei contenuti. Per quanto riguarda la gestione tecnica e l'inserimento on line delle notizie invece me ne occupo da sola. Questo, nonostante sia un impegno abbastanza duro, considerando che Random è aggiornato quotidianamente, mi permette di scandagliare il panorama delle sperimentazioni creative sul web con costanza, di conoscere gli autori, di creare occasioni di collaborazione.
Il blog ()www.valentinatanni.com) invece è una new entry e si tratta di uno spazio molto personale. Non ha pretese di attendibilità e lo aggiorno quando ne ho voglia. Contiene le mie riflessioni su quello che mi succede. Mi diverto soprattutto a raccontare il sistema dell'arte - che di solito si prende assai sul serio - da un punto di vista ironico. Mi piace sottolineare gli aspetti ridicoli, buffi, le contraddizioni, i vizi, il gossip.
Esistono organizzazioni concorsi espressamente dedicate alle web based work e magari manifestazioni o Festival da suggerire ai lettori? In un numero precedente di ateatro avevamo segnalato la frequentatisisma sezione web art di Villette numerique a Parigi.
Ne esistono molti. Posso segnalarvi gli statunitensi Turbulence (www. turbulence.org) e Rhizome (www.Rhizome.org), l'italiana Digital is not analog (www.d-i-n-a.net, il festival russo Read_me ( http://www.m-cult.org/read_me), dedicato alle sperimentazioni sul software.
In ogni caso per una lista di link più completa vi rimando alla sezione omonima di Random (http://random.exibart.com/NotiziaStandard.asp?IDNotizia=5883&IDCategoria=3141, che cerco di aggiornare spesso e che contiene centinaia di collegamenti utili divisi in sottocategorie.
Valentina Tanni è nata a Roma nel 1976. E' stata curatrice di varie mostre tra cui L'oading - Videogiochi Geneticamente Modificati (Galleria Civica d'Arte); Netizens - cittadini della rete (Galleria Sala1, Roma 4-22 dicembre 2002); Contemporanea (Siracusa, 17 gennaio-20 febbraio 2003). Cura la Sezione Web della mostra MEDIA CONNECTION. Come i media hanno cambiato l'arte (Palazzo di Esposizioni di Roma, 28 giugno-15 settembre 2001/Palazzo della Triennale di Milano, 18 ottobre-28 novembre 2001). E' curatrice della rubrica Net Art su "Flash Art" ed è caporedattrice delle sezioni Webart e Libri del portale italiane dell'arte ExibArt (www.exibart.com), curatrice della rubrica ExiWebArt (http://webart.exibart.com) e curatrice del sito RANDOM. Novità dal mondo della net.art, un quotidiano sull'arte in Internet (http://random.exibart.com), e della relativa newsletter settimanale. Insegna al corso di Informatica applicata ai Beni Storico-Artistici all'Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Curatrice del Festival di Net Art BananaRAM (Ancona, MoleVanvitelliana, 18-22 settembre 2002), responsabile della sezione arte digitale del mensile Next Exit Si occupa, per conto della società torinese Artexe, dell'ideazione e del coordinamento del workshop on line inter.face, fase finale del concorso per net artisti e web-designer Art into the Web (www.artintotheweb.com).
Links sulla net art
webart.exibart
random
rhizome
noemalab
neural
netartreview
|
Clicparade Le pagine più viste in questi ultimi tre mesi di Redazione ateatro |
Su "ateatro" le pagine più frequentate sono naturalmente i forum.
Quella che trovate qui sotto è invece la "clic parade" degli articoli più visti (e speriami più letti...) su "ateatro" in questi ultimi tre mesi.
14.5 Perché gli Shakespeare di Nekrosius mi piacciono così tanto Note sulla regia di Oliviero Ponte di Pino
50.10 Le recensioni di "ateatro": Prometeo incatenato di Eschilo, regia di Luca Ronconi di Oliviero Ponte di Pino
51.1 I postumi L'editoriale di Redazione ateatro
50.4 La banalità del porno XXX della Fura dels Baus di Giacomo Verde
46.8 attore-specchio-macchina Robert Lepage regista e interprete di Anna Maria Monteverdi
50.13 Le recensioni di "ateatro": Gente di plastica ideazione e regia di Pippo Delbono di Oliviero Ponte di Pino
50.20 Un mostro italiano Il capitolo su Alberto Sordi nell'Enciclopedia pratica del comico di Oliviero Ponte di Pino
46.6 Un talk show progressista? Un teatro politico? Gli Eraclidi con la regia di Peter Sellars a Romaeuropafestival di Oliviero Ponte di Pino
29.3 Enrico IV nel labirinto della guerra Il testo di Pirandello in scena a Cambridge (USA) di Walter Valeri
50.9 Una mail e qualche polaroid (esplicita) Un'anticipazione da Some Explicit Polaroids di Mark Ravenhill al Teatro dell'Elfo di Elio De Capitani
50.0 Miti e street-tv L'editoriale di Redazione ateatro
47.11 Macbeth hard: una rivoluzione di velluto Shakespeare, Bandinelli e l’utopia "hard" di Lady Critical
50.11 Le recensioni di "ateatro": Iliade di Pietro Babina da Omero di Oliviero Ponte di Pino
50.12 Le recensioni di "ateatro": Quel che sapeva Maisie di Henry James, regia di Luca Ronconi di Oliviero Ponte di Pino
50.1 I giocattoli di Dioniso Sul mito dell'invenzione del teatro di Fernando Mastropasqua
33.4
4 punti per 4:48 Intorno a tre spettacoli ispirati a 4:48 Psychosis di Sarah Kane di Oliviero Ponte di Pino
46.3 Carmelo dopo Carmelo Un convegno e una mostra dedicati a Carmelo Bene di Andrea Balzola
47.5 Bardomovies Shakespeare al cinema di Oliviero Ponte di Pino
37.6 Il teatro delle interfacce Focus on Emanuele Quinz di Anna Maria Monteverdi
50.2 La voce di Cassandra Appunti sull’attualità del mito di Oliviero Ponte di Pino
38.8 Lo spettro di Craig nell'Amleto televisivo di C.Bene (Rai 1977) Una analisi delle prime scene di Fernando Mastropasqua
45.4 Oggetti perturbanti: le marionette Dalla Festa delle Marie a Kantor di Concetta D'Angeli
51.12 Jan Fabre in mostra a Bergamo Un portfolio di immagini di Redazione ateatro
42.10 Lo stile multimediale Multimedia. From Wagner to virtual reality, a cura di R. Packer e Ken Jordan di Anna Maria Monteverdi
45.5 L'attore musicale Il melodramma e le marionette di Eugenio Monti Colla
49.6 The Merchant of Venice con la regia di Trevor Nunn Lo spettacolo del National Theatre dal Cottesloe all'Olivier di Vera Cantoni
31.5 Messico e quadri Frida, Diego, l'amore, la morte e l'arte di Anna Maria Monteverdi
45.7 Marionette milanesi La storia della compagnia di Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli
48.2 Una lettera a Antonio Moresco su Artaud, Hitler, la Socíetas Raffaello Sanzio (& altro) in occasione della pubblicazione de L’invasione di Oliviero Ponte di Pino
51.51 Un teatrografia di Giovanni Testori (work in progress) di Redazione ateatro
32.4 Diarioateatro: venerdì, sabato e domenica Breve cronaca di un fine settimana "teatrale"tra la Liguria e la Toscana di Anna Maria Monteverdi
37.4 Lingua materna Le lingue e il presente della memoria di Renata Molinari
49.5 Per un teatro necessario Appunti di un fabbricante di maschere di Ferdinando Falossi
50.3 Il Che, la Nazionale & la classe operaia Tre racconti teatrali per tre miti contemporanei di Oliviero Ponte di Pino
48.4 Junk Modernity Una intervista con Strupper della Mutoid Waste Company di Stefania Parmeggiani
3.4 Glance=Sguardo (Sull'Orfeo dei Motus) di Anna Maria Monteverdi
36.6 Raffaello & altro Riccione TTV 2002 XVI edizione di Silvana Vassallo
44.3 La bella crisi Scritto per la Biennale Teatro di Oliviero Ponte di Pino
|