Guerra # Israele e Palestina La compagnia Pippo Delbono in tournée di Redazione ateatro - Compagnia Pippo Delbono
In questi giorni la Compagnia Pippo Delbono è in partenza per la Palestina, dove presenterà Guerra. E’ un progetto complesso, ambizioso e rischioso, ne trovato notizia sul forum Fare un teatro di guerra.
ateatro cercherà di seguire questo viaggio teatrale, aggiornando la homepage di questo sito con le informazioni che ci verranno inviate dalla compagnia e dai suoi accompagnatori.
GUERRA 29 dicembre 2002 – 7 gennaio 2003
Israele e Palestina
Guerra è il bisogno di rappresentare la vita che nasce dalla marginalità e dalla malattia, la gioia che può nascere dalla sofferenza e dalla diversità.
Guerra è un lavoro teatrale che non racconta una storia lineare, non ci sono dialoghi e neppure veri e propri personaggi: nello spazio spoglio di un palcoscenico si combatte, attraverso le azioni fisiche e i gesti esasperati degli attori, le parole e la musica, una "guerra interiore che è poi la
guerra del mondo".
Guerra è disordine, caos, mostruosità, e al contempo armonia, controllo, normalità. Come tanti Ulisse in viaggio, in cerca di una terra della convivenza possibile, tutti i personaggi si perdono per poi ritrovarsi, lottano senza morire mai.
Guerra è una "terra rossa e riarsa", è un mostro cui contrapporre un’"Hiroshima completamente coperta di fiori". Le grida lasciano il posto alla musica, le stampelle alla danza, il silenzio alle risa di gioia.
La Compagnia Pippo Delbono ha deciso di andare a "fare teatro" in Israele e Palestina, una tournée che toccherà Gerusalemme, Nazareth, Ramallah, Haifa e Betlemme, in nome di un forte impegno umano e civile.
Dal 29 dicembre 2002 al 7 gennaio 2003, la Compagnia metterà in scena Guerra, una pièce teatrale ideata e diretta da Pippo Delbono. In questo periodo Pippo Delbono e i suoi attori incontreranno giovani, artisti, donne e uomini di cultura israeliani e palestinesi, in una serie di incontri pubblici e laboratori teatrali.
Dalla straordinarietà di questo progetto teatrale e culturale è nata l’idea di realizzare un film documentario su ciò che accadrà nei teatri e nelle città, sulla scena e nella vita reale.
"All’inizio c’è sempre un grande caos, però, nello stesso tempo, una certezza su quello che si è e su quello che non si è, come esseri umani innanzitutto. Credo che bisogna partire da un grande caos e sperare di dargli un ordine. Quando lo spettacolo c’è, quando è compiuto, non significa che ho capito, che c’è una risposta. No, lo spettacolo, in realtà, è come una più profonda domanda." (Pippo Delbono)
Su questa traccia – la ricerca di un ordine possibile -, tra appunti di viaggio, emozioni e sguardi, il film raccoglierà le storie che attraversano i confini, "atroci e allegre, semplici e piene di poesia".
Alcune cose che si possono fare con Shakespeare L'editoriale di Redazione ateatro
E’ Natale e siamo tutti così buoni!
Persino ateatro ha deciso di farvi un (altro) regalo. Un regalone. Perché ci siamo accorti che in questi anni abbiamo accumulato molto materiale su William Shakespeare. Un po’ lo abbiamo trovato negli archivi della webzine, qualcos’altro l’abbiamo trovato nel fondo della memoria di qualche pc e lo mettiamo online per la prima volta. Così per dare l’addio a questo scalcagnato 2002 abbiamo pensato di regalarvi uno Speciale Shakespeare bello ricco e succulento.
Un regalo nel regalo riguarda un approfondimento sui rapporti Shakespeare e il cinema: un saggetto sull’argomento e la Bardofilmografia, un database con le più importanti pellicole tratte dalle opere del Nostro - dal 1899, quando fu girato un frammento di Re Giovanni con Herbert Beerbohm Tree - fino più o meno a oggi. Non sono tutti i film shakespeariani - sono meno di 200 - ma sono quelli secondo noi più significativi.
Se volete approfondire l’argomento, la bibliografia è peraltro vasta, a cominciare dall’ottimo Ombre che camminano, a cura di Emanuela Martini, ai due utilissimi volumi della Cambridge University Press, Shakespeare and the Moving Image. the plays on film and television a cura di Anthony Davies e Stanley Wells (1994), e The Cambridge Companion to Shakespeare on film, a cura di Russell Jackson (2000).
Poi c’è uno dei pezzi forti del sito, Il secolo Amleto, ovvero una panoramica dei più importanti incontri con il più celebre personaggio shakespeariano nel corso del Novecento che diventa anche - inevitabilmente - una piccola storia del teatro di un periodo tormentato e dei suoi rapporti con la storia e la politica.
E ancora, Sellars e Lepage, Brook e Tiezzi, Bene e Nekrosius...
Resta da capire perché mai, quattrocento anni dopo, siamo ancora qui a parlare di Shakespeare e dei suoi testi, in maniere spesso imprevedibili. Chi di voi si sarebbe immaginato che un superpagato consulente in direzione d’impresa - Paul Corrigan, per la cronaca - potesse firmare un manuale come Shakespeare e il management. Lezioni di leadership per i manager d’oggi (Etas, 2001)? Non ridete, è una cosa seria, si commentano puntigliosamente Re Lear e Macbeth, Antonio e Cleopatra ed Enrico V e un capitolo s’intitola "Attenzione alle sottotrame"...
Il mistero l’ha sciolto - e insieme infittito - l’Amleto di Peter Brook. Lo si sa, la peggiore tentazione per un regista che vuole affrontare Shakespeare consiste nel voler dire con il suo spettacolo tutto quello che il testo può dire. Mentre la soluzione più efficace è quella di usare il testo per dire una cosa di cui si sente l’urgenza.
Brook con la sua composita compagnia ha deciso di fare la cosa più semplice: limitarsi a raccontare una storia - quella di un principe il cui padre è stato ucciso eccetera eccetera (la trama la conoscete...). E’ una vicenda semplice, universale, che tutti possono capire. In apparenza, la sua regia ha fatto piazza pulita di qualunque interpretazione, lettura, sottotesto, per concentrarsi sui fatti e sulle parole che pronunciano i personaggi. Un tappeto, pochissimi oggetti, costumi semplici. E basta.
Eppure, quando si arriva alla fine, quando "il resto è silenzio", si sente l’eco di Wittgenstein (che pure non amava Shakespeare) e del suo silenzio alla fine del Tractatus...
In questo numero (e seguendo i link) troverete alcune delle cose che si possono fare con William Shakespeare: alcune memorabili, altre eccentriche, alcune sbagliate, altre decisamente strampalate. Divertitevi (e istruitevi...)
Materiali su Shakespeare Dagli archivi di "ateatro" e "olivieropdp" di Redazione ateatro
Il secolo Amleto Ovvero il Novecento attraverso le letture, le messinscene, le interpretazioni del capolavoro di Shakespeare di Oliviero Ponte di Pino
"Mettere per iscritto le proprie impressioni dell’Amleto rileggendolo anno dopo anno significa virtualmente stendere la propria autobiografia, perché noi diventiamo sempre più esperti della vita, e così Shakespeare sembra contenere ciò che abbiamo appreso".
(Virginia Woolf, Charlotte Brönte, in The Essays of Virginia Woolf, Londra 1987).
Se è vero quello che ha scritto Virginia Woolf, allora raccontare quello che è stato Amleto nel Novecento,
anno dopo anno, nella critica e negli spettacoli, significa dunque raccontare un po’ l’autobiografia del secolo.
Senza dimenticare l’annotazione di un critico di fama, Andrew Bradley, secondo il quale Amleto è l’unico personaggio shakespeariano
che avrebbe potuto scrivere le opere di Shakespeare.
Per cominciare questo viaggio nel "secolo Amleto", ricco di spettacoli epocali ma anche di curiosità e aneddoti, vale la pena
di partire con un leggero anticipo, con uno spettacolo che debutta nell’ultimo anno dell’Ottocento.
1899:
Sarah Bernhardt 1900:
sulla scena per la prima volta la versione integrale 1904:
Shakesperean
Tragedy di Andrew Cecil Bradley 1908:
"Chi è Amleto" per August Strindberg 1909:
Max Reinhardt e Alexander Moissi a Monaco e Berlino 1910-11:
Craig-Staniskavskij a Mosca 1912-14:
Ettore Petrolini 1915:
Ruggero Ruggeri e i grandi attori italiani 1919:
Amleto
e i suoi problemi secondo Eliot 1922:
John Barrymore a New York, Buster Keaton a Hollywood 1923:
Riccardo Bacchelli e il suo Amleto rifiutato 1924:
Le
tragedie in due battute di Achille Campanile 1925:
il primo Shakespeare in abiti moderni 1928:
Sigmund Freud in Dostoevskij e il parricidio 1935:
John Dover Wilson, What Happens in Hamlet 1936:
Amleto nel Terzo Reich 1938:
il sonetto di Bertolt Brecht 1939:
Laurence Olivier nel castello di Elsinore 1945:
Orson Welles tra Amleto e Falstaff 1946:
"Essere o non essere" nel Far West 1948:
gli Oscar a Laurence Olivier 1952:
Io,
Amleto ovvero Macario 1954:
Shakespeare per tutti: Joseph Papp fonda il New York Shakespeare Festival;
e a Mosca il Gamlet del sipario di ferro 1955:
Gassman-Squarzina in tv il 28 ottobre 1956:
Shakespeare nostro contemporaneo: Jan Kott e Carl Schmitt 1957:
l’Amleto di Jurij Zivago 1959:
le scenografie di Svoboda 1961:
il primo Amleto di Carmelo Bene 1962:
Una
notte con Amleto di Vladimír Holan 1964:
il film di Grigori Kozincev 1965:
Zeffirelli e Albertazzi 1966:
Rosencrantz
e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard 1971:
Jurij Ljubimov e Vladimir Vissockij alla Taganka di Mosca 1973:
L’Ambleto
di Giovanni Testori a Milano 1977:
Hamletmaschine
di Heiner Müller e la trasgressione di Peter Zadek a Berlino 1979:
l’Amleto elettronico di Hansgünther Heyme e Volf Vostell 1982:
Klaus Michael Grüber e Bruno Ganz a Berlino 1989:
qualche Amleto di più (Heiner Müller, Patrice Chéreau,
Andrzey Wajda, Juri Ljubimov) 1990:
Leo è Totò Principe di Danimarca 1991:
Star Trek VI: The Undiscovered Country (Rotta verso l’ignoto) 1992:
Societas Raffaello Sanzio 1995:
gli Amleti dei maestri (Peter Brook, Robert Wilson, Robert Lepage, Eugenio
Barba e ancora Carmelo Bene); e l'Oscar del porno all'Amleto di
Luca Damiano e Joe D'Amato 1996:
il film di Kenneth Branagh 1997:
l’Hamletas di Eimuntas Nekrosius 1998:
Federico Tiezzi a Prato 1999:
gli Oscar a Shakespeare in Love
Bardomovies Shakespeare al cinema di Oliviero Ponte di Pino
Precedenti versioni di questo testo sono state pubblicate nel CD-rom Tutto il teatro di William Shakespeare e nell'Enciclopedia del cinema a cura di Gianni Canova, entrambi pubblicati da Garzanti Libri.
Bardomovies è collegato al Bardofilm database e alla filmografia Shakespeare: dai testi al grande schermo: quasi 200 schede di film shakespeariani, ricercabili per titolo, regista, interpreti....
È praticamente impossibile compilare una filmografia completa delle pellicole in vario modo collegate a Shakespeare. In primo luogo perché sono numerosissime, a cominciare dal primo adattamento cinematografico shakespeariano giunto fino a noi (ne è stato di recente recuperato un minuto): datato 1899, è ripreso dall’allestimento di Re Giovanni a opera di sir H.B. Tree allo Her Majesty’s Theatre di Londra ed è stato probabilmente girato negli studi esterni della Biograph. In secondo luogo perché è assai difficile stabilire i confini di un genere come il «cinema shakespeariano», che comprende opere diversissime per origine, supporto e finalità.
Per orientarsi nella mole del materiale può essere utile cercare di individuare alcuni possibili «sottogeneri».
Dallo spettacolo al film Sono innumerevoli le riprese di spettacoli teatrali, realizzate con vari gradi di libertà e finalità diverse. Si va dalle immagini girate con camera fissa a scopo documentario (per successivi riallestimenti o per motivi di studio) a filmati che si discostano in varia misura dallo spettacolo, magari realizzati in esterni (come nel caso del Re Lear, 1971, di P. Brook, filmato tra i rigori dell’inverno danese). In questi casi, lo spettacolo teatrale è una sorta di paesaggio: l’operazione del regista consiste nel trasferirlo su un medium diverso da quello d’origine. Altri filmati o video documentano le varie fasi della realizzazione di uno spettacolo teatrale di particolare importanza o interesse, magari inglobando alcuni spezzoni del risultato finale. Ma si dà anche il caso di pellicole costruite intorno a un allestimento che non è mai stato effettivamente realizzato, come accade in Riccardo III - Un uomo, un re (1996) in cui Al Pacino ha raccolto tre anni di ricerche, interviste, prove, discussioni intorno al capolavoro di Shakespeare, coinvolgendo interpreti del calibro di A. Baldwin (Clarence), W. Ryder (Lady Anna), H. Yulin (Edoardo IV), K. Spacey (Buckingham) con interventi di K. Branagh, K. Kline, P. Brook, D. Jacobi, J. Gielgud, V. Redgrave.
Libertà cinematografiche
Altre opere non hanno invece un’origine teatrale, ma sono state concepite fin dall’inizio pensando
al grande schermo o al video. Sono i film e i telefilm che in pratica utilizzano i drammi di Shakespeare come sceneggiature,
con i necessari adattamenti. Tanto per cominciare, in genere la durata tipica di un film (due ore, due ore e mezzo circa)
impone drastici tagli al testo, mentre la messinscena completa di alcuni dei testi shakespeariani più lunghi tocca le quattro o cinque ore. Per es. nel film di L. Olivier (1944) il testo di Enrico V è ridotto di circa la metà. Non mancano però le eccezioni, come le circa quattro ore dell’Amleto integrale filmato da K. Branagh (Hamlet, 1996).
Sono inoltre numerose le attualizzazioni e le libere trasposizioni. Per es., uno dei testi più frequentati,
Romeo e Giulietta, è stato trasportato assai lontano da Verona. E. Lubitsch (Romeo und Juliet in Schnee, 1920)l’ha ambientato in un villaggio delle Alpi, protagonisti L. Howard (Romeo), N. Shearer (Giulietta) e J. Barrymore (Mercuzio). A. Asquith (Giovani amanti, 1954)l’ha spostato ai tempi della guerra fredda e J. Weiss (Giulietta, Romeo e le tenebre, 1959) nella Praga occupata dai nazisti. R. Wise e J. Robbins ne hanno tratto un celebre musical, West Side Story (1961) grazie alla partitura di L. Bernstein, facendo cantare e danzare la Maria/Giulietta di N. Wood e il Tony/Romeo di R. Beymer nel West Side di New York. A. Ferrara (China Girl, 1987) situa il tragico amore tra Chinatown e Little Italy con una Giulietta cinese e un Romeo italoamericano. A. Acosta lo traspone in forma di cartone animato tra i gatti. Per M. Sarne (The Punk and the Princess, 1993) gli sfortunati amanti sono invece punk londinesi, mentre B. Luhrmann (1996) sceglie come sfondo Verona Beach, vicino a Miami, ma fa recitare gli interpreti, a cominciare da L. Di Caprio e C. Danes, nel blank verse elisabettiano.
Del resto le trame di Shakespeare (spesso a loro volta riprese da altri testi, dalle cronache storiche alle novelle italiane) sopportano brillantemente le distorsioni più varie: non mancano le incursioni nel western (a cominciare da quelle di un affezionato cultore di Shakespeare come J. Ford) e nello spaghetti western (Quella sporca storia del West, 1967, di E.G. Castellari, con sceneggiatura di S. Corbucci), nell’horror (magari utilizzando B. Karloff, celeberrimo Frankenstein, come boia di Riccardo III in L’usurpatore, 1939, di R.V. Lee) o addirittura nella fantascienza (per Il pianeta proibito, 1956, di F.M. Wilcox, ispirato alla Tempesta, con Ariel e Calibano trasformati in un robot). E persino nel porno c’è un ricco filone di pastiche shakespeariani.
Il teatro nel teatro nel cinema
Riprendendo il meccanismo del teatro nel teatro così spesso utilizzato da Shakespeare, sono diversi i film costruiti intorno alla storia di una fittizia messinscena di un testo shakespeariano (o alle riprese di un film altrettanto fittizio). La gamma delle possibilità sembra infinita: Baciami, Kate! (1953) di G. Sidney ha per protagonisti una coppia di attori litigiosi e divorziati che devono portare in scena un musical ispirato a La bisbetica domata (con le musiche di C. Porter); Nel bel mezzo di un gelido inverno (1995) di K. Branagh racconta la storia di una compagnia di provincia inglese che vuole mettere in scena Amleto, con tutti i dubbi degli attori rispetto ai loro personaggi. Un piccolo filone a parte è quello dei film che hanno per protagonista un attore che deve interpretare la parte di Otello e che finisce per immedesimarsi talmente nel personaggio da soffrire della stessa gelosia: la situazione torna nelle due versioni di Carnival (con la regia di H. Knowles nel 1921 e di H. Wilcox nel 1931), dove il protagonista Silvio Steno (nelle due versioni interpretato da M. Lang) s’ingelosisce della moglie Simonetta (nel 1921 H. Bayley, dieci anni dopo D. Bouchier); viene successivamente ripresa in La segretaria (1936) di W. Reisch, protagonista M. Hopkins, e in Doppia vita (1947) di G. Cukor, il cui protagonista R. Colman, nei panni di un attore che s’immedesima nei suoi personaggi fino all’ossessione, vinse l’Oscar.
Animare Shakesepare
Un genere a parte dovrebbe comprendere i film di animazione, da G. Méliès a J. Trnka, da Braccio di Ferro (che in Shakespearian Spinach, 1940, s’innamora ovviamente di Olivia/Giulietta) a Il re leone (1994) di W. Disney. All’inizio degli anni ‘90 è stata realizzata dalla BBC (con un gruppo di animatori russi) un’intera serie di filmati di animazione (mezz’ora l’uno circa) dedicati ai capolavori di Shakespeare in versione ridotta e semplificata.
Il personaggio Shakespeare
Un altro possibile «sottogenere» potrebbe raccogliere i film dedicati a Shakespeare come personaggio storico: anche in questo caso si va da documentari realizzati con intento didattico a libere invenzioni come il fortunatissimo (ma storicamente poco attendibile) Shakespeare in Love (1998) di J. Madden. Varie pellicole sono ispirate a episodi veri o presunti della vita del drammaturgo: in The Immortale Gentleman (1935) di D. Butler s’immagina l’incontro in una taverna di Southwark tra Shakespeare e due suoi colleghi drammaturghi come Ben Jonson e Michael Drayton; The Dark Lady of the Sonnets (1955) di D. Allen, ispirandosi a una commedia di G.B. Shaw porta in scena un dialogo immaginario tra il drammaturgo e la sua protettrice, la regina Elisabetta I.
Sono numerosi i film e i telefilm che hanno per protagonisti un attore (o una compagnia) che si misurano con i vari personaggi di Shakespeare: può essere J. Barrymore che nel suo ultimo film, al tramonto della carriera, rivisita e attualizza alcuni brani shakespeariani del suo repertorio in Playmates (1941) di D. Butler; oppure la storia di una dinastia d’attori come i Booth (uno dei quali uccise il presidente Lincoln) in Il principe degli attori (1955) di P. Dunne; o ancora la biografia di un grande attore shakespeariano del passato, approdata attraverso il dramma di Dumas padre nel film Kean, genio e sregolatezza (1955) con V. Gassman come regista e interprete. In Shakespeare Wallah (1965) J. Ivory segue una compagnia angloindiana che recita Shakespeare nelle città e nei paesi dell’India, con una antologia di brani celebri. Il servo di scena (1983) di P. Yates, basato sulla commedia di R. Harwood, ruota invece intorno alla tournée di un vecchio attore che interpreta Macbeth, Otello e Re Lear.
Citazioni shakespeariane
Evidentemente gli sceneggiatori hanno grande familiarità con i testi del Bardo. Molte pellicole sono imprevedibilmente disseminate di citazioni e rimandi più o meno riconoscibili, più o meno curiosi. L’onnipresente Amleto riemerge nelle forme più diverse. In Day Dreams (1922) B. Keaton s’immagina di essere un divo che interpreta Amleto. In Gloria del mattino (1933) di L. Sherman una giovanissima K. Hepburn, nella parte di un’aspirante attrice che arriva a Broadway, si ubriaca e recita il monologo di Amleto (la parte le meriterà il primo Oscar). Lo stesso monologo lo recita anche Doc Holliday (alias V. Mature) in uno dei capolavori di J. Ford, Sfida infernale (1946): per quanto riguarda la credibilità di un cow boy che conosce a memoria interi monologhi teatrali, va tenuto presente che Shakespeare faceva parte della cultura popolare dell’Ottocento americano. Un verso fornisce il titolo originale del sesto film della serie Star Trek, The Undiscovered Country (di N. Meyer, 1991; nella traduzione italiana, Viaggio verso l’ignoto, l’allusione è andata perduta). In Last Action Hero - L’ultimo grande eroe (1993, di J. McTiernan) compare un finto trailer di un Amleto che ha lo stesso protagonista del film, Arnold Schwarzenegger. La trama di un campione d’incassi della Walt Disney come Il re leone (1994) ricalca chiaramente Amleto.
BBC Shakespeare
Nel valutare le trasposizioni cinematografiche vanno anche tenuti in considerazione la destinazione e il supporto: un film destinato a essere proiettato nelle sale cinematografiche (magari con un cast ricco di divi) è altra cosa da un documentario a uso interno di una compagnia o da una serie destinata al grande pubblico televisivo, che comprende gli adattamenti di 37 testi di Shakespeare, come quella realizzata dalla BBC e trasmessa tra il 3 dicembre 1978 e il 27 aprile 1985. Più di recente, diverse compagnie hanno realizzato brevi video (a volte veri e propri videoclip) per promuovere i loro spettacoli: si tratta di un altro sottogenere di video-teatro nel quale Shakespeare ha inevitabilmente la sua parte.
Una telegrafica storia de cinema shakespeariano
Di fronte a una tipologia così variegata, risulta altresì difficile tentare una periodizzazione.
Le origini
Agli inizi ci sono i radicali adattamenti del cinema muto, di cui restano vari frammenti (il primo è quello già citato del Re Giovanni,1899) e diversi esempi (in particolare i filmati realizzati dalla società di produzione statunitense Vitagraph nei primi anni del secolo). Si tratta di materiale che ha spesso grande valore documentario, perché ci restituisce le uniche immagini cinematografiche di alcuni grandi attori del passato.
Gli anni '30
Per parlare di autentici adattamenti delle opere di Shakespeare per il grande schermo è però necessario attendere l’avvento del sonoro, a cominciare da La bisbetica domata per la regia di S. Taylor nel 1929 con una coppia di superstar come M. Pickford (Caterina) e D. Fairbanks (Petruccio). Negli anni ‘30 è la volta di pellicole ambiziose, realizzate a Hollywood con grande spiegamento di mezzi. Il sogno di una notte di mezza estate (1935)di M. Reinhardt è un fiasco, malgrado sia ispirato a una serie di allestimenti di enorme successo e supportato da un cast infarcito di grandi nomi come J. Cagney (Bottom), O. de Havilland (Ermia) e M. Rooney (Puck). Romeo e Giulietta (1936) di G. Cukor approda, dopo sei anni di lavoro, a un film freddo e calligrafico con L. Howard (Romeo), N. Shearer (Giulietta), J. Barrymore (Mercuzio). Come vi piace (1936) di P. Czinner non ha sorte migliore e si ricorda soprattutto per il giovane L. Olivier nella parte di Orlando. All’epoca queste pellicole suscitano tra l’altro un acceso dibattito tra il regista teatrale H. Granville-Baker e A. Hitchcock sul possibile rapporto tra Shakespeare e il cinema.
Olivier, Welles & gli altri
È proprio L. Olivier con Enrico V (1944) e Amleto (1948) a segnare una svolta, con pellicole che non si basano sulla ricchezza dell’allestimento e dell’ambientazione, ma sulla complessità e sulla precisione del linguaggio cinematografico: dopo diverse delusioni, il successo artistico e di pubblico dimostra che Shakespeare può funzionare anche sul grande schermo. Ancora più radicali e personali, ispirate a uno stile personalissimo e sofisticato, sono le scelte di O. Welles con Macbeth (1948) e soprattutto con Otello (1952), film dall’avventurosa gestazione girato in un raffinatissimo b/n. Sulla loro scia altri grandi registi si misurano con Shakespeare ottenendo risultati di grande interesse: A. Kurosawa riesce a cogliere molto dello spirito e della forza dell’originale ambientando le trame shakespeariane in un Giappone ora contemporaneo ora storico (con Trono di sangue, 1957, e Ran, 1985) sullo sfondo delle guerre feudali del XVI secolo); il russo Kozinczev con Gamlet (1963) e Korol Lear (1970), utilizzando in entrambi i casi la traduzione di B. Pasternak e la sua esperienza teatrale, realizza due tra le più convincenti trasposizioni cinematografiche di Shakespeare. In questo ambito si possono ricordare anche F. Zeffirelli per il suo fortunato Romeo e Giulietta (1968; meno riuscito il più recente Amleto, 1990); R. Polanski per il sanguinolento e realistico Macbeth (1971) e Re Lear (1971) di P. Brook.
Shakespeare alla tv
A partire dagli anni ’50 inizia a svilupparsi la produzione televisiva: il teatro di Shakespeare vi trova presto il suo spazio, soprattutto quando la tv vuole assolvere a una funzione pedagogica. In questo caso l’obiettivo è ovviamente quello di restituire con la massima fedeltà possibile il testo originale, compatibilmente con le caratteristiche del medium; il rischio sempre presente è ovviamente quello della banalità e della museificazione. Negli anni ’50 e ’60 anche la Rai offre appuntamenti settimanali con i grandi capolavori del teatro: basti ricordare Romeo e Giulietta con G. Albertazzi e V. Silenti come protagonisti (in onda il 29 gennaio 1954) e poi con E. Cotta, D. Tedeschi ed E.M. Salerno nel ruolo di Mercuzio (6 febbraio 1959), Amleto con V. Gassman e M. Benassi (28 ottobre 1955), Macbeth con E.M. Salerno ed E. Zareschi (4 novembre 1960) e poi con G. Mauri e V. Moriconi (20 febbraio 1975), Antonio e Cleopatra con G. Santuccio, E. Zareschi e G.M. Volontè (24 febbraio 1951), poi con E.M. Salerno, V. Valeri e D. Tedeschi (12 marzo 1965) e ancora con G. Albertazzi, A. Proclemer e R.Girone (26 giugno 1979). Ma nella storia dei rapporti tra Shakespeare e la televisione lo sforzo più organico resta finora la già citata serie della BBC.
Attualità di Shakespeare
A partire dagli anni ‘70, sul versante cinematografico diversi registi rispondono alle sollecitazioni shakespeariane con grande libertà e in maniera personale e idiosincratica: ecco Un Amleto di meno di C. Bene (1973) e quello reinventato da A. Kaurismäki (1987), La tempesta secondo D. Jarman (1979) e P. Greenaway (1991), Re Lear di J.-L. Godard (1985).
Il re degli sceneggiatori
Gli anni ’90 segnano il trionfo di Shakespeare come sceneggiatore di successo: se spesso in precedenza le trame di alcuni celebri capolavori erano state mascherate nei western o nei gangster-movies, oppure liberamente reinventate in musical come Baciami, Kate! o West Side Story, ora il nome dell’autore figura al posto d’onore nella locandina: Branagh in Enrico V e Amleto si misura con i precedenti film di Olivier, ma esplora con successo anche il versante comico con Molto rumore per nulla (1993); in Riccardo III (1996) I. McKellan, complice il regista R. Loncraine, sostituisce il proverbiale cavallo con una jeep adatta all’ambientazione anni ‘30; L. Di Caprio porta al successo un Romeo + Giuliettadi William Shakespeare (1996)di B. Luhrmann attualizzato in Florida, tra camicie hawaaiane e rock and roll; Titus (1999) di J. Taymor riscopre le qualità di un grande autore di horror; Shakespeare in Love fa razzia di Oscar nel 1999. E la moda non accenna a finire: basti pensare a due pellicole ambientate in college americani: Ten Things I Hate About You, ovvero La bisbetica domata riletta nel 1999 da G. Junger, e O di T. Blake Nelson (2001), ovvero un Otello dove il geloso protagonista è un campione della pallacanestro.
Il bardo alla nuova italiana Nota per il Patalogo 17 di Oliviero Ponte di Pino
Questo testo è stato scritto per il Patalogo 17 (1994): ha chiaramente perso molta della sua attualità, ma alcune considerazioni possono forse fornire ancora oggi qualche spunto di riflessione.
La sapienza di Shakespeare (e di Leo De Berardinis) Appunti su Lear Opera di Oliviero Ponte di Pino
Nell’arco della sua quarantennale carriera, Leo de Berardinis è tornato quasi ossessivamente a misurarsi con Shakespeare, affinando a ogni incontro la propria idea di teatro nel confronto costante con i suoi testi. Perché Leo non mette mai in scena "da regista" i copioni, e neppure si limita a cucirseli addosso, alla maniera del grande attore, e neppure li disfa – smantellando con essi il teatro – come ha fatto Carmelo Bene nella sua fase più gloriosa. No, Leo nel corso degli anni utilizza in scena capolavori di Shakespeare, ma in realtà scontrandosi con essi, per affinare progressivamente la propria idea di teatro e la propria drammaturgia.
Lear Opera è l’ennesima tappa di un percorso che rifiuta programmaticamente la filologia per la libertà in apparenza totale di tagliare e ricucire – in questo caso, oltre al Lear del titolo, attingendo abbondantemente ad altri due testi da lui assai frequentati, Amleto e La tempesta. Per poi contaminare il tutto con inserti della farsa napoletana ed evidenti parodie. Il montaggio di pagine notissime e di invenzioni e improvvisazioni d’occasione risponde tuttavia a una logica interna dello spettacolo, e all’intuizione di una personale forma del teatro che si è andata via via affinando.
All’inizio del percorso questo gusto per la contaminazione poteva apparire un gioco dissacrante, un oltraggio beffardo. Del resto – ed era lo stesso Leo a teorizzarlo e praticarlo – l’intreccio tra cultura alta e cultura bassa, l’accostamento di sublime e degrado, lo scontro tra forme classiche e post-moderne potevano rispondeva a varie funzioni: imponevano di rinnovare il linguaggio scenico, permettevano di entrare in contatto con la vita e d’incontrare un nuovo pubblico, riallacciavano il teatro alla sua tradizione (in particolare quella napoletana, e al suo culmine l’amato Eduardo), e dunque a una forma di verità.
E però dietro questi brandelli farseschi ha iniziato a muoversi anche qualcosa d’altro, di più profondo. Tanto per cominciare, la parabola degli eroi shakesperiani – Lear, Amleto, Prospero – ha assunto il valore un percorso sapienziale, che attraverso la sofferenza porta a una superiore forma di saggezza, e alla poesia. L’attore che dà voce e carne a questi personaggi in qualche modo ne diventa il portavoce. Come accadeva agli sciamani, viene invaso dalla loro saggezza e poesia. Il rito di morte che ha attraversato in loro vece lo investe di una luce sacrale. Il lavoro dell’attore sul personaggio è un’operazione alchemica: quelle sofferenze – vissute nella finzione, è vero, ma nella materialità dei gesti e delle parole – affinano, distillano, riducono all’essenza l’uomo. In Leo si riverberano così altri autori che hanno segnato il suo itinerario: Dante al culmine della sua "commedia" nell’oltretomba; e Beckett che misura nel deserto dell’essere l’ultimo sottilissimo filo della vita.
Ma la poesia ha la fissità del sublime. Leo lo cerca spesso, e tuttavia sa che non è quella l’essenza del teatro. Così per ritrovare una dialettica drammaturgica cerca innanzitutto una sorta di controparte, un controcanto d’altra tonalità, in una figura femminile. In Ofelia la sposa mancata, ma soprattutto nelle figlie Cordelia e Miranda. Questa fanciulla innocente è la prima destinataria del suo messaggio, e forse anche l’ispiratrice (secondo uno schema ben noto alla poesia e alla mitologia). Poi Leo l’Illuminato s’impatta nella materialità dell’esistenza e del teatro, e anche la leggerezza stupida e liberatoria del riso, attraverso i giochi di parole, le beffarde polemiche, le gag alla Totò, le contaminazioni farsesche e parodistiche, le consapevoli autoparodie. A opporgli le resistenze della realtà e la sua ottusa impermeabilità al trascendente, ma anche la brulicante e corrosiva forza vitale, è il collettivo degli attori più giovani che lo circondano (dall’ormai veterano e spassosissimo Enzo Vetrano a Antonio Alveario, Elena Bucci, Valentina Capone, Donato Castellaneta, Ilaria Drago, Marco Manchisi, Fabrizia Sacchi e Marco Sgrosso),
È su questa dialettica – ormai chiaramente formalizzata – tra una sfera alta eppure continuamente corrosa, irrisa, oltraggiata, e un mondo che può d’improvviso riscattare la sua pesantezza e trivialità attraverso il dolore e il sentimento, la generosità e l’amore, che si costruisce Lear Opera (e in questa commistione siamo più vicini forse agli umori di Molière-Scaramouche). Vista la precisione quasi cristallizzata delle figure che abitano la scena vuota, i materiali vengono montati, più che lungo un intreccio narrativo o magari fiabesco, per intuizioni musicali, per tema e variazioni. La dinamica di queste maschere-archetipo ricorda ormai l’intreccio delle varie voci nel melodramma, con arie e cori, e intermezzi da opera buffa, ma anche con spazi riservati a improvvisazioni quasi jazzistiche. E come tutto il lavoro di Leo, anche questo Lear Opera non vuol mai essere un gioco fine a se stesso, un’esercitazione estetizzante. Vuol mostrare una via, un percorso, coinvolgere nella sua dinamica di saggezza e spasso, estasi e trivialità. È una macchina che vuol agire sullo spettatore con la forza della poesia, del riso e dello struggimento.
Un secolo di Shakespeare Recensione a Looking at Shakespeare di Dennis Kennedy di Oliviero Ponte di Pino
Che cosa è successo a Shakespeare - dal punto di vista del teatro - nel XX secolo? Moltissimo, naturalmente, ma la vicenda delle messinscene shakespeariane è talmente complessa e sfilacciata che parrebbe impossibile una semplice catalogazione. Ma qualche filo è possibile tirarlo: lo ha fatto, in un volume ricco di suggestioni e di dati, Dennis Kennedy, professore all'Università di Pittsburgh.
Looking at Shakespeare ("Guardare Shakespeare", sottotitolo: "Una storia visiva degli allestimenti del ventesimo secolo", Cambridge University Press) cerca di individuare gli spettacoli che hanno progressivamente modificato e soprattutto arricchito gli approcci a Shakespeare, senza naturalmente limitarsi alle invenzioni scenografiche.
Sono diversi i filoni che s'intrecciano: c'è la tensione filologica, verso il recupero del teatro elisabettiano così com'era; ci sono la spinta all'astrazione e quella al confronto con la storia e all'attualizzazione (qual è il primo Shakespeare in abiti contemporanei?). Per arrivare, dopo essere passati per Brecht e senza dimenticare le tappe in Cecoslovacchia, Polonia, Russia, fino a Strehler, Brook, Mnouchkine e al post-modern (ma non a Bene, per esempio, probabilmente perch‚ "riscrive" Shakespeare, non lo "allestisce").
Naturalmente un impianto di questo genere pone giganteschi problemi metodologici: raccontare la storia delle messinscene dell'autore più rappresentato al mondo significa fare semplicemente una storia del teatro e ripercorrere molti sentieri della critica testuale. Kennedy riesce tuttavia a costruire un percorso coerente e di grande suggestione. Tanto che, dopo aver scorso le sue pagine e la ricchissima documentazione fotografica, molti degli spettacoli in circolazione rischiano di sembrare pallidi déja-vu.
Improvvisando Shakespeare Romeo & Juliet secondo Paolo Rossi di Oliviero Ponte di Pino
È difficile per un personaggio che ha attraversato tutti gli stadi del successo televisivo, con i suoi alti e bassi, ritrovare un rapporto autentico con il pubblico teatrale. È assai arduo per il divo, ma contraddice anche le abitudini di un pubblico assuefatto a moduli di fruizione predeterminati. A Paolo Rossi va riconosciuto tanto per cominciare il merito di averci provato, uscendo dai sentieri più praticati per rischiare in prima persona. Nel Romeo & Juliet (visto al tendone No Limits di Milano, con una platea opportunamente ridotta rispetto alle masse televisive richiamate da Aldo Giovanni e Giacomo) fa quello che molte avanguardie teatrali hanno teorizzato e che la neo-televisione alla Stranamore o Scherzi a parte pratica da tempo, anche se spesso con qualche inganno e sotterfugio: trasforma gli spettatori in attori.
Romeo, Giulietta, i loro genitori, Benvolio, i servi delle fazioni rivali, vengono assoldati nel foyer del teatro, appena prima dell'inizio della serata e promossi all'istante protagonisti. Come Carmelo Bene, Rossi si riserva il ruolo di Mercuzio, almeno per il celeberrimo monologo della regina Mab, per poi cederlo nel finale della serata, che in effetti copre solo i primi due atti della tragedia shakespeariana, al cantastorie senegalese Modou Gueye. La scelta ludica e provocatoria di coinvolgere il pubblico vuol essere una critica implicita alla società dello spettacolo, che tuttavia usa molti dei suoi meccanismi: dal diritto di ciascuno di noi al suo quarto d'ora di celebrità, profeticamente sancito da Andy Warhol, al fatto che ormai siamo tutti allenati a esibirci in pubblico da un'educazione a base di tv. E ovviamente la riuscita di questa Serata di delirio organizzato non può prescindere dal carisma e dall'abilità del regista-in-scena, un Paolo Rossi che torna al teatro dopo una lunga assenza, entusiasta e incontenibile – una specie di Maradona in una partita del campionato giapponese.
In effetti il "teatro di rianimazione", come si definisce questa forma di spettacolo altamente interattivo, usa tecniche assai antiche, un sapere tradizionale, di recente formalizzato e ripreso nelle varie forme di animazione teatrale, dallo scolastico al turistico. Non a caso Rossi ha voluto in compagnia, oltre a una coppia di musicisti (Emanuele Dell'Aquila e Pepe Ragonese) e a un comico con chance televisive (Giovanni Caccioppo), un cantastorie e un artista di strada (il francese Gerard Estrème). Rossi (che tempo fa, in una Tempesta con Carlo Cecchi, era stato Ariel, il folletto che realizza le magie teatrali di Prospero), conduce ora con una zazzera fiammeggiante e un costume vagamente clownesco una sgangherata prova aperta nella quale il testo viene analizzato, commentato, discusso, parodiatoà E insieme preso assai sul serio, in molti di quelli che sono i suoi valori più autentici.
Costruita intorno a una vicenda stranota (che non a caso è anche al centro di un successo mondiale come Shakespeare in Love), la serata è un'operazione esplicitamente pedagogica, una rianimazione (appunto) dei sensi e dell'intelligenza dello spettatore imbalsamati dai mass media.
Il comico viene usato come chiave per aprire i diversi snodi drammaturgici e teatrali, per misurare la distanza del classico dall'attualità (non mancano battute "politiche"), per suggerire costantemente mondi diversi, altre possibilità d'esistenza. Perché la risata può incorniciare e commentare qualsiasi situazione, smascherandone i presupposti ideologici: è uno degli snodi dello straniamento brechtiano, che Rossi e il suo abituale co-autore Riccardo Piferi hanno compreso e utilizzano con efficacia.
C'è un altro meccanismo in atto: l'uso di "attori per caso" e l'improvvisazione mantengono costantemente viva la tensione, come in un numero d'acrobati del circo. Chi accetta di prestarsi al gioco indossando per una sera i panni di Romeo può esagerare per compiacere pubblico e platea, oppure irrigidirsi e rifiutare di baciare Giulietta, perché c'è in sala una fidanzata gelosa, mettendo in imbarazzo gli attori-attori, cui toccherà ricucire lo strappo con la loro superiore sapienza. Questa imprevedibilità, per eccesso di confidenza o per blocchi di timidezza, è connaturata al "qui e ora" dell'evento teatrale, ma in questo caso viene spinta fino al suo limite estremo e utilizzata come continua fonte di divertimento (rifiutando però le crudeltà gratuite nei confronti dei giocatori).
Spettacolo teatrale che non si può vedere solo con sguardo teatrale (non a caso in scena sono costantemente accesi due televisori per "chi si annoia"), Romeo and Juliet gioca con i meccanismi più elementari e insieme profondi della scena. Istruttivo senza mai essere serioso, riesce a far ridere rispettando Shakespeare, demistifica tutto quello che può ma al tempo stesso suggerisce che vale la pena di prendersi qualche responsabilità nei confronti della cultura.
Macbeth hard: una rivoluzione di velluto Shakespeare, Bandinelli e l’utopia "hard" di Lady Critical
Nella recente storia del cinema shakespeariano Ombre che camminano a cura di Emanuela Martini manca un’opera che se non passerà alla storia del cinema merita se non altro di essere citata almeno per l’originalità della sua tematica e del soggetto rivisitati - sotto l’alto patronato del grande Bardo - all’interno del cosiddetto film di genere in cui si inserisce: Macbeth di Silvio Bandinelli.
Bandinelli, regista di film hard in cassetta di successo stupisce per l’originalità del contesto narrativo in cui colloca le sue storie (Cuba - uscito in un’Italia, come ci ricorda lo stesso regista, "preda di Berlusconi"- aveva come protagonisti i rivoluzionari castristi sotto la guida spirituale e iconica del Che; Anni di piombo evocava l’attentato Moro; Mamma era ambientato durante la Resistenza), per le incursioni e contaminazioni tra i generi (Pulp era vagamente ispirato a Tarantino) ma soprattutto per le tematiche di potere, di lotta di classe e per l’ideologia sottesa al film (verrebbe da dire di impegno politico, ma in pochi ci crederebbero).
Di sicuro a Bandinelli piace schierarsi. I grandi temi della Storia sono un po’ il marchio di fabbrica del suo cinema:
"Mi piace pensare che i miei film, quando innestano temi politici lo facciano senza incertezza alcuna. Cuba è un film che rilancia l’Utopia (la foto pubblicitaria vede l'attrice Ursula Cavalcanti sulla spiaggia cubana; sullo sfondo un manifesto del Che e uno degli slogan della Rivoluzione, nda), rilancia il sogno, e lo faccio per provocare un tipo di pubblico quale il mio, fortemente connotato a destra e che non tollera mescolare sesso e politica…"
E ancora:
"La pornografia è come la canzonetta, un genere popolarissimo, c’è un grande consumo di pornografia, c’è ormai una videoteca in ogni quartiere. Il film pornografico ha le sue regole, i suoi tempi, la mia pornografia non deve tradire il genere ma passa anche la qualità tecnica, la scrittura e la musica. Se riesco a dire qualcosa tra una scena a luci rosse e l’altra e il pubblico l’assorbe, sono felice. Ma i miei film, anche i più "impegnativi" quanto a riferimenti e citazioni, non tradiscono mai le aspettative. E’ stimolante per me consegnare al mercato hard una lettura non del tutto gratuita di una storia, nel non cederla alla cultura ufficiale. Mi piace molto la marginalità di questo settore, non mi interessa fare il regista cinematografico o televisivo di regime".
Macbeth, tragedia shakesperiana del rimorso, del destino e della colpa, è ambientato da Bandinelli tra i luoghi della mafia (Sicilia, ma sono i topoi classici a essere ricordati: il negozio di barbiere, donne velate in nero: peccato però che il film sia stato girato nei paesi dell’Est).
La foto di copertina della cassetta vede una donna (Lady Macbeth-Ursula Cavalcanti, attrice feticcio di Bandinelli) in reggicalze nere che abbraccia un boss mafioso coppola e gilet, tenendo in mano la canna del fucile sullo sfondo di una tragedia di sangue che riusciamo a cogliere immediatamente: è una foto giornalistica della strage di Capaci in cui perse la vita Borsellino e dei funerali di Stato.
Incontro Silvio Bandinelli e Monica Timperi alla Show Time di Firenze. Bandinelli, simpatico, divertente, colto, parla delle sue esperienze artistiche, della sua formazione universitaria in Storia del cinema e del teatro a Firenze nella metà degli anni Settanta. Mi parla dei suoi studi su Craig.
A tavola parliamo delle sue frequentazioni teatrali: laboratori con Ronconi al Fabbricone di Prato (mi racconta come era stato inventato lo spazio scenico da Gae Aulenti), comparsa per Carmelo Bene alla Pergola, laboratorio di improvvisazione con il Living Theatre a Venezia durante la Biennale. E ancora esperienze di teatro amatoriale con velleità di ricerca con un proprio gruppo e l’apertura di un Teatro autogestito a Firenze (Teatro Uno) dove ospitare produzioni e autori alternativi (Sorveglianza speciale da Genet, Leviatano di Alessandro Fersen). E’ lo spazio che poi sarà rilevato dal gruppo Pupi e Fresedde di Angelo Savelli.
In tempi di prospettive politiche non rosee, Bandinelli si dice molto preoccupato del pericolo dell’estremismo di destra e delle sue frange armate oggi tornate allo scoperto, ci spiega la sua opinione sugli errori storici della sinistra e delle televisioni Mediaset.
Proprio nell’ambito delle prime tv commerciali e del loro progressivo consolidamento Bandinelli inizia a lavorare come producer di spot pubblicitari; successivamente distributore di film hard di tipo commerciale e poi la realizzazione del primo film pornografico con respiro narrativo: Masquerade con Ernesto De Pascali, film soft con inserti hard:
"Il film pornografico è inverosimile dal punto narrativo, ma c’è più libertà espressiva rispetto alla pubblicità che è sempre e comunque subalterna al prodotto. Mamma e Anni di piombo sono film che ho girato in anni in cui lavoravo sulla tematica del potere, della prevaricazione che crea sottomissione da parte di chi lo subisce, tema evidentemente attiguo alla pornografia. Macbeth conclude idealmente questa trilogia sul potere. C’è un senso di assoluta libertà nel trattare l’argomento. Il porno è un territorio libero e selvaggio. Mi sono appropriato della trama e del titolo con molta irresponsabilità, senza preoccuparmi troppo dell’autore. Ho immaginato il mondo della mafia e sullo sfondo il delitto Fava (delitto dimenticato e oggi ricordato ne I cento giorni) e la strage di Capaci, evocate da fotografie originali di Archivio. Il boss mafioso battezza il figlio Macbeth che avrà lo stesso destino di Macbeth; è un piccolo gangster che non ha problemi a uccidere per regolamenti di conti."
(Per un altro Shakespeare hard, vedi qui sopra Il secolo Amleto, 1995, l'Oscar del porno a Joe D'Amato.)
Amleto, un gioco di ruolo On Stage "Metodo di improvvisazione teatrale nel mondo di William Shakespeare" di Oliviero Ponte di Pino
In un saggio entrato giustamente a far parte delle più autorevoli bibliografie shakespeariane, What happens in Hamlet, J. Dover Wilson ricostruiva - partendo dal testo dell'Amleto, l'esatta successione dei fatti alla corte di Elsinore. What happens in Hamlet offre una mappa, una serie di istruzioni per l'uso indispensabile per chiunque voglia ripercorrere, evento dopo evento, senza troppe incongruenze, la vicenda del pallido principe danese, e di lì partire con le interpretazioni.
Già, ma che cosa NON succede nell'Amleto? Perché aldilà dell'unica sequenza resa necessaria da Shakespeare ce ne sono infinite altre possibili, magari più curiose e interessanti (o divertenti). E' vero, la storia della letteratura e del teatro è piena di contro-Amleti, di anti-Amleti, di post-Amleti, più o meno lunghi (come quello folgorante di Achille Campanile): tuttavia queste diverse riscritture del mito, pur affascinanti, sono anch'esse già date, ormai fissate per l'eternità.
Una messinscena per l'estate potrebbe allora essere questa: farsi il proprio Amleto. A facilitare l'impresa c'è, da qualche tempo, il kit di On Stage, ovvero "Metodo di improvvisazione teatrale nel mondo di William Shakespeare", un gioco di ruolo inventato da Luca Giordano. I giochi di ruolo, si sa, sono quelli in cui ciascuno dei partecipanti si cala nei panni di un diverso personaggio e interagisce con gli altri, obbedendo secondo Caillois al principio della "mimicry" (perché la serata riesca al meglio, con On Stage bisogna essere in sette). Insomma, qualcosa di molto simile al teatro, a parte la presenza del pubblico; ancora più simile a certi psicodrammi o alla Gestalt Therapy.
Tra i vari "personaggi" di On Stage ce n'è uno che non è un vero personaggio ma che ha il compito di tirare la fila della serata: è naturalmente il Regista, cui tocca leggersi per intero il regolamento (che ai non iniziati rischia di risultare piuttosto macchinoso e un po' oscuro nella terminologia: che potrà mai significare "L'adombramento di Amleto"?). Ci sono poi, nella scatola di On Stage, schede di istruzioni per i partecipanti e carte di "Frasi fatte" che i personaggi possono usare dentro e fuori scena. Sono previsti dibatti (per affascinare, ingannare, sedurre o dimostrare) e lotte. Si valutano fortuna e abilità dei personaggi, si tien conto della scenografia, si usano oggetti magici, pozioni e veleni, appaiono spettri...
Al Regista tocca il compito di regolare per i cinque atti che in due-tre ore di gioco compongono una "partita" dove non ci saranno n‚ vincitori n‚ vinti. Il Regista dovrà far funzionare questa "macchina che produce storie". Dovrà dare il ritmo, ma deve soprattutto decidere le caratteristiche dei personaggi. Sì, perché quelli che salgono sul palco di On Stage possono aver pochissimo a che fare con quelli dell'originale (anzi, è quasi meglio che gli "attori" non sappiano nulla dei testi di Shakespeare): partendo magari da un Amleto Ciccione o Gay, da un'Ofelia Punk o Pornostar, da una Gertrude innamorata di Polonio, da uno Spettro Psichedelico. Volendo, visto che Amleto è anche un dramma politico, qualcuno preferirà un Amleto Bossi, una Gertrude Scalfaro, una Ofelia Fini, un Polonio Bertinotti, un Laerte Berlusconi, rimescolando poi le carte a piacere nelle serate successive, per vedere l'effetto che fa.
Postilla per chi pensa che Shakespeare e il suo Amleto abbiano fatto il loro tempo. Quest'anno una delle piazze elettroniche più frequentate di Internet ha avuto come tema proprio il capolavoro di Shakespeare, con la partecipazione di diversi attori inglesi: un CyberHamlet per ricordare - se ce ne fosse bisogno - che il prototipo di tutte le realtà virtuali è il teatro.
Una recensione in forma di lettera Un video al Castello. Diario di incontri e di lavoro di Sandra Lischi di Anna Maria Monteverdi
Un video al Castello. Diario di incontri e di lavoro di Sandra Lischi, Nistri-Lischi ed. (collana MEDIAMORFOSI), Pisa, 2002.
Lucca, 10 Dicembre 2002
Cara Sandra,
ho intravisto nella cassetta della posta il tuo libro sul lungo soggiorno al Centro di Creazione Elettronica Pierre Schaeffer, il Castello di Montbéliard nel periodo in cui lavoravi alla videoopera intorno al "pianeta Gianni Toti". Finalmente! L'ho iniziato a leggere subito e l'ho finito tutto d'un fiato prima che Giacomo tornasse dalle prove; ero così entusiasta a raccontarglielo che è passato subito in mano sua. Ho l'impressione che succederà così per molti di noi che ti conoscono, basterà il passa parola e in breve l'avranno letto tutti!
Ho deciso di scrivere una recensione in forma di lettera perché il libro racconta il tuo percorso di ricerca intorno all'universo di creazione del video in maniera così intima (è un diario!), che mi sono chiesta se forse non dovevo rispondere con una forma altrettanto privata. Mi sono emozionata a leggerlo, il tuo diario di lavoro (ma anche diario di incontri, di discussioni, di pensieri) al castello di Hérimoncourt a Montbéliard. Racconti dettagliati di come hai conosciuto e poi affiancato Gianni Toti nell'ideazione e postproduzione della Video-poem-Opera Planetopolis (il cui montaggio è stato realizzato nello studio digitale del Cicv, che coproduceva il video), di come è diventata sempre più concreta la tua idea di girare un videodocumentario proprio su di lui, l'"artista poetronico" all'indomani di questo suo epico video che, come tu dici spesso, ti ha davvero cambiato la vita; il libro inizia facendo ordine tra gli appunti sparsi dal 1992 al 1997, dal Simposio Internazionale su Dziga Vertov in Russia a cui partecipasti proprio con Toti "co(s)munista non pentito" e una piccola videocamera che registrava pensieri in libertà, poesie a voce alta, commenti politici, e ancora viaggi successivi in America Latina e in Francia, immagini e suoni di metropoli che vanno a riempire cassette su cassette audio e hi 8. Intanto avevamo notizia dei tuoi spostamenti dagli articoli che scrivevi su "il manifesto". Il libro registra, scandite giorno per giorno, la passione ma anche le ansie, le paure, le riflessioni, i dubbi che ti hanno accompagnato nell'elaborazione tecnica e formale del video Planète-Toti-Notes: preoccupazioni di fronte ad una tecnica che ha bisogno di montatori esperti, professionisti del mestiere e che prima ti ha messo in crisi poi ti ha fatto rimboccare le maniche e ti ha fatto iniziare a schedare diligentemente ogni immagine, ogni sequenza e usare centraline di montaggio. Quello che prende corpo è un'altra forma di scrittura, ma...ancora scrittura! Così è nato il tuo video PlanèToti che inizia dal "vertoviaggio" mettendo insieme ipotesi di sceneggiatura, appunti, frammenti video che mostrano i "luoghi", le "cose", le poesie, i disegni di Gianni, e ancora interviste, ricordi di lavoro e di vita; tu che ti metti diligentemente a sentire le spiegazioni dell'amico Daniele Segre su come organizzare le fasi di costruzione del video, su come riversare le immagini scelte in un casalingo premontaggio, tu che ti emozioni a vedere come le cose effettivamente funzionano come ti aveva detto Daniele anche senza il montatore vicino a te. Racconti come, affiancata da collaboratori, tecnici, persone amiche come Simonetta Cargioli, da artisti residenti al CICV, dal direttore Pierre Bongiovanni il progetto prende vita tenendo conto dei loro preziosi consigli, raccomandazioni, suggerimenti, mentre la tecnica inizia ad avere sempre meno segreti; che sei triste per un progetto che sembra avere una vita difficile perché Toti è un mito e come tutti i miti chiunque ce lo racconti sembra che non faccia mai abbastanza. Toti che ha conosciuto il Che e lo ha fotografato, Toti che giocava a golf con Castro, Toti che ha avuto da Lili Brik frammenti originali del film di Majakowsky Incatenata alla pellicola che lui ha riportato in vita con l'elettronica. La vita di Toti impressiona, come la sua monumentale libreria, come la sua conoscenza delle lingue, della letteratura. Il libro parla in prima persona dell'universo concettuale, di memoria ma anche e soprattutto di passione che si raccoglie dietro al tuo video, ma soprattutto racconta quello che nel video non si vede, l'entusiasmo, la fatica dei turni di montaggio, i ripensamenti, i materiali scartati, le critiche, ma anche le passeggiate nel parco intorno al Castello, i silenzi, le cene collettive, le proiezioni di film e video insieme con tutti gli ospiti e infine la gioia del final cut! Il risultato è un entusiasmante omaggio all'ultimo futurista e ad uno dei primi uomini ad essere sbarcati sul planèt vidéo.
Nel diario c'è tutto questo, oltre ad un invito a trovare ciascuno il proprio metodo "di scrittura" che sia il più personale ma anche il più "appassionato e a non dimenticare mai di vedere il video anche "dalla parte del nastro", perché - ce lo insegna Toti - anche la tecnica è poesia.
Cicv, 27 settembre 1997.
L'imprévu desiré. L'imprevisto desiderato. In fondo potrebbe essere questo il titolo del diario che ho tenuto questi anni. La frase riguarderebbe non solo l'atteggiamento nei confronti del montaggio ma anche lo stesso mio trovarmi a fare il video. Un imprevisto atteso, desiderato.
Mi rendo conto, anche che se si hanno le idee chiare si lavora molto meglio col montatore. Certo, Marie-Laure, con cui stavolta sono tornata a lavorare, è diversa da Marko, sta più attenta che "tutto tenga", si lascia andare meno al gioco (in realtà, al momento giusto, si diverte anche lei con gli imprevisti); ma vedo che se so quel che cerco e che voglio, le cose filano più lisce, arriviamo alle stesse conclusioni, c'è un dialogo reale fra la mia volontà e le sue competenze e creatività... Mi piace molto la forma sferica che abbiamo deciso di inserire in alcune immagini della casa di Gianni a Roma: prima di tutto ricorda Planetopolis, con la sua insistenza sul globo, il pianeta; poi racchiude e insieme dilata l'universo totiano, le copertine dei libri, l'arco che divide la camera dal salotto. E mi piace anche che ci siano, come punteggiatura, immagini del viaggio (dei tanti viaggi), del mondo, e immagini della casa tappezzata di manifesti e libri...
(Sandra Lischi)
"Un poème est une sorte de machine... scriveva Valery. Il film pure, è una specie di macchina. E il video, dentro o fuori il monitor, dovrebbe pur essere già diventato la più speciale specie di macchina mentale (...) I videopoeti, dentro e fuori i monitors e le loro stesse espansioni articolate e disarticolanti negli spazi-ambienti frequentanti liberamente dagli spettatori interagenti "finitori"del semilavorato artistico, ricercano/sperimentano proprio questi cammini verso il caos e ritorno, nella provocazione reciproca della loro linguisteria e dei computer più o meno "dedicati" a contraddirsi, delle combinatorie macchiniche così umanamente "corrotte" proprio perché sfuggano alle loro determinazioni rappresentazionistiche. E' "l'attrazione strana" della poiesis, della tèchne, della musa intesa come arte-scienza. I videopoeti sono le ultime figure degli shelleyani e "prometeici" (avan-vedenti) "legislatori irriconosciuti del mondo", gli specchi di quelle ombre gigantesche che il futuro proietta sul presente, le visioni che esprimono ciò che non intendono, non sentono ciò che ispirano, commuovono ma non sono commosse; le visioni liberate, insomma, le visioni in quanto tali, che non avanguardano ma ormani avan-vedono..."
(Gianni Toti, Immaginificanti e immaginificati. Pensiero elettronico e poematica. Appunti-en poète per una poeteorica dei modelli imagopoietici, in S. Lischi, R. Albertini, Metamorfosi della visione. Saggi di pensiero elettronico, Pisa, Ets, 1988)
Sandra Lischi (Pisa, 1951) è docente di Audiovisivi all'Università di Pisa. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e volumi sulla produzione sperimentale indipendente. Dirige a Pisa dal 1985 "Ondavideo", codirige a Milano "Invideo- Mostra internazionale di video d'arte e di ricerca".
Gianni Toti (Roma 1924). Poeta, scrittore, traduttore, autore di film e pièces teatrali è uno dei più importanti artisti video a livello internazionale. Ha cominciato il proprio percorso video realizzando videopoesie e videopoemetti, seguiti poi dalla "Trilogia Majakovskiana" (per la Ricerca e Sperimentazione Programma della Rai). Del 1988 è Squeezangezaum dedicato a Chlébnikov e alle utopie poetico-politiche del Novecento, mentre Terminale Intelligenza (realizzato all'Università di Pisa) e un VideoPoema sul sapere e sui rischi di un asservimento del pensiero alle esigenze del mercato.E ancora, Tenez-Tennis, Planetopolis, L'OrigInédite.Con Tupac Amauta Toti inaugura una trilogia sugli olocausti planetari (co-prodotta dal Cicv) che ha al centro passato e presente dell'America Latina.
Il video PlateToti Notes è distibuito da:
Heure exquise
Le fort avenue de Normandie BP 113
F 59379 Mons-en Baroeul
Francia
http://www.exquise.org
exquise@nordnet.fr
a cura di a m m (anna maria monteverdi) > scrivi a amm
Videoteatro di sorveglianza I Surveillance Camera Players di Oliviero Ponte di Pino
I Surveillance Camera Players sono un gruppo newyorkese (con varie diramazioni anche europee e italiane) che ce l'ha su (giustamente) con le telecamere di sorveglianza
ormai disseminate per il mondo in maniera maniacale
(insomma, il Grande Fratello che ci guarda 24 ore su 24 dalle banche, dai bancomat, dai benzinai, nei supermercati, ai caselli dell'autostrada,
fuori da caserme varie eccetera eccetera. Per non parlare dei Comuni che mettono in atto sistemi capillari di sorveglianza del territorio:
per esempio a Milano in questi mesi hanno dato decine di migliaia di multe ad automobilisti
che entravano nelle corsie riservate ai mezzi pubblici, beccati da apposite telecamere montate su mostruosi trespoli d’acciaio).
Il motto degli SCP è
"We like to be watched by surveillance cameras, because we are the Surveillance Camera Players."
(“Ci piace essere osservati dalle telecamere di sorveglianza, perché siamo gli Attori delle Telecamere di Sorveglianza”).
“Non è vero che quelli che protestano contro le telecamere di sorveglianza hanno qualcosa da nascondere: compariamo nella vita pubblica senza timori, per evidenziare la realtà del controllo sociale.”
Armati soprattutto di cartelli e pennarelli organizzano cortei, passeggiate e performance nelle strade delle città a beneficio:
a) delle telecamere e dei loro sorvegliati;
b) di chi sta passando di lì.
Le loro prime esibizioni, che avevano per spettatori privilegiati i tutori dell’ordine costretti a passare la loro vita di fronte a immagini noiosissime, sono state ispirate a Ubu Re (1° dicembre 1996, esattamente un secolo dopo la prima rappresentazione del testo di Alfred Jarry) e a Aspettando Godot di Samuel Beckett.
Il testo dell’Ubu Re adattato da Art Toad (leggi “artò”, alias Bill Brown).
Sono state realizzate molte altre iniziative, le principali il 7 settembre 2001 e l’11 settembre 2002.
In Italia, è attivo un gruppo bolognese che ha realizzato alcune iniziative.
Dal punto di vista teorico, è una attività assai interessante.
1. gli SCP dichiarano di essere attori e di fare teatro;
2. il "qui e ora" del teatro è insieme mantenuto (per gli spettatori di
strada) e negato (per i controller delle telecamere);
3. lo stesso vale per il filtro tecnologico e per l'irripetibilità
dell'evento.
Va ovviamente sottolineato l'obiettivo politico di azioni di questo genere. Non è un caso che fin dagli inizi della loro attività gli SCP siano finiti sotto l'occhio vigile delle forze dell'ordine e dei servizi di sicurezza (in particolare dopo l'11 settembre).
Premio Riccione per il teatro - per un teatro d'autore 47a edizione di Premio Riccione
L’Associazione Riccione Teatro, pubblica in questi giorni il bando della 47° edizione del PREMIO RICCIONE PER IL TEATRO, concorso che da sempre ha scelto di svolgere il non facile compito di premiare la drammaturgia italiana contemporanea.
La Giuria, presieduta da Franco Quadri sarà composta da: Roberto Andò, Elena De Angeli, Luca Doninelli, Edoardo Erba, Marisa Fabbri, Mario Fortunato, Maria Grazia Gregori, Renata Molinari, Giorgio Pressburger, Luca Ronconi, Renzo Tian.
Il Premio attribuito ogni due anni a un’opera originale, mai rappresentata di un autore italiano, è aperto a tutte le forme di drammaturgia teatrale e non esclusivamente al teatro di parola. Sono libere le durate dei testi e il numero dei personaggi. Non sono ammesse opere tradotte da altre lingue, né adattamenti e trasposizioni da testi narrativi o drammaturgici.
Parteciperanno alla selezione tutti i testi che perverranno via posta (fa fede il timbro postale) o direttamente alla segreteria del premio in 10 copie, completi di scheda di partecipazione entro il 15 Aprile 2003.
All'autore del testo vincitore del PREMIO RICCIONE PER IL TEATRO andrà un premio di 7.500 euro.
Verranno assegnati inoltre, Il Premio Pier Vittorio Tondelli di 2.500 euro per i giovani autori under 30 ed un Premio Speciale della Giuria intitolato a Paolo Bignami e a Gianni Quondamatteo.
Nel 2004 verrà consegnato il premio di produzione di 30.000 euro come concorso alle spese di allestimento, al teatro (o altro soggetto teatrale) che allestirà, con il consenso dell’autore, il testo vincitore della 47a edizione. Si realizza in tal modo il passaggio dalla pagina alla scena, cruciale per la promozione effettiva dei nuovi autori teatrali.
Per dare continuità e cercare nuovi approcci all’attività di promozione Riccione Teatro ha istituito l’Osservatorio del Premio, costituito da diversi soggetti attivi sia in ambito teatrale che presso altre realtà interessate -da diversi punti di vista- alla drammaturgia italiana contemporanea.
Riccione Teatro svolge continuativamente l’attività di promozione degli autori italiani con una molteplicità di strumenti: tramite borse di studio, fornitura di informazioni su opportunità di crescita e lavoro in Italia e all’estero, organizzazione di data-base e cataloghi on-line, oltre che all'attivazione di una rete informale utile all’autore teatrale italiano. Per richiedere il bando completo (regolamento ufficiale + la scheda di partecipazione) o per qualsiasi altra informazione relativa, contattate la segreteria :
Premio Riccione per il Teatro - c/o Comune di Riccione
Viale Vittorio Emanuele II, 2 - 47838 Riccione (RN)
Tel 0541-608275 Tel/Fax 0541/692124
email: info@riccioneteatro.it
Premio Riccione per il teatro - per un teatro d'autore Il bando della 47a edizione di Premio Riccione
Regolamento
art.1) Il Premio Riccione per il Teatro viene attribuito ogni due anni a un’opera originale di autore italiano, mai rappresentata, come contributo allo sviluppo della drammaturgia contemporanea.
art.2) Il Premio è aperto a tutte le forme di drammaturgia teatrale e non esclusivamente al teatro di parola. Sono liberi il numero dei personaggi e le durate dei testi. Non sono ammesse opere tradotte da altre lingue, né adattamenti e trasposizioni da testi narrativi o drammaturgici, salvo il caso che la Giuria ne riconosca l’assoluta autonomia creativa.
art.3) Il concorso è aperto per l’edizione 2003 ai testi spediti (o consegnati direttamente) alla segreteria entro il 15 aprile 2003. Fa fede il timbro postale.
art.4) La Giuria per il 2003 è così composta: Franco Quadri (presidente), Roberto Andò, Sergio Colomba, Elena De Angeli, Luca Doninelli, Edoardo Erba, Marisa Fabbri, Mario Fortunato, Maria Grazia Gregori, Renata Molinari, Giorgio Pressburger, Luca Ronconi, Renzo Tian. Segretaria Francesca Airaudo.
La Giuria del Premio Riccione si riunirà in seduta plenaria a Riccione nel settembre 2003.
La Giuria si avvarrà della collaborazione di una Commissione di selezione preliminare - proposta, coordinata e presieduta dal Presidente della stessa Giuria.
art.5) Al testo prescelto dalla Giuria sarà assegnato un premio indivisibile di 7.500 euro.
E’ anche previsto un Premio speciale della Giuria intitolato a Paolo Bignami e a Gianni Quondamatteo. Eventuali segnalazioni possono venire conferite ad altri lavori presentati, con apposite motivazioni.
art.6) La Giuria del Premio Riccione attribuirà inoltre il Premio Pier Vittorio Tondelli, di 2.500 euro, al testo di un giovane autore che non abbia compiuto trent’anni entro il 31 dicembre 2003.
art.7) Il premio di produzione di 30.000 euro per concorso alle spese di allestimento sarà assegnato al progetto di messinscena dell’opera vincente che abbia ricevuto il gradimento dell’autore. Il progetto di produzione dovrà essere presentato a Riccione Teatro entro il 30 marzo 2004. Il progetto di messinscena dovrà ottenere l’approvazione di una Commissione formata dal presidente della Giuria, da un membro designato dalla Giuria stessa e dal Direttore Artistico di Riccione Teatro, tenendo conto dei requisiti artistici della proposta, della sua realizzabilità, delle possibilità di diffusione, al fine di ottenere la più efficace promozione della nuova drammaturgia.
Il premio di produzione di 30.000 euro verrà conferito all’atto della prima rappresentazione pubblica. Il produttore del testo premiato si impegna a citare il Premio Riccione per il Teatro nei comunicati e in tutto il materiale a stampa, nulla escluso, e a comunicare ogni successiva ed eventuale modifica del progetto.
art.8) Non verrà accettato più di un testo da parte di ciascun concorrente.
art.9) Non possono partecipare al concorso autori che abbiano già conseguito il primo premio in precedenti edizioni. Sono inoltre escluse dalla selezione le opere già inviate a precedenti edizioni del Premio o che abbiano conseguito il primo premio in altri concorsi.
Non sono ammessi testi anonimi ovvero sotto pseudonimo.
art.10) I copioni (in dieci esemplari dattiloscritti) e la scheda di partecipazione, compilata in maniera leggibile in ogni sua parte, dovranno essere indirizzati alla segreteria del Premio Riccione per il Teatro, presso il Municipio di Riccione, V.le Vittorio Emanuele II, 2 - 47838 Riccione (RN). I copioni inviati non verranno restituiti. La segreteria declina ogni responsabilità per disguidi o smarrimenti.
Al termine della manifestazione copia del testo inviato sarà conservata presso l’archivio storico del Premio Riccione.
art.11) La Giuria attribuirà inoltre - fuori concorso - il "Premio Speciale Aldo Trionfo" a quei teatranti - artisti della scena o della pagina, singoli o gruppi, studiosi o tecnici - che si siano distinti nel conciliare gli opposti, coniugando la tradizione con la ricerca. La scelta sarà fatta dalla Giuria, integrata per l’occasione da Fabio Bruschi, Direttore Artistico di Riccione Teatro, da Giorgio Panni e da Tonino Conte e Emanuele Luzzati per il Teatro della Tosse di Genova. Il premio è annuale.
art.12) La cerimonia di premiazione avrà luogo a Riccione nel settembre 2003.
art.13) I partecipanti dovranno inviare obbligatoriamente con i dieci copioni la scheda di partecipazione* debitamente compilata e firmata, con la quale dichiarano di accettare integralmente le sopradescritte condizioni del bando e autorizzano l’utilizzo dei dati personali ai sensi della legge 675/96.
In aggiunta ai dieci copioni è possibile inviare il testo in floppy disk.
titolo del testo____________________________________________________
numero pagine _______
allego floppy (o CD o altro su supporto informatico) con testo formato .doc /.rtf
SI NO
Esclusivamente per fini di catalogazione dei testi richiediamo una brevissima sinossi di massimo dieci righe.
Io sottoscritto dichiaro di accettare integralmente il regolamento del bando di
concorso e autorizzo l'utilizzo dei miei dati personali ai sensi della legge 695/96.
data _____________ firma _________________________
Appuntamento al
prossimo numero. Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it copyright Oliviero Ponte di Pino 2001, 2002