La ri-scrittura drammaturgiuca di Luca Ronconi
Ripensando al Pasticciaccio e ai Fratelli Karamazov
di Andrea Balzola
Nella stagione 1995/96, Luca Ronconi, all’epoca direttore del Teatro di Roma, mette in scena al Teatro Argentina Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana di Gadda e due anni dopo, nella stagione 1997/98, I fratelli Karamazov di Dostoevskij. La scelta aveva un senso evidente e persino dichiarato: partire dalla grande letteratura per ripensare e ridefinire la drammaturgia contemporanea, incagliata in una crisi che da molti decenni ormai vive rarissimi sprazzi di luce. Un’altra motivazione, meno dichiarata ma trasparente nel lungo e densissimo percorso registico di Ronconi, era la sfida all’irrappresentabile. Fin dall’Orlando Furioso, attraverso Ignorabimus di Holz, per giungere agli Ultimi giorni dell’umanità di Kraus e approdare ai più recenti “infiniti matematici”, il testo sembra valere per Ronconi in proporzione alla sua complessità, perciò alla sua difficoltà di messa in scena. Il fatto che l’operazione gli sia quasi sempre riuscita, in modo spesso straordinario e sorprendente, lo ha spinto naturalmente ad alzare ogni volta il tiro nel suo duello con la pagina scritta. Come se la vocazione inespressa di Ronconi iniziasse proprio dalla pagina, strappata quindi all’autore e riscritta sulla scena, in un minuzioso lavoro di estrazione del sottotesto e di immaginifica materializzazione del suo spazio simbolico. Già in passato avevo tentato una lettura della processualità ronconiana, dal testo alla scena: “Ronconi inizia dalla mancanza, da ciò che il testo contiene ma non esprime; fecondato dalla sfasatura tra voce (pienezza inarticolata del senso) e linguaggio (messinscena del senso) - la cosiddetta anomalia creatrice - Ronconi indaga ermeneuticamente l’inconscio testuale (soprattutto la spazialità nascosta) con gli strumenti analitici della lettura filologica e simbolica, e con quelli sintetici dell’intuizione registica. Lo spazio dell’interrogazione del testo diventa così lo spazio simbolico nel quale interagiscono la scrittura testuale dell’autore e la progettualità scenica del regista, finché sorge lo spazio creativo della messinscena vera e propria. Questo spazio ludico - sempre eccedente - istruisce il codice specifico (ogni volta diverso) della recitazione degli attori e della macchina scenica. (...) Ronconi trasforma il testo in congegno teatrale.”
Una lettura che mi pare confermata dalle due messinscene del Pasticciaccio e dei Fratelli Karamazov, emblematiche prove di come un testo letterario possa trasformarsi in un testo teatrale senza perdere la sua identità - soprattutto con Gadda pareva davvero improbabile - rivelando anche come una sorgente essenziale del teatro si trovi ancora nella ricchezza del linguaggio. Una ricchezza ormai surgelata nello stereotipo, consumata dalla replica o vietata dal dogma odierno - di natura commerciale - che professa la parola piana, naturalistica come la cronaca (come se la cronaca non fosse artificio e menzogna), indifferenziata e facile alla lettura distratta. Ronconi non ci sta, con coraggioso “anacronismo” pensa ancora alla parola, e crede in una parola capace di pensare e far pensare. Di qui la sfida: com’è possibile far rivivere sulla scena un’opera così densa come quella gaddiana, che dall’intreccio poliziesco trabocca in un flusso narrativo affollato, almeno in apparenza magmatico, linguisticamente esuberante e stratificato, ritmicamente modulato di toni, timbri e colori vividissimi? Ronconi rispondeva, nel programma di sala, partendo da lontano, parlando di quella che secondo lui è la primaria funzione del teatro: “strumento di conoscenza maturata attraverso l’esperienza.”
Il “giallo” di Gadda, scritto a più riprese dal 1946 al 1957, ha un nucleo drammatico forte: nella Roma fascista del 1927 si consuma un efferato delitto di difficile soluzione. La vittima è una donna benestante e generosa, ossessionata da una mancata maternità che la porta a ripetuti e infelici tentativi di adozione di ragazzine povere e problematiche. Il commissario, dibattuto in intricate situazioni e psicologie, giunge quasi accidentalmente alla rivelazione dell’assassina, ma il finale nella versione definitiva del romanzo (come nella trasposizione di Ronconi) resta sospeso alla sua intuizione. Come diceva lo stesso Gadda, “la narrazione è condotta in modo che i lettori vengano frastornati, non più e non meno degli indagatori”, e “il nodo si scioglie ad un tratto, chiudendo bruscamente il racconto.” Se inizialmente Ronconi pensava di appoggiarsi al trattamento cinematografico (Il palazzo degli orrori) che Gadda realizzò per una committenza poi abortita, abbandonò subito quella mediazione, perché della scrittura gaddiana non era tanto la struttura drammatica a interessarlo, quanto l’esuberanza affabulatoria, l’originale eppure radicatissima visionarietà, intrisa di ironia analitica, l’universo molteplice e aleatorio delle vicende individuali mescolate negli eventi collettivi, la ricchezza del sottotesto. La chiave registica era principalmente una, dalle conseguenze rilevantissime: usare la forza stessa del testo per superare l’opposizione tradizionale tra racconto in terza persona, specifico della scrittura letteraria, e battuta dialogica, specifica della scrittura drammaturgica. Gli attori recitavano la battuta anticipandola e/o commentandola con la descrizione narrativa dei gesti e degli stati d’animo, senza soluzione di continuità tra la prima persona e la terza. L’effetto produceva nello spettatore una dilatazione temporale e psicologica dell’azione e del dialogo. Senza ricorrere allo straniamento brechtiano, Ronconi introduceva nella parola teatrale lo spazio intermittente della riflessione. Questo doppio registro potenziava tanto l’attenzione dell’attore al suo eloquio e al suo gesto, quanto quella dello spettatore al divenire del personaggio. La recitazione era così pilotata in un difficile equilibrio tra la tensione drammatica e l’accentuazione ironica, in uno sfumato chiaroscuro tra interiorità ed espressione (da ricordare in particolare Franco Graziosi nei panni del commissario). La musicalità e i colori - inflessioni e idiomi - la modulazione barocca della lingua gaddiana, asciugate dalla puntuale ironia che l’autore stesso porta nella parola e Ronconi nel tono e nel gesto, emergevano dal testo in una visione e in un ascolto avvolgenti, labirintici e trasfiguranti. Questo flusso narrativo s’inseriva in una scandita geometria scenica, dipinta con luci e colori evocativi della stagione pittorica romana degli anni venti-trenta (con un finale un po’ casoratiano), e abitata dai movimenti quasi coreografici degli attori. Una rigorosa unità ritmica dava una pulsazione costante, in levare, all’evento scenico, con una modalità “cinematografica” (ricorrente in Ronconi) di passaggio dal totale delle scene collettive al primo piano ritagliato dalla luce, ai mutamenti di prospettiva, al montaggio delle sequenze narrative con apparizioni e sparizioni di oggetti e personaggi da botole e trampolini. Di questo maestoso affresco della modernità rimangono nella memoria alcune eclatanti invenzioni teatrali: dalla keatoniana caduta della facciata della “Casa degli o(rro)ri” sui suoi inquilini, alla zombiesca permanenza e vitalità della vittima sulla scena dopo la sua uccisione; dalla splendida invettiva lirica dello Sbandato sul regime, illustrata dalla “danza” delle giovani (e giovini in gonnella) italiane sotto la protezione pater-fallica del busto del Duce, alla trasformazione del commissariato in un bordello.
Sul piano tematico, Ronconi resta fedele a Gadda e rilancia: appare evidente che non c’è soluzione di continuità tra il disperato arrangiarsi del “popolino”, l’avida ipocrisia della borghesia romana e il trionfalismo di cartapesta del regime, che fa da sfondo scenografico ed insieme ne incarna l’essenza culturale. Così lontano dalle domestiche trame eppure così radicato in quei cassetti e armadi dove si nascondono piccoli tesori e grandi meschinità. La stessa colpa della vittima sacrificale, madre idealmente perfetta eppure mancata, si innesta come caustica metafora in un regime dove l’apologia patriottica della fertilità e della proliferazione demografica si giustificava nella vocazione guerrafondaia, nel populismo autoritario e un sogno abortito quanto impotente d’imperiale statura. Fantasmi di ieri, oggi non riproducibili, ma di cui si tenta il revisionismo, e che permangono perciò come inquietanti radici di tentazioni plebiscitarie, di programmatiche ipocrisie, di pruderie totalizzanti ed egemoniche. Di qui il possibile rigurgito d’attualità di certa spietata quanto minuziosa radiografia gaddiana, che Ronconi con il suo allestimento aveva segnalato, con un anticipo che da tempo è una delle sorprendenti caratteristiche delle sue scelte testuali.
Dopo lo straordinario allestimento del Pasticciaccio, Ronconi ritorna alla grande letteratura montando a tempo di record, in poche settimane, sempre sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma, una fedelissima edizione teatrale de I fratelli Karamazov di Dostoevskij (nella traduzione per l’Einaudi di Agostino Villa). Impresa che, di nuovo, registra pochi precedenti, il più illustre è quello di Jacques Copeau nel 1911, ripreso più volte da lui stesso e dai suoi collaboratori, fino al grande successo dell’edizione italiana del 1953 con la Compagnia Stabile Teatro di Via Manzoni di Ivo Chiesa e la regia di André Barsacq, protagonisti d’eccezione Memo Benassi (Fedor), Enrico Maria Salerno (Ivan), Gianno Santuccio (Dmitrj), Glauco Mauri (Smerdjakov), Davide Montemurri (Alesa) e Lilla Brignone (Grusen’ka). Meno fortunate furono le due precedenti versioni italiane, del 1934, a cura di Carlo Grabner ed Enrico Raggio, con la Compagnia di Kiki Palmer diretta dal russo Peter Sharoff, e del 1940, voluta da Anton Giulio Bragaglia nel suo Teatro delle Arti, con un testo realizzato da Corrado Alvaro e pur grandi interpreti come Salvo Randone (Dmitrij) e Lina Volonghi (Grusen’ka).
Nella versione di Ronconi, il testamento letterario e l’opera del genio russo si trasformano in un progetto di spettacolo a puntate, sviluppato in tre parti autonome ma consecutive di circa quattro ore ciascuna: I lussuriosi, Il Grande Inquisitore, Un errore giudiziario. In realtà, mentre le prime due parti sono andate in scena nel febbraio del 1998, la terza parte, che doveva seguire la stagione successiva, non è mai stata allestita. La monumentalità dell’impresa questa volta spinge Ronconi a rinunciare alla consueta magnificenza delle scene per concentrarsi sull’arazzo drammaturgico e sulla prova degli attori. Un gioco semplice a vedersi ma molto complesso a farsi (con decine di tecnici che lavoravano febbrilmente nel “sottosuolo” del palcoscenico e dietro le quinte), di dilatazioni e contrazioni spaziali, ottenute con sottili, talvolta trasparenti quinte dipinte, aperture e chiusure di botole, scorrimenti meccanici degli oggetti e degli arredi di scena. Poi improvvise e raffinate citazioni pittoriche, come il cadavere disteso dello Starec Padre Zosima (Antonio Piovanelli) che evoca il Cristo nel sepolcro di Holbein il Giovane o come la raffaellesca madonna contadina (Manuela Mandracchia) della povera famiglia di Nikolai Il’ic Snegirev (Stefano Jacovelli), o ancora, un Cristo enigmatico e muto di memoria tizianesca. Una dimensione pittorica, decadente e livida, che ispira tutte le scene di Margherita Palli e le luci di Sergio Rossi, e che sostiene la parola di Dostoevskij senza anacronistici naturalismi, ma anche senza forzature espressioniste o effetti spettacolari. Come dicevamo, protagonista assoluto rimane il testo, che Ronconi adatta alla scena rispettandone il più possibile la lettera e la struttura, rimescolando soltanto la cronologia degli eventi, in alcune particolari circostanze, ad esempio anticipando all’inizio della seconda parte, come un flash-forward, la morte di Fedor Pavlovic Karamazov (Corrado Pani), per metterla in relazione con la dipartita dello Starec Zosima. Il romanzo, già originariamente concepito a puntate secondo il genere feuilleton, ha uno svolgimento discontinuo che sposta l’attenzione di volta in volta su situazioni e personaggi diversi. Così Ronconi, per mantenersi fedele al testo originale, sceglie di montare lo spettacolo per quadri autonomi, dove i personaggi appaiono e scompaiono, anche per lungo tempo; vivono su binari paralleli che solo ogni tanto s’incrociano, e ritornano perciò ogni volta diversi. Un impegno ulteriore per i protagonisti era perciò quello di riconquistare ogni volta sulla scena il proprio personaggio, oppure, per gli altri attori che interpretavano ciascuno più ruoli minori, di rendere plausibile il nomadismo tra personaggi diversi. Più semplice invece, rispetto a Gadda, è stata la trasposizione teatrale dei dialoghi, perché nel romanzo russo sono già presenti in forma diretta. La grande forza drammaturgica dell’adattamento ronconiano sta qui soprattutto nel privilegiare i confronti diretti tra i personaggi, che si consumano come duetti d’amore e di disperazione (memorabile il dialogo tra i due fratelli Dmitrij-Massimo Popolizio e Alesa-Daniele Salvo nella quinta scena della prima parte, o tra i due fratelli Alesa e Ivan-Giovanni Crippa nella seconda parte, preludio dell’episodio del “Grande Inquisitore”); oppure si rivelano duelli atroci, come quello tra le due rivali Katja-Galatea Ranzi e Grusen’ka-Viola Pornaro nella prima parte. Ronconi esalta il nucleo centrale della poetica dostoevskijana nel sublime episodio metatestuale del “Grande Inquisitore”: la tensione insolvibile tra il bisogno della fede e la lucida disperazione laica, tra vocazione spirituale e natura lussuriosa, tra passione e distruzione, tra amore ed egoismo. I fratelli Karamazov e il loro dissoluto genitore incarnano appunto gli aspetti contraddittori ma indissolubili, sia della singolare personalità e vicenda biografica dello scrittore russo sia dell’universale natura umana, di cui egli fu uno dei più acuti interpreti. Ciò che più, ed ancora, affascina della sua scrittura è la capacità di affrontare i “grandi temi” con uno “stile alto”, conservando la “ferocia” realistica necessaria all’autenticità e all’emozionalità del racconto. È appunto questo che Ronconi cercava sul piano drammaturgico. Lo aveva già detto a proposito della trasposizione di Gadda e con i Karamazov lo ribadisce: spostarsi verso la grande letteratura non significa negare la drammaturgia contemporanea, ma contribuire da una prospettiva registica e con una straordinaria esperienza della scena ad indicare dei modelli per una rigenerazione della scrittura drammaturgica. La quale dovrebbe, nella visione di Ronconi, sforzarsi di uscire tanto dall’attualità della cronaca, quanto dall’asfittico intimismo pseudo-psicologico, come anche dall’astrazione intellettuale e linguistica. Dal Pasticciaccio e dai Karamazov emerge un chiaro modello di rifondazione drammaturgica, che fa indirettamente ma inesorabilmente da specchio critico alla scrittura teatrale attuale, in particolare quella italiana (resa però debolissima dalla mancanza di occasioni e di verifiche produttive), troppo ancorata a moduli ipercodificati, a una lingua fredda, né reale né inventata, lontana dal colore drammatico e poetico del vissuto, insomma imprigionata in un respiro corto dell’idea e del linguaggio.
Nell’equilibrio delle parti della trasposizione teatrale del grande romanzo russo, la prima risultava più serrata e più corale, mentre la seconda appariva più frammentata. La continuità del secondo episodio era sostenuta dalla lacerante sospensione del monaco Alesa, tornato nel mondo “lussurioso” e profano della sua famiglia e della sua comunità su consiglio del padre spirituale Zosima, per svolgervi un’impossibile opera di pacificazione. L’intreccio si coagulava comunque attorno alla struggente metafora del monologo del “Grande Inquisitore”, di fronte a un Cristo ammutolito nel mistero di un suo improbabile e “inopportuno” ritorno, impennandosi infine nei lunghi monologhi del titanico Dmitrij-Popolizio. La terza e conclusiva parte - Un errore giudiziario - già concepita e pubblicata nel programma di sala, non è purtroppo mai giunta alla luce, lasciando sospeso un progetto che meritava di avere altra sorte e maggior respiro, sia nei tempi di elaborazione sia nell’eventuale ripresa delle repliche, per dispiegare delle potenzialità che potevano farne un caposaldo di una rinnovata tradizione teatrale italiana. Per la portata del messaggio dostoevskjano, sintesi premonitrice dei grandi temi del Novecento, e per la qualità dell’operazione di riduzione drammaturgica, I fratelli Karamazov poteva infatti divenire - alla maniera della longeva edizione di Copeau, ma soprattutto nell’impronta dei grandi spettacoli creati da Ronconi nel Laboratorio di Prato degli anni Settanta - una delle piattaforme per traghettare la cultura teatrale italiana verso la dimensione europea del nuovo millennio. La scommessa latente, non senza astuzia e ironia, di Ronconi, nella duplice veste di regista e direttore artistico di un grande teatro italiano, era quella di creare a teatro (fondandosi su una ricchissima tradizione) un secondo livello, più colto, stratificato nei suoi contenuti e formalmente ineccepibile, del feuilleton, intramontabile passione del grande pubblico popolare e borghese, prima soddisfatta dalla letteratura non solo “bassa” ed ora definitivamente involgarita dalle soap-opera e dai “teleromanzi”. Il grande pubblico non frequenta più i teatri e quando ci va lo fa come per vedere una televisione “dal vero”, spesso esclusivamente all’inseguimento dei beniamini comici o mattatoriali del piccolo schermo. Deprimente realtà, forse, ma che il teatro non può più ignorare, pena la sua stessa estinzione. Questa tendenza tuttavia non va letta - secondo lo stesso Ronconi - solo in chiave negativa, ma risponde a un bisogno collettivo di ritrovare la “grande narrazione”, quella che diventa appuntamento collettivo, catarsi e trasfigurazione del nostro quotidiano. I bambini la cercano nei cartoons cibernetici, i ragazzi nelle saghe fantastiche o spaziali e nei computer games, gli adulti nelle soap-opera televisive o nell’epopea spettacolare del cinema americano, ma se il feuilleton contemporaneo fosse scritto da dei Dostoevskij e messo in scena (anche quella televisiva) da dei Ronconi, forse qualcosa potrebbe tornare a muoversi nelle coscienze intorpidite del neonato millennio.
L’arte del fallimento di Samuel Beckett
L'Orfeo dei Sacchi di Sabbia
Pisa, Chiesa di Sant'Andrea, 21 aprile 2002
di Alessandra Giuntoni
“Per l’intellettuale, la solitudine più scrupolosa è la sola forma con cui può conservare un’ombra di solidarietà. Ogni collaborazione, ogni umanità di rapporti e di partecipazione non è che una maschera per la tacita accettazione dell’inumano. Non si deve simpatizzare con gli altri che nella sofferenza: il più piccolo passo verso le loro gioie è un passo verso l’indurimento della sofferenza”.
(Th.W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben)
“Il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare coi mobili. (...) Per l’artista che non si muove in superficie, il rifiuto dell’amicizia non è soltanto qualcosa di ragionevole, ma è un’autentica necessità. Poiché il solo possibile sviluppo spirituale è in profondità. La tendenza artistica non è nel senso dell’espansione, ma della contrazione. E l’arte è l’apoteosi della solitudine. Non vi è comunicazione poiché non vi sono mezzi di comunicazione”.
(S. Beckett, Proust)
Nella rinuncia all’illusione della comunicazione e nella perdurante assenza di consolazione è possibile intravedere il motivo conduttore, il sottile fil rouge che collega l’intero percorso artistico di Samuel Beckett. La difficile e sofferta scelta di intraprendere la via della conoscenza nella più totale solitudine intellettuale, insieme al rigore estremo, quasi ascetico, magnificamente esemplato dalle sue opere, costituiscono da sempre la cifra distintiva dell’autore. E’ noto il rifiuto di Beckett di contribuire all’esegesi dei suoi testi, il suo procedere artistico che prende le mosse dal divieto di dilettarsi dell’ordine cosmico e della buona riuscita della scrittura. Il suo desiderio di un linguaggio inaudito e inaccessibile, che sappia rendere conto dell’inadeguatezza della parola, nasce proprio dalla constatazione dell’impotenza dell’arte, del venir meno della capacità linguistica di far presa sulla realtà. Ancora agli inizi della sua carriera letteraria, scrive: “Essere un artista significa fallire, come nessuno altro osa fallire. Occorre fare di questa sottomissione, di questa ammissione, di questa fedeltà al fallimento, una nuova occasione, un nuovo termine di rapporto, un atto espressivo, anche se espressivo solo dell’atto stesso, della sua impossibilità, del suo obbligo” (Three Dialogues with George Duthuit, in “Transition”). E, di fatto, l’intero percorso della sua opera straordinariamente unitaria e progettuale, sembra alla fin fine voler testimoniare del tentativo incessante di esprimere, in modo artisticamente adeguato, il proprio disgusto per l’arte, in un cammino lento e inarrestabile che dalle vette di uno stile maniacale, virtuosistico, ossessivo sfocerà, infine, nel silenzio degli ultimi rarefatti lavori.
Si è detto che Beckett, più di altri autori, appartiene al Novecento. Certo, del suo secolo egli è stato uno dei più eccezionali osservatori, nel modo in cui ha registrato, come un instancabile sismografo, i prodromi e le oscillazioni dei processi regressivi che avrebbero condotto l’Europa di inizio secolo al terrore del fascismo, ma anche le impercettibili variazioni del totalitarismo democratico. Egli ha descritto la vertigine suicida della società occidentale, additandone l’istanza necrofila e l’ossessione della fine e lo ha fatto esemplarmente con il minimalismo d’immagine che gli è proprio. Ma, a ben vedere, il contatto con l’epoca di appartenenza si esprime, più che in un ricorso alla strumentazione della tradizione ufficiale, nel rifiuto di qualsiasi ragionevole ottimismo, nella mancanza assoluta di fede, nel portare alle estreme conseguenze la crisi delle leggi oggettive, immanente alla definizione dei dati e della comunicazione umana. La ricerca di addentellati dell’opera beckettiana con la cultura del ventesimo secolo trova, quindi, una maggior rispondenza, più che nel raffronto strettamente letterario, nel parallelo con gli sperimentalismi di altre discipline in cui è evidente la volontà di prescindere da qualsiasi continuità storica. L’accettazione della sterilità artistica e dell’impotenza autoriale, la pervicace adesione alla poetica dell’insipienza, sono da leggersi dunque come il sintomo della sussunzione poetica delle più recenti conquiste del pensiero scientifico, dell’aver accolto incondizionatamente la lezione negativa della moderna epistemologia sulla validità di teorie confutabili, del calcolo infinitesimale, dell’ottica simultanea e rifrangente, del relativismo post-einsteiniano. La scelta di un progressivo impoverimento stilistico, inoltre, assieme alla svolta linguistica postbellica (la decisione di abbandonare l’inglese per sperimentare l’uso di una lingua ‘altra’ sfocerà nella creazione di un idioma che a ragione è stato definito ‘non-francese e non-inglese’), tutto nel percorso di questo artista sembra confermare l’ipotesi di una precisa volontà politica di porsi dal punto di vista di un io poetico errante che parli dal luogo di fango e macerie che la seconda guerra mondiale ha imposto all’uomo contemporaneo. Se nel 1951 Georges Bataille dichiara di scorgere, nell’opera di Beckett, “l’autorité des ruines” e, nella struttura di Molloy, un “mouvement forcené de ruine” (Le silence de Molloy), ciò è riconducibile non soltanto al senso di lutto universale che si sprigiona da quest’opera, ma anche al ricordo di un accalorato intervento dell’autore, pronunciato a Radio Éireann del 1946, significativamente intitolato The capital of the ruins (in As No Other Dare Fail) che assunse i caratteri di una vera e propria dichiarazione di poetica. L’esperienza personale di partecipazione alla Resistenza francese, la permanenza a Roussillon per sfuggire alle persecuzioni naziste e, infine, la decisione di rientrare nella Francia distrutta al termine della guerra, offrendosi come ‘interprete-magazziniere’ nella Croce Rossa irlandese, lo avevano condotto ad una visione dell’umanità decaduta e ad un riconoscimento del processo artistico come lucida testimonianza di questo sfacelo. Davanti alle macerie della città distrutta di Saint Lô, dove “la vecchia disaminata mente \ sprofonderà dentro la sua rovina” (Vire will wind in other shadows \ unborn through the bright ways tremble \ and the old mind ghost-forsaken \ sink into its havoc”, in “Irish Times”), Samuel Beckett scrive i suoi ultimi versi in inglese; bisognerà aspettare fino agli anni Settanta per rivederne comparire. Ecco allora, che le successive affermazioni di Beckett “I’m working with impotence, ignorance”, l’amore dichiarato per la beethoveniana “punteggiatura della deiscenza”, acquistano il valore di un manifesto programmatico, di una vera e propria scelta di campo di un autore deciso a prendere le mosse dalla capitale delle rovine interiori, a trasportare questo fisico disfacimento entro la propria lingua, a farne per sempre l’orizzonte gnoseologico del suo soggetto poetico. Il rifiuto dell’autorità del testo tradizionalmente inteso, l’attacco sferrato alla norma scritta con il “coltello del no” (No’s Knife, è il titolo voluto da Beckett per la raccolta delle sue prose brevi), si configurano come tentativo estremo di sonorizzare la lingua, di farla risuonare tra pause infinite ed echi remoti, lontano dall’autorità e dal potere di un soggetto sovrano, capace ancora di generare coscienza. Il silenzio come valore-limite della sua scrittura, la volontà di disfarsi della tecnica e dello stile acquisiti al fine di ricreare un linguaggio secondo fatto di immagini visive e sonore, è tutt’uno con l’ambizioso progetto di mostrare la caduta dell’io. “Molti autori sono troppo bene beneducati - afferma Deleuze tratteggiando i caratteri dell’épuisé beckettiano - si accontentano di annunciare l’opera integrale e la morte dell’io. Ma siamo ancora nell’astratto finché non mostriamo “come è”, come si fa un “inventario”, compresi gli errori, e come l’io si scompone, compreso il fetore e l’agonia” (L’épuisé). Di questa agonia, di questo fetore, della cecità di un mondo giunto ai limiti della fine ultima, l’arte delle rovine beckettiana costituisce una delle più lucide testimonianze che la storia della letteratura possa ricordare.
Con la fine della guerra prende avvio il periodo più prolifico e misterioso della produzione letteraria di Beckett, il periodo che egli definisce di “assedio nella stanza”. Chiuso in un isolamento quasi monastico, abbandona l’idea che la scrittura si debba ispirare a fatti o persone della sua vita, che debba crescere in opposizione all’istinto creativo inconscio da cui si sente perennemente minacciato. Se fino ad allora aveva scritto con abnegazione e sofferenza, in qualche modo contro se stesso, arriva il momento, dichiara Beckett, di accettare incondizionatamente “questo lato oscuro come componente essenziale della mia personalità”. Le immagini che affiorano dai ricordi di guerra sono residui dolorosi e inquietanti. Le parole sconnesse e disarticolate sembrano emergere da un fondo oscuro della sua anima che lo tormenta e lo divora, non gli dà pace. Per descrivere il turbine caotico della vita non ha più bisogno della costrizione vincolante di elementi esteriori quali il tempo, il luogo, la trama. Gli basta la voce (“frammenti di una voce antica in me non la mia”), gli basta ridurre i personaggi ad un unico io narrante che parli per tutti, che annulli ogni pretesa di individualità, come già aveva fatto la guerra. Far risuonare la voce umana, liberarne il suono, il senso, la sua materialità dolorosa: è il tentativo estremo di uccidere la lingua e salvaguardare la sostanza informe che sta oltre la superficie piatta delle parole. Il demone che sente dentro di sé lo condurrà al punto zero di una ricerca linguistica di progressiva sottrazione, che tende ad asintoto verso il buio, il silenzio, il grido inarticolato.
Di ritorno a Dublino, dopo aver ritrovato la madre afflitta dal morbo di Parkinson (”il suo viso era una maschera, completamente irriconoscibile. Guardandola ho avuto la sensazione che tutto il lavoro fatto fino ad allora andava in una direzione sbagliata”) Beckett ha la visione chiara e premonitrice di quella che sarebbe stata la sua arte di lì a venire, di quella che, con una formula un po’ logora e stereotipa, potremmo definire la produzione più propriamente ‘beckettiana’. Durante uno dei suoi vagabondaggi notturni, “dopo aver bevuto a sufficienza per arrestare il flusso dei pensieri”, ha il sentore di quella che ai suoi occhi avrebbe sempre conservato le caratteristiche di una vera e propria “rivelazione”. Il ricordo di quella notte trascorsa sulle banchine del molo, con il vento gelido che gli sferza la faccia, è il ricordo di una visione impressa nella memoria a caratteri di fuoco; ne farà esplicita confessione alcuni anni più tardi, attraverso la voce metallica del magnetofono del vecchio Krapp:
“Spiritualmente un anno di profondo squallore e indigenza fino a quella memorabile notte di marzo, in fondo al molo, nel vento che urlava, non lo scorderò mai, quando all’improvviso tutto mi è stato chiaro. La visione, finalmente. Questo, direi, devo soprattutto registrare stasera, in previsione del giorno in cui la mia opera sarà... spenta e io non avrò forse più alcun ricordo, buono o cattivo, del miracolo che... del fuoco che l’ha accesa: mi è apparso finalmente chiaro che l’oscurità che ho sempre combattuto per tutto questo tempo è il mio più... indistruttibile legame, fino alla fine della storia e della notte, con la luce della comprensione...”.
Ma il ricordo è offuscato, impreciso, avvolto nelle nebbie dell’oblio: mal vu mal dit, appunto. Fino al suo ultimo testo narrativo, scritto in una prosa limpida e quasi serena, Beckett tornerà sul mistero della parola, sul suo tradimento, sul suo dire male ciò che è già visto male: “La mente tradisce gli occhi traditori e la parola tradisce i loro tradimenti”. L’espressione deve combattere contro ciò che la minaccia da vicino, contro il rischio del silenzio definitivo e lo scrittore è il veggente che capta il ‘di fuori’ del linguaggio, ciò che non appartiene più a nessuna lingua. Le visioni e le sonorità che vede e ode negli interstizi del linguaggio sono semplicemente il brusio indistinto della vita, il suo sciabordio senza sosta, cosmico e spirituale. Di qui la disperata ricerca della parola-soffio, quella ricerca che già aveva tormentato Artaud: “comment dire? comment mal dire?”. La scoperta della zona d’ombra dentro di sé, l’accettazione dell’informe, del brutto, del sordido che fuoriescono dalle pieghe dell’inconscio costituiscono da ora la sua vera forza, il moto propulsore verso un nuovo canone artistico che segnerà in maniera indelebile i moduli del teatro e del romanzo novecentesco.
Alla Liberazione, dopo aver presentato il manoscritto di Watt a diversi editori di Londra, Beckett si è finalmente ristabilito a Parigi. I biografi sono concordi nell’affermare che, da questo momento in poi, i dati della sua vita si riducono quasi esclusivamente all’elenco delle sue opere e alle date di pubblicazione e di stesura dei testi. Ha inizio, come si è detto, il suo periodo di maggior attività creativa contrassegnato dall’adozione della lingua francese. I cinque anni che vanno dal ‘45 al ‘50 sono anni straordinariamente fecondi: già sul finire del ‘45 aveva terminato la scrittura di un racconto intitolato Suite, divenuto poi La Fin nella raccolta Textes Pour Rien. Nel ‘46 scrive Mercier et Camier e i racconti L’expulsé, Le calmant e Premier Amour. Nel ‘47 scrive Molloy, il primo romanzo della Trilogia, e la commedia Eleuthéria. Tra il ‘48 e il ‘50 porta a termine la stesura di Malone meurt, L’innomable, En attendant Godot e dei tredici Textes pour rien; di lì a poco (1957) farà la sua comparsa anche Fin de partie.
Con il passaggio alla lingua francese assistiamo ad una vera e propria discesa mistica verso le fonti più remote del dolore creativo, una progressiva spoliazione in cui l’artista, lo scrittore, si libera di tutto, interrompe i contatti col mondo, ma soprattutto, opera una decomposizione della lingua materna. Gilles Deleuze parla di questa capacità dell’apolide Beckett di far “balbettare” la lingua ufficiale o maggioritaria, ne approva il progetto di amputazione, di sottrazione indefinita, per ritrovarne un uso minoritario ed eversivo. Beckett, irlandese che scrive in francese e si traduce in inglese, opera una duplice conversione: dapprima rinunciando alla madre lingua, poi facendosi straniero nella stessa lingua che adotta, costringendola a infinite variazioni e linee di fuga, tali da renderla innaturale, astratta, inaudita. Già Proust aveva detto che un buon libro è sempre scritto in una lingua straniera. Beckett si serve della sua origine inglese per portare la balbuzie, l’inceppamento nella langue, e non solo nella parola: “balbettare è, in genere, un disturbo della parola. Ma far balbettare un linguaggio è un’altra cosa. Significa imporre alla lingua, a tutti gli elementi interni della lingua, fonologici, sintattici, semantici, il lavorio della variazione continua”. (Sovrapposizioni).
Il bilinguismo diventa interno, immanente alla stessa lingua, la costringe a bisbigliare, sussurrare, a disseminarsi in stato di variazione continua, liberata dal sistema coattivo della predominanza di senso. Lo spiazzamento che deriva dalla dissoluzione della superficie sonora della parola, franta da pause musicali, apre ad una conoscenza di tipo organico capace di misurarsi matericamente con il testo: “c’è qualche motivo - si domanda Beckett - per cui la terribile materialità della superficie verbale non sia in grado di dissolversi cosicché per intere pagine non possiamo percepire se non un sentiero di suoni sospesi ad altezze vertiginose, colleganti insondabili abissi di silenzio?” (Lettera Tedesca, in Disiecta).
Far buchi nella lingua (“to bore one hole after another in it”), sottoporre l’idioma materno al supplizio dello smembramento, piazzarsi nello spazio neutro del vuoto linguistico. Questo il penso del narratore alle prese con la costruzione del suo personaggio più estremo: L’Innominabile, straordinaria sintesi nella dialettica tra luce e tenebra, suono e silenzio, moto e stasi. L’impresa di Beckett si colloca nello spazio esiguo, liminale, tra indicibilità del narrato e impossibilità di tacere, tra muta esistenza e il tentativo dell’arte di dirla, di renderne testimonianza.
”Questa voce che parla, pur sapendosi menzognera, indifferente a quel che dice, e che si sa inutile, senza valore, che non si ascolta, attenta al silenzio che essa rompe è proprio una voce? Io non farò più delle domande, non ci sono più domande, non ne conosco più. Essa fuoriesce da me, mi assorda, urla contro i miei muri, non è la mia, non posso fermarla, non posso impedirle, di straziarmi, di scuotermi, di assediarmi. Non è la mia, io non ne ho, non ho voce e devo parlare, è tutto quello che so, è intorno a questo tema che ci si deve aggirare, è a proposito di questo che si deve parlare, con questa voce che non è la mia, ma che non può essere che la mia, poiché non ci sono che io e, se ci sono altri, all’infuori di me, ai quali tale voce potrebbe appartenere, non giungono sino a me, non ne dirò di più, non sarò più chiaro”.
(L’Innomable)
Nell’ultima parte del testo, il dilagare della voce narrante e l’uso di un linguaggio rotto, liberato dai vincoli dell’interpunzione prosastica, raggiungono il parossismo di un delirio verbigerante. Ma, al di là dell’elemento d’innovazione formale, ciò che nei romanzi della Trilogia beckettiana permane, è tutto il pathos di una moderna tragedia, in un largo respiro corale. Il silenzio invocato da Beckett ha a che fare con la sola speranza mistica alla portata dell’uomo nuovo, nato nella guerra. Di sicuro la meta intravista è incerta, illuminata soltanto da un fioco lucore. Forse si tratta ancora della “...folie que de vouloir croire entrevoir quoi \ quoi \ comment dire...”. Ma se esiste essa è proprio là, nel luogo che lui ci ha indicato, “là dove si soffre, là dove si esulta di essere senza parola, di essere senza pensiero, là dove non si sente nulla, non si ode nulla, non si è nulla, è là che sarebbe bello essere, là dove si è”. E, una volta giunti al silenzio, all’esaurimento delle parole, bisogna raccontarne la storia, che è la nostra storia, che è la storia di Beckett-Innomable. E’ questa la stupefacente persuasione raggiunta dal narratore nelle ultime righe del romanzo:
“E allora continuerò, bisogna dire delle parole, sin che ce ne sono, bisogna dirle, sino a quando esse mi trovino, sino a quando mi dicano, curiosa pena, curiosa colpa, bisogna continuare, forse è già fatto, forse mi hanno già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, davanti alla porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirebbe, se si aprisse, sarò io, sarà il silenzio, lì dove sono, non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuo”.
E Beckett ha di fatto continuato.
Come scrive Franco Rella:
“Egli ha dato voce e fatto accadere e reso visibile l’ammutolimento del mondo dopo Auschwitz, come ha detto Adorno. Dopo e prima di Auschwitz. L’ammutolimento che ci assale ogni volta che il nostro sguardo si affaccia attonito sul mistero del mondo, delle cose, della sofferenza e le fragili parole che abbiamo si inaridiscono nella nostra bocca, finché non cominciamo a parlare di nuovo, finché non troviamo il coraggio di continuare”.
A partire dagli anni Sessanta, Beckett imprime un’ulteriore torsione sottrattiva alla propria scrittura. Compone diversi testi teatrali brevi (Play, Come and Go, Breath), i radiodrammi Words and Music e Cascando, il teledramma Eh Joe e alcune prose in cui abbandona la forma narrativa dei romanzi “adulti” (la Trilogia e Come è), basata sul racconto in prima persona della voce monologante, ricorrendo ad un narratore che parla in terza persona partendo da un’unica immagine archetipa. Il primo di questi testi è All Strange Away del ‘63, cui fanno seguito Imagination morte imaginez, Assez, Bing, pubblicati nel ‘67 nel volume Têtes-mortes e poi, ancora, Sans e Le dépeupleur apparsi entrambi nel ‘70. La morte dell’immaginazione poetica, la paralisi di ogni fantasia creativa, costituiscono il contesto storico di caduta da cui si dipartono questi durissimi testi beckettiani. Bloccato il fluire delle immagini poetiche, lo sguardo si affigge su singole immagini pietrificate, tra cui domina quella dell’occhio-baratro, l’occhio spalancato, tragico testimone di un vuoto mai definitivo, mai risolutorio. Lo sguardo bruciante è immobile nello spasimo dilatato dell’attimo. Il corpo umano accecato dalla luce abbagliante cade a terra riverso e cerca un ristoro nel buio inesplorato, un momento di requie per gli occhi folgorati. Ma la luce bianca torna di nuovo a infierire, annulla i contorni delle cose, disintegra qualsiasi facies antropomorfa dal muto deserto siderale materializzato da Beckett. Ciò che resta, ancora una volta, sono le nude, scabre parole che descrivono la fenomenologia dell’evento:
”Da ogni parte non una traccia di vita, voi dite, bah, e con questo, immaginazione mai morta, ma sì, appunto, immaginazione morta immaginate. Isole, acque, azzurro, verzura, attenzione, pff, via tutto, un’eternità, zitti ora. ... Alla luce che fa tanto bianco nessuna sorgente visibile, tutto splende di un bagliore bianco, eguale, suolo, muro, volta, corpi, non un’ombra”.
(Immagination morte imaginez)
Un lavoro minuto di scomposizione di ogni membro del corpo percorre l’intero testo di questi racconti. Nella geometria assurdamente calcolata dello spazio e delle posture si definisce una meticolosa grammatica gestuale, determinata dall’analisi degli assi di spostamento dei corpi, dalle minime varianti apportatrici di senso. “L’anatomia è un tutto”, afferma Beckett in Imagination morte imaginez. Una crudele anatomia di dissezione del vivente che va verso l’eliminazione di ogni residua psicologia: il corpo-macchina, il corpo-involontario dell’ultimo Beckett non è troppo lontano dal ‘corpo senza organi’ invocato in precedenza da Antonin Artaud. Le indicazioni posturali e gestuali, descritte con freddezza chirurgica, concorrono all’eliminazione del ‘volto’ umano: “Tutto noto tutto bianco un metro aderenti gambe come cucite... Corpo nudo bianco fisso solo gli occhi appena. Mani pendenti aperte palmo avanti piedi bianchi talloni uniti angolo retto... Testa globo in alto occhi azzurro pallido quasi bianco fisso avanti silenzio dentro...”. Liberare il corpo dal pensiero perché partecipi della durezza intangibile delle cose, della loro grevità effettuale. La dissoluzione degli oggetti mentali, la caduta di ogni pretesa gnoseologica, anche di quella più azzerante, è la via che conduce alla cessazione del dolore del divenire, del movimento. Sembra che Beckett insegua, a questo punto, una sorta di paradossale progetto soteriologico nella ricerca di un passaggio verso l’inorganico. Vi è la speranza di un’intravista salvezza nel farsi cosa, nell’amore per “le cose immobili” che non si lamentano, è l’unico modo per sfuggire alla corrosione del tempo, per dilatare il presente, arrestare il trapasso. Se può esserci una liberazione essa è qua, nella felicità dell’informe che si oppone e protesta contro il principio formale del vivente. Nell’esplorazione di quest’immobilità minerale risiede forse “l’aspetto anorganico” che Th.W. Adorno (Ästhetisce Theorie) tenta di rintracciare nella sua poesia. L’ipercontrollo, mimesi del controllo pulsionale esercitato dalla società odierna è forza salvifica e insieme imbalsamazione di fronte alle dispersioni psichiche della vita, alla sua forza spossessante.
Al tema dell’occhio che si spalanca e vede dentro di sé, sospeso sull’inferno ineluttabile dell’autopercezione - “Immagina gli occhi bruciati azzurro cenere e le ciglia scomparse, tutta una vita di splendore senza vista, spalancati immobili, un solo trasalimento lampeggiante per minuto sulla terra, cerca quello” (All strange away) - è dedicato Film, unico cortometraggio cinematografico, realizzato da Beckett nel ‘64. Interpretato da un attempato e dimenticato Buster Keaton che si dimostrò alquanto perplesso circa il senso e la realizzabilità del tutto, Film ha come argomento la stessa essenza del cinema: la percezione visiva. Proponendosi di dimostrare l’assunto filosofico di un altro celebre irlandese, ovvero l’esse est percipi di Berkley, Beckett costruisce una sceneggiatura semplicissima in cui è mimata, a mo’ di comica del cinema muto, la fuga di Og (il protagonista oggetto di percezione) dall’inseguimento di Oc (l’occhio implacabile della cinepresa, il percipiente). Morale del film: la cinepresa-percezione coincide in fine col personaggio percepito, rivelando la percezione come atto di pura affezione, come percezione di sé. E’ possibile sfuggire al tormento della percezione con l’estinzione del soggetto, approdando al sollievo dell’impercettibilità.
Con la fine degli anni Sessanta la produzione letteraria di Beckett si riduce drasticamente. Operato a entrambi gli occhi (ma la vista continua a peggiorare) è costretto, come il Maestro Joyce, a scrivere con una grossa matita colorata su fogli più grande del normale. Non è possibile stabilire se quelli che lui definiva “i soliti dolori e sofferenze” abbiano interferito sulla sua capacità lavorativa di quegli anni. E’ molto più probabile che la progressiva rarefazione dell’opera sia parte integrante di quel processo di spoliazione poetica, di scarnificazione linguistica in cui la parola sopravvive come reperto estremo, come elemento residuale di una comunicazione di per sé lacunosa e intermittente. Le opere susseguenti le grandi prove degli anni Cinquanta e Sessanta sono infatti brevi prose e testi teatrali dal minimo ingombro che si offrono quali rapide illuminazioni, preziosissime pietre di un mosaico di compatto spessore concettuale e di fulgida, esasperata bellezza. Per queste densissime miniature, di fulminante brevità, Beckett crea il neologismo di dramaticules a sottolineare la compressione drammatica che le sostanzia, la decaduta pretesa di qualsiasi io autoriale. E’ del 1972 la stesura di Not I, un difficile monologo per sola attrice, della durata di 15’, in cui la testa della protagonista, come decollata, illuminata da un violento fascio di luce, si staglia su un fondale di fitta e impenetrabile oscurità. Nei brandelli sconnessi del battente monologo, nella litania rovesciata e senza speranza cantilenata da un’angelica e purissima creatura, affiorano come lampi sinistri i grumi densi di una dolorosa memoria. Il passato che la donna maledice, spesso con toni di oscena e blasfema ferocia, è il ricordo di un dolore cosmico senza rimedio, di una pietà e una misericordia da sempre invocate e per sempre negate all’umanità. “E’ uno spettacolo di grande intensità, fatto di sudore, di muscoli contratti, di laringe schiumante, che trova le sue variazioni nei toni alti: un convulso gracidio all’idea che possa esistere un Dio misericordioso; un grido di sofferenza diretto a placare questa incerta divinità” (B.Nightingale, “New Statesman”).
Nel 1975, terminata, la stesura di altre due pièce teatrali intitolate That time e Footfalls si avvia alla scrittura dei drammi televisivi Ghost Trio e ...but the clouds... Oltre a tradurre personalmente le proprie opere dall’inglese al francese e viceversa, comincia la stesura delle cosiddette rimailles, la raccolta di versi che vorrà intitolare Mirlitonnades, in divertito omaggio alla poetica dell’insipienza cui volle sempre mantenersi fedele. Originariamente scritte su fogliacci, sottobicchieri, se non addirittura sull’etichetta di bottiglie di whisky, le mirlitonnade vengono successivamente ricopiate dall’autore in un quadernetto ribattezzato “sottisier” ovvero sciocchezzaio, contenuto nel taschino della sua giacca. Inutile dire che queste filastroccate (felice titolo italiano con cui G.Frasca ha tradotto mirlitonnades, seguendo un’implicita indicazione di Beckett che ama definirle anche “gloomy French doggerel” ovvero “tristi filastrocche francesi”) scritte febbrilmente tra il ‘76 e il ‘78, vengono definite dalla critica più recente “tutt’altro che versi occasionali, o cantabili latenze del pensiero, risultando anzi fra i testi poetici più intensi, innovativi ed emotivamente coinvolgenti dell’ultimo quarto di Novecento”.
Degli anni Ottanta sono la pièce Ohio Improptu, il teledramma Quad che, definito dall’autore “una folle invenzione per la TV”, consta di un testo scritto per la scuola di danza di Stoccarda in cui non sono previste parole, ma solo il movimento di quattro mimi, il suono dei loro passi e di percussioni “dodecafoniche”. E poi, a seguire: Rockaby, Catastrophe, Nacht und Träume e infine Quoi où, la sua ultima pièce tradotta immediatamente in inglese con il titolo What where. Intessuto su una fitta trama di citazioni letterarie (una poesia di Goethe e una di Thomas Moore) e musicali (i Lieder di Schubert del ciclo Winterreise che risuonano in filigrana nel testo) spazializzate secondo la tecnica dell’attore separato dalla sua voce con l’uso di un piccolo megafono (già esplorata in Dondolo e in Quella volta), attraverso una ripartizione geometrica dello spazio che ricorda quella di Quad, si assiste nell’ultimissimo lavoro teatrale di Beckett a un’impensabile radicalizzazione della tendenza alla de-umanizzazione linguistica. Il lavoro di scomposizione del testo provocato dall’andamento martellante dei recitativi, la tensione interna montante per via dei riferimenti a episodi di crudele tortura, trovano un correlato oggettivo nella geometrizzazione desertificante dello spazio scenico. Ancora un tentativo insomma, da parte del settantasettenne scrittore, di dar compimento all’ambizioso progetto di smaterializzare la realtà per accedere a dimensioni altre, forzando il varco di accesso minimale che dalla sapienza di pose geometriche astratte e stilizzate lo possa finalmente condurre a concedere diafano corpo all’ineffabile immanente, a ciò che per sua intima essenza rimane indicibile. La struttura ritornellante a “progressiva eliminazione”, il luttuoso clima circense evocato dai nomi clowneschi dei personaggi (Bem, Bim, Bom, a cui va aggiunta la voce di Bam) in richiamo-omaggio ai personaggi di Comment c’est, sembrano una voluta, profetica smentita al “chiaro significato politico” attribuito dai critici che vollero a tutti i costi leggere in Cosa Dove “un testo teatrale sul totalitarismo”. A riconferma dell’assoluta estraneità dell’autore al giochetto insistito di tanta critica (che consiste essenzialmente nell’ammannire facili metafore politiche o speciosi significati reconditi, laddove è solo l’opera in quanto nitida partitura musicale di minime azioni sonore a parlare) gioverà ricordare le parole dello stesso Beckett pronunciate in difesa della “semplicità” di Fin de partie: “Quando si tratta di giornalisti credo che l’unica linea di condotta sia rifiutare di essere coinvolto in qualsiasi genere di esegesi. E insistere sull’estrema semplicità della situazione e del risultato drammatici. Se questo a loro non basta, e ovviamente non basterà, per noi è molto e non abbiamo delucidazioni da offrire per misteri che solo loro creano” (Lettera a Schneider, 1957). Ebbene, a ulteriore riprova delle distanze prese da Beckett, si legga la revisione apportata dallo stesso all’adattamento del testo per la prima francese di Quoi où, andata in scena a Parigi nell’aprile del 1986 insieme a Catastrophe e Ohio Improptu. In questa circostanza il megafono viene sostituito da un cerchio di luce arancione, i personaggi angosciosi della prima versione ridotti a tre volti quasi sospesi. Ma, la divergenza maggiore sta nel ritmo delle battute, nell’abbandono del tono minaccioso da parte di Voce, nella scomparsa del clima intimidatorio in favore dell’assoluta “ironia” chiamata a caratterizzare l’atmosfera. Appare, allora, più convincente e conforme all’intento di Beckett la lettura suggerita da Frasca che vede nel tono di autentica e poeticissima chiusa teatrale il senso più proprio di un gioco giunto veramente alla fine (una sorta di personale e toccante Fin de partie, inscenata da un Beckett accomiatantesi ma niente affatto intristito), suggerito dalla presenza in scena di una struggente aire de jeu che aleggia sul tutto e dona alla pièce una “levità malinconica da ultimo spettacolo, se non da disallestimento della scena”. Aiutano in tal senso i versi posti dall’autore a congedo dalla sua quarantennale attività drammaturgica che, accompagnando il declinare delle luci sul set, recitano: “Il tempo passa. \ E’ tutto. \ Comprenda chi potrà. \ Io spengo”. (Le temps passe. \ C’est tout. \ Comprenne qui pourra. \ J’éteins”). A seguire l’ultima indicazione di regia che, brevemente, annota: “Lo spazio si spegne. Pausa. V si spegne”.
Spenta la voce esplicitamente teatrale, Beckett si appresta a prender congedo anche dalla produzione narrativa che ha subito nel frattempo la stessa condensazione dell’opera drammaturgica a partire dai brevissimi testi di Still e Pour finir Encore, fino a sfociare nella prosa limpida e trasparente di Company, Worstward Ho e Mal vu mal dit. Nelle tre brevi prose appena citate, che con tutta probabilità avrebbero dovuto costituire una nuova Trilogia, si compie l’estrema purificazione della parola entro l’accettazione assoluta della pietà e del silenzio. In Company la voce sopravvive staccata dal personaggio: “Una voce arriva a qualcuno nel buio. Immagina”. E’ questo l’inequivocabile incipit con cui Beckett ci cala nel lento ma inarrestabile naufragio della parola che prende corpo sotto i nostri occhi di lettore. L’uomo è solo, immobile; riverso sul pavimento ode soltanto il proprio respiro. Una flebile luce si alza e decresce con il volume della voce, la quale non dice “Tu sei riverso nel buio e sei privo di ogni attività mentale”, forse per la sola ragione di “accendere nella sua mente questa fioca incertezza, e questa pallida perplessità”. Dunque più niente a turbare l’inattività del corpo-mente. Una sorta di spontaneo, laicissimo Nirvana ad-viene all’uomo nell’allentamento della coscienza, nella cessazione delle agitazioni e della sofferenza. Nel testo di insegnamenti buddhisti del Maestro Buddhadasa, si legge: “Il samsara (ovvero lo stato di sofferenza originantesi dal ciclo delle rinascite), si produce ogni volta che la mente reagisce senza attenzione e con ignoranza agli stimoli sensoriali. Sorge, ad esempio, uno stimolo visivo e la mente costruisce sensazioni, desideri, convinzioni e, in ultimo, il senso dell’io-mio. Ogni volta che si sperimenta uno stato di immobilità, indipendentemente dalla qualità e dalle cause, si può dire che è un momento di nirvana. Nirvana significa letteralmente ‘acquietarsi’. Ogni acquietamento è una forma di nirvana. Un carbone consumato, un uomo o un animale in cui il desiderio è estinto, sperimentano un certo grado di nirvana.” (Me and Mine, Selected essays of Bhikkhu Buddhadasa).
L’esistenza di una consonanza tutt’altro che casuale con le tematiche del pensiero orientale, che propone la via della liberazione dalla sofferenza nell’abbandono dell’io desiderante, è rinvenibile in molti testi beckettiani e, specialmente, in quelli di questa ultima fase, in cui il senso di perdita estrema si accompagna alla pacificazione che discende dall’abbandono della volontà, all’imperturbabilità che deriva dal non trattenere alcunché. Per quali misteriose congiunture filosofiche il pensiero dell’ultimo Beckett sembri ricollegarsi così chiaramente ai testi dell’antico canone buddista, non è dato probabilmente sapere. In Company una sorta di beatitudine contemplativa è data dal riaffiorare della ‘memoria involontaria’ che cede al fluire luminoso di scene di quiete e di serena accettazione. Vicende dell’infanzia, della maturità, della vecchiaia si susseguono secondo un lento fluire di montante marea. Nel dipanarsi essenziale di nitidissime immagini, in cui brevi lampi di memoria di un chiarore quasi abbagliante si affacciano “sugli indecifrabili grovigli della mente” come una finestra che guardi sul buio esterno, si può apprezzare in questo ultimo poema in prosa, scritto in inglese, accolto con grande favore dalla critica (“un’esplorazione di ciò che è in ultima analisi inesplorabile... da parte di un irraggiungibile maestro della lingua inglese, il più grande maestro della lingua inglese” commentò il “Times”) si può apprezzare dicevamo, il conseguimento di una narrazione di tipo oggettivo, epico è stato detto. La voce sconosciuta e remota non appartiene più in alcun modo al soggetto; lo sfiora, lo trapassa e attraverso di essa l’uomo rivive le proprie storie che non sono più sue. Sembrano piuttosto appartenere a un io corale, al soggetto di una vicenda impersonale, primordiale, che lo sovrasta.
Come annota R. Mussapi nella postfazione alla traduzione italiana di Company: “la perdita definitiva della voce ha lasciato la voce all’epica a cui apparteneva prima che al soggetto e questo cancella ogni velleità di dramma e di commedia: la quiete è uno stato fisico assoluto, compie e realizza l’affermazione di Giordano Bruno che la velocità massima è uno stato di quiete”. Ecco allora che la voce inaudita può espandersi indisturbata e risuonare sui ricordi dell’uomo che, da un punto distante nel tempo, lentamente s’irradiano entro il buio della stanza, fino a prendere forma, a materializzarsi dolorosamente per poi nuovamente tornare a sfaldarsi. I ricordi del bambino che cammina per mano alla madre - ancora un pensiero alla “collera ingiusta” di lei - la distesa di luce della sua prima neve, le immagini del crepuscolo e dell’erica, del porcospino custodito con affetto nella vecchia cappelliera e incluso poi nella dettagliata preghiera a Dio, da tutto si sprigiona un senso di impalpabile grazia, di rasserenata pietà verso i piccoli eventi che hanno costellato la vita. Adesso l’uomo, che conserva una parvenza di movimento nel solo alzarsi e riabbassarsi delle palpebre, può porsi nudo di fronte alle forze cosmiche che regolano l’universo, per restare semplicemente in ascolto: della gravità, della luce, del respiro che, come “il lento su e giù della risacca” lo restituisce alla pace immota di solitudini infinite fatte di iperuranici, siderali silenzii. Nell’azzeramento del corpo-mente non ci sono più gesti che richiamino in qualche modo la volontà: tutto si compie, si epifanizza, secondo un ritmo di oceanica involontarietà. E’ il destino di un compimento che prende la forma, via via, di immagini tremule, di sussulti, balbettii che riemergono da un passato lontano.
In questo nietzschiano acconsentire non si avverte opposizione, niente che ricordi le rivendicazioni da parte dell’io, più nessuna psicologia. Ma a chi parla dunque la voce? E chi pone le domande? La risposta, com’è giusto che sia, recita: “Un altro ancora che mai si troverà, in nessun luogo. Che mai si cercherà, in nessun luogo. L’impensabile ultimo di tutti. Innominabile. L’ultima persona. Io. Lascialo subito”. Nell’imperativo categorico della risposta, distruttore di ogni preteso soggetto, sembra essersi avverata la profezia annunciata in Non Io. Finalmente la possibilità della cessazione, la messa a tacere di quella che Krapp apostrofava come “questa puttana di prima persona”.
Se la voce di Bocca tornava come un trapano perforante a lacerare il disincarnato soggetto, sottoponendolo alla tortura del dire, del proferire parole (si ricordi: “bocca infuocata... fiume di parole... nelle orecchie... nessuna idea di quello che dice!... e non si può fermare... non può fermare il fiume... e tutto il cervello implora... qualcosa che implora dentro il cervello... implora la bocca di fermarsi... di fermarsi un attimo... anche solo per un attimo... ma nessuna risposta... come se non avesse sentito... o non potesse... o non potesse interrompere per un attimo... come impazzita...”), adesso il miracolo dell’implorata afasia sembra essersi compiuto. La maledizione della prima persona - le moi haïssable aborrito da Pascal - che costituiva la condanna de l’Innomable (si pensi ai disperati tentativi della voce-coscienza di abdicare alla soggettività: “non dirò più io, non lo dirò mai più, è troppo stupido”) declina verso la resa estrema, verso il lutto di una definitiva separazione. Giunto al termine della sua parabola esistenziale (“non sei più vecchio ora di quanto non lo sia mai stato”) dopo aver scandagliato gli abissi del silenzio e sfiorato le vette adamantine della parola, il narratore di Company (ma forse sarebbe più giusto dire Samuel Beckett) si appresta a rivelarci la vanità della favola e dell’agire, a mimare una fatidica chiusura del cerchio in bruniano ricongiungimento con l’essenzialità del suo estremo inizio (se di una vita, dell’opera, dell’umana vicenda non ha, davvero, molta importanza stabilire):
“Finché alla fine sentirai come le parole stiano al punto estremo. Con ogni parola inane un po' più vicina all’ultima. E come anche la favola. La favola di qualcuno con te nel buio. La favola di qualcuno che racconta di qualcuno con te nel buio. E come è meglio alla fine la fatica perduta, e il silenzio. E tu come sempre sei stato. Solo”.
Atleti del cuore
Round III e IV per i Teatri dello Sport
di Oliviero Ponte di Pino
E' in corso a Milano la rassegna dedicata agli incroci tra teatro e sport, ideata e curata da Antonio Calbi & Teatri90. In anteprima dal catalogo della rassegna, la seconda parte del testo di Oliviero Ponte di Pino.
PERSONAGGI
UN ATTORE
UNA ATLETA
Uno spazio vuoto e illimitato.
Da due direzioni diverse entrano un ragazzo e una ragazza in tenuta sportiva. Non si conoscono. Si guardano tra imbarazzo e curiosità.
I primi due round, in “ateatro34”
TERZO ROUND. TEORIA DELLA RELATIVITA’
L’ATTORE Beh, qualche esperienza condivisa l’abbiamo trovata...
L’ATLETA Solo qualche parola inglese: to play, il performer e la performance, il training...
L’ATTORE ...e il trac, che è internazionale e colpisce quando meno te l’aspetti... Ma secondo me non è tutto. Diciamo che esiste un altro elemento che accomuna le varie attività sportive da un lato e dall’altro il teatro, la danza eccetera. Sono tutte attività che occupano un tempo e uno spazio diversi da quelli soliti, normali. Insomma, non fanno parte della nostra vita quotidiana. Insomma, devi entrare in un altro tempo e in un altro spazio. In teatro, quando deve iniziare lo spettacolo, per convenzione si abbassano le luci in sala e si apre il sipario. Di recente a questo rituale si è aggiunto un altro elemento: “Il pubblico in sala è gentilmente invitato a spegnere i telefonini”.
L’ATLETA Spiegati meglio. Per esempio, la nostra competizione quando è iniziata?
L’ATTORE Beh, direi che lo spettacolo è cominciato quando io e te siamo entrati in questo spazio.
L’ATLETA Quale?
L’ATTORE Ma questa stanza...
L’ATLETA (va verso l’uscita) E se me ne vado, finiscono la partita e lo spettacolo?
L’ATTORE Non sarei così rigida. Rilassati, sciogli i muscoli... Prima di tutto la nostra partita non l’hai ancora persa. E poi io potrei andare avanti da solo per un po’. Devi anche sapere che il teatro, come tutte le arti, ama riflettere su se stesso, sulla propria natura e sulle proprie regole e convenzioni. Il modo migliore per farlo è giocare con i propri confini: quello tra realtà e finzione, prima di tutto, e dunque i confini che nel tempo e nello spazio lo separano dalla quotidianità. Così il teatro a volte cerca di renderli fluidi, questi confini, perché le convenzioni possono diventare fredde, rigide, morte. Nello sport invece non si possono discutere le regole durante la competizione, e il campo di gara ha sempre limiti molto precisi.
L’ATLETA Non sarei così rigido, fossi in te mi farei un po’ di stretching, caro. Anche nello sport, il campo di gara può avere confini vaghi, indefiniti. Pensa a una regata, per esempio. O a certe discipline come il trekking...
L’ATTORE Ma in ogni caso, se i confini nello spazio sono vaghi, quelli nel tempo restano precisi, anche per una regata: che inizia con lo sparo che dà il via e finisce nel momento in cui l’imbarcazione supera la linea del traguardo. Una qualche convenzione che separi la vita quotidiana dall’eccezionalità dello sport o dello spettacolo, per millenni è stata considerata necessaria. Dunque per dare inizio alla rappresentazione in genere nei teatri di tutto il mondo si continua ad aprire il sipario...
L’ATLETA Così come la partita di pallanuoto inizia con il pallone al centro della piscina e i giocatori che nuotano il più veloce possibile per arrivarci prima dell’avversario. La gara di corsa scatta dopo il classico colpo di pistola. La partita di calcio non può cominciare senza il fischio d’inizio dell’arbitro.
L’ATTORE Basta basta, lo so anch’io. Inutile che mi stressi. Però dimentichi una cosa importante. La competizione - chiamiamola così - ha un inizio preciso, come abbiamo appena detto. Ma prima di ogni gara c’è sempre un rituale abbastanza complicato, una preparazione che coinvolge tanto gli atleti quanto il pubblico. Possono essere rituali molto semplici o molto complicati: pensa al sumo...
L’ATLETA Quella lotta giapponese con quei ciccioni giganteschi e quasi nudi che si schiantano uno contro l’altro?
L’ATTORE Quelle montagne di muscoli e grasso sono agilissime, i loro gesti hanno una velocità e una precisione impossibili. L’incontro vero e proprio dura pochissimi secondi, ma viene preceduto e seguito da un rituale preciso e complesso. Ricordi come sono vestiti gli atleti, gli inchini che si fanno, e quel gesto di gettare il sale tutt’intorno? Per certi aspetti, lo sport è un rito, come il teatro. Teatro e sport affondano le loro radici in mitologie antichissime...
L’ATLETA Questo aspetto mi affascina. L’ha detto anche il barone de Coubertin: “La caratteristica essenziale del movimento olimpico moderno, è quella di essere una religione”. Ma poi lo sport finisce in Mondovisione!!!
L’ATTORE Ma tutto intorno c’è un rituale, uno spettacolo che è puro teatro. Non a caso negli stadi sono stati ospitati spettacoli di grandissimo impatto. Qualche anno fa un regista tedesco, Klaus Michael Grüber, ha allestito uno spettacolo all’interno dell’Olympiastadion di Berlino...
L’ATLETA Quello fatto costruire da Hitler per le Olimpiadi del 1936?
L’ATTORE Proprio quello, che si vede anche nel film di Leni Riefenstal. Non l’ho visto, ma ricordo una serie di foto con il protagonista che correva sulla pista di atletica, saltava gli ostacoli eccetera. Se non mi sbaglio era un adattamento teatrale di Winterreise, il romanzo di Hölderlin sulla ricerca di una Grecia perduta. E la scelta di allestirlo lì, in un luogo così significativo...
L’ATLETA Non so se ce n’è davvero bisogno, di fare gli spettacoli negli stadi. Basta che ci vai in una domenica qualsiasi. C’è già una tale coreografia: i cori e i tamburi, la ola, le magliette e le sciarpe colorate, le bandiere... Ci hanno fatto persino dei dischi...
L’ATTORE Non dirglielo a Antonio Calbi, che vuole fare addirittura un festival con gli spettacoli negli stadi, nelle palestre, nelle piscine, nei poligoni di tiro... Però non dimenticare che, nella memoria personale e collettiva, i ricordi danno un significato, un senso ai luoghi. Non è un caso che chiamino lo stadio di San Siro “la Scala del calcio”. E anche il Giro d’Italia o il Tour de France, se fai certe salite come il Tourmalet o lo Stelvio...
L’ATLETA In bici? Ma non ce la fai di certo, a farti tutti quei tornanti...
L’ATTORE No, no, anche in macchina. Ecco, quando passi di lì ti ricordi un sacco di cose, costruisci una rete di simboli...
L’ATLETA Lo so, lo so: si chiama “risemantizzazione del territorio”.
L’ATTORE Ah, e quello noioso sarei io?
FINE TERZO ROUND
Vincitore del Terzo Round
L’ATLETA L’ATTORE
QUARTO ROUND. ELOGIO DELLA DIFFERENZA
L’ATLETA Fermo, fermo!!! È vero che risemantizziamo lo spazio in cui ci muoviamo, noi atleti e voi attori. Ma ci sono anche molte differenze tra lo sport e il teatro. Quando scendi in campo, non si sa mai chi vincerà e chi perderà.
L’ATTORE Questa è la differenza principale tra uno spettacolo teatrale e un gioco...
L’ATLETA Che qualcuno vince e qualcun altro perde?
L’ATTORE No, no. Ma in uno spettacolo qualcuno - l’autore, il regista, gli attori - il linea di principio sa come andrà a finire. Invece qualcun altro - il pubblico - non lo sa. In una partita invece...
L’ATLETA ...non lo sa nessuno, né i giocatori né il pubblico...
L’ATTORE E neppure l’arbitro, si spera!
L’ATLETA Perché la palla - dice il proverbio - è rotonda. Il favorito può imbroccare la giornata fiacca, oppure è la sua serata sfortunata. Dunque quando qualcuno combina una partita è una specie di sacrilegio.
L’ATTORE Almeno a teatro il destino te lo puoi costruire: e sarà un destino logico, necessario, immutabile, vaccinato contro i mulinelli del caso. Brecht, che era...
L’ATLETA Chi, scusa?
L’ATTORE Bertolt Brecht. Grande appassionato di boxe e amico di pugili. In una famosa foto in cui spiega il suo modo di lavorare, ha voluto che ci fosse anche un medio-massimo, Paul Samson-Körner. In primo piano, a destra, che suona il pianoforte, mentre il giovane Brecht...
L’ATLETA ...indossava i guantoni e boxava?
L’ATTORE No, era solo un tifoso, lo guardava e basta, nella foto. Per inciso, questo Brecht a te ignoto era anche un poeta, autore di liriche intitolate Targa celebrativa per 9 campioni mondiali - 9 pesi medi, per la precisione. Era anche un grande drammaturgo, forse il più grande drammaturgo del Novecento. Voleva portare a teatro i tifosi, quelli che si appassionano ai record e alla gesta dei campioni. Nei drammi che scriveva quando frequentava il ring, amava mettere a confronto due personaggi, come in un combattimento. E quando dava consigli agli autori di teatro - cioè a sé stesso - scriveva: “L’esito interiore di un incontro non può mai essere prestabilito; quello esteriore sì, perché lo esige la trama” (Bertolt Brecht, Scritti teatrali I, Einaudi, Torino, p. 27).
L’ATLETA Forse potresti inventare a uno spettacolo di cui nessuno conosce il finale. Magari diventerebbe più appassionante.
L’ATTORE Buona idea. Per esempio, uno spettacolo con diverse possibili soluzioni. La scelta si potrà fare tirando un dado o facendo scegliere agli spettatori. Oppure uno spettacolo fatto di tanti pezzetti che si possono recitare ogni sera in ordine diverso, senza sapere in anticipo quale sarà l’ultimo...
L’ATLETA La gamma delle possibilità in fondo è molto limitata. E anche in questo caso qualcuno ha previsto e conosce almeno i differenti finali accettabili, tra gli infiniti spettacoli possibili e impossibili. Forse si può pensare a uno spettacolo costruito tutto sul caso...
L’ATTORE Ci ha provato John Cage, con alcune partiture musicali. Ma il caso secondo te è interessante?
L’ATLETA Beh, per chi gioca d’azzardo senz’altro sì. Forse sei tu, mio caro, che hai disperatamente bisogno di aggrapparti a una trama, che vuoi credere di avere un destino e te lo fai raccontare sulla scena...
L’ATTORE In effetti neppure in teatro il risultato finale lo puoi conoscere in anticipo: le reazioni del pubblico, quelle non le puoi prevedere. Gli piacerà? Si annoierà? Capirà il senso del nostro lavoro?
L’ATLETA Sì, ma è un margine di variabilità troppo ristretto per i miei gusti. Vorrei qualcosa di più incerto... Non pretendo l’incendio del teatro, come nel Fantasma dell’Opera. Ma almeno un po’ di incertezza, di vera competizione.
L’ATTORE Qualcosa del genere esiste già: sono i match di improvvisazione teatrale, dove si affrontano due squadre e il pubblico è l’arbitro.
L’ATLETA Dev’essere divertente.
L’ATTORE Sta diventando un vero sport, è nato in Canada e da diversi anni è arrivato anche in Italia. Ci sono diverse squadre, una Federazione, un campionato...
L’ATLETA Chissà, magari l’improvvisazione teatrale tra poco diventerà una disciplina olimpica. Del resto alle Olimpiadi ci sono già diversi sport che hanno una forte componente teatrale e spettacolare: la ginnastica e il pattinaggio artistici, i tuffi, il nuoto sincronizzato, alcune arti marziali, lo snowboard, il surf...
L’ATTORE Sono sport che mi affascinano, perché non sono ossessionati dalla prestazione, da numero, dal record, dall’orologio. Mi piacciono soprattutto i nuovi sport, quelli che nascono nel rapporto con l’elemento naturale - le onde e il vento, la neve, la roccia. Gli sport dove si scivola, e quasi si danza...
L’ATLETA Si tratta di discipline in cui è difficilissimo dare valutazioni oggettive: non basta contare i secondi o i metri o i gol o i canestri. La valutazione deve essere fatta con altri criteri, da un gruppo di giudici. E sono criteri piuttosto complessi...
L’ATTORE Un po’ come quelli che usiamo per valutare uno spettacolo, o un film. Ci sono gli attori e i personaggi, la scenografia e i costumi, la sceneggiatura... Tieni presente che dietro allo sport e allo spettacolo non c’è solo una tecnica. C’è anche quella che noi teatranti chiamiamo drammaturgia. Ovvero, qualcosa che è stato preparato prima di comparire davanti al pubblico.
L’ATLETA Un copione? Nello sport non esiste, la sceneggiatura la puoi scrivere solo alla fine. Per esempio quando racconti la vita di un campione, le sue vittorie e le sue sconfitte. La sofferenza, il dolore, il successo e i trionfi, l’ascesa e il declino.
L’ATTORE Certo, certo, ci sono romanzi e film bellissimi che raccontano le biografie di molti campioni. Ma non è di questo che voglio parlare. Anche se non lo sai, anche se non te ne sei mai accorta - perché voi sportivi vivete senza alcuna consapevolezza, vi basta correre con o senza palla - ogni evento sportivo ha una sua drammaturgia. Non si tratta di un copione vero e proprio. Diciamo che della drammaturgia dello sport fanno parte le regole del gioco, che determineranno una serie di situazioni. Prendo gli esempi dallo sport più popolare, il calcio. Pensa alle situazioni che impone la regola del fuorigioco, o al modo in cui deve disporsi la barriera quando si calcia una posizione. E li vedi tutti quei drammi e microdrammi in area di rigore, quando devono tirare un calcio d’angolo? Ma non è finita qui. Ci sono quelli che si chiamano “ruoli” negli sport di squadra come in teatro: in campo trovi l’attaccante e il difensore, il mediano e il fantasista... Poi ci sono i colpi che compongono il repertorio di un giocatore: per l’attaccante, il colpo di testa, la rovesciata, la cannonata di sinistro, il pallonetto... Poi mi vengono in mente certe figure tipiche del gioco, come il triangolo, che mi ricorda moltissimo i duetti tra il comico e la sua spalla nell’avanspettacolo. Poi c’è l’atteggiamento con cui le due squadre scendono in campo, la più forte e la più debole, quella a vocazione difensivistica e quella che va sempre all’attacco, chi punta sulla forza fisica e la potenza atletica e chi sulla classe e sul palleggio... Insomma, tutti gli schemi con cui l’allenatore organizza la squadra...
L’ATLETA Ah, questo è un tema che mi appassiona. Perché è vero, in ogni gara c’è una specie di copione, una strategia. Negli sport di squadra come nelle gare individuali. Anche in una corsa ciclistica, in una gara di mezzofondo. Però poi c’è lo spazio per l’invenzione individuale, per l’ispirazione del momento...
L’ATTORE E’ quella che in teatro si chiama improvvisazione.
L’ATLETA Sul campo è il colpo di genio del fuoriclasse, quello che esce da tutti gli schemi e risolve la situazione a suo favore. E’ lo stesso discorso che abbiamo fatto per la tecnica: a un certo punto va superata, bisogna andare oltre.
L’ATTORE Dunque sei anche tu antisacchiana? Sai, anche in teatro ci sono i registi alla Sacchi, quelli che arrivano alle prove con il loro bello schema già fatto, tutto pensato in anticipo, e usano gli attori come marionette. Poi ci sono quelli che preferiscono creare una serie di situazioni dove gli attori possano diventare anche loro creatori, improvvisare, inventare... Il problema, in teatro, è fissare l’improvvisazione, fare in modo che possa essere ripetuta e che comunichi qualcosa.
L’ATLETA Mentre allo stadio è semplicemente un punto. E direi che questa volta l’ho segnato io.
L’ATTORE Ma prima qualche punticino l’avevo segnato anch’io, vero?
FINE QUARTO ROUND
Vincitore del Quarto Round
L’ATLETA L’ATTORE
Il combattimento prosegue: i nostri due protagonisti parleranno della sapienza del corpo, dell’improvvisazione, delle diverse attese del pubblico, della spettacolarizzazione dell’evento sportivo (determinata anche dall’invadenza della televisione), di Kierkegaard filosofo del salto e Nietzsche filosofo della danza, degli aspetti teatrali e agonistici dei Dialoghi di Platone, di rugby e nascita della tragedia (“Possiamo andare a teatro, e veder morire gli antichi dei. Al mio paese, che ormai non esiste più, i figli dei contadini come me, orfani della loro vita culturale, vanno a vedere il rugby, come se ne vivessero un po’. Ogni domenica, vivono le origini della tragedia. Senza il testo, naturalmente; e senza saperlo, fortunatamente”, Michel Serres, Le culte du ballon ovale, “Le Monde”, 4-5 marzo 1979), di “giochiamo che io ero Rivera e tu Mazzola”, di ossessione dell’orologio e della prestazione, di ansia del record... Ma forse, tra lui e lei sta per succedere qualcosa: dialogo teatrale, gara sportiva, gioco di seduzione...
Insomma, il match continua con la prossima edizione di Teatri dello sport.
Autoritratti dell'attore da giovane
Un piccolo questionario
2. Paolo Pierobon
Nell'editoriale di "ateatro 33" parlavamo di una nuova generazione d'attori e
lanciavamo l'idea di un piccolo questionario. Le prime risposte sono arrivate
da Michela Cescon (vedi "ateatro34"). Ora tocca a Paolo Pierobon.
Caro Oliviero,
ringraziandoti prima di tutto per la considerazione, proverò a rispondere ai tuoi quesiti di qualche editoriale fa:
:: I :: Perché ho scelto il teatro
Ho scelto di fare l'attore perché convinto che ciò volesse dire "vivere molte altre vite"! Figurati com'ero messo... Ero molto romantico, ma ero ragazzino, 17/18 anni. Ora è passato qualche annetto e sto capendo che fare l'attore o, meglio, essere attore significa (almeno per me) "togliersi la vita" per sostituirla con un'altra, ma sempre tua, ridotta all'osso, più autentica, bella o brutta poco importa.
E questo comporta un confronto costante con se' stessi, e una certa indispensabile urgenza di dire, di fare.
Ma non sempre è così. In alcuni spettacoli la routine (bastarda) la fa' da padrona. E hai voglia a chiamare l'urgenza. Lì "urge" smettere...ma poi? Chi paga?
All'inizio pensavo che questo mestiere mi consentisse di dimenticare la mia vita per viverne un'altra; ora, invece, sono obbligato a ricordarla, usarla, smascherarla per restituirla degna di un qualche interesse al gentile
pubblico.
Ho la netta sensazione di fare questo mestiere per il motivo esattamente opposto a quello per cui avevo deciso di iniziare.
:: II :: Il mio percorso di formazione
Sono entrato alla "Paolo Grassi" relativamente tardi, avevo 23 anni ma facevo teatro già da quattro/cinque anni e mi pagavano pure.
A 18 anni ero entrato nella compagnia "Teatro Studio 75", di Milano, formato da una formidabile coppia di gay napoletani già avanti con gli anni, un'attrice-danzatrice
che aveva lavorato nel MacBeth di Glauco Mauri (lo ripeteva ogni mattina in camerino) e l'ultimo acquisto, il sottoscritto, attor giovine, addetto ai pupazzi, al mixer (la fonica e le luci erano in quinta perchè la presenza
di un tecnico avrebbe sforato il budget), nonché interprete di una indimenticata Fata Turchina in un Pinocchio delirante per le scuole dell'hinterland milanese.
Avrebbero dovuto vietarlo ai minori. il tutto per 50.000 al dì. Ma si lavorava al mattino e quindi al pomeriggio facevo la statua vivente o quello che capitava per tirar su un po' di soldini.
Alla sera ero attore al Teatro dei Chiostri in Via Pontaccio (Brera) per la fresca regia di Enrico D'Alessandro, ex aiuto-regista di Anton Giulio Bragaglia! (E lo ripeteva ogni sera in camerino..!).
Quattro anni di "teatraccio" a tempo pieno.
Questo era il mio background prima di entrare in "Paolo Grassi".
I seminari e i laboratori teatrali non sapevo proprio cosa fossero e neanche adesso, devo dire....
:: III :: Gli incontri professionali che mi hanno segnato
Alla "Paolo Grassi" la cosa buona era che si allestivano spettacoli per un pubblico esterno. La sede era ancora in Corso Magenta.
Il 3° anno, l'ultimo, ci trasferirono in via Salasso, ma io non c'ero mai perché lo Stato mi aveva precettato a Como a svolgere il servizio civile come lettighiere in Croce Rossa! Un anno terrificante: passavo da un infartato
da soccorrere a un sonetto di Shakespeare da mandare a memoria. Andavo a scuola solo il giovedì, il venerdì e il sabato.
Se non fosse stato per Massimo Navone e Giampiero Solari che si impuntarono per non farmi bocciare a quest'ora non avrei neanche uno straccio di diploma.
A scuola ho avuto come insegnanti Massimo Navone, Marco Paolini, Andrea Novicov, Roman Shiwulak, Giampiero Solari, Kuniaki Ida e Maura Molteni, tutti bravissimi.
:: IV :: Il mio ruolo all’interno del teatro italiano
:: V :: Gli esempi che ho seguito
Tra le altre, conservo nel cuore le seguenti folgoranti performance:
a - Dario Fo in una Storia della Tigre all'Arco della Pace tanti anni fa.
b - Eduardo De Filippo in Filumena Marturano.
c - Carmelo Bene nel film Nostra signora dei turchi (bello anche il romanzo!)
d - Cesco Baseggio nei Rusteghi.
e - Carlo Cecchi Ritter Dene Voss.
f - Leo De Berardinis Totò, principe di Danimarca.
g - Franco Branciaroli In Exitu, Sfaust.
ma potrei elencarne tante altre soprattutto cinematografiche.
:: VI :: Il rapporto con la nuova drammaturgia made in Italy
Finalmente questa estate affronto un testo di un drammaturgo italiano (vivente!): Edoardo Erba
Il laboratorio delle immagini
Anne-Marie Duguet, Déjouer l’image. Créations électroniques et numériques, Editions Jacqueline Chambon, Nîmes, 2002
di Simonetta Cargioli
Anne-Marie Duguet è conosciuta a livello internazionale per le sue ricerche sul video e le arti elettroniche e le sue pubblicazioni sono contributi essenziali per la comprensione di forme d’arte felicemente sfuggenti alle classificazioni tradizionali. Con altri studiosi, critici e teorici dalla fine degli anni ’70 ha contribuito alla creazione e all’articolazione di un corpus di studi sulle nuove immagini e sulle pratiche - di produzione e di ricezione - che esse inevitabilmente comprendono. Citiamo alcune delle sue più importanti pubblicazioni: Vidéo, la mémoire au poing, Hachette, 1981; il numero 48 di «Communications», Vidéo, curato assieme a Raymond Bellour, la prima pubblicazione di ampio respiro dedicata alla “cultura video”, del 1988 (contemporanea di un’altra antologia storica e pionieristica, curata da Rosanna Albertini e Sandra Lischi, Metamorfosi della visione. Saggi di pensiero elettronico, ETS, Pisa); Jean-Cristophe Averty, catalogo della mostra da lei curata al Jeu de Paume, 1991; e poi negli anni ’90 molti saggi e testi apparsi in cataloghi, riviste, antologie in Francia e in altri paesi. Dirige anche la collezione “Anarchive”, dvdroms e progetti su internet con e su alcuni autori: nel 1999 è uscito il primo titolo, Muntadas Media Architecture Installations ed è in preparazione il dvd su e con Nam June Paik.
In Italia, Anne-Marie Duguet è conosciuta grazie alle traduzione dell’ormai famoso Dispositifs (in Vidéo) saggio sulle videoinstallazioni, pubblicato nel numero 15 de «Il Nuovo Spettatore», curato da Alessandro Amaducci e Paolo Gobetti nel 1993; e alcuni altri saggi pubblicati in Metamorfosi della visione.
Quest’ultimo lavoro dal titolo un po’ enigmatico è una raccolta di quei saggi che hanno marcato la critica e la teoria internazionali sulle arti elettroniche ed è quindi l’occasione per avere nella propria biblioteca tutti i testi altrimenti troppo difficilmente reperibili in Italia. Non ci sono testi nuovi di teoria e di critica a parte l’introduzione, che è una sorta di lettera al lettore con una dichiarazioni di poetica, di impegno, di passione.
«Questi saggi sono prelevati in un insieme di riflessioni sul video e i nuovi media che mi occupano dalla fine degli anni ’70. Testi di critica, testimoniano prima di tutto di alcune passioni e stupori, di curiosità e di emozioni che hanno nutrito - malgrado i rifiuti, i sospetti generali - questa ipotesi tutto sommato abbastanza elementare: delle opere suscettibili di sollecitare, risvegliare la sensibilità e l’intelletto potevano risultare dall’uso di media elettronici e digitali».
Più avanti, cominciamo a entrare nella poetica del mestiere di critico, così come è professata da Anne-Marie Duguet: si tratta sempre di partire dalle opere, di cercare di stare dalla loro parte, per cogliere i cambiamenti dell’arte, della cultura, della società. I testi si suddividono in due grandi gruppi: il video e il digitale. Nel primo gruppo, partendo sempre dalle opere, ritroviamo i testi dedicati ad autori che hanno tra loro forti affinità: Peter Campus, Bill Viola e Thierry Kuntzel. Nei sette testi, pubblicati tra il 1985 e il 1994, sono analizzate le poetiche degli autori e non solo i loro modi di produrre immagini, quanto e prima di tutto le loro visioni del mondo che diventano scrittura audiovisiva.
Più precisamente, le problematiche - artistiche, estetiche, teoriche e critiche - connesse alle videoinstallazioni preoccupano da sempre Anne-Marie Duguet e occupano la maggior parte della sua riflessione e dei suoi scritti. L’installazione perché è una «forma singolare, libera, che reinventa le proprie regole in ogni momento. Nella misura in cui tutte le tecniche, materiali e discipline possono incontrarsi nell’installazione, essa autorizza le ibridazioni più fertili, i giochi nello spazio e le appropriazioni più inattese. […] L’ho considerata prima di tutto come uno spazio di ricerca dove le esperienze dello spettatore rispondevano a quelle dell’artista, dove la rappresentazione era testata in tutti i suoi stati, in tutte le sue possibilità». Questa prima sezione sul video si apre con il saggio Dispositifs, nel quale sono analizzate alcune videoinstallazioni realizzate tra il 1969 e il 1975, opere che si costituiscono come luoghi critici attraverso principalmente una decostruzione del dispositivo della produzione e ricezione delle immagini e delle condizioni, forme e norme che definiscono la rappresentazione.
Nel secondo gruppo sono raccolti quei testi, scritti nel decennio ’90, dedicati più precisamente alle nuove tecnologie di elaborazione dell’immagine, agli sviluppi delle videoinstallazioni e videoambienti a seguito delle ricerche più avanzate nel campo dell’interattività e del virtuale. Questa seconda parte è più eteroclita: leggiamo i testi su Jeffrey Shaw - tra gli artisti più conosciuti che lavorano oggi con il virtuale, ma il cui percorso creativo affonda le radici nella performance, nelle esperienze di “cinema dilatato” degli anni ’60 -; i saggi sulla sintesi del corpo e sulla simulazione; sulla prospettiva rielaborata nello spazio digitale; sulle modalità percettive negli ambienti virtuali; sulle problematiche connesse agli archivi multimediali.
La riflessione si snoda dal video, che emerge come un laboratorio che a partire dagli anni ’70 ha autorizzato feconde e trasgressive sperimentazioni e ricerche, sino alle forme artistiche attuali interattive e virtuali, delle quali sono messe in rilievo gli elementi di continuità con precedenti ricerche nel campo dell’arte nonché gli elementi di cesura e infine le innovazioni.
Il vero protagonista del libro è l’immagine; questo strano oggetto del nostro desiderio … Sono qui ritracciati alcuni dei destini dell’immagine, di cui siamo testimoni da gli anni ’60, dall’avvento del video che ha significato, più del cinema, un’aumentata possibilità di manipolazione, di alterazione, di metamorfosi. Con il video, l’immagine ha perduto molto della sua autonomia e della sua forza.
«Diremo che ci sono due modi principali di essere o di non essere dell’immagine in molte installazioni attuali, o ancora due modi di dimenticarla: un primo modo, nel caso in cui essa è tutto, solo riferimento di una proiezione spesso ambientale in una sala scura; un altro modo, quando essa è poca cosa, ormai semplice polo di un sistema che implica elementi molteplici, o terminale che permette di visualizzare la posta in gioco che si svolge altrove, nelle circolazione dei dati su Internet, ad esempio». L’immagine esce dai monitor e dagli schermi del computer, diventa scena che si dilata dappertutto, diventa ambiente che invita l’osservatore ad assumere dei comportamenti diversi, introducendo delle dimensioni ludiche e pragmatiche. E allora poco per volta cominciamo a capire il titolo, Déjouer l’image, per il quale non esiste una traduzione letterale in italiano e che anche in francese richiede qualche parola in più: «…è infiltrarsi nell’immagine per deviarla, è rigirare le sue convenzioni mostrando e attivando i suoi parametri in tutti i modi, è intrappolarla per dominarla, e così scuoterne un po’ il potere e la certezza. Ma forse vuol anche dire fare a meno di lei, girarle attorno».
Déjouer l’image; jouer vuol dire giocare, suonare (uno strumento), rappresentare (a teatro) e anche recitare… tutti azioni, performances. In modo singolare ma acuto, Anne-Marie Duguet ci invita, nell’epoca dell’immagine che ci circonda ovunque, a relativizzarla, a vederla e toccarla nella sua fragilità, a giocare con lei interrogandoci sulle nuove pratiche artistiche che sono ai margini dell’immagini stessa. Come da sempre, negli spazi piccoli, negli interstizi spesso marginali, avvengono le cose più interessanti e innovative.
Déjouer l’image è accompagnato da un cd-rom con gli estratti di opere video, documentazioni di installazioni, schemi, fotografie relativi a opere e autori trattati nei saggi.
|