ateatro
n. 24 - 23 novembre
2001
a cura di Oliviero
Ponte di Pino
in collaborazione
con Anna Maria Monteverdi
INDICE
Intanto sono online i primi risultati della ricerca NOFRET (in anteprima per "ateatro", manythanks to Giovanna Fellegara) di cui avevamo parlato nel numero 16. Se vuoi, puoi andare direttamente alle slide riassuntive, ma ci vuole un pc non troppo vecchio e con qualche plug in.
"La
guerra la narravano già, come se fosse già accaduta"
Una
riflessione sul "teatro di guerra"
di
Federica Fracassi e Renzo Martinelli
Un
angelo azzurro con le ali tagliate
Alcuni
recenti contributi di Giorgio Albertazzi alla cultura teatrale italiana
(dalle
pagine del "Corriere della Sera")
a
cura di Federica Fracassi e di Oliviero Ponte di Pino
Teatro,
arte della (tele)visione
A
margine di La scène et les images
di
Anna Maria Monteverdi
London
Calling
La
corrispondenza da Londra di Francesca Lamioni
Che
fare?
I
tuoi (indispensabili) consigli per migliorare olivieropdp/ateatro
COMUNICAZIONI DI SERVIZIO
Per i miei fans (ce ne sono?) da sabato 17 novembre, alle 14, su Radiotre, conduco il glorioso Grammelot (programma di Patrizia Todaro a cura di Elio Sabella, che guida in redazione Nicola Pedone e Stefania Fioravanti) dallo studio di corso Sempione (Milano) con Gaia Varon. La redazione non vede l'ora di essere seppellita da mail grammelot-spettacoli@rai.it, fax e telefonate (02-34531140).
Imperdibili
i due CD pubblicati da Garzanti Libri: Marco
Paolini interpreta Marco Calzavara
e Sandro Lombardi interpreta Pier
Paolo Pasolini. Intanto potete ascoltare
due brani in anteprima: Marco Paolini interpreta l'irresistibile Can,
Sandro Lombardi la struggente Supplica
a mia madre.
Per
altre info, leggete l'intervista sul progetto di "Alice" a Oliviero
Ponte di Pino, oppure visitate le pagina del sito Garzanti
dedicate ai due cofanetti. A questo punto sapete già cosa dovete
regalare per Natale ad amici, parenti, innamorati... Anzi, potete richiedere
i due cofanetti subito subito da internetbookshop: Paolini-Calzavara
(prezzo di copertina 27.000 lire) & Lombardi-Pasolini
(prezzo
di copertina 25.000 lire). Insomma visto il rapporto prezzo-qualità,
farete un figurone!!!
Il forum sul teatro di guerra, visto anche quello che sta accadendo al Teatro di Roma, è abbastanza attivo. Segnalo tra tutti i contributi di Paolo Petroni (sulle responsabilità della sinistra) e quello di Mimma Gallina (sui conflitti d'interesse all'interno dei CDA degli stabili). E poi leggete qui sotto, alcune gesta albertazziane...
Teatro di guerra anche a Verona, con la minaccia di sgombero di interzona, una realtà importante e viva della scena italiana. Interzona sta raccogliendo le firme per una petizione. Insomma, date un'occhiata (e magari firmate).
Implacabili, lunedì 26 al Teatro Grassi di via Rovello, ore 18, i PREMI UBU. Trovi le nominations nel forum (e puoi anche commentarle...). Se proprio non ci potete essere, ne parlo a Radio3 intorno alle 20 (e do i nomi dei vincitori).
Tra le novità in libreria, Ripensare Shakespeare di Brian Vickers, ovvero "Questioni di critica contemporanea", una ampia rassegna delle letture contemporanee del Bardo, più o meno opinabili. Lo pubblica Sansoni, costa 74.000 lire, puoi ordinarlo al solito su internetbookshop ma lo puoi comprare solo se hai già Tutto il teatro di Shakespeare in CD-rom.
Imperdibile: Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999. |
"La
guerra la narravano già, come se fosse già accaduta"
Una
riflessione sul "teatro di guerra"
di
Federica Fracassi e Renzo Martinelli
Abbiamo promesso a noi stessi e
a Oliviero Ponte di Pino di prendere voce e parola dopo tutti questi mesi.
In fondo il forum "Fare un teatro di guerra" è stato aperto anche
in seguito a una iniziativa di Teatro Aperto, che il marzo scorso in collaborazione
con il C.S.Leoncavallo aveva riunito critici, artisti e spettatori intorno
a questo tema, rubandolo a Mario Martone, al suo film.
La discussione era stata accesa
e profonda, gravida di questioni. Si rifletteva sul ruolo del teatro in
guerra e soprattutto in pace. Il teatro a Milano, in Italia, all'estero.
Il teatro come comunità, che crea comunità, che parte da
una comunità. Il teatro diviso e che divide.
Poi Oliviero aveva lanciato una
domanda: "Ma che ruolo ha il teatro in guerra? Continua ad avere un ruolo
il teatro in un paese veramente devastato dalla guerra?" Allora avevamo
in maggioranza risposto di sì. Il teatro è la nostra battaglia
e se ci fossimo trovati in guerra avrebbe continuato ad avere senso ostinarsi
a impugnare le armi della poesia. Questo è ciò che un artista
sa e dovrebbe fare. È il nostro contributo.
È ancora valida oggi questa
convinzione? Dopo l'11 settembre il teatro può continuare a essere
una risposta?
Forse nulla è cambiato,
ma di sicuro molto si è disvelato anche agli occhi meno attenti.
Ora è chiaro a tutti che i giochi sulle nostre teste sono più
grandi e intricati. Ora è chiaro a tutti che l'economia decide i
destini. È chiaro che ognuno di noi, essere comunicante, può
uccidere e destabilizzare. Ora tutto muta, anche il concetto di guerra,
anche le armi da impugnare, anche la dissidenza dal gioco delle forze…
Che fare?
UNA CIPOLLA DA SFOGLIARE
In marzo erano i tempi delle dimissioni
forzate di Martone dal Teatro di Roma (oggi apprendiamo che Giorgio Albertazzi
potrebbe essere il suo sostituto, "il nuovo che avanza", con buona pace
della sinistra e della destra che si sono spartite le sedie di un teatro
pubblico nel solito indegno modo). Erano i tempi della campagna elettorale
che ha portato al Governo italiano Silvio Berlusconi. I tempi del Satyricon
blindato di Luttazzi (querelato dallo stesso Berlusconi con richiesta di
danni per miliardi, perché bisognava secondo "qualcuno" imbavagliare
anche la satira).
L'onda di orrore si è gonfiata
impercettibilmente sotto i nostri occhi. È stato il luglio di Genova,
teatro di guerra di un giovane morto in pace. Il luglio dell'orrore dei
pestaggi a Bolzaneto, una pagina di storia italiana che non avremmo mai
voluto vedere scritta. Il Teatro di Porta Romana a Milano ha ospitato una
serata autogestita con filmati e riflessioni e la sala e le strade accanto
scoppiavano di persone che tornavano a partecipare, come diceva Elio De
Capitani, ci si sentiva di nuovo un po' meno soli e attraversati dalla
storia, una storia che riguardava tutti, senza possibilità di fuga.
E poi un'estate torrida per noi
e cruda a lavorare intorno ai testi di Sarah Kane, suicidatasi a soli 28
anni dopo aver puntato il dito contro l'orrore… "questo non è un
mondo in cui ho voglia di vivere".
Una catena di eventi estranei tra
loro solo in superficie.
Ci risiamo.
L'attentato alle torri gemelle
dell'11 settembre, i primi bombardamenti sull'Afganistan…
Siamo in guerra.
E dovrà pur significare
qualcosa se il 90% del Parlamento si è schierato a favore dell'intervento
italiano.
Si allontana sempre più
l'utopia di un mondo diverso, un'utopia considerata dai più infantile
e ridicola.
Si moltiplicano i significati e
i simboli. Ogni bomba è un messaggio stratificato: religione, società,
economia… una cipolla da sfogliare senza che si riesca, nella maggior parte
dei casi, ad arrivare a un cuore, a un centro.
Che fare?
La realtà è che la
guerra da sempre è la normalità e la pace un'eccezione.
E in più... in mezzo ad
altre guerre "minori" e quindi non degne di nota, questa è una guerra
all'altezza dei tempi, intelligente, che ha presenza televisiva, che spacca
lo schermo. E lo schermo ospita tutti i leader, di tutti i partiti, tutti
gli opinionisti di tutte le opinioni: una grande occasione per chi appare
via etere, che si porta a casa, come i produttori di armi, le assicurazioni
eccetera; un piccolo tornaconto. (Questa volta alle compagnie aeree e alle
agenzie turistiche invece è andata male!!!)
Questa è una guerra particolare,
contro un nemico mirato: il terrorismo.
I terroristi mi danno l'alibi:
per uccidere, per mantenere dritti l'economia e il potere.
Se uccido per sbaglio, posso con
l'altra mano versare su un conto corrente un contributo in denaro che al
contempo aiuta i profughi, gli orfani e le vedove, che io ho reso tali
e mi alleggerisce la coscienza. Se ferisco, posso lenire le ferite. Se
tolgo il pane, posso sfamare.
ESSERE e NON ESSERE TEATRO DI GUERRA
È difficile prendere la parola
nel mezzo del chiacchiericcio generale. Abbiamo anche questo privilegio:
siamo in guerra e possiamo comunque chiacchierare, discutere in salotto
davanti a immagini che arrivano da lontano, da luoghi che non abbiamo mai
visto.
Le nostre nonne le avevano qui
le guerre, due e mondiali, e invece ora il teatro di guerra è da
un'altra parte, in un altro mondo: l'Afganistan. Non qui, come non lo era
quando si bombardava Belgrado. Teatro di guerra sono tutti i paesi di cui
non si parla perché non fanno numero, immagine, notizia. I paesi
"di meno" dove si continua a combattere.
Essere o non essere teatro di guerra
ha sempre fatto la differenza. Infatti gli Stati Uniti, oltre allo strazio
dei morti, sono stati colpiti simbolicamente l'11 settembre, perché
per la prima volta dalle guerre d'indipendenza il loro suolo è stato
teatro di guerra. Nella guerra vera, militare, si contano i morti, si vive
il lutto composto e straziato. Ci sono volti precisi che ci lasciano per
sempre. In quel caso la rabbia dà la forza di ricostruire le proprie
case, si sa contro chi scagliare le proprie maledizioni o il proprio perdono.
Forse in quel caso per sopravvivere, per reagire si fa teatro. Paradossalmente
ci viene da pensare così, rilanciando la domanda di Oliviero. Forse
in quel caso è più alta la necessità di testimoniare.
Ma noi qui siamo e non siamo teatro
di guerra. Arruolati, senza che ce ne accorgessimo, combattiamo una guerra
economico-sociale senza paragoni. Ma sulle nostre vite non cadano bombe.
E cosa può essere il teatro
in tutto questo?
Di sicuro una casa, un monito,
un'etica, non la spettacolarizzazione di cui tutti parlano: "la realtà
ha superato qualsiasi film di Hollywood", come se l'arte fosse solo un
insieme di brividi estetizzanti e la dimensione etica fosse perduta per
sempre, come se la finzione fosse la norma e la realtà non potesse
più stupirci.
Ma il teatro dovrebbe essere soprattutto
presa di coscienza, meditazione, preveggenza. Il teatro, anche da lontano,
ha a che fare con la realtà, con i morti.
LA MALATTIA DEI MONDI DIVERSI
Le voragini provocate nel terreno
dai bombardamenti sulle popolazioni afgane non riescono a scuotere il nostro
immaginario tanto quanto un aereo civile che si schianta contro un grattacielo
in una centralissima New York.
E questa è la prima amara
constatazione. Potete raccontarci che il secondo caso ci scuote di più,
perché l'attentato terroristico alle torri gemelle è senza
paragoni nella storia, ma la differente temperatura delle nostre emozioni
ha un solo significato: anche dentro i nostri simboli si è insinuata
la cattiva malattia dei mondi diversi.
I confini sono disegnati sulle
carte con troppa disinvoltura.
Non c'è più un unico
mondo, ma più mondi messi in classifica a seconda del loro potere,
monetizzati. I confini vengono tracciati e ritracciati a seconda delle
occasioni, delle comodità, del valore strategico.
Se la mente è soggiogata
nello sguardo e a livello inconscio fa una graduatoria dell'orrore… la
nostra mente pacifica, le nostre mani. Se a noi, abituati allo scambio
e alle differenze succede questo, allora cosa può fare questa malattia
a chi ne è afflitto seriamente?
Servono nomi? Bin Laden, i ragazzi
palestinesi che gioivano davanti al crollo delle torri, Oriana Fallaci
nel suo articolo, Sharon. Sono malati gravi tutti coloro che gioiscono
della propria supremazia economica, culturale e religiosa e cancellano
il diverso per il quale non riescono neppure a sentire pietà. Siamo
nelle divisioni. Siamo nel pieno centro della devastazione.
Ma i nomi non sono il problema.
Perché ci siamo ammalati? Questa è la questione più
importante.
Ma come è potuto accadere,
che nonostante le denunce di ciò che nel mondo non andava, nulla
sia stato fatto?
Come è potuto accadere che
le nostre menti e le nostre emozioni siano così assuefatte al peggio,
incapaci di empatia?
Com'è potuto accadere che
ci possiamo credere liberi e siamo invece così soggiogati a simboli
e a poteri che ci sorridono con la nostra stessa faccia e predicono la
nostra distruzione?
Perché siamo diventati nemici
a noi stessi?
Come può accadere che solo
qualcosa che supera Hollywood possa scuoterci, possa scuoterci proprio
perché è così simile a Hollywood?
Perché il dramma del Sudan,
dove noi siamo stati e possiamo testimoniare, il dramma dell'Algeria, del
popolo curdo non ci fanno versare neppure una lacrima? Perché i
Taliban, cresciuti a pane e CIA, appoggiati strategicamente e indirettamente
da Washington, hanno agito indisturbati fino a oggi, davanti a tutti noi
che dormivamo sonni tranquilli sui nostri scaldasonno telecomandati?
CI TOLGONO IL FUTURO
Carla Benedetti, un'amica, a New York, dopo una settimana dagli attentati in una lettera aperta che nessun quotidiano italiano ha voluto pubblicare, ci scriveva:
Insomma
per parecchi giorni qui l'unico a pronunciare la parola "guerra" è
stato Bush nel suo discorso ufficiale in televisione. Sui giornali italiani
invece la parola era già uscita dalle virgolette del discorso di
Bush, e trionfava nei titoli, negli articoli di cronaca, nei commenti di
politologi, uomini di cultura e letterati. Il confronto per me è
stato scioccante. I giornali italiani la guerra la narravano già,
come se fosse già accaduta; la prevedevano come "guerra lunga",
"senza frontiere"; la definivano, addirittura la storicizzavano come "terza
guerra mondiale"...
La
prelevavano da un futuro immaginato come già dato, anticipato apocalitticamente
per l'emozione di tutti: sia di coloro che la guerra la vogliono sia di
coloro che la paventano. I media americani e quelli italiani parlavano
dello stesso evento. Eppure qui era ancora solo l'atto terroristico più
terribile che si sia mai dato, era l'attacco, il disastro, l'orrore, il
lutto. Per quelli italiani era "la guerra del XXI secolo cominciata martedì
11 settembre".
Come
dicevo non è durato a lungo neanche qui. Ma qui è cominciato
dopo. Ci sono stati quattro o cinque giorni di sospensione, in cui la realtà
ha avuto il sopravvento sulla sua verbalizzazione: la realtà concreta
dei soccorsi, delle ambulanze, del fumo, del lutto. In questo "intervallo"
ho fatto in tempo a accorgermi di quanto la stampa viva di interpretazioni.
So ovviamente che il confine tra informazione e interpretazione è
labile. Ma in questo caso è fin troppo percepibile. C'è un
abisso tra raccontare l'atto terroristico più terribile della storia,
interrogarsi sulle cause e sulle possibili conseguenze, riportare il discorso
di Bush, intervistare esperti di politica internazionale, capi di stato,
esperti di terrorismo ecc., e invece titolare "È guerra!".
È
ovvio che interpretare i fatti che accadono sia un'attività vitale.
Ma una cosa è interpretare i fatti, altra cosa è interpretare
il futuro. Scrivere "è iniziata la terza guerra mondiale" equivale
a predire il futuro. E ognuno di noi sa come la parola che predice sia
intessuta di potere. Descrivere ciò che sta per avvenire contribuisce
alla sua realizzazione.
Quante
cose invece sono ancora aperte e incerte! Quante cose potrebbero farsi
oggi in politica internazionale come nella vita civile, a favore della
distensione, della tolleranza, per diminuire l'oppressione economica sui
paesi poveri, per diminuire i rischi ambientali, per un altro modello di
sviluppo. Tutti questi argomenti che ancora ieri erano all'ordine del giorno,
prima e dopo il G8, oggi ci possono venir tolti di forza. Questo è
in gioco ora, prima della guerra. La certezza della guerra imminente alimentata
dai media, anche quando non viene usata politicamente, anche quando è
semplicemente paventata come apocalisse, o usata per spettacolarizzare
l'evento, ci fa perdere tutto questo. I "futurologi" che scrivono sui giornali
ci tolgono il futuro. Tolgono al futuro un po' della sua apertura.
Esatto: ci tolgono il futuro e noi
neanche ce ne accorgiamo, perché chi ci toglie il futuro ha la nostra
faccia e il nostro stesso sorriso. La banalità del male:
così è stato tradotto un testo di Hannah Arendt sul processo
a Eichmann. Il male non ha un volto così mostruoso, ma i nostri
stessi volti, un po' grigi e con le occhiaie.
Così nel teatro, così
nella vita politica di questo paese, divisi anche all'interno dello stesso
partito perché, in fondo, troppo uguali.
La maggior parte delle volte sarebbe
già eroico non stare al gioco e puntare il dito.
Ma tutto è chiacchiericcio
pastoso.
Nonostante le urla di una minoranza
inascoltata che ci mostra il re nudo.
IL NOSTRO COMPITO È MOSTRARE LE SBARRE
Cosa può dire o fare il mondo
del teatro dopo l'11 settembre?
Ha senso continuare a fare teatro
in questa particolare guerra, questa guerra onnivora di cui abbiamo abbozzato
il volto?
La tua domanda di marzo, caro Oliviero,
assume in questi giorni di riflessione una profondità nuova, che
forse l'anno scorso non era così palese, neanche per te che l'avevi
posta.
Cosa può fare il teatro
che non dovesse o potesse fare anche prima, se da anni viviamo un "ground
zero" spirituale oggi sotto gli occhi di tutti, da cui l'arte dovrebbe
partire a costruire?
Abbiamo sempre mal digerito le
mediazioni, che siano politiche, economiche, culturali. Abbiamo sempre
diffidato dei mille salamelecchi che sputtanano il nostro ambiente. Esistono
sempre più persone che parlano d'arte, le vivono accanto, ma dall'arte
non si fanno attraversare e ferire veramente.
E forse tra le mille domande una
risposta può essere questa.
Il teatro può rilanciare
e insistere
Deve continuare a farsi ferire
e a ferire con più forza.
Forse è proprio il teatro
l'unico ad avere il diritto/dovere di essere in guerra permanentemente.
Il teatro può mettere le
mani in pasta ed essere più reale e cattivo della realtà
più vera.
Il teatro può fare a pugni
per difendere quel "minore" che va perduto, per difendere la particolarità
e la bellezza dei saperi, la diversità e per coltivare coscienze
che sappiano dialogare anche se non appartengono allo stesso condominio.
Il teatro può distruggerlo
il condominio, e le chiese, e le sette, e i finti intellettuali tra le
tartine dei vernissage.
È giunto il momento di fare
il punto sulla salute del mondo.
Di una cosa siamo certi: questo
clima di guerra sarà utilizzato soprattutto per far tacere le opposizioni
e il teatro come luogo di scambio e di incontro tra esseri umani, come
luogo di creazione ha il dovere di tenere vive le voci più flebili.
Noi che facciamo teatro dobbiamo
mostrare le sbarre, e assumersi questo compito sarebbe già molto,
mostrare le sbarre di cui ogni mondo inevitabilmente si circonda se si
prende troppo sul serio e che porta a questo deserto dello spirito in cui
può scuoterci solo ciò che è vicino a Hollywood, ciò
che Hollywood decide di farci vedere.
Sempre Carla Benedetti da New York:
Un amico mi ha scritto dall'Italia con amarezza: "Voi lì siete una minoranza. Voi avete visto la cosa, mentre il resto del mondo ha visto la cosa in immagine, cioè LA COSA VERA". Sul momento mi era parsa una frase assurda. Poi ho capito cosa volesse dire.
Un
angelo azzurro con le ali tagliate
Alcuni
recenti contributi di Giorgio Albertazzi alla cultura teatrale italiana
(dalle
pagine del "Corriere della Sera")
a
cura di Federica Fracassi e di Oliviero Ponte di Pino
Nella
sua rubrica quotidiana, rispondendo alla lettera di un lettore del "Corriere"
sulla polemica Albertazzi-Teatro di Roma, Paolo Mieli (ex-direttore del
giornale e ora autorevole editorialista) premette di non essere un esperto
di teatro, e dunque evita di affrontare questo argomento. In questo modo,
riduce la questione a bega politica, attaccando i giornali e giornalisti
di sinistra che disprezzerebbero Albertazzi per motivi ideologici. Potrà
anche essere, ma proprio per questo motivo la questione andrebbe affrontata
nel merito: Giorgio Albertazzi è una persona adatta per dirigere
il Teatro di Roma?
Il
"Corriere della Sera" ha sempre seguito con attenzione la carriera del
grande attore toscano. Federica Fracassi ha raccolto con pazienza dal sito
internet del giornale qualche traccia del suo contributo alla cultura teatrale
italiana.
Insomma,
per farsi un'idea più precisa delle qualità del candidato
Albertazzi, a Mieli sarebbe stato sufficiente documentarsi leggendo il
giornale su cui scrive quotidianamente. E forse avrebbe capito meglio le
ragioni dell'opposizione alla sua resistibile ascesa. (olivieropdp)
La classe di Albertazzi e Proclemer
sprecata in un debole testo di Ludwig
Mamma, il regista ha perso l'aereo
di Giovanni Raboni
"Ogni tanto (non spesso) si riesce
persino a ridere; è tuttavia impossibile non chiedersi con stupore
per quale ragione due attori che si sono presi e ci hanno dato tante soddisfazioni
di tutt'altro genere, abbiano deciso di mettere il proprio talento al servizio
di un testo così palesemente e irrimediabilmente di terz'ordine,
uniformandosi perdipiù ai toni e ai ritmi di una regia da situation
comedy televisiva. Si esce dallo spettacolo - parlo per me, sia ben
chiaro - con il senso di una sconfitta gratuita, di una resa umiliante
che non sarebbe stato difficile evitare."
(Giovanni Raboni, "Corriere della
Sera", 27 gennaio 1997, a proposito di La luna degli artisti di
Ken Ludwig regia di Tonino Pulci)
L'attore 71enne ritrova un personaggio
caro a Mastroianni. E per il festival di Taormina chiama Harold Pinter
e fa debuttare Francesca Neri
Albertazzi in scena sarà
il libertino vecchio e stanco
di Emilia Costantini
"Dice l'attore: "Sì, ma
io non mi identifico con questo personaggio. Io sono un ragazzo, sono troppo
vitale e ottimista e soprattutto, anche volendo, non riesco ad invecchiare.
Sembrerà strano, ma piaccio ancora molto alle donne. Ho sempre avuto
e continuo ad avere tutte le caratteristiche tipiche del libertino - prosegue
Albertazzi ­ La mia partner dev'essere bugiarda, deve tradirmi,
deve saper simulare situazioni, lavorare di fantasia e inventare. Questo
è il rapporto erotico, è teatro".
Ma spesso le donne lo deludono:
"All'inizio mi soddisfano, ma poi cominciano ad essere possessive, a volersi
accasare. Ancora oggi, cominciano a chiedermi: "Perché non facciamo
un figlio? Perché non dormiamo insieme?". Ma io non voglio figli
e soprattutto voglio dormire da solo, perché solo così mi
rilasso. L'eros è fatto per gli amanti, non per marito e moglie".
(...)
Harold Pinter sarà ospite
della prossima edizione (del Festival di Taormina), che si svolgerà
tra luglio e agosto. Il grande drammaturgo inglese curerà personalmente
la regia di un suo testo, Ceneri su ceneri, interpretato da Lindsay
Duncan e Stephen Rea (l'attore che nel film La moglie del soldato
era nel ruolo del terrorista). Dice Albertazzi: "Non è stato facile,
ma sono riuscito a convincerlo. Il lavoro sarà rappresentato nel
piccolo teatro del Palazzo dei Congressi: era necessario uno spazio raccolto"."
("Corriere della Sera", 29 marzo
1997)
Ma la Tangentopoli di Fo non
è un mistero buffo
di Giovanni Raboni
"A non essere rispettate sono invece,
almeno a questo punto del famoso rodaggio, le aspettative di uno spettacolo
incisivo o almeno divertente, di un racconto che decolli al di là
e al di sopra delle proprie scontate e conclamate intenzioni, di un linguaggio
che non si limiti a riproporre meccanicamente, faticosamente, stancamente,
a distanza di trent'anni, le folgoranti invenzioni pluridialettali e arcaicizzanti
di Mistero buffo. Riconosciuta a Franca Rame la consueta, imperterrita
energia (compresa, nella fattispecie, quella di far fronte alla divaricazione
espressiva richiesta dal fatto che il suo personaggio, a un certo punto,
si trasforma radicalmente per intrusione diabolica), resta da dire qualcosa
del suo inopinato partner. Già; ma che cosa? Albertazzi è
comunque e sempre Albertazzi, si capisce; ma qui è anche e soprattutto,
temo, un pesce fuor d'acqua: un po', per dare l'idea, come un campione
di fioretto catapultato nel bel mezzo di una rissa a colpi di clava. C'è
qualcosa di eroico nella nonchalance con la quale tenta di nascondere o
minimizzare la propria assoluta estraneità estetica; ed è
l'unica cosa che, se fossi uno spettatore con licenza di applauso, avrei
avuto voglia di applaudire."
("Corriere della Sera", 4 ottobre
1997, a proposito di Il diavolo con le zinne, testo, scene e regia
di Dario Fo)
Le parole di Albertazzi
"Giorgio Albertazzi asserisce ("Corriere
della Sera" del 16 ottobre) che ho accettato di portare la produzione inglese
della mia pièce Ashes to Ashes al Festival di Taormina la
scorsa estate. Questo non è vero. Non essendo possibile dal punto
di vista pratico accettare il suo invito, il Royal Court Theatre e io lo
declinammo immediatamente e inequivocabilmente. Non ho mai accennato al
fatto - e men che meno promesso - che avrei portato Ashes to Ashes a
Taormina. Il signor Albertazzi e io non ci siamo mai parlati né
incontrati."
Harold Pinter ("Corriere della
Sera", 5 novembre 1997)
Adesso Albertazzi si ribella
al no di Raidue
"Dopo aver perso Gassman e la Marini,
Raidue perde anche Giorgio Albertazzi. L'attore avrebbe dovuto condurre
dal 26 novembre il programma Crociera di Gianni Boncompagni, ma
la trasmissione è stata cancellata. "È da vent'anni che voglio
fare un programma con Albertazzi - ha detto Boncompagni -. Ma le cose,
in tv, cambiano". No comment da un furioso Albertazzi: "C'è di mezzo
una causa". "Ho diritto di decidere io - ha commentato Freccero - chi conduce
un programma e chi no". La Rai ha smentito che la decisione sia legata
a un deficit della rete."
("Corriere della Sera", 17 ottobre
1998)
L'attore che avrebbe dovuto guidare
lo show di Boncompagni: schiavi della mediocrità
Albertazzi: la tele-spazzatura
colpa della democrazia
"1999, fuga dalla tv. Lo vede e
lo prevede Giorgio Albertazzi. "La tv ormai è sempre più
brutta, sempre più spazzatura. La gente lo sa e non la guarda più.
E' in atto una vera fuga dal video. Chi ci guadagnerà saranno teatro
e cinema. Malgrado i problemi che li affliggono (il teatro non è
ancora riuscito a darsi una legge), si avrà un forte sviluppo di
queste due forme di spettacolo, già in crescita da un paio di stagioni".
Scampato al naufragio di Crociera: "Su quella "nave" dovevo esserci
anch'io, ma ho fiutato l'aria, ho fatto in tempo a tirarmi indietro", filosofeggia
sull'ormai dominante trash televisivo. "Ormai sono troppi i "flop", la
gente ha perso fiducia nel piccolo schermo. Complice la stampa quotidiana
che spesso trascura i programmi più interessanti". Molti i responsabili
di tale degrado, uno più di tutti: "Maurizio Costanzo. Nel suo "salotto"
ha laureato una schiera di personaggi di infimo grado, poi assurti a divi
di tremende trasmissioni". Il marcio non è quindi nel mezzo in sé
ma in chi lo fa. "Ogni Paese ha la tv che si merita. In Italia, dove democrazia
vuol dire mediocrità, chi è ai vertici del video immagina
di avere a che fare con un pubblico ancora più medio-basso di lui.
Così nascono le squallide trasmissioni finto popolari che tutti
conosciamo".
("Corriere della Sera", 3 gennaio
1999)
Un popolare attore apre dopodomani
il Festival di Taormina con la tragedia di Sofocle
Albertazzi: Edipo resta un'ossessione
di Emilia Costantini
"Sono passati trent'anni dalla
prima volta in cui Giorgio Albertazzi interpretò l'Edipo re
di Sofocle, al Teatro alla Scala di Milano. Ora l'attore, settantatreenne,
riveste gli stessi panni al Festival di Taormina (di cui è direttore
del settore prosa), giovedì sul palcoscenico del Teatro Antico.
Avverte Albertazzi: "Non ho più l'età per Edipo, ma lo rifaccio
perché i "conti" con lui non sono chiusi. Trent'anni fa mi sembrò
un'avventura come altre. Oggi vorrei andare in cerca di Edipo, nei veri
panni di un Albertazzi ultrasettantenne, per vedere se ripetendo la sua
storia riesco a guarire dalla malattia di Edipo"
I "conti" non sono chiusi dall'Albertazzi
attore o uomo?
"Anch'io sono stato innamorato
di mia madre: quando mio padre era via, la notte mi infilavo sempre nel
letto matrimoniale per dormire con lei. Certamente, come tutti gli uomini,
non ho mai risolto coscientemente questo nodo."
Albertazzi era impegnato anche
in Pilato sempre, il 7 agosto a Caltavuturo (Palermo), ma lo spettacolo
è saltato."
("Corriere della Sera", 6 luglio
1999)
Albertazzi alla Marini: basta
ritardi a teatro, lo spettacolo non può saltare per i tuoi capricci
da diva
di Valerio Cappelli
"Perché, Albertazzi? "Valeria
ha troppi impegni, vive tra automobili e aerei privati. Un giorno recita,
il giorno dopo va a Madrid per il film di Saura. Quello che è successo
dipende dai sui troppi impegni. Ma chi glielo ha fatto fare, il teatro?
Ci sono stati altri momenti difficili, ci hanno abbandonato sia il regista
Florestano Vancini (e sono subentrato io), sia Antonia Brancati con la
sua riscrittura del romanzo di Heinrich Mann. Valeria l'ho sempre difesa.
Ho rifiutato tante proposte proprio perché la Marini è la
persona giusta per il suo ruolo. Non dev'essere né una cantante
né una ballerina ma un grande corpo, "un pezzo di carne bianca"
che non c'entra nulla col film con Marlene Dietrich. Quando si presenta
sull'altalena, quasi nuda, è una presenza forte. L'avevo già
notata a teatro in Nata ieri, spettacolo mancato e sbagliato". Anche
Marilyn Monroe era una ritardataria cronica."
("Corriere della Sera", 3 gennaio
2001)
Dimentica la parte e piange Valeria
Marini lascia la scena
"L' angelo azzurro si è
messo a piangere in scena. Ed erano lacrime vere, quelle versate da Valeria
Marini sul palco del teatro Augusteo, dove l' attrice interpreta Rosa Frohlich
diretta da Giorgio Albertazzi. Durante la replica di mercoledì,
una crisi di pianto ha bloccato l' attrice durante il primo atto, dopo
diverse interruzioni dovute al cattivo funzionamento dell' impianto audio.
La voce era un po' rauca dall' inizio, poi i microfoni hanno cominciato
a fare cilecca e il pubblico si è messo a rumoreggiare. L' equilibrio
si è rotto e sono stati evidenti i gesti e parole di disappunto
dell' attrice che aveva dimenticato anche la parte e si è messa
a piangere.
Prima del secondo atto Albertazzi
e Marini sono tornati sul palco per chiedere scusa e sono stati applauditi.
Poi, la Marini è stata lasciata sola a giustificarsi alla mercé
di un pubblico vivace. La recita è ripresa in ritardo ma la platea
si è intenerita ed ha sottolineato ogni uscita di Valeria Marini
con applausi. Non si sa quanto convinti."
("Corriere della Sera", 9 febbraio
2001)
"Dopo la Marini, ecco Rembrandt"
di Emilia Costantini
"Giuseppe Manfridi: 45 anni, romano,
autore italiano. Praticamente un fenomeno. E' il drammaturgo contemporaneo
piu' rappresentato. Solo in questa stagione, almeno cinque sue opere sono
c ontemporaneamente in scena, tra cui L'angelo azzurro con Giorgio
Albertazzi e Valeria Marini. E la sesta debutta lunedi' prossimo al Teatro
Due: La famiglia Rembrandt sconfitta dai tulipani. (...) Dice Manfridi:
"Comincio da una nota dolente: proprio dall'Angelo azzurro, un testo
da me amatissimo, ma dalla rappresentazione del quale prendo ora le distanze.
Lo spettacolo non l' ho visto e non voglio vederlo, non ho assistito neanche
alle prove".
Perche' ha accettato di scriverlo,
se sapeva che sarebbe stato recitato da una soubrette televisiva? Si è
piegato anche lei alle leggi del mercato?
"Mi fu proposto questo progetto,
ispirato al romanzo di Thomas Mann, che mi intrigava molto: c' era di mezzo
un archetipo femminile e un attore come Albertazzi. Il fatto, poi, che
a interpretarlo fosse la Marini, era una sfida in piu' . Purtroppo la messinscena
e' diventata altra cosa da cio' che avevo scritto. Quanto al piegarsi alle
leggi del mercato... scrivo per vivere".
("Corriere della Sera", 3 marzo
2001)
Un angelo azzurro con le ali
tagliate
Il professore innamorato diventa
un tiranno che va alla ricerca di una sua vendetta personale
di Magda Poli
"Albertazzi sceglie la strada dell'
ovvietà e Valeria Marini è mandata allo sbaraglio. Un angelo
azzurro con le ali tagliate. Scriveva George Bernard Shaw che un brutto
spettacolo teatrale lascia nello spettatore un senso di vuoto e di spossatezza
pari a quello di una risata meccanica suscitata da un insistito, estenuante
solletico. E uscendo dall'Angelo Azzurro di Giuseppe Manfridi liberamente
tratto dal romanzo di Heinrich Mann Il professor Unrat, o la fine di
un tiranno, portato in scena da Giorgio Albertazzi, non si può
che constatare la veridicità dell'affermazione del caustico irlandese.
Il testo di Manfridi, fragile e farraginoso, si confonde anche per la regia
più che modesta di Albertazzi che non cerca una possibile lettura
critica del testo e guida gli attori sulla strada dell'ovvietà,
riservando a se stesso la parte di un Raat straniato che fa scorrere tra
noia e scontento le sue battute. Valeria Marini, Rose, è lasciata
a se stessa, non balla, non canta, non recita e si muove sul palcoscenico
senza grazia. È un'interprete senza rete, allo sbaraglio e con pochi
mezzi a esclusione di un corpo generoso e bello da esibire che però
non basta per fare di Rose un personaggio affascinante e magnetico. Giuditta
Saltarini, Stefano Gragnani, Renato Cortesi, fanno il loro mestiere con
onestà in uno spettacolo triste per quanto vuoto."
("Corriere della Sera", 14 marzo
2001)
Tajani: se vinco l'Ara Pacis
torna come prima
"I nostri avversari hanno ormai
perso il contatto con il cittadino. Gli ulivi appassiscono e spunta il
cactus"
di Claudio Lazzaro
"Presentazione ufficiale dei candidati
di centrodestra, ma Albertazzi (annunciato) non s'è visto. (...)
Dopo lo sfottò archeologico, Tajani si è spostato al cinema
Adriano, per la presentazione ufficiale dei candidati del centrodestra.
Giorgio Albertazzi, il grande istrione, annunciato sui manifesti, all'
Adriano non si è fatto vedere. Tajani ha fatto del suo meglio perché
non si sentisse la mancanza."
("Corriere della Sera", 22 aprile
2001)
Passeggiate esoteriche
Per strade e piazze, inseguendo
un antico filone filosofico. Dalla porta magica di piazza Vittorio fin
dentro la Roma Umbertina
di Silvia Testa
"So leggere la psiche guardando
la schiena" Era solo un ragazzo, quando si è accorto di avere il
dono della chiaroveggenza. Così Giorgio Albertazzi ha iniziato a
studiare quella parte del cervello normalmente inattiva che consente solo
a pochi, percezioni extrasensoriali. Ricerche estoriche, ma non spiritismo:
"Sono un nemico acerrimo di chi sostiene di comunicare con i morti - spiega
- Se pure dovesse esistere un aldilà, è per noi inintelligibile.
Non c'è ragione per cui un cavallo morto divenuto una stella, possa
comunicare con altri cavalli". Quali capacità si è reso conto
di avere? "Se posavo la mano su una foto, senza guardarla, potevo vedere
cosa stesse facendo la persona ritratta". E poi? "Un uomo in Messico mi
ha insegnato a leggere il destino psichico delle persone guardandogli la
schiena, senza che gli occhi interferiscano con la percezione". Avrà
conosciuto altri sensitivi.. "Sì, abbiamo costituito un gruppo di
studiosi provenienti da vari paesi del mondo. Poi qualcosa si e' rotto,
pr oprio alla vigilia di un viaggio esoterico. Purtroppo".
("Corriere della Sera", 12 giugno
2001)
Consegnati i riconoscimenti della
Fondazione Almirante
"Assegnato ieri ad Alberto Bassetti,
al Teatro Valle, il premio "Drammaturgia nazionale contemporanea" della
Fondazione Giorgio Almirante: 100 milioni per la messa in scena di un testo,
scelto da una giuria presieduta da Giorgio Albertazzi. La figura di Almirante
è stata ricordata dal vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini,
presente la vedova, Donna Assunta Almirante. Madrina della manifestazione
Claudia Cardinale. In sala Pasquale Squitieri, Ignazio La Russa, Gabriella
Carlucci, Pierfrancesco Pingitore, Carmelo Rocca per il ministero dei Beni
culturali. Riconoscimento "per la cultura italiana nel mondo", consegnato
a Maurizio Scaparro, al Théatre des italiens di Parigi.
("Corriere della Sera", 28 giugno
2001)
E' Albertazzi il grande favorito
per la direzione del Teatro Stabile. Ma sorgono contrasti per l'India
Gli esponenti della destra:
"E' esclusa la possibilità di sdoppiare la direzione"
di Emilia Costantini
"All'indomani della prima tormentata
fumata bianca sulle sorti del Teatro di Roma, con la nomina del presidente
e dei membri del Consiglio di Amministrazione, l'attenzione ora si sposta
su chi ne assumerà la direzione. La Regione e la Provincia, guidate
dalla destra, che sono soci dello Stabile insieme al Comune, puntano decisamente
sul nome, la fama, la statura artistica di Giorgio Albertazzi. Il protagonista
di Memorie di Adriano si trincera, saggiamente, dietro un diplomatico
"no comment", anche se in passato non ha mai nascosto una sua disponibilità
all' incarico. L'attore fiorentino aveva infatti ammesso, in sue recenti
affermazioni: "Mi sono state piu' volte offerte delle cariche pubbliche,
allo Stabile di Catania, a quello di Palermo e perfino a Trieste, ma non
ho mai accettato. Roma, però, è sempre Roma" Pare improbabile,
però, che Albertazzi, se mai si concretizzasse il suo arrivo allo
Stabile, possa accettare una direzione in tandem con chicchessia. "
("Corriere della Sera", 2 novembre
2001)
Teatro,
arte della (tele)visione
A
margine di La scène et les images
di
Anna Maria Monteverdi
Nel desolante panorama storico-critico
sui rapporti sempre più frequenti e sempre più stretti tra
i nuovi media e il teatro, spicca (anche per dimensioni) il volume La
scène et les images, appena licenziato alle stampe dal CNRS
di Parigi, con l'approfondimento che contraddistingue la collana (Le Voies
de la Création Thèatrale) inaugurata nel 1978 con un volume
sul Living Theatre e Grotowski e diventata fondamentale strumento di approfondimento
e di ricerca per gli studiosi di teatro contemporaneo.
Béatrice Picon-Vallin ne
è la curatrice (come lo era stata per il volume monografico su Mejerchol'd)
nonché autrice di un importante saggio introduttivo in cui riprende
alcune delle argomentazioni da lei già esposte in un'altra antologia
critica (Les écrans sur la scène, Lausanne, L'age
d'homme, 1998) con maggiore attenzione, questa volta, a definire le "origini
della specie". Il libro riunisce contributi critici su autori diversi per
genere, estetica, modalità di composizione, contesto di appartenenza
ma legati da una comune ricerca nell'ambito della visualità e da
una loro collocazione in una scena-immagine.
La ricerca delle radici del "Visual
theatre" (che include lo storico teatro-immagine dell'avanguardia italiana
e americana e a scena francese proliferante di schermi degli anni Ottanta
e Novanta) conduce ai fondatori/riformatori della regia moderna, in pieno
clima di rivendicazioni di autonomia dell'arte teatrale dalla letteratura
e di proclami di ri-teatralizzazione (il Teatro teatrale, per ricordare
un celebre libro di Bragaglia). Dal teatro, quindi, delle prime avanguardie
all'indomani del Naturalismo, del Realismo storico-ricostruttivo dei Meininger,
passando per le "cineficazioni" e al teatro "tecnocratico" di Piscator
e Mejerchol'd.
Gordon Craig non poteva che essere
il primo dei protagonisti della scena moderna abitata più da immagini
e dalla luce che non dalla letteratura. Craig ha dato esempio di questo
nuovo teatro (Towards a new theatre, 1913 è il titolo di
uno dei suoi più importanti libri) nelle sue "visioni sceniche":
lo aveva immaginato, inciso, disegnato, pitturato, descritto e infine teorizzato
più che realizzato concretamente. Aveva rivendicato il ruolo del
metteur-en-scène come unico autore dello spettacolo ("Il
teatro non ha nulla a che fare con la letteratura") mentre con la progettazione
dei famosi "screens" (pannelli semoventi che sostituivano la scenografia
tradizionale) per l'Amleto di Mosca aveva affermato il valore evocativo
ed espressivo della "scena sintetica". L' effetto finale di questa "quinta
scena" fatta unicamente di forme geometriche e luce in movimento continuo,
vero "ambiente espressivo", doveva essere, secondo le stesse parole di
Craig, quello di una "musica visiva" mentre il regista diventava un "pittore
di luce":
"I can colour my screen or the actor's form to a great extent in the same strenght and quality as a painter uses on his canvas. I employ only light" ("Scene", 1923).
In una serie di tavole usate per
illustrare "Scene", Craig evidentemente influenzato dalla contemporanea
corrente simbolista, rinunciando alla scenografia dipinta, affidava unicamente
alla luce che si distribuiva nello spazio, generandolo e al movimento (non
solo quello dell'attore sulla scena ma quello della scena stessa), il compito
di tradurre il senso profondo del dramma (il "movimento interiore"): una
luce dirompente, mai ferma, proveniente dall'alto creava ombre potenti
e spigoli taglienti sopra massicci monoliti, minacciose presenze della
sua visionaria scena architettonica.
Per questo tema del "teatro come
luogo del movimento" Ragghianti (per il quale teatro rientrava a pieno
diritto nell'ambito delle "arti della visione", non diversamente dal cinema)
salutava Craig come il lungimirante profeta della cinetica-scenica, colui
che "ha saputo meglio definire la forma teatrale".
Il panorama storico continua con
Appia, per il quale lo "spazio-luce" della scena plastica tridimensionale
che sottolinea e potenzia (secondo il principio della contrainte,
dell'opposizione) gli atteggiamenti, il profilo e i movimenti del corpo
umano e le geometrie degli ambienti: "la luce che conviene a valorizzare
una tela dipinta non è mai quella che esigono dei corpi in movimento".
Mejerchol'd e Piscator introducono
immagini fisse e infine il cinema (non solo attraverso proiezioni ma integrandone
lo stesso procedimento linguistico e tecnico) in una "macchina scenica"
praticabile e che esibiva la struttura, erede - nel caso di Mejerchol'd
- del Suprematismo di Malevich e del Costruttivismo di Tatlin; Cruciani
affermava che Piscator "ha realizzato una scena multispaziale e multimediale"
mentre Ragghianti (Arti della visione, vol. 2: Spettacolo) lo definisce
"il primo regista che abbia compreso almeno in via pragmatica che il teatro
come spettacolo figurativo non era sostanzialmente diverso nella sua natura
e nei suoi mezzi dal cinematografo".
Nel progetto mai realizzato del
famoso Teatro Totale datato 1927, Walter Gropius, ispirandosi al funzionalismo
architettonico e ai principi della Bauhaus ("Le forme - uno dei termini
chiave della Bauhaus - sono l'immagine del movimento, il movimento è
l'essenza della forma"), aveva pensato a una vera "macchina-teatro" con
piattaforme girevoli, tre palcoscenici e in cui un gigantesco schermo mobile
per le proiezioni di film e diapositive potesse integrarsi nell'intera
struttura architettonica, ampliando così la stessa cornice scenica,
avvolgendo letteralmente il pubblico in una scena sempre più marcatamente
visiva e mobile:
"Invece del solito piano di proiezione abbiamo uno spazio di proiezione. La sala reale, neutralizzata dall'assenza di luce, diviene, grazie alle proiezioni luminose, lo spazio dell'illusione, il teatro degli avvenimenti scenici. Lo scopo di questo teatro non è dunque quello di ammassare materialmente gli impianti tecnici e i trucchi più raffinati; questi semplicemente mirano ad ottenere che lo spettatore sia trascinato nel centro degli avvenimenti scenici, faccia parte spazialmente del luogo dell'azione e non vi possa più sfuggire rimanendo al di qua del sipario".
Se negli anni Venti in Germania il cinema viene impiegato a teatro con funzione "didattica" e propagandistica ("Mi occorrevano mezzi che rivelassero l'influenza reciproca fra i grandi sovrumani avvenimenti dell'umanità e un individuo o una classe", ricordava Piscator. "Uno di questi mezzi era il film. Ma non era altro che un mezzo, che domani avrebbe potuto essere sostituito da uno migliore"), negli anni Ottanta e Novanta il video in scena introduce il cosiddetto "effetto specchio". Il corpo dell'attore viene replicato in scena e il suo doppio elettronico rimette allo sguardo dello spettatore l'immagine di un'interiorità invisibile e indicibile: è il passato o l'altrove, il nascosto e il perturbante. E' (come nel caso di Robert Lepage) metafora di un io letteralmente spaccato in due che reclama una sua propria esistenza. Il video in scena introduce la simultaneità di spazi (il lontano e il vicino insieme), una temporalità aperta (rifiuto del continuum temporale, assenza di una linearità diegetica narrativa), una molteplicità di visioni e compresenza di punti di vista (George Banu paragona questa abolizione della frontalità - "sorta di marchio di fabbrica del teatro tradizionale", come ricordava Schechner - alle prospettive prismatiche cubiste), e infine, come spiega Picot-Vallin, la prossimità:
"Les images vidéo de plus ou moins grand format selon leur support de diffusion, élargissement à un contexte totalisant l'action jouée sur le plateau. Mais liées à une logique de fragmentation, d'atomisation, elles ont surtout des fonctions spéculaires, narcissiques, mnémoniques, introspectives, intimistes, ludiques, elles donnet à voir le 'non-montrable' à la scène ou troublent la vue du spectateur. Creusant l'image scénique par la façon dont elles s'y incrustent, telles des corps étrangers, elles manipulent, déroutent, déstabilisent le public, mettant en abime le réel e le théatre, introduisant de multiples possibilitéss de variations sur la distance et le rapprochement entre scène et salle".
Dunque la Vallin legge la scena tecnologica odierna in continuità con le teorie e con le innovazioni delle avanguardie novecentiste e un ulteriore contributo al vero, unico tema del teatro moderno: la conquista di uno spazio scenico architettonico, generato a partire non dalla pittura o dalla letteratura ma dalla luce.
"La scène architectonique de Craig, la scène constructiviste ou celle du Bauhaus, genèrent des machine à jouer capables de dècouper l'espace tridimensionnel en une série de cadres précis dans lesquels le comédien devra maitriser le mouvement scénique, le jeu se voyant défini come maitrise des formes plastiques dans l'espace. La lumière tend également à éliminer la peinture pour distribuer elle-meme dans l'espace qu'elle fluidifie coulers et mouvement. Aujourd'hui, la machine à jouer se fera machine à projeter des images et le jeu des comédiens devra tenir compte de celle-ci, fixes ou animées qui peuvent habiter l'espace dans son ensemble. Images qui peuvent meme capter l'acteur en direct et etre retraitées, toujours en direct, images surgies, fantomatiques, toujours au bord de l'évanouissement, de la disparition, par lesquelles l'acteur de chair est redoublé, agrandi, magnifié, effacé, ou sous surveillance".
L'analisi della Vallin continua
con un accenno a Deafman's Glance di Bob Wilson (1971), spettacolo
che consacra il regista texano all'attenzione del pubblico. Il dominio
dell'immagine si coniuga con l'esasperato rallentamento del movimento;
contro l'accelerazione mediatica Wilson propone la suggestione di una luce
intensa e magnetica, di "une action en èvolution lente, hiératique,
mysterieuse, silencieuse, support pour la méditation du regadeur".
Il lungo saggio termina, infine,
con un'indagine sull'opera di Matthias Langhoff, regista che dà
vita a vere "stratificazione di immagini sulla scena". Nel suo teatro marcato
dal segno della "distruzione", passano in rassegna le pitture di Bosch,
le allucinazioni deformanti di Bacon, il Picasso di Guernica, e ancora
foto e film d'archivio sulla guerra, video, diapositive; il suo teatro
è il cantiere di un mondo in disfacimento. Agli "strati della Storia"
corrisponde una scena straripante e proliferante di immagini di ogni genere,
fisse e in movimento, in bianco e nero e a colori, ad alta e bassa definizione,
veri reperti della storia della fotografia trattati e trasformati per la
scena, mentre al raccontare attraverso le parole si sostituisce un parlare
(e far pensare) per immagini.
Fréderic Maurin (che aveva
curato per "Théatre/Public" il numero speciale su Théatre
et technologie, 1996) racconta l'evoluzione del teatro di Robert Wilson
e l'inizio, lo sviluppo e la fortuna del termine Theater of images
(dall'antologia di Bonnie Marranca che raccoglieva testi degli spettacoli
di Wilson, Foreman e Lee Breuer) di cui Philip Glass individua come una
delle fonti il Frankenstein del Living Theatre (creazione collettiva
del 1965; Wilson e Glass si ispireranno a questo spettacolo per la scenografia
di Einstein on the beach). Eliminazione del dialogo, dello statuto
del personaggio e di una storia, marginalità della parola per una
sintassi di tipo visivo.
Tra i contributi che approfondiscono
spettacoli o progetti specifici di teatro tecnologico: l'analisi dettagliata
delle diverse azioni, delle images-tableaux e images-action, e la sequenza
degli inserti video, di Danse de mort di Langhoff (1996), la lettura
dei disegni preparatori per uno spettacolo multimediale di Dominik Barbier
insieme con Muller su Hamlet-machine (1995) e mai andato in scena.
Barbier aveva già realizzato un importante videodocumentario di
creazione ispirato proprio alla figura del drammaturgo tedesco Heiner Muller
(J'etais Hamlet, 1994). Su questo documentario, ritratto di Muller
nella sua Berlino, che racconta dell' eredità di Brecht, del teatro
ed il suo ruolo nella storia, della Germania tra memoria di guerra e attualità,
realizzato come materiale base per lo spettacolo, Barbier dice: "Venerato,
detestato, mediatizzato, politicizzato, animalizzato, corteggiato, onorato,
respinto, accusato, invitato, filmato ma soprattutto letto e recitato H.
Muller è un mostro, un poeta un attore un testimone un vivo nel
paese dei morti. Mi ha fatto sorridere: ha trovato questo video un po'
cupo. Ma non sono stato io a inventare Muller né è stato
lui a inventare la storia tedesca".
Ancora, il teatro di Jacques Lassalle,
Georges Lavaudant, André Ligeon-Ligeonnet, Armand Gatti, e Théatre
du Radeau.
Sul versante italiano Brunella
Eruli traccia una storia che dal 1973 (anno del convegno Nuove tendenze-teatro
immagine a cura di Filiberto Menna e Giuseppe Bartolucci) conduce con
un filo rosso alle esperienze teatrali di Studio Azzurro e ai protagonisti
della terza e quarta "ondata": Societas Raffaello Sanzio (a cui viene dedicato,
come del resto a Tiezzi e ai Magazzini, un intero paragrafo), Ravenna Teatro,
Gaia Scienza e Barberio Corsetti, Falso Movimento, fino ad arrivare ai
creatori più originali della neo-neo-avanguardia: Motus (soprattutto)
e Teatrino Clandestino. Viene, quindi, recuperato il "patrimonio" culturale
della Nuova spettacolarità e della postavanguardia. Pionieri riconosciuti,
oltre ovviamente a Carmelo Bene: Mario Ricci, Giancarlo Nanni, Giuliano
Vasilicò e Memé Perlini, quest'ultimo con la sua scena ricca
di citazioni dalle avanguardie storiche e dal cinema che ha dato vita a
quei "frammenti immagine" risultato di una sapiente alternanza di luce
e ombre in un teatro in cui la letteratura non ha più il suo palco
d'onore. Non si possono non notare in questo percorso, assenze "eccellenti":
tra tutti il Tam teatro-musica (quest'ultimi sperimentatori del video in
scena e autori - in collaborazione con Giacomo Verde - di storiche videocreazioni
autonome dagli spettacoli ma ad essi ispirate: Macchine sensibili,
Tutto quello che rimane).
London
Calling
La
corrispondenza di Francesca Lamioni
Sarebbe utile per "ateatro" avere più info & notizie dalle capitali dello spettacolo. In questo numero inizia la sua collaborazione da Londra Francesca Lamioni (muchissimas gracias). Sono gradite candidature da altre città...
The Volcano
Theatre Company
DESTINATION
di Thomas Bernhard
Regia: Kathryn Hunter
Traduzione e aiuto
regia: Jan Willem van den Bosch
Coreografia: Marcello
Magni
Musica: Patrick Fitzgerald
Luci: Andrew Jones
Dove: Riversidestudios
Crisp Road, London
W6 9RL
Dal 13 al 17 Novembre
Prezzo 14 £
( 8 ridotti)
Box office: 020 82371111
Fermata metropolitana:
Hammersmith
(District , Piccadilly,
Hammersmith & City Line)
“ Non è sufficiente che un gruppo di giovani percuota la testa a un gruppo di vecchi… tutto deve essere spazzato via entro domani”
La Compagnia Volcano è nota
per aver prodotto un teatro di rottura ed è considerata una delle
realtà più imprevedibili e provocatorie nella scena inglese
contemporanea.
La compagnia ha partecipato a tour
mondiali, con produzioni di successo come Macbeth: Director’s Cut,
Private Lives, L.O.V.E., After the Orgy.
“Volcano è preziosa per la sua abilità di rendere fisici non solo sentimenti ma anche pensieri ed usa il testo con sapiente intelligenza. I suoi lavori non sono mai un’esposizione di corpi lungo la parete.” The Guardian
Destination è
la prima inglese della traduzione di Thomas Bernhard Am Ziel (Alla meta),
una delle sue pièce più audaci e satiriche. Benché
quasi sconosciuto in Gran Bretagna, Bernhard è uno degli scrittori
contemporanei di teatro più originali e tradotti. Il suo lavoro
amalgama e mescola i mondi di Kafka, Beckett e Pinter, dando vita ad un
bizzarro ritratto dell’umanità e del mondo moderno.
La regia è di Kathryn Hunter,
nota per la sua collaborazione con compagnie come quella del Théâtre
de Complicité e dello Shakespeare Globe.
Destination è
una pièce di umorismo nero.
Una madre possessiva, accentratrice,
frustrata e colma di rabbia per la vita che ha (o meglio NON ha) condotto
si propone debole e malata mentre, in realtà, manipola e schiavizza
chi le sta intorno. Istrionica, acuta e perversa: un perfetto tiranno.
Una figlia, a tratti lucida e ribelle
ma demolita dai giochi di potere della madre e quindi, non solo incapace
di liberarsi, ma anche morbosamente legata a lei in quanto unico legame
affettivo resole possibile dalla sua condizione esistenziale. Tentativi
di fuga rappresentati in acrobatiche arrampicate che finiscono sempre in
tonfi sordi. Rapporto vittima/ carnefice coi suoi equilibri folli
ma ben delineati, coi suoi ruoli e le sue dinamiche prestabilite.
Si inserisce un elemento di rottura:
un giovane scrittore, invitato dalla figlia a trascorrere le vacanze nella
casa sul mare.
Avviene uno scontro fra due
personalità forti: la madre è contro la scrittura, la poesia,
l’arte. è contro la possibilità di cambiamento, di ottimismo
e di leggerezza: perché – semplicemente - lei conosce già
tutto, ha già visto tutto e sa bene che l’entusiasmo del giovane
non potrà cambiare il mondo. Però non sorride teneramente
di fronte all’ingenuità di lui: le sue risate sarcastiche sembrano
una disperata richiesta di aiuto. Non lascia trapelare nessuna stima verso
i progetti del ragazzo, però lo ascolta. Non vuole che si avvicini
alla figlia, però balla con lui con fare seducente.
Il ragazzo alla fine rimane irretito
nella prigione: non come schiavo e neanche come redentore -
semplicemente per espletare il ruolo che gli appartiene: come scrittore.
Infatti probabilmente è
lui l’io narrante di questa storia che seziona una fetta di realtà
e ce la descrive.
Mi piacerebbe interpretare questi
tre personaggi alla “maniera antica”, un po’ alla greca. Vorrei vederli
come aspetti psicologici presenti contemporaneamente nella psiche di ognuno,
in continua lotta fra loro ma anche con una finale possibilità di
assestamento ed equilibrio. Se queste tre figure le penso distinte
e separate mi sopraffà una notevole angoscia perché ho come
l’impressione che individualmente sarebbero destinate ad un’esistenza
tremendamente squallida.
Se invece vediamo la madre come
il predatore psichico (quella voce che urla NON CE LA FARAI MAI), la figlia
come il bambino ferito (che riconosce il mostro ma non sa liberarsene perché
mutilato) e il giovane scrittore come la capacità creativa
(quindi fuga e risoluzione della
nevrosi attraverso l’arte) ecco che cosi’ il tutto acquisisce un senso.
Preferisco intendere il teatro
come un processo alchemico della psiche, dove attraverso l’analisi della
materia grezza si da inizio a un processo di trasformazione che conduce
a forgiare materiale elevato e prezioso; oppure come una guarigione che
avviene attraverso l’identificazione/fusione con “un altro”; o, per tornare
ai Greci, un processo di presa di coscienza di cui condizione necessaria
è il coraggio di guardare dritto negli occhi ciò che crediamo
insopportabile da conoscere, accettare la sfida eroica di rompere il tabù
che ci rende paurosi e impotenti per diventare padroni della nostra vita,
guerrieri coraggiosi che non temono nessun mostro.
E POI...
All’interno del London
Jazz Festival, 9 al 18 novembre, una serata gioiosa: in un’antica chiesa
in stile gotico – Union Chapel – fra panche di legno e offerte per le missioni,
si sono esibiti in tutta la loro potenza scenica Tricok Gurtu e Anjelique
Kidjo.
I due artisti hanno già
suonato e cantato insieme in passato ma questa è stata la prima
mondiale di uno show “a quattro mani”.
In prima serata il percussionista
indiano ha proposto una band di alta qualità:
la bravissima cantante solista
Sabine Kabongo (afro/belga) del gruppo Zap Mania; un impeccabile Ravi Chary
al sitar; Amit Heri alla chitarra elettrica e Hilaire Penda al basso. Gurtu
è un percussionista sorprendente: fa jazz picchiettando con dita
abilissime e veloci i piu’ disparati tipi di percussioni, creando ritmi
incalzanti e suoni originali su melodie afro/indiane, con un pizzico di
occidente “elettrico”. Grande padronanza della tecnica, languida
magia d’oriente e personalità carismatica creano un prodotto gradevole
e fruibile anche per un pubblico alle prime armi col jazz.
La regina dell’afro pop, originaria
di un villaggio del Benin, Anjelique Kidjo ha elergito generosamente i
pezzi piu’ caldi del suo repertorio (v. Batonga) , ha concesso a furor
di popolo una sublime interpretazione di Malaika, ha proposto ritmi di
Bahia e ha trascinato il pubblico a ballare con lei sul palco. Un corpo
robusto ed energico che volteggiando in drappi multicolore ha contagiato
la sala, costringendoci a lasciare le austere sistemazioni da messa per
danzare nelle navate!
Anjelique ha fatto alcuni interventi
interessanti sulla guerra, sulla necessità di non creare discriminazioni
razziali e tantomeno religiose, sulla difficoltà che ha avuto- in
quanto donna nata in Africa – a seguire la sua strada che l’ha portata
al successo.
Dove: Union Chapel
Fermata metropilitana:
Islington ( Victoria line)
Prezzo: biglietto
unico 16 $
KODO DRUMMERS
Dove: Barbican Centre
Fermata metropolitana:
Barbican ( Hammersmith & City, Circle Line)
Prezzo: da 15 a 30
£
Dal 16 al 18 Novembre
Da tempo avevo sentito parlare dei
kodo drummers, avevo visto un documentario sulla loro vita nell’isola di
Sado, in Giappone, dove – con disciplina e devozione monacali – coltivano
quotidianamente, pazientemente la loro arte, tutt’uno con la loro vita.
Non li avevo mai visti dal vivo ed è vero: un’esperienza da non
perdere.
Il palco ospitava circa una decina
di tamburi di dimensioni da macroscosmo a microcosmo: tamburi grandi, che
rimbombano suonati con bastoni che sembrano mazze e tamburi sempre piu’
piccoli, appena sfiorati da bacchettine di legno sottile.
Dal forte, doppio battito primordiale
che risuona nel cuore ( e che rappresenta il cuore che batte nel grembo
materno) fino al ticchettio di una fitta pioggerella sul tetto di una capanna.
E poi il mare, il vento, la danza: una rappresentazione della natura fisica,
materica cosi’ come fisico è il rapporto viscerale fra suonatore
e strumento, fusi in un abbraccio, in una lotta, in un continuo sfiorarsi,
percuotersi e separarsi.
Preparazione atletica, precisione,
coordinazione nel gruppo: perfezione.
La comunità dei Kodo vive
in 25 acri di terra nella foresta della penisola di Ogi, a sud di Sado.
La cerimonia inaugurale del villaggio è avvenuta nel 1988 e dalla
prima struttura originaria oggi il complesso si è esteso e vanta
cucine, dormitori, una libreria musicale, uno studio di registrazione,
una sala per gli spettacoli. I membri del gruppo sposati fra loro hanno
costruito casa nella terra circostante.
I Kodo effettuano una sapiente
rilettura della tradizione musicale antica, inserendola nel contesto contemporaneo.
Il loro atteggiamento sul palco è scevro da ogni divismo, egocentrismo,
compiacimento virtuosistico: con un inglese elementare, sorrisi timidi
e grande semplicità si sono accattivati la simpatia ed il calore
del pubblico. Si percepiva la sacralità della scelta esistenziale
compiuta e la totale dedizione ad essa.
C.D. di Kodo: Tsutsumi,
Sai-so, Ibuki, Warabe, Blessing of the earth, Live at the Acropolis, Best
of Kodo (1 e 2)
Pezzi interpretati:
Zoku, Miyake, Idaten, Shamisen, Bird Island, Monochrome, Hiina-no-ko,
Kariuta II, O-Daiko, Yatai-Bayashi
Musicisti: Kazunari
Abe, Sachito Abe, Takeshi Arai, Yoshikazu Fujimoto, Tsubasa Hori, Kazuki
Imagai, Ryutaro Kaneko, Mitsunaga Matsura, Tomohiro Mitome, Tetsuro Naito,
Akira Nanjo, Ayako Onizawa, Eiichi Saito, Hideyuki Saito, Yoshie Sunahata,
Kaoru Watanabe.
KODO
148-1 Kanetashinden,
Ogi, Sado Island, 952-0611 Japan
tel. +81 0259-86-3630
fax. +81 0259-86-3631
European enquiries:
kodo@diorama-arts.org.uk
Che
fare?
I
tuoi (indispensabili) consigli per migliorare olivieropdp/ateatro
olivieropdp/"ateatro"è
nato circa tre anni fa come spazio libero, autogestito e gratuito, per
chi lo usa e per chi lo fa. Il suo obiettivo: diffondere la cultura del
teatro. (Se ti interessa, trovi una breve storia del sito in "ateatro 22").
Il sito si è progressivamente
arricchito di nuovi archivi/sezioni/servizi, grazie anche ai consigli e
alla collaborazione dei visitatori.
Attualmente olivieropdp/"ateatro" comprende queste sezioni principali (se non l'hai fatto, provale!!!):
1. archivio – materiali sul nuovo teatro (interviste & saggi)
2. la webzine "ateatro" (con scadenza vagamente quindicinale)
3. i forum (sono attualmente attivi quello sulla nuova drammaturgia, quello sul teatro di guerra, uno spazio segnalazioni e uno per le richieste di aiuto, più un forum dedicato alla stupidità)
5. links
6. tesi online
A questo punto il sito può
ancora crescere e migliorare, ma solo grazie ai consigli e all'aiuto di
chi lo frequenta, affrontando nuovi temi, aprendosi a ulteriori collaborazioni
e allargando e dando stabilità a una rete di contatti finora informale.
Per fare questo, sono necessari
prima di tutto i consigli e la collaborazione di coloro che fino a questo
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