Verso la multimedialita?
Gli spettacoli di Leopoldo Fregoli fra teatro e cinema
di Luigi Colagreco
Leopoldo Fregoli (Roma, 1867 – Viareggio 1936) lega inestricabilmente il suo nome all’arte del trasformismo [1] che fu da lui perfezionata e portata alla sua massima espressione sul finire del XIX secolo [2]. Le esibizioni trasformistiche costituivano l’ossatura centrale dei suoi spettacoli che, pur rientrando a pieno diritto nell’ambito del teatro di varietà, ne costituivano una variante del tutto particolare. Le messe in scena fregoliane, infatti, rappresentano un nodo importante per ciò che concerne i rapporti fra teatro e cinema agli inizi del Novecento; in questi varietà sui generis il primo cinema muto trovava spazio a fianco a numeri tipici del teatro leggero, stabilendo con questi un rapporto di empatia, di grande efficacia dal punto di vista spettacolare. Consultando materiale cartaceo, soprattutto quotidiani e giornali dell’epoca, è stato possibile ricostruire lo schema-tipo degli spettacoli fregoliani negli anni che vanno dal 1899 al 1902. Le esibizioni dell’artista romano si suddividevano in quattro sezioni. Durante la prima parte, una compagnia di attori [3] (che affiancava Leopoldo Fregoli nel corso della tournée), metteva in scena una farsa o una commedia in un atto o brevi rappresentazioni (come la pantomima Le Nozze di Pierrot, in cui interveniva lo stesso Fregoli nella parte di Pierrot). Tali compagnie costituivano l’avanspettacolo degli spettacoli di Fregoli, come lo stesso artista asserisce nelle sue memorie [4]. Con la seconda parte si apriva il vero e proprio spettacolo fregoliano. Un’introduzione strumentale garantiva un energico avvio: “d’un tratto cessa l’impazienza del pubblico: ritorna il silenzio, la quiete, quando sotto la direzione del maestro Calzelli, l’orchestra attacca la Marcia Fregoli.” [5] L’organico dell’orchestra probabilmente includeva circa 30-40 musicisti, un maestro al piano e naturalmente un maestro concertatore e direttore. Il programma dello spettacolo realizzato al Costanzi di Roma, il 21 novembre 1902, ad esempio, parla di 40 professori d’orchestra e cita i nomi di Fiano e di Calzelli, rispettivamente maestro al piano e direttore d’orchestra [6]. Dopo l’introduzione strumentale era la volta del cosiddetto repertorio eccentrico, nel quale l’artista dava dimostrazione del suo sensazionale eclettismo, eseguendo numeri di diverso genere: “Il Fregoli ha esordito con esperimenti di negromanzia e di illusionismo per poi dar campo al suo repertorio variato, eccentrico, attraente di artista comico-cantante-danzante.” [7] Seguivano alcuni numeri di trasformismo; in genere 2 numeri chiudevano questa seconda parte; ciascuno di essi prevedeva al massimo 9 trasformazioni: Il Camaleonte, La Lezione di musica, L’Onestà, ecc…La terza parte si apriva con un’introduzione strumentale, seguita solitamente da Paris-Concert/Eldorado: “Eldorado era un’azione comico-mimica-lirico-drammatico-musicale con circa 60 trasformazioni.[…] Costituiva veramente un tour de force.” Qui il testo (come in molti atti unici fregoliani), rappresentava solo un pretesto: un impresario tedesco “confessava al pubblico di non aver da pagare, quella sera, gli artisti scritturati nel suo caffè-concerto.” [8] Tale dichiarazione era seguita dalle lamentele di alcuni artisti (tutti, naturalmente impersonati da Fregoli). Ciò costituiva “la prima parte dell’azione.” Poi “tornava l’impresario a dire: - Rispettabile pubblico, gli artisti mi hanno abbandonato tutti quanti, perché non avevo di che pagarli. Chiedo il vostro benigno compatimento: mi sforzerò di sostituirli da solo…Maestro, musica! - ” [9] Il maestro dava l’attacco all’orchestra e questa semplice operazione dava inizio al più entusiasmante degli spettacoli: il cafè-chantant appariva con tutti i suoi personaggi, dal clown parodista Tom-Leo-Fre, a Mademoiselle Juliette, divetta internazionale, dal fantasista musicale Do-Mi-Sol, alla danzatrice spagnola, fino ad arrivare ai celebri direttori d’orchestra, tutti presentati da Leopoldo Fregoli. La quarta sezione era riservata alla proiezione di brevi filmini realizzati dallo stesso Fregoli o appartenenti ad altrui repertori (Lumière, Méliès). Il trasformista fu tra i primi, almeno in Italia, a diffondere il cinematografo a pochi mesi dalla sua nascita. Per tale importantissima opera di promozione, Fregoli aveva ricevuto l’investitura addirittura dello stesso Louis Lumière, conosciuto a Lione durante una tournée francese: “Mi trovavo, nel 1897, al Teatro Celestin di Lione, quando, una sera, mi dissero che in poltrona di prima fila c’era Luigi Lumière, di cui avevo già sentito parecchio parlare. Maniaco di fotografia e di meccanica come ero, mandai il mio segretario in platea, a pregare lo scienziato di voler salire in un intervallo sul palcoscenico; ed una volta dinanzi a lui, gli chiesi di poter visitare la sua officina. Quegli aderì, e l’indomani io mi recai a trovarlo.” Fregoli avrebbe imparato in uno stage presso le officine Lumière di Lione, “i segreti della riproduzione, dello sviluppo, della stampa e della proiezione” [10] di brevi pellicole. Così nacquero i filmini che l’artista romano si divertiva a proiettare alla fine dei suoi spettacoli, nella quarta sezione, appunto, chiamata in seguito Fregoligraph.
Prima del periodo preso in considerazione (1897-1906), le esibizioni dell’artista figuravano come semplici numeri all’interno di spettacoli compositi di varietà; nel giro di pochi anni dunque Fregoli arriva ad allestire spettacoli incentrati interamente sulle sue performance. La caratteristica fondamentale riscontrabile in questi spettacoli è la profonda coesione tra le parti del programma; ciò contrasta chiaramente con la frammentarietà tipica del teatro di varietà, nel quale i vari numeri si succedono senza alcun legame. Prendiamo il programma dello spettacolo messo in scena al Costanzi il 21 novembre 1902 [11]. Escludendo logicamente la prima parte (la commediola realizzata da una compagnia di attori), il resto della messa in scena è percorso da un fremito unificante: quello del factotum Fregoli, unico attore ad agire sul palco. Dal repertorio eccentrico nel quale mette in mostra le sue inesauribili facoltà di diseur-danseur-chanteur, al numero in cui rappresenta da solo un intero spettacolo di cafè-chantant (Eldorado): egli stesso è il filo conduttore dei suoi spettacoli. La presenza continua dell’attore assicura una solida organicità al suo spettacolo, ogni parte del quale ha come finalità quella di sbalordire pubblico e critica. L’operazione è suffragata da una fitta rete di rimandi. I numeri di trasformismo col loro ritmo incessante anticipano le proiezioni del Fregoligraph che per tutta risposta rinviano alle trasformazioni eseguite nei numeri di trasformismo [12].
Fregoli prima in carne ed ossa poi in immagine, celebrava il primo cinema e il suo innato dinamismo. Non pochi giornalisti dell’epoca, in effetti, arrivarono ad accostare le esibizioni trasformistiche dell’artista romano alle meraviglie profuse dal neonato cinematografo. Colorite definizioni andarono ad arricchire gli entusiastici articoli che riferivano di Fregoli e dei suoi portentosi spettacoli: “E’ strano, è fenomenale quest’uomo che in un attimo si trasforma in mille modi. Esso è un lampo, una corrente elettrica, è un cinematografo vivente.” [13] E ancora: “Ma il clou della serata fu costituito dal celebre Eldorado […] dove Fregoli con la consueta rapidità, passa come un cinematografo tramutandosi da regisseur a clown, da baritono d’opera seria in ventriloquo.” [14] La definizione ‘cinematografo vivente’ è sicuramente la più interessante e concorda con quanto avrebbe affermato Mario Corsi riferendosi agli spettacoli del trasformista: “Potremmo anche aggiungere che i suoi spettacoli abbiano precorso il cinema, in quanto per primi introdussero sulle scene quel dinamismo, quel ritmo, quel susseguirsi veloce di quadri, consentito da ‘mutazioni’ pressochè a vista, che era destinato a diventare la regola caratteritica della nuova arte del cinema.” [15] Dunque, i numeri trasformistici fregoliani caratterizzati da un movimento rapido e nello stesso tempo fluido, rappresentavano ai più una chiara evocazione del procedimento cinematografico. Una evocazione ma soprattutto una anticipazione tutta risolta scenicamente di quello che sarebbe stato il primo simbolo della nuova temperie culturale. Fregoli comprese la necessità di incalzare il pubblico con nuove trovate sceniche; l’artista, seppur inconsapevolmente, desiderava portare sulla scena “la stessa eccitazione plurisensoriale, la stessa stimolazione vitalistica e, in definitiva, quel nuovo sapore dionisiaco della vita che nasceva con le grandi concentrazioni urbane.” [16] I suoi spettacoli, così, si risolvevano in veri e propri vortici di sollecitazioni sinestetiche, esibizioni dominate da uno sfacciato vitalismo, manifestato da un sorriso ingenuo ma irriverente. Dopo di lui, il cinema confermerà questa tendenza; il suo ritmo, frutto non delle capacità di un uomo, ma del felice connubio tra meccanica e fotografia, sarebbe entrato in maniera dirompente nella vita dell’uomo del nuovo secolo. Soltanto con l’avvento del Futurismo, però, questo processo in atto si sarebbe tramutato in una consapevole presa di posizione: “Il futurismo si fonda nel completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche. Coloro che usano oggi del telegrafo, del telefono e del grammofono, del treno, della bicicletta, della motocicletta, dell’automobile, del transatlantico, del dirigibile, dell’aeroplano, del cinematografo, del grande quotidiano (sintesi di una giornata nel mondo) non pensano che queste diverse forme di comunicazione, di trasporto e d’informazione esercitano sulla loro psiche una decisiva influenza.” [17] I futuristi, dal canto loro, affidarono proprio al Teatro di Varietà il compito di rinverdire l’ormai sclerotizzato teatro d’inizio secolo. Il manifesto del Teatro di Varietà rappresenta un proclama entusiastico che seppur con qualche colpevole tentennamento fu seguito da varie collaborazioni con artisti del teatro leggero: Luciano Molinari, Raffaele Viviani, Ettore Petrolini interagirono con l’avanguardia e il canzonettista Da Angelis fu persino tra i fautori del Teatro della Sorpresa del 1921. Il Teatro di Varietà poteva, secondo i futuristi, soddisfare maggiormente le pretese di un pubblico nuovo, cambiato dall’avvento delle nuove tecnologie. E in effetti il Teatro Sintetico Futurista arrivò a tradurre sulla scena del teatro drammatico innovazioni apportate dal teatro leggero e dai suoi comici: “una drammaturgia informale a partire dalle ‘piccole forme’ tipiche dello sketch del varietà” [18], l’abolizione sistematica dei “vecchi canoni illustrativi della ‘psicologia’ del personaggio codificati dalla tradizione teatrale ottocentesca” [19] che proveniva proprio dalle scenette del varietà. Si instaurò così un’insolita solidarietà tra Futurismo e varietà, realtà sostanzialmente boicottate dalla cultura ufficiale. Nonostante questo, però, Leopoldo Fregoli, non fu coinvolto in nessun progetto futurista, anche se i riferimenti a lui e alla sua arte non mancano. Le parole del Manifesto del Teatro di Varietà, ad esempio, non lasciano adito a dubbi: “Inoltre il teatro di Varietà spiega luminosamente le leggi dominanti della vita moderna: […] d) simultaneità di velocità + trasformazioni (Es: Fregoli) ” [20]. Potrebbe trattarsi semplicemente di un omaggio ad un artista ormai in declino, oppure essere frutto di quell’ammirazione paternalistica delle avanguardie nei confronti del teatro popolare. Le parole di un giornalista partenopeo risalenti al 1903, però, avanzano ipotesi del tutto diverse: “Concepire […] un Fregoli senza i treni che percorrono 130 kilometri l’ora, senza il telegrafo […], senza la luce elettrica, senza la macchina che inghiotte un albero e rende delle sedie belle e fatte; concepire un Fregoli senza il café-chantant che ha sostituito nel campo delle voluttà a teatro il ballo, come la ferrovia nel campo delle operosità ha sostituito le diligenze di posta; concepire Fregoli insomma senza tutti i febbrili, fulminei portati dell’attività della nostra era, non è possibile. Fregoli […] è l’esponente giocoso, divertente di tutto ciò che è valso nel secolo XIX a dare un impulso di rapidità vertiginosa alla vita…” [21] Nel Manifesto del Teatro di Varietà, inoltre, si legge: “Il Futurismo esalta il Teatro di Varietà perché […] è il solo che utilizzi oggi il cinematografo…” [22]. Come fare a non pensare al trasformista che con il suo Fregoligraph fu tra i primi ad inserire proiezioni cinematografiche all’interno dei propri spettacoli. Richiami evidenti a Fregoli sono presenti, inoltre, nei testi di alcune sintesi futuriste. In Costruzioni ad esempio, sintesi in tre mini-atti, Remo Chiti pensò bene di rappresentare un omicidio al rovescio, partendo dal ferimento mortale ai motivi che lo avevano causato. Un procedimento formale che s’ispirava alle esperienze cinematografiche di Fregoli. L’artista infatti durante le proiezioni del Fregoligraph, aveva avuto l’idea di proiettare i suoi film dalla fine all’inizio. Così scrive infatti nelle sue memorie: “Un giorno, mi saltò il ticchio di fare uno scherzo al pubblico anche attraverso lo schermo: feci proiettare qualcuna delle mie pellicole al rovescio. Il pubblico vedeva, sbalordito, uscire gli abiti dalle mani degli inservienti, o passare dalle sedie addosso al trasformista, e questo marciare velocissimo all’indietro, e via di seguito…Furono torrenti d’ilarità, nella sala!” [23]. In Fantasia di 1ma classe di Cangiullo, Leopoldo Fregoli appare addirittura tra i personaggi. La pièce ha come sottotitolo Compenetrazione + simultaneità; il procedimento della compenetrazione, lanciato da Marinetti, si basava sulla percezione simultanea di avvenimenti conflittuali. Tale procedimento sferrava un ulteriore colpo all’illusionismo naturalista. L’azione si svolgeva in una sala d’attesa di una stazione ferroviaria. L’entrata era sul fondale. Nell’angolo sinistro una viaggiatrice avvolta per il freddo in un plaid. Sul divano a destra, il viaggiatore e il suo amico iniziavano una conversazione. Ad un certo punto il viaggiatore, indicando il plaid che avvolgeva la viaggiatrice, raggomitolata laddove le panchine formavano un angolo, lo accostava con un procedimento analogico, ad un fazzoletto prima di scomparire dalle mani di un prestigiatore. All’ardito accostamento seguiva la fulminea apparizione di Leopoldo Fregoli sulla scena, pronto per eseguire il classico numero del fazzoletto. Il trasformista nella veste di mago non interagiva con gli altri personaggi e, credendo di essere in teatro, alla fine del numero s’inchinava per ringraziare il pubblico, uscendo di scena senza aggiungere altro. La conversazione tra i due amici, che nel frattempo non si era affatto interrotta, proseguiva poi normalmente. La sintesi fu pubblicata nel dicembre del 1915 e non si hanno notizie riguardo una sua probabile messa in scena. L’introduzione di Fregoli con il suo gioco di prestigio porta ad una nuova visione della realtà. Il dinamismo del mondo moderno, “en exaltant tout ce qui est fugacité et image, donne à la réalité même une dimension hallucinatoire.” [24] Coinvolgere Fregoli andava al di là di un’operazione meramente metateatrale: Cangiullo probabilmente voleva portare sulla scena uno degli emblemi stessi di questo nuovo dinamismo. Ciononostante, i primi spettacoli futuristi vennero caratterizzati paradossalmente proprio dall’incapacità di raggiungere sulla scena la rapidità auspicata da Marinetti. Filippo Mateldi che assisteva dalle quinte agli spettacoli del Teatro della Sorpresa, non esitava ad alludere a Fregoli come modello ideale per le messe in scena futuriste: “Avec la rapidité de merveilleux transformistes, les acteurs et les actrices changent vertigineusement de costumes, de maquillage, de chaussures. Des vêtements et des accessoires modernes et anciens apparaissent en alternance et à toute vitesse. ” [25] La rapidità delle sintesi ricercata con energia sulla carta, si trasformava in un’imbarazzante lentezza sulla scena. I futuristi, infatti, se da un lato non mancarono di lodare il varietà e i suoi artisti, dall’altro, per l’allestimento delle proprie sintesi, si affidarono a compagnie di prosa tradizionali che utilizzavano interpreti legati proprio al repertorio contestato dal Futurismo. Non ‘comici futuristi’, ‘agili’ e ‘vibranti’, dunque, come auspicava il critico Yambo. Di sicuro le collaborazioni con artisti del varietà non mancarono ma appare incomprensibile la sostanziale indifferenza verso le mirabolanti imprese teatrali di Fregoli. Del resto, il trasformista nelle sue memorie non lesina entusiasmo nei confronti di un fantomatico articolo intitolato ‘Il dinamismo di Fregoli’, scritto, a suo parere, dallo stesso Marinetti, manifestando con tale atteggiamento una chiara disponibilità a collaborare con il movimento d’avanguardia. Al trasformista, l’avanguardia italiana preferì Ettore Petrolini, di certo più graffiante e caustico e che fra l’altro si andava affermando sulle scene del teatro leggero proprio in concomitanza con la diffusione delle idee futuriste. Per Fregoli dopo il 1910, invece, cominciava la fase discendente della propria carriera che lo avrebbe portato nel 1925 al ritiro dalle scene. Se abissale è la differenza fra i due comici per quanto concerne il ‘tasso di aggressività’ sulla scena, comune è l’impulso a parodiare soprattutto attori e personaggi del teatro e del mondo dello spettacolo. Un altro importante aspetto, tuttavia, lega il talento dei due attori alla poetica futurista. Artioli rileva come il termine velocità, così ricorrente nei documenti programmatici del teatro futurista, finisca inevitabilmente per apparire sottoposto “a un duplice statuto, che ne designa a un tempo il valore metaforico e letterale”. Avremo da un lato, una velocità che corrisponde ad un “accavallamento di spazio-temporalità”, ad una “offerta di situazioni rifluenti l’una nell’altra in un vorticoso gioco pirotecnico” e che per questo “inclina alla metamorfosi e alla trasformazione”; dall’altro una velocità che “in quanto accordo del dissimile, dilaga in direzione del materiale verbale”: avremo allora “l’analogia incongrua […] l’utilizzazione del calembours e del non-sense” [26], ecc… E’ sorprendente come le due materializzazioni del termine velocità, avanzate dallo studioso, richiamino alla mente gli aspetti peculiari dell’arte dei due attori. Un dinamismo che si manifesta scenicamente attraverso la trasformazione (Fregoli) e attraverso i giochi di parole (Petrolini). Dunque, il mancato incontro tra Fregoli e l’avanguardia a ben vedere si tramuta in un’occasione mancata da parte del teatro sintetico futurista per vincere definitivamente le molte ‘resistenze passatiste’ che soprattutto nei primi anni lo costrinsero a frequentare i circuiti del tanto osteggiato teatro tradizionale.
Il cinema, già presente in nuce nelle esibizioni
trasformistiche di Fregoli, rappresenta un importante capitolo nella sua lunga
carriera. Con ogni probabilità, già dopo qualche mese dall’incontro con Louis
Lumière, Fregoli pensò di introdurre proiezioni cinematografiche all’interno
dei suoi spettacoli. Bisogna dire che il trasformista non fu il primo a fare
questa operazione. Già nel 1896, infatti, alcuni film erano stati proiettati all’Olympia
e all’Alhambra di Londra; in Italia, sempre nel 1896, era stato il Salone
Margherita di Napoli ad ospitare per primo il neonato cinématographe. Il primo
accenno ad un cinematografo utilizzato nel corso delle esibizioni fregoliane
risale invece al 18 gennaio 1898. Nell’articolo del 18 gennaio 1898 il Corriere
di Napoli si riferisce allo spettacolo tenuto la sera precedente presso il Gran
Circo delle Varietà di Napoli; in quell’occasione, secondo l’articolista,
Fregoli “ha spiegato il metodo di lui ‘Fregoli dietro le scene’ [sic] ed
il pubblico rise moltissimo”
[27].
La sezione cinematografica o Fregoligraph quasi sicuramente rimase nei
programmi degli spettacoli fregoliani fino al 1907; in seguito nessun documento
consultato attesta la presenza di detta sezione. Sono gli anni della prima
crisi del cinema; dopo il primo momento di curiosità, gli impresari teatrali
cominciarono a disaffezionarsi nei confronti dell’immagine animata: i programmi
cinematografici del resto erano troppo brevi e soprattutto si basavano su
pellicole tremolanti. Antonio Morosi, uno dei primi storici del teatro leggero
italiano, affermava: “La luce e le sue applicazioni alla fotografia, hanno
fatto pullulare i Cinematografi cui, per far correre la gente, vennero dati i
noi più diversi come Biograph, Fregoligraph, Vitoscope, Kosmograph ecc.
ecc. ma gira e volta erano i soliti films con accompagnamento di tremolio nelle
immagini. Il cinematografo, però, […] non in tutti i caffè concerto ottiene il
medesimo successo e la Direzione prima di scritturarlo, bisogna che conosca
bene il suo pubblico.”
[28]
La prima crisi del cinema colpisce irrimediabilmente anche il Fregoligraph
che faceva perno sul vecchio apparecchio Lumière. Su El Diluvio, rivista
spagnola, ad esempio, si leggeva: “Nada perdería el espectáculo fregoliano
suprimiendo enteramente las proyecciónes.”
[29]
Fregoli, probabilmente decidendo di eliminare il Fregoligraph dai suoi
spettacoli, riconosceva la validità di tali affermazioni. Lo spettacolo
fregoliano mutava così il suo aspetto e le esibizioni trasformistiche, dopo il
1907, ne costituivano ormai la totalità. Non è da sottovalutare tuttavia
l’enorme apporto dato da Leopoldo Fregoli allo spettacolo cinematografico; con
lui la nuova arte irrompeva a pieno titolo in molti teatri italiani fino ad
allora riservati ai lavori drammatici e alla lirica: il Costanzi di Roma, il
Vittorio Emanuele e il Carignano di Torino. Grazie a Fregoli, le qualità di
intrattenimento insite nello spettacolo cinematografico sono scoperte e
apprezzate da un pubblico diverso da quello popolare, vale a dire le élites
culturali e la medio-alta borghesia, fino ad allora diffidenti nei confronti
delle proiezioni animate. L’artista d’altronde può essere annoverato a buon
diritto anche tra i pionieri del linguaggio cinematografico.
[30]
<
La presenza del Fregoligraph all’interno degli spettacoli
fregoliani, però, pone questioni che esulano da un discorso prettamente
cinematografico. Il Fregoligraph, come ho detto, chiudeva solitamente gli
spettacoli del trasformista. Durante questa sezione uno “schermo di mt. 4 per
3”
[31]
veniva “collocato in mezzo alla superficie del sipario.”
[32]
Lo schermo aveva una “cornice adorna di lampadine colorate”
[33]
e “la proiezione avveniva per trasparenza dal palcoscenico”
[34].
La presenza fisica dello schermo cinematografico sulla scena del teatro di
varietà non era una novità; come ho detto i ‘santuari’ del varietà europeo
prevedevano già dal 1896 proiezioni
cinematografiche all’interno dei propri programmi. A ben vedere, però, tale
operazione considerava il cinema un numero slegato dagli altri. La presenza
delle proiezioni all’interno di questi programmi, infatti, non rispondeva ad
alcuna logica. In Fregoli, invece, l’inserimento del medium cinematografico
acquistava un suo preciso significato: “Fregoli era consapevole (o almeno lo è
stato al momento in cui lavorava alle sue memorie) di usare il cinema e gli
effetti cinematografici in funzione dell’efficacia dello spettacolo.”
[35]
Bisognava a tutti i costi “modernizzare un prodotto (lo spettacolo d’arte
varia) che intendeva intrattenere e divertire il nuovo pubblico delle città
moderne i cui ritmi quotidiani erano profondamente cambiati”
[36].
L’operazione fregoliana ha rilevanza soprattutto se si prende in esame il film Fregoli
dietro le quinte. In questa breve pellicola (parlo di pellicola ma
probabilmente Fregoli realizzò più film dello stesso tipo),
il trasformista mostrava tutto quello che
avveniva dietro le quinte durante i suoi numeri trasformistici. Le immagini in
differita chiamavano in causa così i numeri trasformistici che le avevano
precedute: un legame biunivoco s’instaurava tra immagini e numeri di varietà.
La “compresenza dell’attore vivo e in immagine, l’intersecarsi di vero e falso”
[37],
accresceva senza dubbio l’effetto di
meraviglia provato dallo spettatore durante i numeri di trasformismo. A ben
vedere, però, ricollegandomi a quanto detto precedentemente, si può dire che la
collocazione del medium cinematografico sulla scena realizzata da Fregoli con
il suo Fregoligraph, costituisse soltanto la materializzazione di un
cinematografo già evocato inequivocabilmente durante i numeri di trasformismo;
essi costituivano un chiaro antefatto con il loro ritmo incessante e
l’esasperazione del procedimento del montaggio dei quadri, tipico del varietà.
Negli spettacoli di Fregoli, dunque, si assisteva ad una vera e propria
celebrazione del cinematografo, trait d’union tra sezioni del programma
apparentemente scollegate. Affiora il tentativo da parte dell’artista di
rendere organico uno spettacolo come quello d’arte varia, votato
necessariamente alla frammentarietà. I rimandi reciproci tra cinema e varietà
presenti nei suoi spettacoli, del resto, avevano alla base “una comune
percezione del mondo come ‘attualità veloce’.”
[38]
Questo collegamento tra i due dispositivi realizzato da Fregoli si ritroverà
più tardi nel teatro delle avanguardie
storiche. Un confronto con esperienze analoghe a questo punto potrebbe chiarire
meglio il valore dell’operazione messa in atto dal trasformista. L’uso di
schermi cinematografici sulla scena teatrale caratterizza il lavoro di molti
registi ed autori della prima metà del XX secolo. Un uomo in particolare, però,
rappresenta la chiave di volta per ciò che concerne il non sempre facile
rapporto tra cinema e teatro. Si tratta del noto regista tedesco Erwin Piscator
che è ricordato soprattutto per i suoi allestimenti degli anni ’20. In Ad
onta di tutto!, opera rappresentata al Grosses Schauspielhaus di Berlino
nel luglio 1925, ad esempio, per la prima volta le proiezioni venivano
collegate agli avvenimenti scenici. I film usati durante lo spettacolo erano
pellicole autentiche di guerra, documenti riguardanti le famiglie regnanti
d’Europa, ecc. L’impatto delle immagini autentiche, interagendo con il dramma
provocava un effetto dirompente: “Il momento di sorpresa che risultava dal
passaggio dal film alla scena recitata e viceversa, aveva già di per sé un
grande effetto. Film e scena si intensificavano con un effetto reciproco e così
in certi momenti venne raggiunto un ‘furioso’ nell’azione, che non mi era mai
successo di vedere in un teatro.”
[39]
Con Ad onta di tutto! il regista superava la semplice giustapposizione
di proiezioni e azione scenica, che era stata invece alla base
dell’allestimento di Bandiere (1924). Tuttavia è con Opplà, noi
viviamo! di Toller, messo in scena al Theater am Nollendorfplatz nel 1927,
che Piscator raggiunse la sostanziale fusione tra cinema e teatro. Il cinema
era addirittura previsto nel testo di Toller; anche la costruzione scenica era
stata pensata “in previsione di un forte impiego del film.”
[40]
Infatti tale impalcatura “si doveva presentare allo spettatore come un enorme
schermo cinematografico, sul quale veniva proiettato il film introduttivo. Nel
momento in cui l’introduzione cinematografica sboccava drammaticamente nella
scena teatrale, si doveva aprire al posto corrispondente dello schermo (le
carceri che si dissolvono cinematograficamente nella cella della prima scena)
un settore quadrato del palcoscenico.”
[41]
E’ facile vedere gli spettacoli di Piscator come tentativi successivi per
giungere ad una completa integrazione fra i due media. In questo senso egli
ottenne maggiore successo quando provò a sistemare lo schermo sullo stesso
piano visuale della scena. Così accadeva in Opplà, noi viviamo!, come ho
appena detto, così in Rasputin, i Romanoff, la guerra e il popolo che si
ribellò contro di loro (1927) in cui il film veniva proiettato “onto a
backdrop, onto a gauze stretched across the proscenium and onto the curved
surface of the globe inside whose opening segments the play was acted.”
[42]
Tuttavia l’impatto visivo del film aumentò
in maniera esponenziale quando il regista pensò di utilizzare gli stessi attori
come schermo. Afferma Piscator a proposito: “In questo modo il film era
trasformato nei movimenti degli attori e nelle azioni sceniche.”
[43]
In Tai Yang si desta (1931), ultima produzione tedesca di Piscator prima
dell’esilio, il film venne proiettato sui cartelloni dei dimostranti che
marciavano lungo il retropalco: lo schermo di proiezione
prendeva così forma dagli stessi elementi
scenici. Innes, tuttavia, non manca di sottolineare che Tai Yang si desta
costituisce un’eccezione; per lo studioso, infatti, gli esperimenti di Piscator
tendevano nella maggiorparte dei casi ad adattare le convenzioni drammatiche
alle necessità del mezzo filmico. Nell’Ultimo imperatore, addirittura,
l’arco di proscenio venne modificato, tanto da farlo assomigliare all’obiettivo
di una cinepresa. Piscator dice a proposito: “Un ‘diaframma’ che permette di
ingrandire o restringere a volontà la porzione di scena illuminata, come
l’iride di un apparecchio fotografico.”
[44]
Il rapporto tra i due media, quindi, secondo
Innes, lungi dall’essere bilanciato, propendeva inequivocabilmente a favore del
cinema. Del resto lo stesso Piscator affermava: “Il teatro era diventato poco
interessante. Il film più miserabile conteneva ancora più attualità, più realtà
eccitante dei nostri giorni, che la scena con i suoi pesanti macchinismi
drammatici e tecnici.”
[45]
L’uso del cinema da parte di Piscator rappresentava in effetti l’arma più
efficace per sovvertire la scena del teatro borghese. Il cinema era il mezzo
più adatto a ‘scuotere’ le masse proletarie, rivelando “l’influenza reciproca
fra i grandi sovrumani avvenimenti dell’umanità e un individuo o una classe.”
[46]
Lo stesso Piscator qualifica i film in base alla funzione assolta durante lo
spettacolo. Il film didattico, ad esempio, doveva comunicare semplicemente i fatti; lo spettatore veniva
così informato sull’argomento del dramma. Il Rasputin, messo in scena
nel 1928, cominciava proprio con un film storico nel quale venivano mostrati i
vari ritratti dei zar che avevano preceduto Nicola II, l’ultimo dei Romanov.
Piscator voleva mostrarlo “come il risultato finale di una lunga serie di
generazioni segnate dall’assassinio, la pazzia, l’inganno…”
[47]
Nessuno spettatore poteva conoscere così chiaramente la serie degli antenati di
Nicola II, né la storia dello zarismo: il film aiutava lo spettatore a
comprendere più facilmente lo svolgimento drammaturgico. Naturalmente in questa
categoria può essere a buon diritto inserito anche il documentario di Ad
onta di tutto!, di cui ho già parlato. Accanto al film didattico, Piscator
dà notevole importanza al film drammatico; esso “si inserisce nello
sviluppo dell’azione. Sostituisce la scena recitata. Ma dove la scena
sprecherebbe il tempo con spiegazioni, dialoghi, controscene, il film illumina
con un paio di rapide immagini la situazione del dramma.”
[48]
Si pensi al film utilizzato in Opplà, noi viviamo! di Toller, nel quale
vengono passati in rassegna i lunghissimi otto anni trascorsi dal protagonista,
isolato dal resto del mondo. In
questo film venivano segnalati gli avvenimenti più importanti di quegli anni:
“1919 Versailles; 1920 New York, krachs bancaires; 1921 le fascisme en Italie;
1922 la faim à Vienne; 1923 l’inflation; 1924 la mort de Lenine; suit un
extrait de journal annonçant la mort de Mme Thomas ; 1925 Gandhi ;
1926 la guerre en Chine, conférence des chef d’Etat européens.”
[49]
In questo caso il dono della sintesi posseduto intrinsecamente dal film
si rivelava in tutta la sua efficacia : “Nessun altro mezzo oltre al film
potrebbe passare in rassegna otto anni interminabili nello spazio di 7 minuti.”
[50]
L’ultima categoria prevista da Piscator è quella del film di commento.
Esso accompagnava lo sviluppo del
dramma e indirizzandosi prevalentemente
allo spettatore, lo interpellava, attirava la sua attenzione sui momenti
salienti dell’azione. In altri casi il film poteva servire semplicemente a
colmare i tempi morti della messa in scena; allo stesso modo le proiezioni
fisse e il dispositivo scenico servivano ad evitare i cambiamenti di scena. Con
Piscator, dunque, la collocazione del medium cinematografico sulla scena
raggiunge una piena funzionalità sia in
rapporto al dispositivo scenico sia in rapporto allo svolgimento del
dramma. Tuttavia la presenza del cinema
negli spettacoli di Piscator travalica ampiamente l’uso di schermi e
proiezioni. Si può dire che molti
procedimenti utilizzati dal regista riconducano direttamente al cinematografo.
L’azione scenica assimila principi propriamente cinematografici, si appropria
dello “spazio-tempo filmico”, “con la rapidità, con la sintesi, con la
visualizzazione, col montaggio, con la simultaneità e compenetrazione delle
scene, con l’uso più frequente di simboli e analogie, con l’ambientazione di
una scena nel mondo.”
[51]
Piscator ricorre a molti di questi procedimenti innanzitutto per assicurare
fluidità e continuità ai suoi spettacoli. In Ad onta di tutto!, ad
esempio, fece costruire come impalcatura centrale del quadro scenico un
praticabile, ovvero “un’architettura a terrazze distribuita regolarmente, che a
una parte era formata da una superficie obliqua, dall’altra da scale e da
piattaforme.” [52] Sui vari
piani, nelle nicchie e nei passaggi, il regista dispose le varie scene; il
dispositivo fu poi collocato su una piattaforma girevole.
Tutto ciò, prosegue Piscator, col fine
precipuo di raggiungere “l’unità della costruzione scenica” e “uno sviluppo
ininterrotto e senza pause dello spettacolo”
[53].
In Opplà, noi viviamo! la continuità della messa in scena fu ottenuta in
maniera ancor più efficace, sempre con la realizzazione di un apparato
multiscenico. Usando una scena multipla, infatti, Piscator poteva collegare le
diverse sequenze in modo diverso. Al posto di una serie di scene distinte e
recitate consecutivamente, gruppi o individui ciascuno nella propria area
d’azione (delle vere e proprie stanze), recitavano isolatamente. I movimenti
dei riflettori pensavano successivamente a collegare le varie scene tra loro:
“from the radio-operator’s attic to the banker’s suite, to the servant’s
cellar, returning to the radio-operator and back to the banker.”
[54]
Potevano essere mostrate, in questo modo, relazioni non messe in luce dal testo
e sconosciute agli stessi attori. In questo modo l’autore o direttore era il
vero deus ex machina; egli poteva alterare l’ordine delle scene. Il montaggio
delle varie scene, come in un film, decideva lo sviluppo dell’azione. Il
montaggio permetteva al regista tedesco di introdurre in teatro una nuova
dimensione, portando ad una decentralizzazione
dell’azione scenica a tutto vantaggio della rapidità e della varietà dei
collegamenti. Lo spettacolo di Piscator, insomma, abbonda di riferimenti
cinematografici: continuità, montaggio, rapidità, richiamano evidentemente il
dispositivo del cinema. Lo Schweik (Le avventure del prode soldato Schweik) però
costituisce il non plus ultra in questo senso; lo spettacolo fu rappresentato
da Piscator con l’aiuto di Brecht e Gasbarra nel 1928 e si avvaleva dei disegni
animati di George Grosz. Il soldato Schweik, romanzo di Jaroslav Hašek,
presentò non pochi problemi al momento della sua realizzazione scenica.
Piscator riferendosi all’opera di Hašek diceva: “E’ precisamente un romanzo nel
quale, ad onta della passività del protagonista, tutto è in continuo movimento.
[…] intorno a lui c’è un continuo movimento. Tutto scorre perpetuamente. E’
straordinario come in questa fluidità della materia epica si esprima tutta
l’ansia della guerra.”
[55]
Era necessario mostrare in maniera chiara ed eloquente tale movimento
incessante e disumanizzante. Piscator pensò allora di ricorrere al tapis
roulant: così veniva risolto qualsiasi problema a livello drammaturgico. Il
tapis roulant permise di collegare senza fratture le scene più significative
dedotte dal romanzo. Si può dire che i due tapis roulant utilizzati da
Piscator in Schweik prendessero il posto dei riflettori usati in Opplà.
La descrizione dell’architettura scenica utilizzata in questo spettacolo sottende
l’idea di estrema mobilità: “Su tutta la
scena, oltre ai 2 nastri continui, non si trovavano altro che i due grandi
telai collocati uno dietro l’altro e come sfondo una grande superficie di tela.
I singoli elementi delle scene entravano in parte sul palcoscenico a sipario
alzato, sopra i nastri continui, in parte erano appesi e potevano essere messi
a posto, alzati e abbassati, con grande rapidità. Era la scena più semplice,
più pulita e più facilmente trasformabile che avessi mai costruito. Tutto si svolgeva
rapidamente e apparentemente quasi senza fatica. Un momento particolare di
tutto questo apparato mi sembrava la sua insita comicità. Tutto quello che
avveniva sulla scena dal punto di vista tecnico costringeva a ridere anche
contro voglia. Pareva che si fosse raggiunto un completo accordo fra
l’argomento e l’apparato scenico.”
[56]
Piscator aveva chiaramente in mente il
movimento alogico e sconclusionato degli slapsticks americani; per il suo Schweik
pensava ad “una specie di stile knock-about, che ricordasse il teatro di
varietà e Chaplin.”
[57]
A questo punto sarebbe una grave omissione non parlare del
teatro sintetico futurista. Il futurismo infatti, che notoriamente non
manifestò mai un eccessivo entusiasmo nei confronti del cinematografo, pensò
che il dinamismo del cinema e la sua grande capacità espressiva si sarebbero
rivelati assai utili se assunti sulla scena. Analizzando i procedimenti formali
di alcune sintesi futuriste, in effetti, l’apporto del cinema
viene alla luce in tutta la sua evidenza. Ne
La Sorpresa di Marinetti una morte accidentale era immediatamente
seguita da funerali improvvisati in maniera che tutto si svolgesse in maniera
apparentemente normale. La trovata di Marinetti consisteva nel far apparire un
carro funebre vuoto nel momento preciso in cui si manifestava la necessità di
nascondere un cadavere. L’autore si ispirava probabilmente al film di Max
Linder Intesa cordiale del 1910. Nel film due uomini, cercando una donna
con cui trascorrere la serata, leggono piccoli annunci su un giornale; uno in
particolare li colpisce e nello stesso istante la donna dell’annuncio bussa
alla loro porta. Qui, come nella sintesi, si assiste ad una compressione del
tempo, contraria ad ogni logica naturalista; tale compressione permette
l’incontro tra il desiderio e il suo oggetto. Nella sintesi Il piccolo
teatro dell’amore che rientra nella categoria del dramma d’oggetti,
Marinetti volle invece portare sulla scena la vita non umana degli oggetti. Il
teatro in legno, il buffet, la credenza agivano sulla scena indipendentemente
dall’intervento dell’uomo. In questa pièce, in definitiva, si assisteva ad un
“élargissement de la notion de ‘personnage’ ”
[58],
arrivando ad un sostanziale sovvertimento della visione antropocentrica del
teatro naturalista. Anche in questo caso il cinema costituì molto probabilmente
un importante modello. Nei film a trucchi di Méliès, infatti, realizzati nei
primi anni del Novecento, gli oggetti prendevano vita da soli (Locatario
diabolico del 1906 ad esempio). Ne Le Basi di Marinetti il tributo
al cinema è ancora più esplicito. Come accadeva nel cinema comico, si aveva
anche qui il montaggio di più azioni all’interno della stessa inquadratura. La
pièce inoltre utilizzava una messa in quadro cinematografica già sfruttata nel
film Amore pedestre di Marcel Fabre. In questo film una serie di
sequenze venivano realizzate inquadrando a mezza altezza i corpi dei
personaggi. Gli attori de Le Basi dovevano riuscire ad esprimersi con i
propri arti inferiori. In questo modo
Marinetti si opponeva consapevolmente all’illustrazione della psicologia dei
personaggi, trionfante sulla scena borghese. Ne Il chiaro di luna,
invece, l’autore pensò di inserire sulla scena, insieme ad una coppia di
innamorati, un personaggio misterioso; tale personaggio doveva rappresentare
“la synthèse alogique du plusieur sensations: peur de la réalité future, froid
et solitude de la nuit, vision de la vie vingt ans après, etc…”
[59]
Anche qui probabilmente l’autore pensò ad una tecnica in uso nel cinema di
quegli anni e precisamente alla sovrimpressione dell’immagine, utilizzata anche
nelle foto spiritiche allora molto in voga. L’impiego dell’analogia, principio
cardine di tutta la poetica futurista, può d’altronde essere collegato al
cinema nei casi in cui si può parlare,
a ragione, di una preponderanza dell’aspetto visivo. In Paralleli, ad
esempio, Marinetti accosta due realtà lontanissime stabilendo tra loro una
relazione analogica. Nella parte sinistra della scena una tenutaria di un
bordello invita i suoi clienti ad andare con le prostitute, mentre dall’altra
parte un brigadiere incita i suoi soldati a sferrare l’attacco contro il
nemico. Il montaggio delle sequenze analogiche è realizzato efficacemente con
il principio cinematografico dei sintagmi alternati; la luce di un proiettore
andava ad investire di volta in volta l’una e l’altra parte della scena.
Sequenze senza alcun rapporto logico venivano così collegate tra di loro. Il
procedimento della divisione cinematografica della scena usato in Le Basi
venne ripreso ne Le Mani di Marinetti e Corra. Nella pièce il sipario
era costituito da una tela tesa ad altezza d’uomo. Da sinistra a destra si
succedevano mani di uomini e di donne che apparivano in alcuni atteggiamenti.
Le mani erano visibili al di sopra della tela che veniva illuminata da un
proiettore. La sintesi di Remo Chiti, Costruzioni, di cui ho già
parlato, costituisce naturalmente un altro importante esempio, ispirandosi alle
esperienze cinematografiche di Fregoli. A questo punto vale la pena menzionare
l’opera di Pino Masnata che, nel suo Manifesto del Teatro Visionico,
preconizzava un teatro del monologo interiore. Il Teatro Visionico prevedeva la presenza di un personaggio,
chiamato Protagonista, che chiaramente ricopriva il ruolo principale. Questi
doveva recarsi sulla ribalta, a sipario chiuso per raccontare la sua vita.
Le parti più importanti di questa narrazione
non venivano esposte verbalmente ma rappresentate scenicamente: il sipario si
apriva mostrando i personaggi a cui il Protagonista aveva fatto poco prima
riferimento nella sua esposizione. L’azione si svolgeva in modo molto scarno,
essendo frutto di un ricordo. Successivamente le tele si chiudevano e il
Protagonista, rimasto alla ribalta, proseguiva la sua narrazione. Le parti
recitate o, usando la terminologia di Masnata, ‘le visioni’, non si svolgevano
secondo l’ordine cronologico dei fatti che rappresentavano ma secondo l’ordine
logico della ricordanza. Vale a dire che la ‘visione’,
sebbene recitata, non si svolgeva come
realmente si erano svolti i fatti, ma nel modo in cui questi riaffioravano alla
memoria: “confusi o mutilati o ripetuti per omissioni o sintetizzati e poi
sminuzzati.” [60] Tali idee,
che ebbero il plauso di Marinetti, costituivano uno sviluppo del teatro
sintetico proprio in virtù del fatto che
s’ispiravano al cinematografo e alla sua capacità di rendere soggettiva
l’immagine per mezzo della sovrimpressione o di visualizzare i ricordi con il
flash-back. Tocca a me! di Masnata, fu il primo esempio di azione
visionica futurista. Anche i futuristi Scaparro, Folgore e Volt subirono una
profonda influenza da parte del cinema; i loro ‘poemi cinematografici’ erano
vere e proprie sceneggiature di cortometraggi dal soggetto fortemente surreale.
Per il Futurismo, in sostanza, il cinematografo rappresentava un mezzo per
riformare il teatro tradizionale. Nulla di più. Lo conferma il fatto che
l’unico spettacolo futurista in cui abbia rintracciato l’inserimento di
proiezioni è quello messo in scena al Teatro Niccolini di Firenze il 28 gennaio
1917, durante il quale la proiezione cinematografica, come nel varietà, veniva
semplicemente giustapposta ad esibizioni di altra natura.
[61]
L’incontro tra schermo e scena avvenuto
negli spettacoli di Fregoli non venne in definitiva preso in considerazione dal
futurismo teatrale.
L’inserimento dei film negli spettacoli di Piscator,
invece, aveva chiare finalità politiche; come gli altri macchinari, il cinema
“non doveva più provocare slancio, entusiasmo, abbandono, ma comprensione,
cognizione, idee.”
[62]
Il regista tedesco pensava ad un teatro che non si rivolgesse più alla capacità
emotiva dello spettatore, ma alla sua ragione. Cionostante questa necessità
cozzava fortemente con “l’urgenza di rendere il teatro, dilatandone i mezzi,
capace di visualizzare le grandi forze che muovono la storia”
[63].
Tale “dilatazione tecnologica”
[64],
sebbene efficace e senza dubbio suggestiva in termini spettacolari, allontanava
le messe in scena piscatoriane da un teatro leggero, gestibile dalle classi
disagiate. Questa deriva verso una “visualizzazione globale”
[65]
della storia, lo conduceva verso una ricerca quasi ossessiva del “meraviglioso
tecnologico” [66]; la
comunicazione allora, lungi dall’essere lucida esposizione dei fatti, diventava
emozionante e il cinema si rivelava essere lo strumento principe di questa
operazione. Non siamo lontani, a ben vedere, dall’idea di meraviglioso
futurista sfornata da Marinetti nel Manifesto del Teatro di Varietà. Per
Artioli, infatti, il meraviglioso marinettiniano consisteva sostanzialmente
“nella possibilità di servirsi dei materiali tecnologici, dal cinematografo
alla luce, come attrezzi scenici generatori di magia e stupore”
[67].
Il Manifesto del Teatro di Varietà inoltre affermava: “Il Teatro di Varietà è
il solo che utilizzi oggi il cinematografo, che lo arricchisca d’un numero
incalcolabile di visioni e di spettacoli irrealizzabili (battaglie, tumulti,
corse, circuiti d’automobili e d’aereoplani, viaggi, transatlantici, profondità
di città, di campagne, d’oceani e di cieli).”
[68]
Considerando il fatto che Fregoli fosse citato per ben due volte in questo
manifesto, non è da escludere che parlando di cinema inserito in uno spettacolo
d’arte varia, Marinetti avesse presente proprio gli spettacoli dell’artista
romano. Fregoli, in effetti, considerava la tecnologia un efficace strumento di
presa sul pubblico. Prescindendo dal cinema, nei suoi spettacoli l’artista
utilizzava anche fonografi, fontane luminose…: “La prosa delle commedie, che
recita, è sua; la musica delle canzonette, sua; scenari, macchine, fonografi, cinematografi,
tutto suo.” [69] E ancora:
“naturalmente Fregoli per riuscire in tutto questo ha bisogno di tanti ausilii,
della luce elettrica, delle illusioni ottiche, di uno scenario splendidissimo e
suggestionante. E per giungere a questa condizione di cose non han forse
contribuito tutte le sorprese delle scoperte scientifiche, venute avanti così
improvvise, così subitanee, così complesse?”
[70]
Il cinema dunque rientrava in una visione più globale di
tecnologia vista come produttrice di stupore. Una visione che accomuna
sicuramente le tre esperienze analizzate, ma che è collegata a finalità per
nulla simili. Per il Futurismo, come
abbiamo visto, il cinema rappresentava un mezzo per ravvivare il teatro
novecentesco. Piscator, da parte sua, affermava riferendosi al cinematografo:
“Non era che un mezzo, che domani avrebbe potuto essere sostituito da uno
migliore.” [71]
L’arsenale tecnologico di Piscator si
avvaleva di altri strumenti: “dalle proiezioni fisse, […], al palcoscenico
girevole, agli ascensori, ai tapis roulant.”
[72]
Il cinema era inglobato in un’idea di multimedialità che, a volte, lo relegava
al ruolo di semplice ingranaggio. Siamo lontani, dunque, dal tentativo operato
da Leopoldo Fregoli. Il cinematografo al contrario si integrava perfettamente
nei suoi spettacoli in quanto ne costituiva il principio motore. Le sue
fulminee trasformazioni, quasi a vista rappresentavano una chiara metafora
del dispositivo filmico, più dei tapis
roulant dello Schweik, più delle trovate futuriste. L’apparizione del
congegno, poi, svelando i segreti del retroscena (con il film Fregoli dietro
le quinte), soddisfava l’attesa generata nel pubblico durante i numeri di
trasformismo. Dopo l’evocazione, ci si preparava all’ostensione della
meraviglia tecnologica.
In ultima analisi, la proiezione del film Fregoli
dietro le quinte all’interno degli spettacoli fregoliani, porta a
considerazioni non prive di fascino. Per molti giornalisti e critici
dell’epoca, nonostante le note entusiastiche riguardanti le prodezze compiute
da Fregoli sulla scena, il vero spettacolo si consumava dietro le quinte. Qui
prendevano corpo le fulminee trasformazioni; qui l’artista aveva pensato di
piazzare la sua cinepresa Lumière per mostrare al pubblico incredulo, durante i
suoi spettacoli, l’assoluta genuinità dei suoi numeri. Le immagini dovevano
costituire, in un certo senso, una prova incontestabile della buona fede
dell’artista: “Noi per cortesia dell’egregio e simpatico signor Paradossi siamo
entrati a veder lavorare Fregoli dietro le quinte e siamo in grado di
asseverare che l’inganno non esiste affatto.”
[73]In
verità l’operazione di Fregoli, volta a chiarire i meccanismi alla base dei
suoi numeri di trasformismo, disorientava
ulteriormente lo spettatore che si trovava ad assistere alla
“compresenza dell’attore vivo e dell’immagine” , all’ “intersecarsi di vero e
falso, di reale e riprodotto”
[74].
Non è da escludere inoltre che così facendo s’istillasse di fatto nella mente
dello spettatore l’idea di una seconda scena posta dietro le quinte. Sarebbe
lecito allora parlare di due scene: una visibile, sulla quale l’attore agiva in
carne ed ossa ed in immagine, l’altra, occultata durante le prime parti dello
spettacolo ma svelata durante le proiezioni del Fregoligraph (con il
film Fregoli dietro le quinte, appunto). Tale ricognizione del resto
rimanda ad un sodalizio fortunatissimo consumatosi in Italia quarant’anni circa
dopo la morte del trasformista: quello tra l’attore e regista teatrale Giorgio
Barberio Corsetti e Studio Azzurro, gruppo che da diversi anni opera
nell’ambito della fotografia, del cinema e della televisione.
La camera astratta rappresenta
sicuramente il punto più alto di questa collaborazione. Nello spettacolo,
messo in scena per la rassegna “Documenta
8”, presso la Salzmannfabrik di Kassel, il 13 giugno 1987, lo spazio per la
rappresentazione prevedeva due ambienti: uno visibile su cui erano
collocati i monitor e alcuni meccanismi
atti a muoverli fisicamente; uno nascosto al pubblico in cui erano installate
numerose telecamere (“che inquadravano come tasselli di un mosaico uno spazio
praticabile” [75]) e la regia
da dove, in diretta televisiva, le telecamere venivano collegate ai monitor
sulla scena. I due ambienti erano separati da un doppio telo nero che serviva ad
evitare che gli spettatori potessero scrutare oltre il quadro scenico quando
gli attori si muovevano dal retroscena-set alla scena. Lo spettacolo prevedeva
l’utilizzo di due videoregistratori e di quattordici telecamere nel set e di
una batteria di venti monitor sulla scena. La scenografia era sostanzialmente
astratta; c’erano tuttavia alcuni oggetti: un monitor, due bilancieri, alcune
pietre e una ruota di legno, ma nessuno di questi appariva come un elemento
scenografico.
Parlare di uno spettacolo ipertecnologico come La
camera astratta, partendo dalle ingenue messe in scena fregoliane, potrebbe
sembrare ai più un’operazione ardita. Tuttavia, analizzando l’esperienza di
Studio Azzurro/Corsetti, nonostante l’evidente scarto temporale e tecnologico,
ci si imbatte ancora una volta in una idea ludica e assolutamente non invasiva
della tecnologia. In particolare, le
due esperienze prese in esame manifestano il pressante desiderio di uscire
dagli angusti limiti dell’inquadratura del boccascena. Un ‘altrove’ appare
sulla scena, proiettato su uno schermo cinematografico o trasmesso da monitor
variamente disposti. In tutti e due i casi si chiama in causa il retroscena.
Studio Azzurro grazie alla diretta televisiva mostra sulla scena le azioni
svolte nel medesimo istante dagli attori nel set, Fregoli si deve accontentare
di mostrare immagini precedentemente filmate da una macchina da presa posta
dietro le quinte. Da sottolineare è che la diretta di Studio Azzurro e la
differita di Fregoli non disvelano soltanto il retroscena (o set), ma anche
l’attore che lì agisce. La sua immagine viene catapultata al di là delle
quinte, alternandosi alla sua fisica presenza. La fluidità de La camera
astratta è garantita infatti proprio dalla diretta e dal movimento degli
attori. Le loro uscite ed entrate tra
monitor (collegati al set) e scena si dipanano fluide durante lo svolgimento
dello spettacolo. Negli spettacoli fregoliani, invece,
la fluidità/organicità, non potendo
usufruire della diretta, è garantita solo dall’azione dell’attore eccentrico.
L’attore costituisce il trait d’union tra numeri di trasformismo e immagini
cinematografiche. L’uscita di scena (alla fine della terza parte dello
spettacolo) e la rentrée sullo schermo del Fregoligraph, sebbene
avvenissero con un leggero scarto temporale (dovuto al passaggio tra una
sezione e l’altra dello spettacolo), avevano proprio nel movimento dell’attore
il loro punto di confluenza: Fregoli, con il suo incessante andirivieni,
ricompattava da solo uno spettacolo dalla
duplice natura. Alla luce di quanto detto, l’accostamento proposto potrebbe
apparire senz’altro più che ragionevole. Di sicuro la presenza di un dialogo
fluido e senza sostanziale soluzione di continuità tra scena e retroscena
rappresenta un elemento di sicuro interesse. Il varietà sui generis di Leopoldo
Fregoli, dunque, pur rimanendo spettacolo d’arte varia per le
sue componenti chiaramente eterogenee, anche
in questo caso manifesta con evidenza la sua spiccata propensione all’unità.
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[1]
Per l’Enciclopedia dello spettacolo il trasformismo “consiste in una serie di
imitazioni o impersonations, la cui attrattiva principale sta nella rapidità
con cui si effettuano i cambiamenti di trucco e di costume.” (Cervellati
Alessandro, Ottolenghi Vittoria, “Trasformisti” in Enciclopedia dello
Spettacolo Vol. IX , Roma, Le Maschere, 1962, col. 1094.)
[2] L’arte del
trasformismo, che ebbe la sua piena manifestazione in Italia con Fregoli,
affondava “le sue radici nel music-hall, ove gli imitatori e i parodisti, sia
in Gran Bretagna (fino dalla I metà dell’Ottocento) che in Francia (nella II),
si esibivano in scene rapidissime di imitazioni, per effettuare le quali
cambiavano – talvolta sulla scena – gli elementi del trucco e del costume
(basterà ricordare Charles Matthews e suo figlio omon., John Parry e suo figlio
omon. in G.B., e Castor Sfax in
Francia).” (“Trasformisti” in Enciclopedia dello spettacolo Vol. IX, op.
cit., p. 1094)
[3] Fregoli
collaborò con diverse compagnie durante la sua carriera.
[4]
Fregoli Leopoldo, Fregoli raccontato da Fregoli Le memorie del mago del
trasformismo, Milano, Rizzoli & C. Editori, 1936,
pp. 255-256.
[5]
Corriere Vesuviano, 19 aprile 1903.
[6]
Il programma dello spettacolo è incluso in Dell’Arco Mario, Cafè-chantant a
Roma, Milano, Martello, 1970.
[7]
Il Rinnovamento, 23 aprile 1899.
Cronaca dello spettacolo tenuto al Teatro Goldoni di Venezia.
[8]
Fregoli raccontato da Fregoli, op. cit., p. 136.
[9]
Ivi, p. 138.
[10]
Ivi, p. 216.
[11]
Incluso in Cafè-chantant
a Roma, op. cit.
I parte: Farsa
[non è specificato il titolo]
II
parte: 1. Orchestra Fregoli – Marcia
Fregoli – A. Calzelli 2. Repertorio
eccentrico 3. Il Maestro di canto
(terzetto comico musicale) 4. L’Ape
(Gran parodia d’opera seria)
III parte:
1. Orchestra – Bolero – A. Calzelli 2.
Paris-Concert Eldorado
(Rivista parigina per tutti i gusti)
IV parte: 1. Fregoligraph
12 quadri
Fregoli visto dietro le scene.
[12] Molti
filmini, tra l’altro, mostravano Fregoli intento a realizzare alcuni dei suoi
numeri teatrali.
[13]
Il Paese, 16 ottobre 1907.
[14]
Tribuna, 13 maggio 1899.
[15] Corsi
Mario, “Fregoli pioniere del muto e precursore del sonoro”, Cinema,
Roma, n.11, 10 dicembre 1936, pp. 416-417.
[16]
Lista Giovanni, Petrolini e i Futuristi, Salerno, Edizioni Taide, 1981,
p. 12.
[17]
Da “Le parole in libertà – La sensibilità futurista” (11 maggio 1913), citato
in Verdone Mario, Cinema e letteratura del futurismo, Calliano (Trento),
Manfrini Editori, 1990, p. 40.
[18] Petrolini
e i futuristi, op. cit., p. 31.
[19] Petrolini
e i futuristi, op. cit., pp. 19-20.
[20]
Marinetti Filippo Tommaso, “Manifesto del Teatro di Varietà”, Lacerba,
29 settembre 1913. Anche in Lapini Lia, Il teatro futurista in Italia,
Milano, Mursia, 1977, pp. 99-104.
[21]
Don Marzio, 22-23 marzo 1903.
[22]
Vedi Nota 20.
[23]
Fregoli raccontato da Fregoli, op. cit., p. 217.
[24]
Lista Giovanni, La scène futuriste,
Paris, Editions du centre de la recherche scientifique, 1989, p. 204.
[25]
Ivi, p. 226.
[26]Artioli
Umberto, La scena e la dynamis (immaginario e struttura nelle sintesi
futuriste), Bologna, Patron Editore, 1975, p. 193.
[27]
Corriere di Napoli, Napoli, 18 gennaio 1898. L’articolo è citato su
Bernardini Aldo, Cinema muto italiano 1896-1904, Roma-Bari, Editori
Laterza, 1980, p. 93.
[28]
Morosi Antonio, Il “Teatro di Varietà” in Italia, Editore Guido
Calvetti, Firenze, 1901, p. 118.
[29]
Il Diluvio, Barcelona, 8/11/1903.
[30]
A tal proposito rinvio al fondamentale contributo di Aldo Bernardini in Cinema
muto italiano Ambiente, spettacoli e spettatori 1896-1904, op. cit.,
pp. 91-107.
[31]
Pretini Giancarlo, Spettacolo leggero dal Music-Hall, al Varietà, alla
Rivista, al Musical, Udine, Trapezio Libri editore, 1997,
p. 89.
[32]Il
Messaggero, Roma, 18 marzo1899 su Cinema
muto italiano 1896-1904, op. cit., p. 95.
[33]
Fregoli raccontato da Fregoli, op. cit, p. 218.
[34]
Corsi Mario, “Fregoli pioniere del muto e precursore del sonoro”, Cinema,
n.11, Roma, 10 dicembre 1936, pp. 416-17.
[35]
Valentini Valentina, Teatro in immagine Vol. I, Roma, Bulzoni Editore,
1987, p. 62.
[36]
Ivi, p. 62.
[37]
Ivi, p. 61.
[38]
Ivi, p. 63.
[39]
Piscator Erwin, Il teatro politico, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi,
1976, I ed. 1960 (tit. orig. Das
Politische Theater,
Berlin-Wilmersdorf, Adalbert Schultz Verlag, 1929), p. 68.
[40] Ivi, p. 156.
[41]
Ivi, p. 155.
[42]
Innes C.D., Erwin Piscator’s
political theatre The development of modern german drama, London, Cambridge
university Press, p. 111.
[43]
Piscator Erwin, “Technology – an
artistic necessity for the modern theatre”, Bühnentechnische Rundschau,
October 1959, pp. 10f. , citato in Erwin
Piscator’s political theatre… , op. cit., p. 111.
[44]
Il teatro politico, op. cit., p. 233.
[45]
Ivi, p. 124.
[46]
Ivi, p. 64.
[47]
Ivi, p. 181.
[48]
Ivi, p. 182.
[49]
Lorang Jeanne, «Montage et
fonctionnement du montage chez Piscator. Vers une nouvelle dramaturgie»,
in AA.VV., Collage et montage au theatre et dans les autres arts,
Lausanne, La cité – L’âge d’homme, 1978, pp. 245-46.
[50]
Il teatro politico, op. cit., p. 157.
[51]Verdone
Mario, “Teatro e cinema: interazioni” in AA.VV., Il teatro nella società
dello spettacolo, a cura di C. Vicentini, Bologna, il Mulino, 1983,
p. 51-62.
[52]
Il teatro politico, op. cit., p. 64.
[53]
Ivi, p. 64.
[54]
Erwin Piscator’s political theatre…, op. cit., p. 100.
[55]
Il teatro politico, op. cit., p. 195.
[56]
Ivi, p. 200.
[57]
Ivi, p. 201.
[58]
La scène futuriste, op. cit., p. 194.
[59]
Lista Giovanni, Théâtre futuriste italien: anthologie critique,
traductions de Giovanni Lista et Claude Minot, Lausanne, La cité – L’age
d’homme, 1972, 2 voll., p. 171.
[60]
Verdone Mario, « Il teatro visionico » in Verdone Mario (diretto da),
Teatro contemporaneo Appendice I, Roma, Lucarini Editore, 1985, p. 75.
[61]
“Vie futuriste fut inséré dans un
spectacle complet avec, au program, des déclamations motlibristes et la mise en
scène du polyptyque dramatique Le Drame du futuriste de Settimelli et Corra,
qui comportait quatre synthèses: Les Corbeaux, Tuons le clair de lune,
Déclaration de guerre, Attaque d’aéroplanes autrichiens.” (La scène
futuriste, op. cit., p. 163).
[62]
Il teatro politico, op. cit., p. 37.
[63]
Ivi, p. XIII.
[64]
Ivi, p. XIV.
[65] Ivi, p. XIV.
[66] Ivi, p. XV.
[67]
La scena e la dynamis (immaginario e struttura nelle sintesi futuriste),
op. cit., p. 192.
[68]
Pubblicato il 1° ottobre 1913 su Lacerba, Firenze. Anche su Il teatro
futurista italiano, op. cit., pp. 99-104.
[69]
Corriere toscano, Livorno, 31 marzo 1899.
[70]
Messina, Teatro Vittorio Emanuele, 31 ottobre 1899.
[71]
Il teatro politico, op. cit., p. 64.
[72] Ivi, p. XIV.
[73]
Flirt, 30 novembre 1899.
[74]
Teatro in immagine, op. cit., p.
61.
[75]
Valentini Valentina (a cura di), Studio Azzurro Percorsi tra video, cinema e
teatro, Milano, Electa, 1995, p. 57.
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