Atleti del cuore
Round I e II per i Teatri dello Sport
di Oliviero Ponte di Pino
Tra qualche settimana avrà inizio a Milano la rassegna dedicata agli incroci tra teatro e sport, ideata e curata da Antonio Calbi & Teatri90. In anteprima dal catalogo della rassegna, la prima parte del testo di Oliviero Ponte di Pino.
PERSONAGGI
UN ATTORE
UNA ATLETA
Uno spazio vuoto e illimitato.
Da due direzioni diverse entrano un ragazzo e una ragazza in tenuta sportiva. Non si conoscono. Si guardano tra imbarazzo e curiosità.
PRIMO ROUND. LE PAROLE CHE ABBIAMO IN COMUNE
L’ATLETA (imbarazzata) Hello!
L’ATTORE (sorridendo in maniera esagerata) Hello!
(Silenzio. Si studiano.)
L’ATTORE Do you speak english?
L’ATLETA A little.
L’ATTORE Ok, then. We have some time to spend here tonight. We could do something together...
L’ATLETA (irritata) I don’t understand.
L’ATTORE Oh, no... (esita) We could play together...
L’ATLETA Yes, of course. I love to play tennis, hockey, volleyball...
L’ATTORE No, no, not those games! I wanted to say... You and me... Cristo, come si dice?
L’ATLETA Ah, ma sei italiano allora.
L’ATTORE Beh, potevi dirmelo prima che capisci l’italiano!
L’ATLETA (scoppia a ridere) Beh, potevi dirmelo prima tu!
L’ATTORE (ride anche lui) Ok, 1 a 1 e palla al centro. Vedi, io faccio l’attore, e per me “to play" vuol dire “recitare". Sai, il teatro...
L’ATLETA Dio, che scema! “To play", “jouer", “spielen"... Succede in un sacco di lingue: lo stesso verbo vuol dire “recitare" una parte e “giocare" un gioco.
L’ATTORE Io so a malapena l’inglese e cominci subito a umiliarmi con questa scienza, che neanche al Quiz Show...
L’ATLETA Beh, anche i quiz sono un gioco, una sfida. Dunque potrei dirti: “We can play Quiz Show". Credo che anche in quei programmi recitino dei ruoli. Sai, il bravo presentatore, il concorrente simpatico ma imbranato, quello bravo ma odioso...
L’ATTORE Complimenti, hai già capito tutto. E poi, secondo me sono tutte truccate, quelle trasmissioni. Insomma, le risposte gliele dicono prima, per far vincere questo o quello. La storia dei telequiz è piena di scandali del genere... Perché secondo me in televisione recitano tutti, Basta metterli davanti a una telecamera e diventano tutte comparse, un gran teatrino! Ma anche nello sport le gare truccate non si contano, vero?
L’ATLETA Sì, ci sono delle combines, ma sono davvero poche perché quando qualcuno lo scopre ci arrabbiamo tutti da bestia: gli arbitri, il pubblico, le federazioni, e soprattutto gli atleti onesti, che sono la maggioranza.
L’ATTORE Ma mi prendi per scemo? Con la sudditanza psicologica degli arbitri di cui parlano sempre al Processo, con tutti gli scandali per il doping che riempiono i giornali!
L’ATLETA No, fermo! Guarda che m’incazzo! Gli atleti seri e onesti, che - ripeto - sono la maggioranza, hanno altri sistemi per migliorare le loro prestazioni. Tanto per cominciare l’allenamento, il training... Altro che doping...
L’ATTORE Beh, questa è un’altra parola che abbiamo in comune...
L’ATLETA Il doping? Certo, con quegli attorucoli ubriaconi e fumati che si credono rock star...
L’ATTORE A volte per andare in scena, per vincere la timidezza, c’è bisogno di un aiutino. Sai, ti viene una di quelle paure...
L’ATLETA Ah, lo so bene, è capitato anche a me. Una gara importante, Era tutto a posto, ero preparatissima, ma all’improvviso mi sono sentita la testa vuota, non riuscivo più a pensare, ero come paralizzata. Avrei voluto essere ovunque - ma non lì...
L’ATTORE ...e ti sentivi le gambe molli, e non potevi fare un passo né avanti né indietro... E quella bestia così nera che non la vedi, l’animale dalle cento teste pronto a cogliere il tuo più piccolo errore... Lo chiamano il trac, la paura da palcoscenico, quella che ti svuota il cervello e cancella la memoria...
L’ATLETA Forse ci siamo già conosciuti da qualche parte, io e te? Magari abbiamo già avuto qualche occasione d’incontro...
L’ATTORE O di scontro. Chissà... Una specie di competizione. E’ proprio quello che vuol dire in latino “competere": cercare insieme.
L’ATLETA Ma la competizione è lotta, scontro, agonismo...
L’ATTORE E’ agonia, come nelle vere tragedie.
L’ATLETA Questa mi sembra un po’ forzata, ma ci penserò su.
FINE PRIMO ROUND
Vincitore del Primo Round
L’ATLETA L’ATTORE
SECONDO ROUND. LA TECNICA DEL PERFORMER
L’ATTORE Non so, ma dopo quello che ci siamo detti mi sembra di condividere un sacco di esperienze, con te.
L’ATLETA Che fai, ci provi?
L’ATTORE Non ancora, anche se hai un bel fisico, proprio come piace a me. Magra ma non scheletrica, mica come quelle anoressiche tristi che si vedono in giro. Poi - scusa la sincerità - ma quella tua pancia, piatta come una tavola, mi arrappa da bestia. Però a piacermi più di tutto è il modo in cui ti muovi, la consapevolezza che hai del tuo corpo. L’ho notata subito, la si coglie in ogni gesto. Una qualità indispensabile a ogni bravo attore. Per arrivare a questa consapevolezza, noi atleti da palcoscenico seguiamo la stessa strada degli sportivi autentici, il training. Ecco, era questa la parola che...
L’ATLETA ...ah, un’altra parola che abbiamo in comune... Vi allenate anche voi attori? Non lo sapevo.
L’ATTORE Pensa ai musicisti. Per suonare decentemente uno strumento, devono studiare ed esercitarsi per anni e anni. Per gli attori, per i danzatori o per i cantanti, il corpo e la voce sono lo strumento della loro arte. Anzi, direi di più: anche la loro anima, le loro emozioni, i loro ricordi sono strumenti della loro arte. Dunque...
L’ATLETA ...dunque anche voi artisti fate il training...
L’ATTORE Beh, se vuoi cercare un’altra parola che abbiamo in comune, pensa al termine performer. Io e te siamo due performer, cioè dobbiamo compiere una serie di azioni precise e in qualche modo decise in anticipo. Perciò io e te, in quanto performer, dobbiamo conoscere la nostra tecnica ed essere allenati. Come tutti gli altri sportivi, musicisti, attori, danzatori...
L’ATLETA Non capisco. Un musicista o un ballerino, è chiaro che devono possedere una tecnica. Ma un attore - che sia al cinema o in teatro - deve prima di tutto apparire naturale. Per me un bravo attore dev’essere com’è nella vita. E ogni tecnica toglie spontaneità e naturalezza.
L’ATTORE Non è così semplice. In scena la naturalezza è una conquista. Una conquista difficile. Per esempio, come fai a provare le emozioni di un personaggio probabilmente molto diverso da te? Come fa una bella ragazzona sportiva come te a diventare l’ambiziosa e assassina Lady Macbeth? O la tenera Giulietta?
L’ATLETA Scusa, ma che ne sai? Un po’ di ambizione e un qualche istinto omicida ce li ho anch’io, sai? E posso anche innamorarmi - ma probabilmente non di te, caro il mio Romeo.
L’ATTORE Guarda, per diventare una Lady Macbeth minimamente credibile dovresti fare una bella fatica. E non sapresti da che parte cominciare.
L’ATLETA Senti, prova a prendere un esempio meno strampalato.
L’ATTORE Il problema non cambierebbe di molto, anzi. Sei sulla scena di un teatro, davanti a centinaia di persone ignte che ti fissano...
L’ATLETA Centinaia? Ma sei sicuro che queste folle verrebbero in teatro per vedermi recitare?
L’ATTORE Appunto, dovresti essere una brava attrice... Insomma, se tu fossi Giulietta lì, su questo palcoscenico, dovresti, che so, fingere di essere una ragazzina di quattordici anni che scopre per la prima volta l’altro sesso, provare attrazione per me, desiderarmi, amarmi...
L’ATLETA Impossibile...
L’ATTORE Ecco, il teatro moderno è nato da problemi come questo, più o meno un secolo fa, in Russia.
L’ATLETA Perché non mi sono innamorata di te?
L’ATTORE No: ma proprio perché non sei innamorata di me, come può diventare credibile sulla scena il tuo amore di Giulietta per me, per Romeo? Per raggiungere questo obiettivo un tizio che si chiamava Stanislavskij ha inventato una specie di ginnastica dell’anima, per permettere agli attori di costruire le emozioni dei loro personaggi attingendo alla memoria personale. Qualche tempo dopo un suo allievo - si chiamava Meierchol’d - si è accorto che non bastava allenare i ricordi e i sentimenti. Ha cominciato a studiare una serie di tecniche del corpo: così ha inventato una disciplina che si chiama biomeccanica, prendendo elementi dalle arti marziali, dalle tecniche orientali, e magari anche dallo sport... Qualche decennio più tardi, diciamo all’inizio degli anni Sessanta, è arrivato Grotowski, il grande maestro polacco, che ha rivisitato a modo suo la lezione di Stanislavskij e Meierchol’d. Anche per lui il training era fondamentale: nel suo libro più famoso, Per un teatro povero, ci sono numerosi esercizi che i giovani teatranti del mondo intero hanno copiato e ripetuto con grande diligenza per decenni - ma senza raggiungere i risultati del suo Teatr Laboratorium... La questione l’aveva capita alla perfezione anche Antonin Artaud, il grande visionario del teatro “L’attore è simile a un vero e proprio atleta fisico, ma con questo sorprendente correttivo: all’organismo atletico corrisponde in lui un organismo affettivo, parallelo all’altro, quasi il suo doppio benché non operante sullo stesso piano. L’attore è un atleta del cuore. (...) Tutti i mezzi della lotta, del pugilato, dei cento metri e del salto in alto trovano analogie organiche nell’esercizio delle passioni; hanno gli stessi punti fisici di sostegno". (Antonin Artaud, Un’atletica affettiva, in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968, p. 242)
L’ATLETA Mamma mia, anche le citazioni! Come sei noioso! Ho capito due cose: primo che non mi innamoro di te, secondo che voi attori vi allenate. Bravissimi! Ma tu non ti alleni abbastanza, bello mio: un po’ di pancetta ti è rimasta. Però, dopo quello che hai detto sulla mia pancia, posso confessartelo: quei maschioni tutti muscoli e niente cervello dopo un po’ - diciamo dopo tre o quattro notti atleticamente gratificanti - mi annoiano...
L’ATTORE Guarda, un po’ di training l’ho fatto per davvero, perciò se vuoi possiamo fare una notte di prova, così scopri se ti annoio o no... E magari nel frattempo mi cala la panzetta.
L’ATLETA Una notte di ginnastica orizzontale, e ti lascerei lì come un torsolo smangiucchiato, caro il mio Don Giovanni. Ma nella tua petulante lezioncina c’è una cosa che mi ha incuriosito. Noi sportivi nei nostri allenamenti abbiamo ripreso molte tecniche orientali. Il rilassamento, la respirazione eccetera sono diventati sempre più importanti. Hai visto come corrono i cento metri, oggi? La prossima volta osserva con attenzione la mascella inferiore dei centometristi, com’è decontratta...
L’ATTORE Davvero? Non lo sapevo. Pensavo che correre veloce fosse solo una faccenda di muscoli muscoli e muscoli...
L’ATLETA No, ormai lo sanno tutti che la vera forza non è quella dei muscoli. O meglio, quella non basta. Anche perché la tensione della gara e l’ansia del risultato ti possono paralizzare. Per ottenere il massimo, non puoi sprecare neppure una briciola di energia e di concentrazione: dunque tutti i muscoli che non sono indispensabili devono essere rilassati, non devono opporre resistenza.
L’ATTORE Credo però ci sia una differenza, tra il mio training e il tuo. Sono stato qualche volta in palestra, e mi sembra che lì dentro il corpo venga scomposto, sminuzzato, sezionato muscolo dopo muscolo. Il corpo viene ridotto a una serie di funzioni specializzate e ciascuna di esse va essere ottimizzata per ottenere il massimo risultato. Dunque pompi pompi pompi un solo muscoletto alla volta. Invece a me, nel training, interessa di più sviluppare un’idea unitaria del corpo. Un’armonia.
L’ATLETA Non ci avevo mai pensato. Anche se poi il coordinamento è senz’altro importante anche per un atleta.
L’ATTORE Sì, ma per un atleta anche il coordinamento diventa una funzione specialistica, da conquistare, quasi indipendente dalle altre.
L’ATLETA Scusa, non so se sono d’accordo. Prova a vederla da un altro punto di vista, e magari ci capiamo meglio. Diciamo che ti sei allenato, hai fatto il tuo bravo training e dunque padroneggi la tecnica. Può essere la tecnica della pallavolo o quella della danza, non ha importanza. Per te è sufficiente?
L’ATTORE Se fai la ballerina di fila può bastare. E se vuoi fare la velina a Striscia la notizia è già fin troppo. Ma se vuoi diventare una vera stella, non basta. La tecnica ti porta solo là dove sono già arrivati gli altri. Al massimo diventi un virtuoso, tutta tecnica e niente anima. Se vuoi lasciare un segno, devi andare oltre.
L’ATLETA Esatto. A quel punto, è come se dimenticassi tutto quello che hai imparato. E a quel punto crei. E’ per questo che Maradona o Michael Jordan sono artisti, dal mio punto di vista.
FINE SECONDO ROUND
Vincitore del Secondo Round
L’ATLETA L’ATTORE
(continua)
Autoritratti dell'attore da giovane
Un piccolo questionario
1. Michela Cescon
Nell'editoriale di "ateatro 33" parlavamo di una nuova generazione d'attori e
lanciavamo l'idea di un piccolo questionario. Le prime risposte sono arrivate
da Michela Cescon.
foto di Marcello Norberth/Teatro di Dioniso.
:: I :: Perché ho scelto il teatro
Quando parlo della mia scelta di vita per il teatro, uso la parola vocazione, perché per me è stata la risposta ad una chiamata fortissima che non mi ha lasciato più in pace e non mi ha permesso mai di non ascoltarla, di non seguirla.
Uso il termine vocazione perché è una parola importantissima e perché sono certa che oggi quello che in tante vite è stato smarrito e va recuperato è il senso della propria vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana. Credo fortemente che ciascuna persona venga al mondo perché chiamata, perché portatrice di un destino, un destino con voce forte, urgente, insistente.
Fino all’età di 20 anni non sono praticamente mai entrata in un teatro, la mia famiglia mi ha dato esperienze incredibili, quali una vita comunitaria, un impegno civile e sociale altissimo, e un’esperienza religiosa profonda e molto ma molto aperta….ma l’esperienza del teatro non apparteneva né ai miei genitori, né agli amici che frequentavano la nostra casa, né a qualche zio o zia stravagante…insomma proprio a nessuno! L’ultimo anno di liceo e i primi anni dell’università (a quel tempo frequentavo l’Università, Architettura a Venezia) cominciai, spinta da mia madre, a seguire dei corsi di teatro: ed ecco la magia, la Passione Totale!!! L’università mi era stretta, soffrivo perché non la facevo con verità. Dopo un grave incidente stradale ho scelto di prendere in mano con coraggio la mia vita e seguire questa forza inspiegabile che mi “tirava", darle fiducia, al di là dei pareri contrari di quasi tutte le persone che amavo, tranne lo sguardo di mio padre, …non saprei spiegare esattamente a parole cosa successe, cosa c’era dentro di me…ma partii e riuscii a cominciare a fare quello che sentivo maggiormente mio nel mondo. Perché sono stata portata a scegliere il Teatro? Ancora non ho una risposta netta ma mi accorgo che giorno dopo giorno tutto comincia a diventare più chiaro…e che ci vuole tempo per capire e andare…
:: II :: Il mio percorso di formazione
Feci tre audizioni: l’Accademia di Roma, lo Stabile di Genova, e lo Stabile di Torino. Scelsi Torino soprattutto per la presenza di Ronconi e poi perché furono i primi ad avvisarmi di avermi preso ed io avevo dentro un urgenza tale… Da Treviso arrivai in una città come Torino…non mi spaventai, non presi paura della solitudine, abituata com’ero a stare con tantissima gente, anzi era come se sapessi affrontare tutto…le lunghe giornate a scuola erano un piacere… non avevo mai provato la gioia di studiare qualcosa che veramente ti appartiene. Sono stati due anni e mezzo ricchi di incontri (molto forte per me è stato l’esempio di due donne come Franca Nuti e Marisa Fabbri). La scuola ricordo non era rigida, dava tantissime opportunità stava a te coglierle, prenderle… doveva essere vissuta, almeno così ho cercato di fare, non come una scuola ma come un esperienza adulta. Io ero molto concentrata nel lavoro, uscivo poco e già da allora ho capito che il teatro è una di quelle cose che ti rubano la vita. Dopo la grossissima esperienza della scuola di Torino grazie ad una borsa di studio vinta con il Premio Lina Volonghi ho voluto andare a conoscere altre realtà, lavorando con un insegnante russo Jurij Al’sic, con dei docenti dell’Institut del Teatre di Barcellona, andando a curiosare come funzionava il Théâtre du Soleil della Mnouchkine e con un attore straordinario di Peter Brook come Bruce Myers.
:: III :: Gli incontri professionali che mi hanno segnato
Gli incontri sono stati tanti a volte anche non prettamente con persone di teatro.
Tanti nella vita possono essere maestri perché il maestro è semplicemente una persona che ha di piu’ di quello che tu hai e che ben volentieri è disposto a condividerlo.
Per la mia vita teatrale due sono stati gli incontri fondamentali, il primo con Luca Ronconi, il secondo con Valter Malosti.
Luca mi ha preso da ragazzina inesperta quale ero, da allieva e mi ha portato con forza sulla scena trasformandomi in una prima attrice e in una professionista in pochi mesi. Il passaggio per me è stato violento, perché non ho ritrovato il Ronconi della scuola ma un’altra persona che da me voleva di più e mi trattava in maniera diversa. Ricordo che improvvisamente mi è caduta tutta la mia sicurezza e forza giovanili, avevo tanta paura e ed ero sempre senza appigli…ero così spaventata che anche se gli appigli mi venivano dati io non gli coglievo, ma coglievo solo violenza e impazienza nei miei confronti…ma ce l’ho fatta, alla fine ho vinto la sfida e devo a Luca tantissimo… e qui si può aprire un enorme capitolo… devo a Luca il pensare al teatro in maniera “grande", devo a Luca la fiducia che mi ha dato nel darmi la parte, devo a Luca l’avermi fatto capire che il mio percorso è un percorso singolo, devo a Luca la capacità grande che mi ha dato di avvicinarmi ad un testo, a Luca devo la mia nascita, e non è poco.
Dopo l’esperienza del Ruy Blas è uscita di nuovo fuori quella mano che mi “tirava", chiamiamolo destino?, e sapendo che Malosti lavorava su Sogno di una notte di mezza estate e, avendo visto a Torino diversi sui lavori che mi erano piaciuti assai, mi sono messa in contatto con lui e dopo un incontro, ricordo molto divertente, mi fece fare esclusivamente un provino fisico, cominciai a lavorare con lui. Malosti fu l’incontro giusto…C’era in me una strana consapevolezza…pur amando Ronconi tantissimo sentivo che non ero sicura di appartenere al suo teatro - credo che anche Luca pensi la stessa cosa di me anche se non ne abbiamo mai parlato - questo non vuol dire che non farei più uno spettacolo con lui, anzi se dovesse chiamarmi per un ruolo che lui giudica mio ridarei il mio talento alle sue mani senza limiti, ma avevo dentro di me la voglia di costruire qualcosa di mio, che partisse anche da me, avevo voglia di toccare il teatro più da vicino cosa che purtroppo nel teatro più “istituzionalizzato" non potevo fare… e così l’incontro con Malosti è stata una folgorazione. A Valter devo la scoperta vera di me come attrice, a Valter devo la mia crescita, a Valter devo l’aver potuto lavorare alla nascita di uno spettacolo, a Valter devo l’aver incontrato una persona con cui comunico profondamente e con cui lotto, a Valter devo la totale fiducia che da al mio talento, con Valter cerchiamo in palcoscenico di trovare insieme la Bellezza, il Ritmo, lo Spazio, la Musica…
Un’altra persona per me importantissima è Andrea Zanzotto, poeta della mia terra che vado a trovare appena posso a cui io abbevero spesso e che mi da immensi momenti di conforto con le sue altezze. Sono stati importanti anche attori con cui ho lavorato come Carla Bizzarri, Andrea Giordana e Gianpiero Bianchi che mi hanno insegnato una cosa importantissima: l’alta dignità del nostro lavoro
:: IV :: Il mio ruolo all’interno del teatro italiano
E’ una domanda difficile…perché per gli attori/registi giovani è difficile trovare un ruolo, bisogna lottare tanto, perché la politica culturale delle istituzioni è molto demagogica e in realtà c’è pochissimo coraggio a dare in mano a giovani dei progetti e dei lavori…viviamo in un paese dove i talenti sono un problema più che una risorsa…penso quindi che il ruolo che io ho effettivamente, è forse più il ruolo che mi sto cercando, che quello che mi stanno dando gli altri.
Il mio ruolo è quello di voler essere un attore autonomo, che pensa, che non si vuole comportare come uno scritturato, ma desidera che i progetti nascano anche da lui, un attore che vuole essere artefice della sua storia pur scontrandosi con tutti i muri che questa scelta comporta. Per il carattere che ho, un po’ da Santa Giovanna, da guerriera, il ruolo che sento mi appartiene è quello di lavorare per far sì che chi viene dopo di me trovi una situazione migliore.
Penso invece che il ruolo dato a me dal teatro italiano sia quello di una giovane attrice che sperimenta e lavora soprattutto con testi e autori contemporanei in situazioni e luoghi non sempre “ufficiali"…mi preme qui sottolineare una cosa che cerco sempre di denunciare, ovvero la ghettizzazione degli artisti….un percorso artistico deve essere libero, trasversale, un attore non può essere definito o da teatro stabile o da sperimentazione…un attore è un bravo attore o un cattivo attore, non ci sono altre verità! Comunque nella mia storia, a seguito delle mie scelte, ho avuto molto più appoggio e riconoscimento dalla critica che dagli organizzatori che sento più assenti e meno pronti alle direzioni che il teatro sta prendendo
:: V :: Gli esempi che ho seguito
Ho un solo grande amore: ELEONORA DUSE, poi sono una persona che raccoglie tutto, sia ciò che mi piace di un grande attore (per esempio due sere fa ho incontrato Glauco Mauri, la sua grandezza e umiltà sono emozionanti), sia la spregiudicatezza di tanti artisti anche visivi, sia la vivacità delle donne al mercato di Porta Palazzo…io prendo tanto dalla vita!!!
Michela Cescon di Bedbound di Enda Walsh//foto di Tommaso Le Pera/Teatro di Dioniso.
:: VI :: Il rapporto con la nuova drammaturgia made in Italy
Io adoro la nuova drammaturgia in generale…Quella fatta in Italia è più povera che in altri paesi solo perché ci sono meno possibilità ma mi sembra che un po’ tutti stiamo cercando di darle forza…bisogna senza paura mettere nei cartelloni ogni tanto dei titoli diversi e mi sembra che pian piano si stia lavorando anche in quella direzione….poi certo, ci vorrebbero le leggi!!! Dovrebbe essere obbligatoria la presenza di un autore italiano vivente in cartellone! Dovrebbe essere obbligatoria una regia importante di un giovane nei cartelloni più grossi! Etc etc…Quest’anno noi ad Ivrea, per esempio, per la Residenza Multidisciplinare di Ivrea e del Canavese faremo una programmazione di tutti autori italiani così come mi sembra faccia la Pezzoli a Pistoia.
Amo leggere tutto quello che mi spediscono e che trovo…da diversi mesi sto lavorando con una giovane scrittrice italiana (20 anni) Alice Rohrwacher che sta scrivendo un testo per me…quanto sarebbe bello che alcuni attori molto importanti commissionassero dei testi ad autori italiani?
Penso anche che ci sia poca drammaturgia perché gli autori dovrebbero forse partire di più dall’esperienza della scena…spesso, anche se non è sempre vero, un bravo autore è stato attore…ha sperimentato il sudore del palcoscenico.
Genet si mette in Motus
Splendid's in anteprima al Plaza di Roma
un mail sulla performance di Anna Maria Monteverdi
+ una nota sul testo dall'archivio di Oliviero Ponte di Pino
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:: I :: un mail
All'ultimo piano del celebre Plaza Hotel di Roma in Via del Corso e di fronte ad un ristrettissimo numero di spettatori-ospiti - tra cui Iaia Forte e Achille Bonito Oliva -
i Motus hanno inaugurato il loro personale, raffinato e originalissimo
omaggio a Jean Genet. Un'edizione straordinaria e irripetibile per questo
Splendid's ancora nella sua fase non definitiva, un'occasione unica
per la perfetta aderenza del luogo prescelto per l'azione scenica con
quello descritto da Genet: "lampadari, lusso, tappeti". Gli 8 gangster armati di mitra, vestiti con abiti neri o gessati - griffati Costume Nationale - si trovano dentro l'hotel per una storia di rapimenti e sparatorie e, in una circostanza non chiarita, qualcuno di loro ha ucciso una ricca americana. Sono asserragliati dentro la camera da giorni, e l'hotel, come da miglior tradizione di film d'azione, si trasforma in una prigione senza via di fuga: le tende di velluto ben chiuse per non essere visti dai tiratori scelti, le bottiglie di birra vuote sparse per terra, le carte, i piatti, il letto disfatto e il generale disordine. Ascoltano la radio, Scott cerca i notiziari sulla vicenda Splendid's (letti da uno speaker d'eccezione, Luca Scarlini). Il cadavere della donna è in bagno. Lo spettatore dentro la stanza, da voyeur, date le circostanze, diventa un "testimone oculare".
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I personaggi, dicono le loro ragioni e scandiscono le proprie paure da sempre nascoste muovendosi a tempo di musica. La banda diventa un corpo di ballo. Ballano sempre. E' un tango, un valzer, una marcia funebre o una musica orientale e tengono il ritmo con i piedi, si affrontano danzando ma "senza mai toccarsi"- come avverte Genet nella didascalia dell'atto I. Una danza macabra di uomini con mitra trasforma il salotto in una pista da ballo. La trama non va molto più in là di un'attesa - di una sentenza, di un colpo di mitra, di una resa - durante la quale tutti si spogliano progressivamente del personaggio che hanno da sempre rivestito. L'unica certezza è che non hanno scampo. E' con loro un poliziotto. Passato "dall'altra sponda", è diventato dapprima loro complice per puro sadismo e istinto di crudeltà ("Li amavo i ragazzi; e comincio ad amarli con più passione ancora da quando li ho presi a mitragliate...") poi, "rovesciandosi come un guanto" il loro carnefice, tradendoli, e consegnandoli alla polizia che circonda l'hotel. Pierrot, il fragile, si uccide. Jean, la reginetta del ballo, apre le danze di questo galà con morto. Loro, i coraggiosi vorrebbero, nel gran finale, arrendersi, lasciando trasparire il loro vero volto: "A me piace alzare le mani in alto".
In questo ambiguo gioco delle parti, vince chi ha saputo usare la maschera giusta al momento giusto, quella che le circostanze richiedono. La maschera sociale è menzogna, travestimento effimero, che dura, appunto, il tempo di un giro di danza. (amm)
uno spettacolo ideato e diretto da: Daniela Nicolò e Enrico Casagrande
ispirato a Splendid's di Jean Genet
traduzione: Franco Quadri
consulenza letteraria e musicale: Luca Scarlini
con Dany Greggio (Jean), Enrico Casagrande (Scott), Renaud Chauré (Bravo), Vladimir Aleksic (Bob), Damir Todorovic (Riton), Tommaso Maltoni (Rafale), Daniele Quadrelli (Pierrot), Francesco Montanari (il poliziotto).
La voce della radio è di Luca Scarlini
abiti: Ennio Capasa per COSTUME NATIONAL
selezione musicale a cura di: Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande
organizzazione e ufficio stampa: Marco Galluzzi e Sandra Angelini
logistica: Roberta Celati
:: II :: una nota sul testo
Perché Genet non aveva voluto pubblicare un testo compiuto come Splendid's? Per qualsiasi autore, un problema di questo genere appare di difficile soluzione, e il caso è ancora più complicato con Genet: per il rapporto che aveva con la propria immagine di scrittore (dal '61, pur continuando a scrivere, aveva dato alle stampe praticamente solo testi "politici"), per le tortuose relazioni con gli editori e con il proprio successo.
Dopo la sua morte, nel 1986, sono apparsi diversi testi di cui l'autore aveva previsto la pubblicazione postuma: oltre a Splendid's, un'altra pièce (Elle, 1989), e soprattutto il suo ultimo capolavoro, appena ultimato e immediatamente pubblicato, Un capitif amoureux, rivisitazione e bilancio esistenziale. Ma ci sono molti altri materiali da pubblicare, come ha segnalato in un incontro al Piccolo Teatro Albert Dichy, amico e esegeta di Genet: di recente in Francia è uscito Le Bagne (nelle due stesure per la scena e per lo schermo), e sono in arrivo altri due testi teatrali (Les fous e La fée). Inoltre l'eterno vagabondo Genet ha lasciato, sulla carta da lettere degli alberghi del pianeta, da Karachi al Giappone a Milano, una grande quantità di frammenti e appunti. Un altro blocco di materiale inedito riguarda il cinema, grande amore e sogno impossibile: comprese le sceneggiature dei due film che il regista Genet abbandonò al primo giorno di riprese (La nuit venue e Le language de la muraille). Ancora, esiste una gran quantità di testi regalati ad amici ed amanti, un epistolario ricco e sorprendente che rivela un Genet più divertente, meno teso e controllato rispetto alle opere "maggiori".
Ma tornando a Splendid's (pubblicato dal Saggiatore nella versione italiana di Franco Quadri, con originale a fronte), si possono probabilmente rintracciare anche motivi specifici che hanno rinviato la pubblicazione. Scritta negli anni '40 (e completata nel '48), la pièce appare più rilassata e ironica degli altri testi di Genet: quasi boulevardière, per certi aspetti, compresi alcuni giochi di parole impensabili altrove. Senza dimenticare che si tratta di Genet, e che sotto l'apparenza leggera la scena centrale resta scandalosa e violenta: un poliziotto traditore che s'innamora di un gangster travestito da donna, che indossa gli abiti della ragazza che la banda ha sequestrato e ammazzato; il bandito che appare al balcone "come una regina", per far credere che la ragazza sia ancora viva, e il poliziotto che lo butta giù... Ce n'è più che a sufficienza per irritare i benpensanti, e forse suggerire all'autore, allora in attesa della grazia presidenziale, di lasciare il tutto nel cassetto.
Ma probabilmente c'è anche dell'altro. Se la scrittura è come sempre stilisticamente controllatissima, la struttura drammaturgica e l'ideologia che la sottendono appaiono più aperte e libere. Siamo in un momento di trapasso per l'autore: tra le prime opere carcerarie (i romanzi e Haute surveillance) e quelle più direttamente "teatrali": Le serve e soprattutto Il balcone, che riprende, amplifica e approfondisce la soluzione spettacolare usata nella scena chiave appena descritta.
In Splendid's s'intrecciano e si scontrano dunque i temi di due grandi fasi dell'evoluzione genettiana, che conflagrano in uno stadio non ancora completamente risolto e formalizzato (ed è anche questo probabilmente ad aver incuriosito un regista che ama il rischio come Grüber). Da un lato ci sono il fascino e la bellezza del male, il culto della trasgressione e dell'inversione legati alla poetica del carcere e all'epopea del delinquente (mentre è gi… passata in secondo piano la rivolta individuale contro la violenza dei rapporti sociali). Ma questa fascinazione spinge con forza sempre maggiore verso l'autorappresentazione, la teatralizzazione dell'esistenza del gangster. A essere in gioco in Splendid's, infatti, non è il culto del male in sè: la scena è occupata da un gruppo di banditi di mezza tacca che recita la parte della gang di duri, utilizzando i clichè comportamentali e linguistici dell'hard boiled e del noir. Nel frattempo la radio e i giornali inventano la loro sanguinaria leggenda. A questo punto, data la trasformazione del bandito in attore che recita la parte del bandito, la riflessione sulla spettacolarizzazione dell'intera società è un passo è breve e obbligato.
C'è di più: la gang di Splendid's si ritrova asserragliata all'ultimo piano del grande albergo che dà il titolo alla pièce (la situazione per certi aspetti alla Sartre, che apprezzava il testo - ulteriore ragione tra l'altro, dal punto di vista di un autore "monumentalizzato" e "ucciso" da Santo Genet commediante e martire, per "dimenticarlo"). In questa situazione claustrofobica, in attesa della fine inevitabile, del massacro che tentano rozzamente di rinviare, le dinamiche del gruppo seguono la logica del tradimento, della trasgressione di ogni regola, portando a un'assoluta imprevedibilità dei comportamenti, nel segno di una libertà assoluta ma apparente, del rifiuto del ruolo sia esso imposto o scelto. Fino all'estremo tradimento della propria immagine: la vigliaccheria, la resa. Se non che le due strade, quella di farsi ammazzare dalla polizia e quella della resa, appaiono ugualmente consone al loro ruolo di fuorilegge: eroi e martiri del male, oppure preda di quella galera e di quel boia che li affascinano e li attirano. In Splendid's il poliziotto - colui che opera contro il male - se vuole restare tale ha un'unica possibilità di comportamento, rigida e obbligata; e un unico grado di libertà, una enorme alternativa: il tradimento. Ma tra guardie e ladri il ruolo sociale, anche quello più apparentemente trasgressivo, resta sempre una trappola. E alla fine, nella sarabanda conclusiva, il poliziotto traditore riprenderà la propria parte, e per di più con l'apparenza dell'eroe.
Il fallimento dei personaggi di Splendid's sfocerà nelle Serve e nel Balcone, dove a prendere il sopravvento è proprio il gioco del travestimento e dell'autorappresentazione come dimensione di possibile libertà. E nel Balcone, dove la critica investe la totalità dei rapporti sociali, il meccanismo assume una connotazione politica: la messinscena di sé scardina i rapporti sociali, e il bordello viene circondato e attraversato dalla rivoluzione. Ma sempre con la consapevolezza che la teatralizzazione, la moltiplicazione dei ruoli è una dimensione di libertà solo provvisoria, fragile. Che l'irruzione dell'immaginario nel reale si brucia rapidamente. Se non è temporanea, se la rivoluzione avrà successo, vuol dire che ha solo portato alla creazione di nuove maschere, di nuove trappole. (olivieropdp, 1995)
Fino all'ultimo respiro
L'Orfeo dei Sacchi di Sabbia
Pisa, Chiesa di Sant'Andrea, 21 aprile 2002
di Anna Maria Monteverdi
"Orfeo è l’inizio di un percorso intorno alla perdita l’elaborazione di un lutto.
Si piange forse per la perdita della vita, dell’umanità…
I personaggi (o sub-personaggi) non sono reali vengono dal niente e finiscono nel niente. Nella partitura delle loro azioni l’ombra di un episodio concreto s’intuisce soltanto forse sono ad un funerale, forse nella stanza di qualcuno che se ne sta andando… o forse sono loro a vivere così, sempre eternamente addolorati… e comici loro malgrado.
Manca loro qualcosa che li ancori alla concretezza del mondo...
La prima grande privazione di cui tratta questo primo studio è il Respiro. Nessuna ragione biologica toglie ad Euridice la capacità di respirare. Lei non respira più.
Il respiro che viene a mancare è il primo canto che si infrange"
(dal programma di sala dello spettacolo).
Spiazzante e coraggioso questo Orfeo muto, completamente muto, allestito nello spazio ristretto della suggestiva chiesa di Sant'Andrea a Pisa che da qualche anno ospita rappresentazioni teatrali.
Il pianto non si addice a Orfeo, e il lutto per l'amata Euridice non trova adeguata espressione né forma alcuna se non nel silenzio e nell'urlo soffocato, spezzato nel suo nascere.
Un respiro negato, ingoiato insieme alle lacrime, alle parole, alle lamentazioni.
Non spasimo, non grida, non gesti.
"E' banale". Emerge la condizione del dolore. La cognizione del dolore.
"L'eroe tragico", ricordava Franz Rosenzweig, “ha soltanto un linguaggio che gli corrisponde alla perfezione - il silenzio. Così è fin dal principio. Proprio per questo il tragico si è costruito la forma artistica del dramma per poter mettere in scena il silenzio".
Unica traccia di vita è il passato, che riemerge in forma di ricordo luminoso e fa girare vorticosamente in tondo l'uomo e la donna che non esprimono in questo rincorrersi, nient'altro se non la brevità della felicità terrena e l'appartenenza alla fragile condizione umana e non all'immortalità divina. Su una scena completamente scura (ricavata in uno spazio liturgico e silente per eccellenza: il transetto della Chiesa) appare Euridice vestita di bianco che Orfeo, senza pronunciare una parola, tenta vanamente di rianimare con un ridicolo ventilatore. E' seduta immobile, in posa, statua o sarcofago, oggetto tra gli oggetti, con il lumino in mano, fiamma che non si può spegnere ma solo finché la memoria (Mnemosine) la alimenta, la disseta. Magra consolazione. La vita se n’è andata. Euridice è diventata la marmorea reliquia e l'etereo ricordo, e di fronte a lei (e al senso dell'ineluttabilità del destino umano che simboleggia) Orfeo, la "maschera del dolore", che come Amleto, non "si scioglie in lacrime" e resta solo nella glaciale solitudine, nel dolore intollerabile e inconsolabile, perché la morte trascina via tutto.
I polmoni marciscono atrofizzati senza ossigeno e ogni suo tentativo di riportare alla vita ciò che non ha più respiro sembra l'atto di un folle. Il ventilatore con cui Orfeo si fa scudo inutilmente, infatti, getta "aria" intorno alle cose, agli oggetti del passato, ai sudari, alla stanza, ma la vita non si rianima. E' la sua arma, il suo "polmone artificiale" ma la fiamma si spenge e lascia il posto al buio eterno, alla tragica consapevolezza dell'impossibilità di un ritorno, alla "definitività dell'annientamento" (Severino).
Unica via di uscita, la sospensione teatrale del gesto, che colloca la rappresentazione fuori dal tempo umano, dal tempo ciclico di nascita e morte per provare, per un attimo, l'ebbrezza di "desistere dal ciclo e prendere fiato dalle miserie", secondo le parole che la tradizione stessa attribuisce ad Orfeo.
Questo Orfeo, come Amleto, ha dentro "ciò che non si mostra":
"Amleto è stato colpito da un dolore insopportabile. Ma grazie a questo dolore egli vede ciò che gli altri non vedono, e al tempo stesso, in conseguenza di tale conoscenza, è diventato un "separato"...La maschera sociale del dolore è l'unico modo di dire una sofferenza indicibile, ma non per Amleto egli si presenta alla madre con la maschera del dolore senza riuscire a superarlo. Amleto è incapace di far passare il morto in valore. Questo tipo di processo avviene generalmente nei riti con il lamento si trasforma il dolore in valore. Il lamento recupera la corretta respirazione che era stata interrotta dal pianto".(Fernando Mastropasqua)
Il teatro diventa emblema di questo tentativo negato di una rigenerazione metamorfica che nasce proprio dal respiro:
"In questo teatro porto la mia fatalità personale che ha come punto di partenza il soffio". (Antonin Artaud)
Accompagnano Orfeo i lamentatori (come le prefiche di tradizione popolare che, pagate, intonano il pianto) mettendo in scena la finzione del dolore. E' il loro mestiere. Come attori. Lo inseguono, portano con sé l'uno un grande fazzoletto aperto l'altro un vaso di fiori bianchi, è una coppia tragicomica da avanspettacolo. La situazione cui danno vita è a tratti surreale e il dramma sembra sempre sul punto di cadere nel comico (come in Entr'acte di René Clair), ma non si conclude mai, si ripete , invece, ciclicamente all'infinito.
Tutto è perduto per sempre e il dolore per il quale Orfeo soffre non ha una storia: è eterno e indicibile.
Sintesi estrema di un concetto - più che di un testo letterario - auspice un mito antichissimo - lo spettacolo sfoga afono l'impossibilità di ogni rappresentazione e azzera la scena con quel vuoto che lascia attoniti e colpiti al cuore nel profondo delle nostre esistenze anestetizzate. Come non leggere questo silenzio di Orfeo - che non è assenza ma al contrario, sensibilità acuita e incomunicabile riflessione sulla tragicità del vivere - come un precipitare nelle ferite del mondo, nel "respirarne con dolore" le atrocità e nel diventare parte stessa di un'umanità offesa?
Come non leggere l'urlo muto come il lamento del teatro reso incapace di porre fine al male?
Questo spettacolo - che conserva passi comici come da registro tipico dei Sacchi di Sabbia - agita le acque di una giovane generazione che ha capito quello che è vitale oggi a teatro, non più i testi, la scenografia, l'estetica, ma, appunto, il mondo. O tutto quello che rimane.
Questo testo parte dalle considerazioni del saggio di Fernando Mastropasqua Dolore e rappresentazione scritto per La maschera volubile (a cura di A.M. Monteverdi, Corazzano-Pisa, Titivillus, 2000) e rimanda agli efficaci esempi ivi riportati (Madre Coraggio interpretata da Helene Weigel, il primo stasimon dell'Antigone del Living dove gli attori piangono lacrime vere e il Riccardo III televisivo di Carmelo Bene). Non possiamo non ricordare, a questo proposito, anche "Accerchiando Amleto" in Metamorfosi del teatro, testo scritto da Fernando Mastropasqua e rielaborato per il volume proprio dal regista Giovanni Guerrieri.
Cinque domande a Giovanni Guerrieri
a cura di Anna Maria Monteverdi
Come nasce l'idea di questo Orfeo senza parole?
Lo spettacolo nasce dall'idea dei Maggi, i maggi della tradizione popolare, il tema del canto propiziatorio, poi è diventato tutta un'altra cosa, il mito di Orfeo;
non abbiamo puntato sullo sguardo ma sul respiro. Questo Orfeo lo definisco un esperimento estremo sulla sospensione; il tema è la rappresentazione del dolore
senza la retorica del pianto, ma è un esperimento pur sempre sulle nostre corde, c'è il comico anche se la dimensione del dramma prende il sopravvento.
Il comico non risolve mai, è sempre sospeso. La tematica tragica è dichiarata sin dal principio, e non c'è un'evoluzione, o un capovolgimento di alcun tipo.
Questo Orfeo è anche un po' Amleto che rinuncia al lamento, al "pianto rituale"...
Come anche negli altri spettacoli ci sono i riferimenti, le citazioni, negli altri spettacoli erano evidenti, mostrati, propagandati come nel Riccardo III,
o nell'Otello, qua direi che sono più interiorizzati, quasi "metabolizzati". Orfeo è anche Amleto nella misura di un dolore che non si può mostrare:
si possono mostrare, come dice Amleto, le mille retoriche del dolore, i pianti, i sospiri, i gemiti. Il problema a teatro è come esprimerlo.
Alcuni spettatori hanno avuto una reazione particolare: non si aspettavano da noi, che proveniamo dal teatro comico, qualcosa di così estremo e non lo hanno
accettato. Ma questo spettacolo forse vuole essere proprio una svolta rispetto al nostro modo di lavorare.
Il Faust e Il teatrino di San Ranieri.
C'era l'idea di lavorare su altri temi, andare a scavare nella storia e Pauperis Oratorium Christi è un po' questo; c'è il Faust-Gesù, l'angelo e il diavolo,
l'iconografia medioevale, un po' blasfemo, dilatato, sospeso, al contrario di questo Orfeo, partiva in maniera tragica e finiva nel comico, io evocavo il diavolo
e il diavolo entrava. Ma il diavolo era o'malamente interpretato da Enzo Illiano che è napoletano e poi sketch comici. Quindi l'inizio pseudotragico
viene comunque ribaltato.Nell'Orfeo si inzia così e si finisce così. Dal tragico al tragico. Non c'è un tentativo di spiazzare rispetto a una scelta formale.
Per il Festival di Santarcangelo avevamo proposto Il teatrino di San Ranieri, uno spettacolo itinerante, un teatrino che si trasformava, molto "energetico",
noi eravamo una specie di Armata Brancaleone che parlava con linguaggio medioevale, mentre si percorreva una sorta di Via Crucis col santo pisano.
San Ranieri è un santo guerriero, guerrafondaio e quindi c'è un "mescolone" tra santità e guerra; il santo che sarebbe riuscito ad "aprire le acque" per portare
i pisani in Terrasanta!, te tu te l'immagini i pisani in Terrasanta?
Marmocchio con Carlo Monni nel ruolo di Geppetto.
Lo abbiamo rappresentato nello scorso agosto alla Cava Borrella in Garfagnana sopra Vagli. Tutto è nato per caso.
Noi per il giugno pisano si rappresentava una farsa di strada sugli anarchici. C'erano dei luoghi deputati dove si raccontava questo episodio mai esistito,
mai avvenuto della preparazione di un attentato. Rispetto all'attentato del Bresci la variante era che c'era un gruppo di anarchici pisani piuttosto disastrati che
cerca di fare un attentato al re che poi alla fine risulta una cosa paradossale. Gli organizzatori di questa manifestazione alla Cava Borrella ci chiamarono
per farcelo rappresentare. Il caso puro. Noi si andò il primo maggio dell'anno scorso a vedere la cava e francamente non era possibile. Invece da lì,
per simpatia reciproca, ci chiesero di proporre un'altra cosa, è nata così l'idea del Marmocchio, il marmocchietto, il burattino di marmo.
Con la collaborazione fondamentale della banda che suonava musiche alla Goran Bregovich, abbiamo creato un bel clima.
Tu facevi il narratore in scena ...
E il tutore del Monni. Mi sarebbe garbato anche fare qualcos'altro anche dal punto di vista della funzionabilità dello spettacolo,
con qualcuno che aveva sott'occhio sempre tutta quanta l'organizzazione. Il Monni si dimenticava la parte, mi guardava durante lo spettacolo
e mi diceva sottovoce: "Allora, che devo dì?". Tutto 'osì....
I Sacchi di Sabbia sono un gruppo tosco-napoletano di "comici dell'Arte", diretto da Giovanni Guerrieri (che alterna all'attività attoriale e registica quella di studioso di teatro), con Giulia Gallo e Enzo Illiano, formatosi a Pisa nel 1994 in occasione dell'apertura di alcuni spazi destinati a giovani gruppi teatrali. Da quest'esperienza è nato Novastri, una raccolta di sketch ispirati al Teatro di Varietà e Il Moro di Venezia, una regata attraverso la televisione. Del 1996 è Riccardo III, Buckinghàm e a' malafemmena, sgangherato (ma anche coltissimo, irriverente ed esilarante) collage da Carmelo Bene, Leo De Berardinis e Totò che ha debuttato nell'ambito della rassegna "Piccoli fuochi" (organizzata da Dario Marconcini al Teatro di Buti) ed è stato presentato alla ventisettesima edizione del Festival di Santarcangelo e a Teatri 90. Durante il '97 hanno lavorato su vari studi di Don Giovanni, presentandoli di volta in volta, nel circuito provinciale dei Piccoli Teatri della Provincia di Pisa. Hanno partecipato nel luglio 1998 al progetto Volterra all'Inferno, nell'ambito del festival Volterrateatro, da cui è nato uno studio su Faust, Pauperis oratorium Christi, presentato a "Piccoli Fuochi" Edizione 1998.
Orfeo (II studio) prodotto da SantAndrea Teatro e Artport Metropolitan Fringe Festival è l'ultimo spettacolo del giovane gruppo pisano, ideato da Giovanni Guerrieri con la collaborazione di Giulia Gallo, Gabriele Carli, Enzo Illiano e la collaborazione artistica di Andrea Fiorentini (info: sacchidisabbia@tiscalinet.it)
les Feux de la rampe
Tuffarci nell’universo degli attori, scoprire i loro percorsi e condividere le loro mille vite, al di fuori di ogni discorso promozionale, far cadere la maschera a quelli che ci fanno sognare, sulla scena o sullo schermo. les Feux de la rampe apre una nuova porta sul mondo degli attori.
Negli scorsi mesi, è stata realizzata e diffusa una interessante serie televisiva, les Feux de la rampe, ovvero le luci della ribalta. Si tratta di incontri tra Bernard Rapp e una interessante gruppo di attori:
Anouk Aimée
Sabine Azéma
Claude Brasseur
Patrice Chéreau
Danielle Darrieux
Annie Girardot
Bernanrd Giraudeau
Catherine Frot
Vincent Lindon
Daniel Mesguich
Miou-Miou
Philippe Noiret
Charlotte Ramplig
Claude Rich
Jean Rochefort
Philippe Torreton
Jaques Villeret
Ciascuna puntata dura 60 minuti, realizzata e prodotta da Philippe Azoulay per Rosebud Productions.
In uno dei prossimi numero di "ateatro" recensiremo alcune delle cassette. Per ora, ecco la presentazione della serie (in francese).
Les feux de la rampe
Même ceux d'entres nous nourris au fast-food et aux blockbusters américains, gardent un lien affectif avec le cinéma français qui touche forcément leur sensibilité, élevés qu'ils sont dans l'amour d'une langue et d'un patrimoine dont des noms aussi prestigieux que Molière ou Jean Renoir parsèment la mémoire. C'est de cette dualité dont se tissent nos vies, de ce désir d'entretenir la flamme dont sont faites nos passions.
Les américains l'ont bien compris qui, depuis longtemps, conjuguent création et marketing avec force "making-of" et "electronic press-kit". Pour cela, la télévision se révèle un parfait média. En France, la publicité pour le cinéma est interdite à la télévision. Mais comme nous l'a brillamment démontré la série "Actors Studio", il y a d'autres façons de stimuler une industrie et d'aider les acteurs de cette industrie à mieux promouvoir nos programmes et, par là-même, nos idées, notre culture.
Si le Septième Art est devenu une industrie, il est au cœur de cette machine une famille d'êtres de chair et de sang, qui est celle des acteurs. Ces acteurs cristallisent les rêves du public.
Avec les Feux de la rampe, c'est notre patrimoine que nous souhaitons mettre en avant, ainsi que la qualité de nos comédiens et l'évidence de leur existence, de leur travail. S'ils sont présents, c'est qu'ils ont réussi à donner du sens à un propos, à une quête.
Nous souhaitons donner aux téléspectateurs l'envie de revoir, voire de découvrir les films français pour les plus jeunes d'entre eux.
Philippe Azoulay (Réalisateur et Producteur)
Le concept
les Feux de la rampeest une série documentaire consacrée aux comédiens. L'ambition de cette collection est de devenir une anthologie. Chaque film sera l'occasion de faire le portrait d'un comédien.
Nous nous pencherons tout d'abord sur les origines d'une vocation. Comment, pourquoi on décide de devenir comédien, le don de soi que cela implique, les possibles sacrifices. la chair qui compose un acteur, la sensibilité qui l'habite.
Nous chercherons à connaître les influences déterminantes sur le choix de certaines carrières, la formation ou les rencontres qui ont permis cette carrière, l'interférence qui peut exister entre vie privée et vie professionnelle et comment l'une peut se nourrir de l'autre.
Sans jouer Sigmund, ni meubler avec un divan, les films que nous proposons seront forcément un peu versés dans la psychanalyse puisque nous analyserons les relations entre le "je" et le "jeu", à savoir tel acteur est-il devenu un "loser magnifique" à force d'en jouer le rôle, ou a-t-il joué ce rôle pour n'en être plus un lui-même ? Sans entrer dans la fonction de la catharsis, nous pourrons ainsi connaître un comédien de façon inédite, l'enjeu étant dans la résolution de son mystère.
Chaque portrait sera construit de façon chronologique, autour d'une interview très "poussée".
Dans le rôle de l'intervieweur, Bernard Rapp qui nourrit depuis toujours une passion pour le cinéma, saura mener un entretien, créer une complicité avec les comédiens et ainsi les inciter à la confidence.
Nous nous attacherons particulièrement aux documents qui viendront illustrer le parcours du comédien et éviterons à tout prix le conven-tradi-tionnel zapping, puisqu'il s'agit de mettre en lumière certains propos de façon construite, à l'aide de photos et d'images d'archives (documents inédits issus des archives du Conservatoire, de l'INA, etc., les essais qui ont révélé les acteurs, leurs premiers pas, la relation triangulaire entre un metteur en scène, un comédien et un personnage, l'extrait de tel film qui vient confirmer ce qu'il avance,…).
Le comédien est mis en situation dans un décor mythique s'il en est : le Conservatoire National Supérieur d'Art Dramatique.
Le décor sera scénarisé en fonction de la personnalité du comédien. La lumière devra induire une ambiance à la fois théâtrale et cinématographique, à la façon des clairs-obscurs en peinture. Nous choisirons donc un chef-opérateur issu du théâtre ou du cinéma pour nous composer la lumière idéale.
Les auteurs
Toute la vie passe par le travail. Les projets, les rencontres, les désillusions, la lutte contre le temps. Cette réalité peut être supportée comme une contrainte, ressentie comme une aliénation mais elle peut être aussi envisagée comme une chance pour appréhender les autres à travers leur activité et secourir le monde dans ce qu'il a de plus universel et de constant. Parfois tout cela ensemble; pour certains, c'est le plus dur de l'existence et pour d'autres la chance d'un perpétuel renouvellement. Mais quelles que soient les circonstances, cela se paye aussi au prix fort des efforts, du doute, de l'échec toujours possible. Le travail d'acteur est, à cet égard, l'un des plus exaltants et des plus durs à accomplir car il souligne la solitude, oblige à s'affranchir de la raison pure pour mettre à contribution ses sentiments et ne peut s'effectuer qu'au contact d'œuvres, conçues par d'autres et du public inconnu auquel on s'adresse.
S'entretenir avec un acteur de son travail, c'est prendre un risque: celui d'essayer de le rejoindre dans ce qu'il a de plus essentiel et selon des règles qui ne sont pas les siennes puisqu'il a choisi de s'exprimer justement selon ses identités différentes. Cela ne marche pas à tous les coups; quelques-uns se cachent encore avec les trucs du métier si tant est qu'il en existe, par pudeur, habileté ou routine professionnelle tandis qu'il en est qui se découvrent en se prêtant à cette forme différente du jeu dans lesquelles ils se mettent si souvent en péril. Mais il n'y a pas d'échec et c'est à chaque fois intéressant. Qu'ils éludent, qu'ils mentent ou saisissent l'occasion pour se mettre en perspective, ils livrent suffisamment d'eux-mêmes et de leur vie pour que l'on en apprenne au moins quelque chose de nous-mêmes.
Encore faut-il venir vers eux avec la plus grande franchise, c'est-à-dire sans tricher sur les enjeux de leur travail.
A cet égard, choisir le lieu et l'atmosphère du Conservatoire National d'Art Dramatique, c'est-à-dire l'endroit même où se fait l'apprentissage de l'art de transmettre (parmi ces jeunes gens qui s'apprêtent à faire le même travail pour toute leur vie) c'est se replacer au cœur de leur démarche et au point névralgique où tout s'est décidé pour eux.
Il n'est d'ailleurs pas absolument obligatoire qu'ils aient "fait" le Conservatoire : la filiation morale avec leurs prédécesseurs est une donnée tellement fondamentale du travail des acteurs que l'école d'art dramatique la plus légitime installe le climat nécessaire à l'intérêt d'un entretien.
La question, la réponse, le métier, seulement le métier mais tout le métier autant qu'il est loisible de l'envisager dans les règles de temps de ces portraits. "Les feux de la rampe" garderont d'autant mieux leur mystère qu'on aura franchi le temps d'une rouerie ou d'un aveu le mince ruban de lumière indécise qui nous sépare de l'autre.
Note d'intention de Bernard Rapp
L'interview est, à mon sens, un jeu qui se joue à deux et qui, dans l'idéal, relève de la complicité. Il suppose curiosité et respect d'un côté et sincérité de l'autre.
les Feux de la rampe sont l'occasion de le vérifier puisque la durée de l'entretien, près d'une heure, sa totale déconnexion d'avec toute forme de promotion, le cadre qui l'abrite, le Conservatoire d'Art Dramatique, et la présence d'un public composé de jeunes comédiens attentifs et passionnés sont autant de facteurs qui garantissent un état d'esprit, un climat, que l'on trouve rarement aujourd'hui à la télévision.
Les comédiens nous font rêver, ils tiennent une place à part dans nos vies, mélange de rêve, d'envie et d'admiration. Mais que sait-on vraiment d'eux hormis ce que nous donnent à voir les gazettes et quelques émissions de "service après vente"? Que connaissons-nous vraiment de leur métier, de leurs attentes, de leurs craintes peut-être et de leurs plaisir certainement? Comment comprendre ce qu'ils sont aujourd'hui sans tenter de voir ce par quoi ils sont passés pour y parvenir?
Dans les Feux de la rampe, il sera question de technique, bien sûr, puisqu'il s'agit d'un vrai métier et que la salle sera peuplée de comédiens en devenir, mais aussi de passion partagée. Car s'il est vrai que l'expérience de l'acteur est toujours une affaire personnelle et unique, que chaque aventure est, là plus qu'ailleurs, individuelle, les nombreuses rencontres que j'ai pu faire avec les comédiennes et les comédiens qui occupent le sommet des affiches m'ont appris qu'ils étaient des passeurs nés et que personne ne savait mieux qu'eux, évoquer leur métier. Ce sera en tout cas l'ambition de cette émission.
Intentions de réalisation de Philippe Azoulay
La réalisation des Feux de la rampe ne s'apparente pas à un travail de création sur la forme mais résolument sur le fond. Il nous faudra en effet savoir être à l'écoute pour mettre en évidence la sensibilité des acteurs, leurs émotions...
D'une part, nous nous attacherons à l'ambiance générale : nous profiterons du décor beau, mythique, empreint de souvenirs et de nostalgie qu'est le Conservatoire et son théâtre. Pour traduire cette ambiance, nous créerons une lumière classique, douce, plutôt théâtrale, voire cinématographique. Ce sera un travail de précision, de détail, dans un style clair-obscur qui mettra en valeur les décors.
D'autre part, pour ce qui concerne les entretiens, les caméras se tiendront à distance, dans l'obscurité, afin de se faire oublier et de participer à l'atmosphère de confidence. Nous travaillerons avec de longues focales : nous serons ainsi au plus prés de chaque visage, sensible à ses moindres réactions, au moindre détail de ses émotions.
Plutôt qu'un montage saccadé de l'entretien, nous privilégierons également les longs plans-séquences.
Pour les autres séquences, tournés dans les lieux annexes avec les comédiens, avec la participation des élèves, les caméras seront toujours discrètes mais cette fois ci elles seront portées à l'épaule, afin de retranscrire la spontanéité des situations.
Enfin, les documents et les archives seront ajoutés lors de la postproduction, afin d'enrichir les moments-clés de l'entretien. Ils serviront de points de rupture entre les différentes séquences.
Ces documents seront constitués d'extraits de films, de photos de tournages, et par dessus tout d'éléments permettant de comprendre la genèse d'une carrière : premiers travaux, courts métrages, casting décisif, coulisses de films,...
S'il fait partie d'une collection, chaque épisode n'en sera pas moins personnalisé. Nous nous attacherons en effet à épouser le caractère et la sensibilité de chacune des personnalités concernées.
Le Conservatoire : deux siècles de tradition
Si le Septième Art est devenu une industrie et tend de plus en plus vers le virtuel, il est au cœur de cette machine une famille d'êtres de chair et de sang, qui est celle des acteurs. Ces acteurs cristallisent les rêves des téléspectateurs.
Et pour devenir acteur et espérer faire une carrière, le Conservatoire reste une référence, sinon La référence. Et pour cause.
Une étude attentive nous révèle, aujourd'hui encore, qu'en France, 80% des comédiens qui tiennent le haut de l'affiche, aussi bien au théâtre qu'au cinéma, sont passés par le Conservatoire.
Pourquoi, comment une école vieille de plus de deux siècles a su être le terreau de la formation à l'art dramatique, rester la voie royale pour intégrer la prestigieuse Comédie Française et perpétuer ainsi la tradition ?
Pour répondre à cette question, il nous faut faire une incursion dans le Conservatoire d'aujourd'hui, sonder ses "élus", mais aussi faire un retour en arrière.
Pendant très longtemps, la France ne s'est guère souciée de la formation des comédiens. Cet art, méprisé, s'exerçait souvent de père en fils; les jeunes apprenant "sur le tas" les "trucs" et les recettes de leurs aînés.
Pourtant, la troupe de Molière avait eu les faveurs de la Cour de Louis XIV; les comédiens y étaient invités. Mais avant de mourir, le roi s'étant tourné vers la religion, avait fermé Versailles à ceux que l'on considérait encore comme des parias.
Le tragédien Lekain, ami et interprète favori de Voltaire, adressa le 4 Septembre 1756, à Messieurs les Premiers Gentilshommes de la Chambre du Roi, un "mémoire précis tendant à constater la nécessité d'établir une école royale pour y faire des élèves qui puissent exercer l'Art de la Déclamation dans le tragique..."
Louis XV ne donne pas suite à ce projet. Il meurt en mai 1774. Son successeur est plus favorable à l'art théâtral. Il donne à Lekain le privilège d'ouvrir son Ecole, avec dotation royale.
Le 3 Janvier 1784, un arrêté du Conseil d'Etat du Roi décide la création, à compter du 1er Août suivant, d'une "Ecole où l'on put former tout à la fois des sujets utiles à l'Académie Royale de Musique et des élèves propres au service particulier de la Musique de Sa Majesté".
Le Conservatoire est né.
La Révolution bouscule les décrets royaux, l'Ecole connaît une période tumultueuse mais, en Juillet 1811, Napoléon inaugure le nouveau Théâtre du Conservatoire.
Depuis sa naissance, le Conservatoire National Supérieur d'Art Dramatique (qui existe sous sa forme actuelle depuis 1946) a connu des professeurs prestigieux : Talma, la tragédienne Rachel, Sarah Bernhardt, Louis Jouvet, Michel Bouquet, Gérard Desarthe, Claude Régy, Antoine Vitez… Et aujourd'hui Philippe Adrien, Catherine Hiegel, Joël Jouanneau, Jacques Lassalle, Daniel Mesguich et Dominique Valadié.
Depuis aussi, des élèves prestigieux : Madeleine Renaud, Charles Boyer, Bernard Blier et, plus près de nous, Jeanne Moreau, Claude Rich, Annie Girardot, Jean-Pierre Marielle, Jean-Paul Belmondo, Ludmilla Mikaël, Any Duperey, Nicole Garcia, Francis Huster, Jacques Weber, Nathalie Baye, André Dussolier, Sabine Azema, Jacques Villeret, Daniel Mesguich, Isabelle Huppert, Carole Bouquet, Catherine Frot, Muriel Robin, Vincent Pérez, Sandrine Kiberlain, ...
L'histoire est édifiante. Mais le mystère du succès reste total.
"Tout ce qu'il y a à apprendre est dans les textes. Et chaque fois, pour chaque pièce, chaque personnage, il n'y a qu'une seule voie, celle d'une véritable intimité avec l'oeuvre et peut-être même avec le poète...". Philippe Adrien, professeur d'interprétation
Comment s'effectue l'approche de "l'incarnation" par les acteurs, jusqu'à quel point l'approche historique des textes en enrichit la lecture ... Autant de questions que nous poserons aux comédiens aujourd'hui célèbres qui sont passés par le Conservatoire, afin de percer ce mystère, comprendre le succès, la méthode, lever un coin du voile pour savoir ce qui se passe au Conservatoire et comment trois ans peuvent conditionner toute une vie.
Notre série s'inscrit dans cette découverte de l'école d'art dramatique la plus prestigieuse.
Philippe Azoulay est né le 7 Juillet 1966. Depuis 1994, Philippe Azoulay dirige
la société Rosebud Productions dont il produit les différents projets. Il en réalise la plupart.
Il se prépare à réaliser son premier long-métrage : Pour l'amour du ciel.
Contacts Italie : Anna Passatore c/o Rosebud Productions
Tel : 0033/1/ 53 98 77 70
0033/6/75689548
E-mail: rosebudp@club-internet.fr
La Genisse et le pythagoricien
Jean-François Peyret et Alain Prochiant, La Génisse et le pythagoricien (da Le Metamorfosi di Ovidio)
Théatre National de Strasbourg, 17 aprile-5 maggio
Regia Jean-François Peyret
(visibile anche dal web)
"S’appliquant à décrire l’origine du monde, Ovide, dans Les Métamorphoses, développe un cycle de poèmes -livres- qui met en forme la genèse de celui-ci. Passés les âges heureux et déclinant une histoire du métal qui veut que l’or soit plus précieux que le fer… les histoires commencent. Comprenons par-là : les problèmes sérieux, les tracas graves, les dérapages inqualifiables, les avatars violents, les soucis obsessionnels, les ennuis en perspectives, les désagréments immédiats, les craintes continuelles qui ponctuent la vie quotidienne des séducteurs, des mortels, des amants, des récalcitrants... Vient alors à se dessiner un monde chagrin où les dieux et la nature -qui comprend l’homme- sont pris pour un vieux couple. Enfin, c’est autant une relation de couple qu’une relation de filiation (père/fils, père/fille, mère/fils, beau-père, etc.) Bref, une histoire de famille recomposée et décomposée où le second est l’image -on ne parle pas encore de clonage- du premier. D’où le droit qu’observent les dieux sur leurs progénitures. " La chair de ma chair, c’est ma chair " peut-on dire d’une formule tautologique. Formule qui prive l’autre de toute identité, renchérit du côté de la possession et du possessif (plus y a de "Moi ", moins y a " l’autre " ou plus y a de " JE ", moins y a de " tu ", voire plus y a de dieux, etc.) et oblige aux métamorphoses.(...)
Il testo completo è consultabile alla pagina:http://www.theatrefeuilleton2.net/letter/confidences/play3.htm
All'indirizzo http://www.fluctuat.net/scenes/interview/peyretinterview.htm un'intervista in real audio con l'autore a cura del critico Ludovic Fouquet.
Regista, autore, traduttore, Jean-François Peyret ha scritto e allestito numerosi spettacoli tra cui Le Rocher, la Lande, la Librairie da Montaigne e la Nature des choses da Lucrezio. Autore di Geste de bois e di Vous avez dit je? da Kafka; ha diretto dal 1984 fino al 1994 il Sapajou-Théâtre con Jean Jourdheuil. Insieme mettono in scena alla Maison de la Culture di Bobigny : Paysage sous surveillance (1987), la Route des chars (1988), Hamlet-Machine da Heiner Müller (1990), Sonnets da Shakespeare (1990), la Nature des choses da Lucrezio (1990-1991). Nel 1994, Peyret crea con Sophie Loucachevsky il progetto "Théâtre Feuilleton " al Petit Odéon, prima di fondare la compagnie tf2.
In residenza alla Maison de la Culture di Bobigny dal 1995 al 2000, contamina il teatro con le tecnologie elettroniche e digitali. Nel 1995, inizia il ciclo del Traité des passions. Nel 1998, Un Faust, histoire naturelle, spettacolo scritto insieme con la neurobiologa Jean-Didier Vincent. In Turing-Machine (1999) et in Histoire naturelle de l'esprit (2000), Peyret confronta il teatro con l'intelligenza artificiale. Projection privée/théâtre public (Teatro della Bastiglia, 2000), spettacolo sulla poesia d'amore di W. H. Auden, chiude il ciclo cominciato con il Traité des passions.
SEGNALAZIONI
# Kunstenfestivaldesarts, Bruxelles, 3-25 maggio 2002
Filmakers,videoartisti, artisti visivi e performance, spettacoli teatrali, installazioni multimedia europei.
Prima mondiale per Iliade del Teatrino clandestino (7-11 maggio).
# Fabbrica Europa 2002. Mito d'Europa e identità contemporanea, Firenze, Stazione Leopolda (Porta al Prato), 3 maggio - 31 maggio 2002
«Fabbrica Europa, IX edizione, torna dal 3 al 31 maggio alla Stazione Leopolda di Firenze, uno spazio e un festival che mantengono un’originalità assolutamente inedita per l’Italia. Ogni anno rinasce nel cuore di Firenze un cantiere capace di accogliere e mettere a confronto le varie espressioni dell’arte e dello spettacolo: danza, musica, teatro, arti visive, incontri, laboratori.Da quest'anno la Progetti Toscani Associati, struttura che da sempre organizza e gestisce il festival, opererà in coproduzione con la Fondazione Pontedera Teatro - teatro nazionale d’arte della Toscana per la ricerca e le nuove generazioni - e l’Associazione Music Pool, formalizzando la rete di collaborazioni consolidata nelle precedenti edizioni.» (Dal programma del Festival)
# Ars Electronica 2002, Linz, 7-12 settembre
"In 2002 the Ars electronica turns its attention to the conception of self
of a young generation of media artists and their consciousness of the
problems confronting them, and analyzes their positions on the political,
cultural and sociopolitical implications of the technologies they work with...
The choice of topic for Ars Electronica 2002 is indicative of how the issue
of the political element in art has returned with a vengeance to the agenda
of intellectual discourse, and artistic practice - a development that did
not just begin to manifest itself as a reflex to 9/11 but was already
emerging in conjunction with the protest movement in Seattle, Genoa and
Porto Alegre" (Gerfried Stocker, Direttore artistico di Ars Electronica)
Paris c'est ici
di Erica Magris |
Incontro con Guy-Claude François
scenografo del Théâtre du Soleil
Parigi, 29 marzo 2002
Comment a commencé votre relation avec Ariane Mnouchkine et comment a-t-elle évolué au cours de temps ?
D’abord je l’ai rencontré lorsque j’étais directeur technique du Théâtre Récamier en 1965, où elle a monté avec la troupe du Soleil le Capitaine Fracasse ». On s’est apprécié mutuellement et donc depuis cette époque-là on travail ensemble. Mais après qu’on a fait le film Molière en 1978, j’ai continué à travailler au Théâtre du Soleil avec elle de manière indépendante, c’est-à-dire que je n’y étais pas en permanence comme auparavant. Nous avons des rapports qui sont essentiellement affectifs, et donc très difficiles à décrire.
Il faut considérer que ce n’est pas que pour la scénographie qu’Ariane fonctionne de cette manière-là. Elle travaille toujours dans la matière. Cette à dire que quand elle commence des répétitions rien n’est décidé véritablement, si ce n’est quelques ébauches. A fur et à mesure que les répétitions avancent et à fur et à mesure que des problèmes, ou des interrogations, ou des découvertes se font, ça donne lieu à des avancées et des progressions dans le travail de la scénographie. Mais aussi dans celui de l’écriture, quand il s’agit d’Hélène Cixous, de la musique, etcetera. Donc c’est un travail qui se fait non pas traditionnellement avec une décision scénographique, non pas avec une décision d’écriture et une décision musicale d’autre part, et puis tout ça est rassemblé en un seul morceau pendant les répétitions, mais tous ces éléments-là sont très fondus les uns aux autres au cors de l’élaboration du spectacle.
Suivez-vous le travail des répétitions ?
Moi, je ne le suis pas, je regarde de temps en temps. C’est Ariane qui à partir des répétitions sent que des choses doivent être faites. A partir de là, je lui propose des choses, je dessine, je fais des propositions. Après ça va très vite, on essaye tout en grandeur nature et on décide à ce moment -là.
Pour exemple comment est née l’idée de la scène de Tambours sur la digue, avec l’eau qui envahit le plateau ?
L‘idée de l’eau c’est d’Ariane, parce que elle disait que l’inondation à la fin devienne réel, tangible. C’est une idée formidable d’ailleurs, parce que pendant tout le spectacle ça n’a été que de la métaphore, du symbole, de la théâtralité, et tout d’un coup ça devient réel.
A l’intérieur de la Cartoucherie, le Théâtre du Soleil est un lieu particulier, un véritable lieu de communion pour les spectateurs, parce que il n’existe pas de cadre de scène et tout l’espace et un énorme boîte scénique qui engloutit le public…
Ça a été beaucoup plus loin que ça ne l’est actuellement, parce que avant Sihanouk chaque spectacle bouleversait complètement l’espace. On détruisait absolument tout et on reconstruisait en fonction du spectacle. Dons on avait un rapport scène-salle, mais il était moins classique. La scénographie d’une certaine manière contribuait beaucoup plus au jeu dramatique. Par exemple l’idée de départ de la scène de 1789 était celle d’un groupe de théâtre qui racontait la Révolution française. La scénographie, qui n’est pas de moi mais de Roberto Moscoso, était imaginée comme dans les théâtres de foire. Il y avait plusieurs petites scènes entre lesquelles les spectateurs vaquaient. Ça c’étais le principe qui était intéressant sur la plan dramatique, scénographique et historique, parce que effectivement ça se passait comme ça.
Quels ont été les rapports entre les comédiens et le dispositif scénique pendant la création de ce spectacle ?
A partir du moment où les acteurs jouaient des saltimbanques, ils se sentaient bien dans cet espace. Donc ils jouaient comme des acteurs dans les foires, qui essayent de rassembler le plus de spectateurs pour eux, de façon empruntée notamment à la Commedia dell’Arte, qui pour eux était un code, une manière de jouer. Donc sur ces tréteaux il se trouvaient à l’aise.
On a l’impression que vous avez abordé la Révolution de deux manières très différentes dans 1789 et 1793, même au niveau de la construction de l’espace…
La Révolution Française avait commencé par l’action. On a détruit les privilèges et on a repoussé la monarchie: c’est de l’action. Ensuite il a fallu réfléchir et construire une nouvelle société. Dans le premier cas c’était 1789, dans le deuxième c’était 1793, c’est l’époque à laquelle les gens commençaient à se poser de questions. On n’a pas traité la troisième période, la période dictatoriale, violente. La période de 1793 est une période où les gens imaginaient une société idéale et donc le spectacle reflétait cette portée. Les spectateurs étaient installés d’une manière beaucoup plus calme, sur des grandes galeries de bois. (Il dessine un plan et indique les éléments qui il va décrire) Ici il y avait des poteaux, qui faisaient cinq mètres, ici il y avait une grande galerie de bois à deux niveaux, ici il y avait la salle d’accueil : on demandait aux spectateurs d’attendre dans cette salle, et à un moment précis on leur demandait de rentrer dans l’autre, où il y avait un grand rideau qui fermait ça. Les spectateurs rentraient, et il restaient début. Il y avait ici une sorte d’immense scène très haute et les spectateurs assistaient à une parade qui rassemblait à 1789. Ce qui se passait ça durait dix minutes, même pas, et à la fin le grand rideau s’ouvrait et les gens pénétraient dans cette partie de la salle où il y avait trois immenses tables qui étaient comme des scènes. Les gens se répartissaient soit dans les galeries soit au sol, où on avait construit un très beau parquet de bois. Et ici assistaient à la représentation un peu comme les gens qui refont le monde et qui passent la nuit à parler.
Le système d’éclairage c’était très important dans ce sens-là…
Oui, tout à fait. Dans la Cartoucherie il y avait une verrière et par dessus on avait construit un abris qui reproduisait la lumière du jour. (Il le dessine) Je me souviens que c’était très impressionnant parce que à un certain moment c’était comme quand on passe la nuit à discuter, on est un peu fatigué et le jour se lève: c’est ce qui se passait, le jour se lavant par les fenêtres.
Et quelle était la réaction du public ?
La réaction du public était très étonnée, parce que les gens étaient pris comma ça dans le spectacle. Ce n’était pas spectaculaire au sens où c’était un effet, mais c’était presque naturel, les gens le sentait comme quelque chose de naturel et très souvent ils se rendaient compte qu’il était minuit dehors, parfois en sortant.
Le temps du spectacle c’était véritablement un temps parallèle et le public pouvait se prendre pour des séctionnaire de la Révolution tout en restant conscient d’être au théâtre.
Oui, tout à fait, eux-même refaisaient le monde. Ça c’est une notion de Bertolt Brecht : il disait qu’il ne fallait jamais perdre la notion d’être au théâtre.
Mais la façon qu’a le Théâtre du Soleil d’appliquer la distanciation selon Brecht est très prenante…
Effectivement, là où je trouve qu’Ariane a réussi quelque chose de formidable c’est qu’elle ne dénonce jamais le théâtre, au contraire, elle affirme toujours que nous sommes dans le théâtre et dans le même temps, ce qu’elle fait passer sur la scène, c’est émouvant. Les émotions et les sentiments existent, ce n’est pas didactique.
Même les autres spectacles des années Soixante-dix ont des dispositifs spatiaux chaque fois différents : comment sont-ils nés ?
Pour L’Age d’Or Ariane voulait un espace utopique et pour moi utopique ça voulait dire sans références : la maquette que j’avais fait c’était une maquette avec du sable. C’était un bac avec du sable et à la main on s’amusait faire des collines , des creux, des bosses, etcetera. Et un jour on a trouvé la forme parfaite, c’est à dire quatre cirques. Pour la construction je m’étais posé des questions aussi et finalement la meilleure solution qu’on avait trouvé c’était de faire la même chose en grand que l’on faisait avec la main … et avec des bulldozers on avait trouvé des formes identiques. C’est pour ça que les lignes sont courbes et il n’y a jamais d’arrêt. Bien sûr, on a ajouté par dessus la terre du béton et un grand tapis. Ariane avait essayé d’y jouer des scènes simultanées, mais ça ne fonctionnait pas et c’est vrai que c’est très difficile, parce que les spectateurs sont attentifs à un fragment du spectacle et en même temps ils entendent les autres, donc ils sont un peu partagés. Finalement elle a utilisé l’espace en promenant le public d’un cirque à l’autre.
Méphisto c’est vraiment un spectacle qui marque un moment de forte crise pour la troupe. C’est après Molière et ce film représente l’apothéose d’une certaine façon de faire du théâtre, qui est caractéristique du Théâtre du Soleil des années Soixante-dix. Et puis Ariane a eu l’impression d’avoir été trahi par certains comédiens qui étaient partis, et cette situation a pesé sur Méphisto, qui est en effet un spectacle sur la trahison. C’est un spectacle dans lequel tout est ou blanc ou noir, et dans lequel les personnages se trouvent dans la condition d’être obligés à choisir de quel coté se placer. Il y avait deux théâtres , l’un en face de l’autre : d’un coté il y avait le théâtre officiel, avec son décor rouge et or, et de l’autre la scène d’un cabaret d’opposition politique. Le public était assis dans le milieu. L’action se déroulait soit sur l’un soit sur l’autre et à chaque changement le public devait se lever et changer de position, grâce à des bancs faits comme ça. (Il dessine le plan de la Cartoucherie et le détail d’un banc). Les spectateurs se trouvaient vraiment dans une situation d’engagement, ils étaient placés dans l’Histoire, et, comme les personnages dans le problème du choix.
Comment s’est passé l’évolution depuis les années Soixante-dix, et comment s’est fixé cette disposition frontale ?
En fait a toujours été frontale, même en 1789, parce que quand on joue quelque chose on est toujours de face. Et puis Ariane a beaucoup plus valorisé le texte et l’acteur d’une certaine manière. Et finalement la position frontale fixe s’est imposé à elle comme une évidence. A la limite quand on change de dispositif on utilise ce qui existe déjà. Ça c’est comme de l’archéologie: il y a des traces d’anciens dispositifs.
En effet les hangars du Théâtre du Soleil sont des lieux de mémoire et de recherche en même temps.
C’est vrai que il y a eu une première période où tout était remis en cause à la fin de chaque spectacle et une autre période qui est actuel qui est plus une période de mémoire. Les gens viennent dans un endroit qu’ils connaissent déjà, dans lequel ils ont malgré tout des surprises, mais qui est leur endroit. D’une certaine façon ce rapport acteur-scène-salle est un rapport qui installe cette idée de tradition. Dans tout cas, il y a un travail sur la scène important, et comme on continue de prendre en charge l’ensemble des bâtiments c’est un travail qui est resté complet.
Au Théâtre du Soleil l’espace théâtrale est un architecture total : cette même conception se retrouve tel dans vos autres travaux ?
Les éléments de vase sont toujours les mêmes, c’est-à-dire que la première chose à laquelle je prête attention, que ce soit dans un espace comme celui de la Cartoucherie, que ce soit dans un théâtre classique, c’est justement le rapport entre l’acteur et le spectateur, entre la scène et la salle. Le dessin de la salle a beaucoup d’importance pour nous, parce que c’est lui par ses formes arrondies, carrées, qui va permettre ce rapport. Et d’ailleurs quand je dessine un théâtre, je dessine toujours en plaçant l’acteur et à partir de ça, je crée la scène, éventuellement je crée la salle et puis le cadre de la scène; après je décide de la profondeur de la scène, de la largeur et tout se fait à partir de ce point-là qui est l’acteur. (Il dessine un croquis d’un théâtre, il le regarde et il commente.) J’ai dessiné comme ça, sens prendre des mesures, mais je sens que le rapport est juste. On commence toujours par dessiner l’acteur et la salle et ensuite on dessine le reste, les arrière-scènes, les loges, l’entrée du public et à fur et à mesure on élargit le dessin par rapport aux activités du travail que ce soit les activités du travail, que ce soit les activités de loisir. En général quand on travaille avec un architecte on commence toujours par dessiner la salle avec toutes les contraintes techniques, qui sont assez importantes, et lui ensuite construit le bâtiment avec ses idées.
Dans l’aménagement des hangars du Théâtre du Soleil vous posez toujours beaucoup d’attention aux matériaux, qui sont toujours très naturels : je trouve qu’ils sont fondamentaux dans la définition de l’atmosphère de cet endroit…
Oui c’est très important parce que là aussi ça touche la relation entre le public et l’acteur. En fait c’est un élément de rapprochement des deux : quand un acteur joue sur de la bric, le spectateur est aussi assis sur la bric. Il y a une osmose, une cohérence générale et on ne peut pas tricher avec ça. C’est-à-dire les gens sont véritablement dans le théâtre et la matière qu’ils touchent c’est la matière qui a été choisi pour être juste pour le spectacle. C’est une manière effectivement de ne pas tricher. Il n’y a pas que l’œil, il y a aussi l’acoustique, il y a aussi le toucher : c’est très important que les matières restent des matières véritables.
Ariane Mnouchkine n’a pas réussi à monter un spectacle sur la Résistance parce qu’elle n’arrivait pas à penser un espace : vous en aviez parlé ?
Oui et en effet c’est très important parce qu’il réfléchit le désir d’Ariane d’engagement. Selon Ariane chaque citoyen doit s’engager dans la vie sociale et elle-même a plusieurs fois avancé des actions politiques. Avec le spectacle sur la Résistance, qui est une période crucial de l’Histoire française, Ariane voulait mettre en scène le moment où l’individu doit choisir quoi faire pour intervenir face aux événements historiques. Nous en avions beaucoup parlé, mais elle n’arrive pas à voir un espace parce qu’elle veut vraiment se concentrer sur le concept même de résistance et elle n’arrive pas à trouver les moyens de représentation de cette forme d’engagement. Moi, je comprends sa difficulté parce que j’en ai eu l’expérience quand j’ai conçu l’espace pour une exposition sur la Résistance à Lyon. Finalement je crois qu’elle va en faire plutôt un film.
A propos de Méphisto vous avez parlé d’abandons et de séparations : quels sont les rapport entre les gens qui ont fait partie du Théâtre du Soleil et qui s’en sont éloignés ?
On ne se rencontre pas souvent, mais il y a entout cas un rapport très profond au niveau affectif. On a la perception d’appartenir tous à une grande famille. Moi, j’ai une grande famille et je sais ce que cela signifie. Avoir été au Théâtre du Soleil signifie faire partie d’une tribu. Oui, on est une tribu. Ce sont des rapports difficiles à décrire parce ce que sont surtout des rapports affectif, et c’est très difficile décrire l’affect.
Quel sera-t-il le prochain pas du Théâtre du Soleil ?
Je n’en sais rien, ça fait longtemps que je ne vois pas Ariane…je sais qu’ils étaient en tournée, et pour l’instant je n’en sais rien.
Guy-Claude François dopo degli studi all'Ecole du Louvre e all'Ecole Nationale des Arts et Techniques du Théâtre nella sezione "Scenografia", dal 1968 partecipa all'avventura del Théâtre du Soleil con Ariane Mnouchkine, prima come direttore tecnico e poi come scenografo. Da L'Age d'Or (1975) fino a Tambours sur la digue (1999) ha concepito i dispositivi scenici di tutti gli spettacoli. A partire dagli anni Ottanta, quando prende le distanze dalla troupe pur continuando la sua collaborazione, inizia a coltivare delle attività indipendenti che lo portano a sbocchi numerosi e differenti tra loro.
È al Théâtre du Soleil che comincia a interessarsi all'architettura. Questa passione lo conduce a occuparsi della progettazione e del restauro di luoghi di spettacolo disparati, e a collaborare con degli architetti di professione (in particolare Renzo Piano, Andraut e Parat, Robert e Reichen). Portano la sua firma il POPB di Bercy, la Cour d'honneur del Palazzo dei Papi di Avignone (sistemazione per il Festival) l'Ircam al Centre Pompidou, la Grande Halle della Villette, l'Opèra Garnier (restauro tecnico) e quasi un centinaio di altri teatri concepiti nell'ambito della società "Scène", che ha fondato insieme a Jean-Hugues Manoury.
Sempre al Théâtre du Soleil egli scopre anche il cinema, in occasione della realizzazione della scenografia del film di Ariane Mnouchkine Molière (1978). In seguito collabora con numerosi registi, fra cui Bertrand Tavernier, Philip Kaufman, Coline Serreau e James Ivory.
L'amore per il teatro lo spinge a lavorare anche con altri registi (ad esempio Krejca, Sachs, Caubère, Brialy) e a cimentarsi nella realizzazione di scenografie per opere musicali; in questo settore realizza le scene di spettacoli diretti da Jean-Claude Penchenat e Andrei Serban.
Si è occupato della realizzazione di spazi per esposizioni temporanee o permanenti (Centre de la Résistance a Lione, Musée da la Paix a Verdun), per concerti e all'organizzazione di eventi spettacolari di massa, come la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici Invernali di Albertville.
È insegnante e dal 1992 coordinatore del dipartimento "Scenografia" dell'Ecole Nationale Supérieure des Arts Decoratifs a Parigi.
In ambito teatrale e cinematografico ha vinto numerosi premi, di cui ricordo il "César" per le scene di Molière e il recente "Molière" per il dispositivo di Tambours sur la digue.
Il Théâtre du Soleil, nato nel 1964 dall'ambiente del teatro universitario, costituisce una delle esperienze più originali del teatro francese contemporaneo. Si tratta di una troupe permanente formata da una sessantina di persone, fra attori, tecnici e amministratori, il cui percorso coincide senza scarti con quello di Ariane Mnouchkine, fondatrice, regista e anima del gruppo. Nel corso del tempo la composizione del nucleo degli attori è mutata continuamente, mentre è rimasta stabile la collaborazione con alcuni artisti, che hanno contribuito alla determinazione della poetica e dei risultati della compagnia: fra di essi Guy-Claude François, scenografo, Hélène Cixous, scrittrice, Erhard Stiefel, creatore di maschere, e Jean-Jacques Lemêtre, compositore e musicista.
Dal 1970 il Théâtre du Soleil occupa quattro capannoni di un'antica fabbrica d'armi abbandonata, la Cartoucherie: da allora si sono aggiunti, nei rimanenti edifici, altri quattro teatri, che hanno formato una sorta di villaggio teatrale, collocato nel cuore del Bois de Vincennes alla periferia di Parigi. All'interno di questo luogo, la troupe ha portato avanti una ricerca sulla natura dello spazio teatrale e sul rapporto entro gli attori e gli spettatori: nelle creazioni degli anni Settanta ciò si traduceva nel mutamento totale dell' organizzazione spaziale, mentre dagli anni Ottanta ad oggi in variazioni di un dispositivo frontale ormai fisso e nell'armonizzazione dell'edificio nel suo complesso al tema degli spettacoli.
Nella concezione di Ariane Mnouchkine il fare teatro consiste in una pratica di vita, fondata su ideali utopistici improntati all'egualitarismo e all'impegno civile, e in una tensione continua alla ricerca. Gli spettacoli nascono dall'esigenza di contribuire al miglioramento della società e dalla volontà di scoprire le fonti e le leggi ineffabili del teatro: ne consegue un lavoro che fondato da un lato sulla messa in scena di eventi di portata collettiva in rapporto con l'attualità, dall'altro sullo studio approfondito delle tradizioni teatrali, la grande drammaturgia occidentale e le tecniche attoriali della Commedia dell'Arte e dei teatri orientali, in una compenetrazione di bellezza formale e contenuti politicamente rilevanti.
Date le altissime esigenze artistiche, la creazione richiede lunghi periodi di prove, che vanno dai sei mesi a oltre un anno; conseguentemente il Théâtre du Soleil, in quasi quarant'anni, ha prodotto un numero relativamente scarso di spettacoli, che però sono entrate nella memoria del teatro contemporaneo. Poche parole di Ariane Mnouchkine riassumono il senso di una vicenda umana e teatrale appassionante:
J'aimerais bien gravir la montagne. Et gravir la montagne, ce n'est pas simplement gravir la montagne de chaque œuvre, c'est arriver à gravir la montagne du théâtre, de sa vie.
Punti di riferimento
1964 |
Fondazione del Théâtre du Soleil
come Società Cooperativa di Produzione. Nove membri
fondatori oltre ad Ariane Mnouchkine: Georges e Myrrha
Donzenac, Martine Franck, Gérard Hardy, Philippe Léotard,
Roberto Moscoso, Jean-Claude Penchenat, Jean-Pierre
Tailhade e Françoise Tournafond.
|
1964-68 |
Periodo di formazione. Vengono
messi in scena testi molto diversi fra loro, come The
Kitchen di Arnold Wesker e Il sogno di una notte
di mezza estate di Shakespeare.
|
1969-75 |
A partire da Les Clowns, la
troupe abbandona la messa in scena di testi drammatici
preesistenti e si lancia nella creazione collettiva,
sostenuta da uno studio approfondito di forme teatrali
popolari. Vengono messe in scena la storia della
Rivoluzione Francese, con 1789 - La révolution doit
s'arrêter à la perfection du bonheur (di cui esiste
un film girato da Ariane Mnouchkine) e 1793 - La cité
révolutionnaire est de ce monde, e la realtà
sociale contemporanea, con L'Age d'Or, in cui
vengono reinventate le tecniche della Commedia dell'Arte.
|
1978 |
Esce al Festival di Cannes il film
Molière ou la vie d'un honnête homme, girato da
Ariane Mnouchkine con i membri della troupe. Viene
stroncato dalla critica, che oggi ha completamente
rivisto le sue posizioni.
|
1979-80 |
Crisi della compagnia e partenza
di alcuni fra i membri più importanti. Realizzazione di Méphisto:
le roman d'une carrière, adattamento di Ariane
Mnouchkine dall'omonimo romanzo di Klaus Mann, che narra
le vicende di un gruppo di intellettuali e artisti
tedeschi di fronte all'ascesa del nazismo.
|
1981-84 |
Per volontà di Ariane Mnouchkine
la troupe, quasi completamente rinnovata, si pone alla
scuola di Shakespeare. Realizzazione di un ciclo di tre
pièce, intitolato Les Shakespeare : Riccardo II,
Enrico IV - Parte Prima, La Dodicesima Notte.
|
1985-88 |
Inizio collaborazione con Hélène
Cixous, che scrive i testi di due spettacoli di storia
orientale: L'Histoire terrible mais inachevée de
Norodom Sihanouk, roi de Cambodge, che ripercorre le
vicende della Cambogia degli ultimi cinquant'anni, e L'Indiade
ou l'Inde de leurs rêves, che racconta
l'indipendenza e la spartizione dell'India. |
1990-92 |
Continua la ricerca delle fonti
del teatro con l'esplorazione della tragedia greca:
realizzazione di un ciclo di quattro testi composto da Ifigenia
in Aulide di Euripide e Le Coefore di Eschilo,
intitolato Les Atrides. |
1994 |
Creazione contemporanea di Hélène
Cixous, La ville parjure ou le réveil des Erynes,
sull'affare della vendita di sangue contaminato dal virus
HIV. |
1996 |
Messa in scena di Tartuffe
di Molière, dalla prospettiva provocatoria del problema
dell'integralismo islamico. Accoglienza alla Cartoucherie
dei clandestini scacciati dalla Chiesa di San Bernardo a
Parigi. |
1998-2000 |
Ritorno alla creazione collettiva
con Et soudain des nuits d'éveil, realizzato a
partire dall'esperienza dell'accoglienza dei clandestini,
accostata al problema dell'oppressione del Tibet. Messa
in scena di Tambours sur la digue, testo scritto
in forma di antica pièce per marionette di Hélène
Cixous. |
London calling
di Veronica Picciafuoco |
Plasticine (Pongo)
Royal Court Theatre, Sloane Square
Scritto da Vassily Sigarev
Traduzione di Sasha Dugdale
Regia di Dominique Cooke
Scena di Ian MacNeil
In un povero quartiere della Russia d'oggi, un blocco di case popolari si erge intorno ad una corte dei miracoli. Una riflessione sulla povera e triste realtà di oggi in una qualsiasi cittadina remota russa dove il singolo cerca di crescere incontaminato ma in cui, inevitabilmente, finisce per esserne sommerso, affogandovi, a meno che non voglia nuotare in mezzo ai derelitti resti galleggianti.
Maksim un ragazzo adolescente che vive in uno di questi miserabili appartamenti-alveari, cerca ogni giorno di combattere in questa giungla. Al di là della porta di casa sua, drogati, prostitute, delinquenti e chi la società abbandona e ignora nelle strade.
Violenza gratuita, squallore, ciascuno usa e abusa dell'altro. Non esiste il rispetto bensì la legge del più forte.
Maksim è assorto nel suo mondo innocente fatto di statuine di pongo: l'unico modo per rifugiarsi dall'inferno che lo circonda e che lo soffoca nella vita quotidiana e negli incubi notturni. Gli animaletti di pongo e le continue visioni innocenti di una sua coetanea, riflesso di una realtà semplice e pura, dove i sentimenti, i valori e gli ideali hanno per lui ancora un valore, lo accompagnano e lo consolano nei momenti più difficili e nel suo mondo immaginario.
Ma al di fuori di questo il resto è allucinazione; prostitute che lo abbordano, uomini che ne abusano, insegnanti corruttibili della Russia d'oggi che non possono insegnare valori ma che lo giudicano e lo schiacciano, una madre che non c'è più, è "volata via", una nonna non presente assorta nelle sue mancanze e nei suoi rimpianti senza più desideri e sogni da realizzare, uomini che giocano con alcol e violenza e che lo violentano, altri che per paura lo aggrediscono a priori, non riconoscendone il valore e le potenzialità che lentamente si spengono – ali che gli vengono tagliate prima di spiccare il volo.
Dopo un ultimo atto di coraggio e di ribellione a questo inferno, dopo che anche la nonna muore, per Maksim l'unico riscatto è la morte che brutalmente gli fa un favore e lo porta via.
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Attuato all'interno e lungo un'impalcatura di ferro su piani diversi dove ogni spazio diventa ghetto, una stanza buia, la camera dei giochi in pongo, gli spot di luce si alternano, gli attori spuntano in alternanza da ogni angolo di questa struttura. E' spazio di performance ed è a sua volta spazio per l'audience che si muove intorno alle scene permettendo ai tagli di luce di insinuarsi tra la gente e illuminare un nuovo spot.
La sensazione di questa dinamica è semplicemente quella di fare parte di questa realtà, ed assistere a diverse scene di vita quotidiana, dal matrimonio in festa, alla rissa, al funerale, alla fila per ritirare la razione mensile di approvvigionamenti alimentari, alla prostituta in attesa o all'alcolizzato aggressivo. Sembra di essere usciti per prendere una boccata d'aria o per fare la spesa ed essere casualmente spettatori di scene di vita in questo microinferno.
All'inizio sono salita sulle balconate dove alcune scene si svolgevano, poi ho sentito la necessità di spostarmi e scendere anch'io nella corte dei miracoli dove la prospettiva era diversa e le emozioni più forti, scandite da ritmi incalzanti. Non guardavo solamente ma facevo parte di questa folla di gente, delinquenti e prostitute, e ne sentivo da vicino l'odio che portavano dentro, e anch'io come Maksim mi sono a volte sentita aggredita e disgustata e avrei voluto a mia volta aggredire per difendermi, difenderlo, sputare in faccia a questo vuoto pieno di rancore.
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