4 punti per 4:48
Intorno a tre spettacoli ispirati a 4:48 Psychosis di Sarah Kane
di Oliviero Ponte di Pino
Qualche tempo fa, avevo preso in mano il volumetto che raccoglie Tutto il teatro di Sarah Kane. Ho iniziato a rileggerlo e a sottolineare tutte le righe in cui Sarah Kane parla di Dio – o contro Dio.
In questi mesi ho visto tre spettacoli che ruotavano intorno all'ultimo testo di Sarah Kane, 4:48 Psychosis: la versione che ha per protagonista Monica Nappo e per regista Pierpaolo Sepe – l'unica in effetti che porta in scena le parole di Sarah Kane così come le ha scritte l'autrice; le variazioni sul tema di Teatro Aperto; e Gente di plastica di Pippo Delbono, che nasce proprio dalla folgorazione di questo testo. Sono andati in scena in questa sequenza, negli scorsi mesi. Io ho potuto vederli in ordine diverso, e ho preso qualche appunto – così come avevo scritto una breve nota per Diario in occasione del suicidio della scrittrice. Mi è sembrato utile raccogliere e riordinare questi quattro frammenti su Sarah Kane.
Nel frattempo, come tortuosa ginnastica dell'anima, ogni tanto andavo a rileggermi le righe che avevo sottolineato, quelle in cui Sarah Kane parla di Dio.
:: I ::
Aveva solo 23 anni nel 1994, quando il suo testo d'esordio, Blasted (Dannati), al Royal Court Theatre di Londra suscitò accuse moralistiche di oscenità, meritò alcune recensioni entusiastiche, aprì la strada a una giovane leva di drammaturghi e conquistò un pubblico nuovo, cresciuto nell'era Thatcher, che si scopriva in sintonia con quel grumo di indignazione, rifiuto e rabbia.
Sarah, figlia di un giornalista di tabloid, se la prendeva con lo scandalismo dei mass media – anche se non si sarebbe
mai scrollata di dosso la loro pruriginosa curiosità Blasted iniziava come un'avventura d'amore in un albergo di Leeds e finiva in una scena di massacro e atrocità in Bosnia. La violenza che ci entra in casa con il tg è la stessa che esercitiamo e subiamo ogni giorno, nella vita quotidiana, nei sentimenti, nel sesso. L'orrore per quel che fanno gli altri e per quel che facciamo di noi è lo stesso.
Mentre quell'impietosa autodenuncia della nostra solitaria e colpevole impotenza veniva rappresentato in tutto il mondo, lei continuava a lavorare in teatro: una radicale attualizzazione del mito di Fedra (Phaedra's Love), una messinscena del Woyzeck di Büchner, e soprattutto altri due testi brutali e impietosi: nel maggio del '98 Cleansed, ambientato in un'università sudamericana trasformata in campo di concentramento; pochi mesi dopo, all'ultimo festival di Edimburgo, Crave, protagoniste due coppie che dissezionano l'amore.
A questa "born again Christian" che aveva subito perso la fede, il teatro era servito per rendere pubblica e condividere la propria sofferenza morale: l'aveva trasformata in un gesto politico, ma non poteva curarla. Parlava continuamente del suicidio, e gli amici per sdrammatizzare ci scherzavano.
Ma alla fine ce l'ha fatta, imbottendosi di barbiturici al King's College Hospital, dov'era ricoverata. "Scrivo la verità e la cosa mi uccide", dice uno dei personaggi di Crave. I mass media di tutto il mondo l'hanno sbattuta per l'ultima volta in prima pagina.
:: II ::
4:48 Psychosis è la testimonianza del più radicale disagio psichico, quello che porta alla consapevole autodistruzione fisica. Una testimonianza priva di pudori, dove la sofferenza viene esibita, quasi ostentata, e al tempo stesso fredda come un referto psichico. È un testamento dove non ci sono beni materiali da lasciare ai posteri, ma solo questo grumo di parole, e la verità umana che si portano dentro.
È anche una confessione, 4:48 Psychosis, l'ultima possibile confessione. E c'è, in questo testo, come un distacco da se stessi, nella capacità di osservarsi, e compassione e pietà rispetto al proprio dolore, e forse addirittura un sospetto di compiacimento esibizionistico. L'ultimo teatrino dell'io.
È una profezia: quella della propria morte, raccontata in anticipo, non si ma forse per esorcizzarla – quanti ci hanno detto che raccontare la nostra storia è utile, che porta alla remissione dei peccati e alla guarigione, che comunicare il nostro disagio ci fa stare meglio, che tradurre i nostri sentimenti in parole ci permette di aumentare la nostra consapevolezza e di vedere la realtà in maniera più corretta, che ripercorrere la nostra storia rafforza la nostra identità personale e offre un'occasione di scambio con gli altri…Ma quella di Sarah Kane è anche una profezia di un tipo un po' particolare, di quelle che danno a chi le enuncia il potere di realizzarle.
È, ancora, 4:48 Psychosis, un testo teatrale. Dunque una specie di messaggio nella bottiglia lasciato all'umanità da una scrittrice di un certo successo (al di là della sensazione di fallimento personale, il lavoro di Sarah Kane aveva attirato interesse e attenzione). Per quello che è, 4:48 Psychosis è prima di tutto una disperata richiesta d'amore. Ma si tratta di un amore però che può arrivare, da un testo teatrale, solo in una forma inutile e sgradita, tutta esteriore – quella del successo, degli applausi, delle recensioni, e non in quello più vicino, caldo e desiderato di un affetto personale, vero. Dunque una richiesta d'amore paradossale, un messaggio personale che si trova proiettato in una dimensione pubblica.
4:48 Psychosis racconta del cammino verso un gesto irripetibile – il suicidio. E tuttavia è nella natura di un testo teatrale la possibilità di essere ripetuto all'infinito, sempre uguale e sempre diverso. Anche in questo, quello che ha lasciato Sarah Kane è un messaggio paradossale. Se un'attrice – come fa con grande abilità e generosità Monica Nappo – porta in scena il monologo, compie quello che un testo teatrale richiede, e al tempo stesso lo tradisce. Afferra un morto e gli ridà vita. Prende una dichiarazione di fallimento e la trasforma in una fonte di energia. Se ci credesse davvero, se si immedesimasse totalmente nel personaggio, alla fine dello spettacolo non potrebbe far altro che impiccarsi ai lacci delle proprie scarpe. Ma questo è nell'opposto della natura del teatro – e della natura degli attori, che proprio dal contatto con l'aldilà attingono la potenza della maschera. Un messaggio di morte come quello di Sarah Kane non può essere persuasivo, contagioso, se non in qualche caso isolato di imitazione, come accade per le rock star alla Kurt Kobain – altrimenti lo sarebbero stati anche altri drammatici suicidi.
Seguendo questa strada, 4:48 Psychosis diventa una sorta di esorcismo. È un'occasione per guardare il fantasma dritto negli occhi e scoprire che non riflettono il nostro terrore – e questo è ancora più terrificante, come sanno bene tutti i registi di film horror. Ma per sperimentare tutto questo bisogna essere molto semplicemente vivi.
Fare uno spettacolo – e per di più con la forza e l'energia di Monica Nappo – significa in ogni istante tradire la morte, continuare a danzare la vita, con tutta la sua disperazione. In questo paradosso sta forse un po' di quella che gli antichi chiamavano "catarsi".
:: III ::
Nei suoi spettacoli, Pippo Delbono ha cantato la marginalità e la differenza per ritrovare l'ultima possibile vena di autenticità e poesia. Il nuovo Gente di plastica si misura invece con gli "uguali", la gente qualunque, le persone "normali", con Pippo nelle vesti di regista-dj che continua a trasmettere Elvis e Zappa (una sua canzone dà il titolo al lavoro), i King Crimson e I Will Survive. La prima parte è una sorta di musical demenziale: al sogno di felicità della famigliola anni '60 succede la sagra trasgressiva a base di sex drug e rock & roll degli anni '70, all'orgia di spot anni '80 l'elogio del lusso degli anni '90. Non mancano la fantasia sessuale da telenovela della casalinga frustrata e un'esilarante sfilata di intimo sadomaso dove Pepe Robledo surclassa Donatella Versace...
La parodia denuncia, con estremismo quasi ingenuo, l'orrore kitsch della normalità, l'impossibilità di aderire alla realtà, o al suo spettacolo.
Finché la prospettiva non si ribalta: se l'assurdità vacua è l'unico orizzonte, se la giustizia e la compassione tra gli uomini sono vane, l'unica possibilità è la negazione assoluta. Il punto di riferimento è Sarah Kane, l'angoscia di 4:48 Psychosis, il monologo che è insieme testamento e profezia del suicidio. Se il male del mondo esplode in noi trasformandoci in grumo di dolore, se le possibilità d'azione sulla realtà si sono annullate, se la rivolta può solo trasformarci in aguzzini, la colpa personale diventa irredimibile. La sofferenza individuale e le tragedie della storia si amplificano a vicenda e stritolano l'anima.
La logica è ferrea: se siamo divisi in vittime e carnefici, stupratori e stuprati, l'unica salvezza sembrerebbe nascere dalla paradossale coincidenza, nell'istante supremo, di aguzzino e martire. O meglio, come suggerisce questa struggente e vitale sarabanda, da qui passa la via verso una diversa consapevolezza umana e politica.
:: IV ::
Al centro del teatro di Sarah Kane, come nucleo ispiratore e molla creativa, c'è la sofferenza. O meglio, nella drammaturgia della scrittrice inglese s'incrociano due prospettive sulla sofferenza, insieme divergenti e intrecciate.
Da un lato ci sono la violenza e l'ingiustizia del mondo, profeticamente avvertite come vicine, prossime, e non più proiettate in qualche guerra dimenticata lontano dalla nostra quotidianità. La lancinante consapevolezza dell'uso arbitrario e insensato della forza scatena un sentimento di rabbia e di ripulsa, un rifiuto che a sua volta innesca un meccanismo di responsabilizzazione etica e apre a una dimensione "politica": perché forse in qualche modo questa violenza è rimediabile, chissà, medicabile, anche se probabilmente solo su scala locale, minima, o addirittura solo come gesto esemplare e pateticamente umano. Ancora, questa è una brutalità visibile, a volte tanto clamorosa da nutrire i mass media: sono le guerre, gli stupri, il potere dei manganelli e delle telecamere, lo spettacolo del massacro che ci invade le case con il tg…
Però viviamo anche una sofferenza personale, intima, e in definitiva incomunicabile. Una ferita segreta, forse addirittura un peccato originale, quel peccato originale che Sarah si porta dentro – come tutti noi, più o meno profondo, più o meno ossessivo. È un male che non è possibile sradicare, solo lenire annebbiandosi con i farmaci, o accantonare nella breve illusione dell'amore. È una sofferenza fatta di scarsa stima di sé, di sensi di colpa (per i mali del mondo?), di solitudine… Può sfogarsi inconsapevolmente nell'aggressività contro gli altri, oppure chiudere il cerchio nella violenza contro se stessi.
Ecco, il teatro di Sarah Kane nasce da queste due sofferenze, dai loro sguardi che s'incrociano. Nasce nell'Occidente civilizzato e opulento, consumista, disincantanto e post-ideologico, là dove per paradosso esiste solo il nudo essere umano, con il suo destino di finitezza e solitudine. Sarah Kane lancia il suo sguardo verso il nostro orizzonte, vede che è cinico ma ci vuole idealisti, s'accorge che è avido mentre pretende la nostra generosità, grida che è ingiusto ma ci impone di comportarci con giustizia.
Nel testo finale, 4:48 Psychosis, questo sguardo si rivolta su se stesso, in una confessione estrema, un ultimo atto artistico che è insieme generoso e violento – e verrà come raddoppiato dal suo ultimo gesto reale, di pietà e oltraggio su di sé.
Ma che cosa nasce prima, qual è il germe originario di questi gesti umani e artistici? Da dove viene il male? Dalla sofferenza "politica" o da quella "personale"? È la consapevolezza collettiva e pubblica, il giudizio senza appello sulla "civiltà incivile" che promuove la violenza a sistema di relazioni umane? Oppure la ferita che ciascuno porta dentro di sé, il dolore assoluto di non potere appartenere a un tutto infinito, e il desiderio eternamente frustrato di recuperarlo? E quale è il rapporto tra queste due violenze, tra queste due sofferenze?
L'omaggio di Teatro Aperto a Sarah Kane, attraverso la puntigliosa riscrittura di Federica Fracassi, accantona ogni preoccupazione etica, ogni allusione politica, per concentrarsi sulla misura esistenziale della sofferenza. Ma lo fa moltiplicando per tre la figura della protagonista, come disseminandola per proiettare nuovamente la dimensione individuale verso quella collettiva. Per trasformare un disagio personale in esperienza condivisa e dunque forse comunicabile.
È un modo di spezzare il cerchio della violenza (anche e soprattutto la violenza su di sé), quello di riconoscerla e condividerne i meccanismi. Portare alla luce una ferita segreta e pesare i suoi effetti per così dire "sociali" può essere una delle funzioni del teatro. Ecco, qui è arrivato per ora il cammino insieme a Sarah Kane di Renzo Martinelli, Federica Fracassi, Giada Balestrini e Monica Parmagiani: con rigore e passione, hanno ricucito la ricerca sul punto di vista e sui personaggi femminili dei precedenti spettacoli (da un lato Marguerite Duras, Alda Merini e Clarice Lispector, dall'altro La santa di Moresco e Giovanna d'Arco), per riportarli a una cifra unitaria e per costruire il primo gradino di un nuovo percorso.
:: V ::
Non servono ragioni per continuare a vivere. Basta una sola ragione per uccidere. Ma per spiegare un suicidio una ragione non basta mai. Intorno a quel sacrificio solitario si affollano sempre mille motivi, spiegazioni, induzioni – che non possono mai rendere conto fino in fondo del suo mistero.
Nel volume che raccoglie Tutto il teatro di Sarah Kane (traduzioni di Barbara Nativi, introduzione di Luca Scarlini, Einaudi, Torino, 224 pagine, euro 11,36) non si dice mai esplicitamente che Sarah Kane si è suicidata. In quarta di copertina si legge che "è scomparsa". Nella breve nota biografica che chiude l'introduzione l'espressione diventa "è tragicamente scomparsa". A proposito di 4:48 si legge che "il titolo allude all'ora notturna che secondo le statistiche è il momento di maggior attrazione verso il suicidio".
Su Sarah Kane, leggete anche l'interessante saggio di Ken Urban An Ethics of Catastrophe. The Theatre
of Sarah Kane, da "PAJ" 23.3 (2001) 36-46 (in inglese).
L'instabilità degli stabili
Due mail
di Sisto Dalla Palma e Oliviero Ponte di Pino
Caro Oliviero,
ho letto il tuo intervento sulla storia del CRT. La tua ricostruzione mi ha aiutato a ripensarne in profondità la storia e anche le ragioni che hanno ispirato il mio lavoro di intellettuale, qualche volta prestato alla politica. In un intervento del resto argomentato e meditato mi spiace solo che tu mi addebiti una “spregiudicata intelligenza”: facendo pensare a un progetto machiavellico povero di ragioni ideali e culturali che sono tanta parte di una storia che sarà mio impegno ricostruire. Sarà inevitabilmente e persino doverosamente una storia parziale, ma in cui mi par giusto far emergere valori, errori, conquiste, e circostanze sconosciute. Quanto ai casi del teatro pubblico e agli interventi di Capitta e al tuo editoriale sul teatro pubblico, ti propongo il mio punto di vista.
Quando il malato è grave non vale industriarsi per affrettarne la fine e neanche tentare interventi di routine per una “operazione riuscita, malato morto.” Perché non c'è dubbio che il teatro è oramai al limite della sopravvivenza e quello che in qualche modo funziona è così lontano dalla sua vocazione etica ed estetica, che capisco bene la tentazione di occuparsi d'altro.
L'intervento di Capitta (su tuttoteatro, ndr) è intriso di quel pessimismo della ragione e ahimè! anche della volontà, che può solo far piacere agli avversari del teatro, i quali aspettano soltanto di sferrargli il colpo mortale; fuor di metafora di toglierli anche le modeste, risorse di cui dispone, per liquidarlo definitivamente.
Ci sono, nelle analisi di Capitta e di Oliviero Ponte di Pino e di altri errori di prospettiva che critici di consumata e appassionata esperienza non dovrebbero compiere: l'identificazione del teatro pubblico con i teatri stabili pubblici, in cui rappresentanze politiche equamente e iniquamente distribuite sono tali da mantenere sempre e comunque una presa diretta e inevitabilmente prevaricante sull'area artistica. Manca nella nostra cultura politica e nel sistema teatrale il senso della distanza critica tra un piano e l'altro. In ogni caso il teatro pubblico oggi ha dei confini più estesi che comprendono quanto meno i teatri stabili privati, i teatri stabili di innovazione, cioè centri di ricerca, compagnie di sperimentazione, centri di teatri ragazzi, compagnie correlate a questo settore. L'iniziativa pubblica si distribuisce dunque in modo decisivo anche se indiretto dentro l'intero ecumene teatrale. Con gravi conseguenze sull'autonomia degli artisti e degli operatori. Ma occorre aggiungere che nel sistema teatrale la crisi più conclamata è quella degli stabili pubblici, di primo tipo: per le collusioni colle logiche del privato, per l'elefantiasi delle strutture burocratiche e il peso del personale, per l'ipertrofia dei costi di produzione, che producono deficit al riparo dai rischi personali e d'impresa, così che in caso di difficoltà si verificano sempre e comunque operazioni di ripiano, compiute in danno degli altri segmenti della prosa. Ma la crisi di legittimità istituzionale è legata anche alle intese previste e regolamentate dalla normativa in essere, che ammette quell'abuso di posizione dominante che dovrebbe essere portata avanti all'Authority sulla concorrenza: tanto per fare degli esempi ci riferiamo alla distribuzione protetta per cui le repliche entro il circuito dei Teatri stabili pubblici valgono come se fossero fatte in sede, anche quando realizzate in trasferta: ci riferiamo allo squilibrio nella contribuzione, per cui non si fa ricorso a parametri standard, violando il principio della pari dignità tra segmenti affini. E' per questo che siamo ancora a domandarci perché nel processo di privatizzazione delle imprese a iniziativa pubblica, questi teatri godono di una rete di protezione.
E tacciamo sulla crisi di identità perché Oliviero Ponte di Pino potrebbe obiettare che stiamo cercando la pagliuzza nell'occhio del vicino, avendo nel nostro addirittura una trave. Ma la crisi di identità c'è: e siamo al secondo errore di prospettiva. La funzione per cui è sorto storicamente il Teatro Stabile Pubblico era di garantire il radicamento nel territorio, la stabilità degli organici e della programmazione nella comunità di appartenenza, la realizzazione di un progetto artistico legato a una poetica a una pratica, a una personalità, che si trattasse di Strehler, di Squarzina, di Castri o di Ronconi. Questo disegno, in se stesso esaustivo e totalizzante, era chiaro. Il nonnismo artistico garantito agli stabili da alcune grandi personalità artistiche ha comportato successivamente una tensione dialettica tra culture interne ed esterne a questa area, rendendo possibile una qualche forma di pluralismo istituzionale. Di qui quella molteplicità di esperienze e quella diversificazione di culture che si sono espresse attraverso una molteplicità di modelli. Questo pluralismo si è affermato nel tempo dentro e fuori la cittadella assediata degli stabili, dando luogo a una disseminazione di esperienze, al costituirsi di segmenti e pratiche teatrali in un sistema molto articolato. La crisi delle identità, che nessuno può disconoscere, nasce dalla sproporzione delle risorse, dalla concorrenza sleale, dalle continue invasioni di campo. Vero è che la crisi degli stabili pubblici è, per così dire, allotropica, perché ingenera una reazione a catena che investe tutto il sistema.
Non sto cercando una spiegazione facile e riduttiva; ma la crisi c'è, volere o volare, a partire dal Teatro Stabile Pubblico che si colloca al centro di un sistema eliocentrico. In questa mutazione genetica sono coinvolti tutti gli organismi. Questa mutazione non riguarda tanto la fuga dai molti splendori e dalle impareggiabili risorse artistiche (ed economiche!) di Ronconi. Riguarda la strategia complessiva, confusa e prevaricante di un palinsesto in cui il dio Visnù dalle cento braccia si occupa di tutto: di tradizione e innovazione, di ricerca e sperimentazione, di teatro ragazzi e di teatro danza, disponendo di risorse, di spazi, di personale che non ha l'eguale nel mondo e costringendo realtà, formazioni, esperienze una volta alternative, poi collaterali, poi subalterne, a lavorare colle briciole che cadono dal tavolo del ricco epulone. Basta calcolare le distanze africane che nella Regione Lombardia contaddistinguono i flussi di spesa nei confronti dei diversi segmenti del sistema teatrale.
Questa espansione incontrollata, senza regole nè misure, per cui lo stabile pubblico copre tutto e tutti, indifferente ai contenuti, alle regole e alle culture circostanti, si legittima anche per ragioni politiche, e copre un vuoto di cultura politica e culturale per cui i Teatri Stabili non sono più espressione della comunità, o della città, nella molteplicità delle sue aspirazioni, nella concreta articolazione delle identità artistiche culturali e antropologiche e nemmeno esprimono una dialettica reale tra maggioranze e minoranze. Essi non rappresentano il tutto ma solo una parte. E questa parte coincide, dovunque in Italia a destra come a sinistra, con le maggioranze che di volta in volta governano e che si ritengono titolate a indicare le quote di rappresentanza a cui hanno diritto nella porzione di assemblea che costituisce la base istituzionale dell'organismo. La redistribuzione dei poteri non avviene in nome del pluralismo culturale, come in anni lontani, ma in nome delle maggioranze espresse a livello di governo negli Enti Locali, per cui Regioni, Comuni e provincie possono convergere nelle assemblee, cercando di convivere e dialogare in un luogo dove i rapporti di forza sono inevitabilmente asimmetrici. Coll'avvento del maggioritario le forze al governo e le maggioranze in Parlamento dovevano riorganizzare l'assetto istituzionale atto a superare l'impasse. Questo non è avvenuto. La conseguenza è la paralisi, lo stallo, il pateracchio romano dove, secondo una legge consacrata nei secoli, gli estremi si incontrano e dove Forlenza può andare ben d'accordo con Albertazzi, nella spartizione delle risorse e nel tenere sospeso Barberio all'India. Nel migliore dei casi avremo una maionese impazzita. Un'analisi critica che denunci quello che succede a Torino, a Roma a Prato rischia di essere dettato da un moralismo superficiale se non si è disposti a mettere in questione le regole che garantiscono una vera dialettica culturale. Se la madre dei cretini è sempre incinta, quella degli opportunisti, grandi e piccini, è ancora più feconda e pluripara. Basta sentire come i vari assessori alla cultura alludono ai Teatri Stabili come area di riservato dominio, e parlano di essi come dei loro teatri. Ma, ahimè! è finita da tempo l'era dell'equidistanza culturale nelle amministrazioni; della funzione regolatrice nella dialettica teatrale per cui le esperienze avevano uguale legittimità, anche se titoli organizzativi e artistici diversi, per reclamare investimenti e contributi. Adesso le maggioranze politiche hanno i loro teatri, le loro televisioni, i loro enti lirici ecc: indipendentemente dai titoli di proprietà e dai modi di interpretare i diritti delle minoranze entro un quadro istituzionale atto a contenere la molteplicità delle rappresentanze. Oramai siamo alla frutta, anzi al caffè. E non vale rovesciare i tavoli o abbandonare il gioco e chiedere dei tagli al FUS. La politica della Thatcher ha massacrato la più grande tradizione teatrale del mondo.
Molto più pazientemente occorre rifondare le condizioni della libertà e della autonomia della cultura.
Come raccomandava Barbara Spinelli sulla “Stampa” di qualche tempo fa, occorre che gli intellettuali abbandonino ogni forma di clericalismo, inteso come espressione di ideologie chiuse, per ripensare concretamente a progetti e a forme dell'esperienza che si inseriscano correttamente in un processo di sviluppo democratico.
Ma per far questo bisogna ripartire da lontano, dalle cause storiche e ideologiche che hanno portato a questo assetto; occorre depurare il quadro delle istituzioni culturali da ogni tentazione autoritativa e centralistica, che ha avuto in Veltroni asseverazioni sconcertanti.
Invano qualcuno, ego in primis, cercò di fargli capire che la cultura no, la cultura non poteva essere del vincitore, ma semmai coscienza critica impegnata nel rivendicare la propria diversità e nel denunciare ogni forma di prevaricazione. Io ho pagato per questo. Allora pochi videro il pericolo. Adesso vediamo i guasti a non finire e quella sorta di “cupio dissolvi” di chi non è più in grado di esprimere le necessità e le idealità della cultura.
Occorre prendere coscienza che non tutto è perduto, rimboccarsi le maniche ed esplorare le possibilità del nuovo di essere nuovo e del vecchio di essere vecchio, in un quadro istituzionale dove la cultura non risponda alle logiche dell'organizzazione del consenso, ma a quelle della libertà.
Sisto Dalla Palma
Caro Sisto,
intanto grazie per l'attenzione. Prima una breve precisazione (in attesa di una tua più ampia riflessione sulla mia ingenua storia del Crt, che attendo con grande curiosità): almeno nelle mie intenzioni "spregiudicata intelligenza" (fermo restando che considero l'intelligenza una virtù grande quasi quanto la stupidità) voleva significare in sostanza "priva di pregiudizi". Era un riconoscimento della tua volontà e capacità di metterti in relazione con frammenti di culture assai diverse dalla tua, ideologicamente e generazionalmente. Ma si tratta di una questione quasi privata – e mi scuso con i lettori di "ateatro" per aver abusato della loro attenzione. Cerco invece di rispondere in maniera più articolata alla seconda parte del mail, che riguarda la complessa questione degli stabili.
1. La crisi degli stabili non è certo una novità. Le dimissioni di Strehler nel lontano 1969 (ma forse addirittura preannunciate dal finale dei Giganti della montagna nel 1966) furono il primo e clamoroso sintomo di una involuzione che era già iniziata da qualche anno. Molto di quello che è accaduto da allora nel teatro italiano nasce dall'esigenza di riformare o reinventare il teatro pubblico: negli anni Settanta le cooperative (sul versante di contenuti politicamente più aggressivi e di una organizzazione interna delle compagnie non gerarchica) e poco dopo la cosiddetta avanguardia (sul versante delle forme della comunicazione e della forma del gruppo); negli anni successivi gli Stabili privati e i Centri di Ricerca, nel tentativo di rilanciare e sistematizzare quelle esperienze. Insomma, so benissimo che queste realtà esistono e che fanno parte a pieno titolo del teatro pubblico (ma anch'esse hanno i loro difetti). Le ho seguite – come sai – con attenzione e a volte con partecipazione. Resta però un fatto: malgrado tutti questi tentativi l'ossatura del teatro pubblico in Italia restano i 13 (credo) teatri stabili: per storia, per peso culturale ed economico, e spesso per la qualità dei risultati artistici. Anche la qualità dell'elaborazione teorica sul problema del teatro pubblico, a cominciare dal manifesto di Grassi-Strehler e Apollonio, resta (purtroppo) ineguagliata – anche se certo decisamente superata dallo scorrere del tempo e dall'evoluzione della società e del teatro.
2. Su alcuni punti credo che noi due siamo perfettamente d'accordo. In primo luogo la necessità di un teatro pubblico. Ancora convengo con te che la crisi degli stabili li logora da anni, essi hanno tradito molti dei loro compiti istituzionali, e nessuno in questi ultimi decenni ha saputo (o voluto) ripensare il loro ruolo complessivo (o meglio, ci sono state alcune proposte e pratiche individuali, una diversa dall'altra, ma non un indirizzo complessivo). Inoltre questa involuzione ha finito per bloccare l'evoluzione dell'intero sistema teatrale italiano – a cominciare dal mancato ricambio generazionale.
3. Poi c'è una differenza, tra le nostre posizioni. Tu (forse a ragione) ritieni che questa crisi degli stabili sia irreversibile fin dagli anni Settanta, quando hai iniziato la tua battaglia contro lo "strapotere" del Piccolo Teatro (di un Piccolo Teatro, va aggiunto, allora saldamente nelle mani della sinistra, mentre tu militavi nella DC). E perciò – in sostanza – pensi da tempo che gli Stabili siano carrozzoni inutili da smantellare - o magari, per utilizzare una terminologia più attuale, da "privatizzare". Anche io sono ben consapevole di questa crisi, da quando ho iniziato a occuparmi di teatro, e posso portare diverse prove: dalla tesina sulla crisi del Piccolo Teatro post-68 (1975, quando mi sono diplomato alla Civica Scuola d'Arte Drammatica), a quello che per anni ho ingenuamente scritto sul Piccolo Teatro dalle colonne del "manifesto", e ancora al saggetto ironico Le tribolazioni di un direttore di teatro (sul Patalogo 12, 1990) dove tentavo di illustrare le distorsioni del meccanismi lottizzatori in vigore all'epoca. Tuttavia ho sempre ritenuto che fosse necessario non distruggere ma riformare (radicalmente) i teatri stabili, proprio perché costituiscono la spina dorsale del teatro pubblico italiano. Se non funzionano gli stabili, l'intero sistema s'inceppa e s'involgarisce (come è successo in questi ultimi trent'anni). E ritengo che lo smantellamento della rete dei teatri stabili, che purtroppo mi pare ormai prossimo, segnerà in sostanza la fine dell'esperienza del teatro pubblico nel nostro paese.
4. In altri termini. Per salvare in Italia il concetto e la funzione del teatro pubblico sono possibili due strade: riformare profondamente gli stabili (con uno sforzo di pensiero), oppure liberarsi di carrozzoni ritenuti ormai inutili e creare strutture e reti alternative. Gli stabili finora non hanno avuto alcuna intenzione di mettersi in discussione, anzi. I blandi – ma vieppiù disperati - tentativi di rinnovamento e di contaminazione tentati negli ultimi decenni si sono invariabilmente risolti nel fallimento: le aperture di Torino e Roma all'avanguardia negli anni Settanta, la mediocrità di produzioni dalle intenzioni ambiziose come Adelchi con la regia di Federico Tiezzi e più di recente La tempesta con la regia di Giorgio Barberio Corsetti (che infatti sono rimasti casi isolati), fino alle recenti raffiche di dimissioni, da Martone a Paganelli (senza dimenticare Mimma Gallina a Trieste, o le tribolazioni di Castri), che paiono il segnale di una vergognosa decadenza. Sull'altro versante, però, le reti di teatri alternative agli stabili pensate nel corso di questi trent'anni non hanno attecchito, malgrado gli sforzi d'immaginazione (e i denari spesi). È proprio per analizzare i motivi di questo fallimento che mi sono permesso di ripercorrere la storia del Crt. Nel nostro teatro (anche nel settore della ricerca, anche tra gli stabili) ci sono qua e là isole (abbastanza) felici, ma paiono rappresentare le eccezioni e non la regola. Tutti i tentativi di trasformare queste eccezioni in una qualche regola (come il Teatro San Geminiano di Modena assurto a modello dei Centri di Ricerca) si sono risolti in bolle di sapone. Per inciso, è forse anche da qui che nasce la difficoltà di fare la tanto attesa legge sul teatro.
5. Sono d'accordo anche su un altro punto centrale della tua analisi. Uno dei nodi più critici riguarda il rapporto tra il potere politico & il mondo del teatro. Concordo (e l'ho scritto a suo tempo) sul fatto che per molti aspetti il maggioritario abbia peggiorato la situazione. Tuttavia il problema non riguarda solo gli stabili (che come la Rai rappresentano per i politici prede grosse e assai ambite) ma qualunque organismo culturale pubblico di un certo peso (il resto sono piccole clientele, ancora più facilmente ricattabili). Forse l'unica arma di resistenza potrebbe essere un progetto estetico e culturale forte e condiviso: l'avevano gli stabili all'inizio della loro storia, l'hanno avuto per un certo periodo le cooperative, al teatro di ricerca hanno provato a darglielo i centri, senza trovare sbocchi. Ma oggi di questa progettualità comune non si vede neppure l'ombra. Così i cda degli Stabili macinano uno dopo l'altro i giovani (meglio: gli ex giovani) direttori don Chisciotte…
6. Certamente i cda degli stabili, con le loro lottizzazioni politiche, hanno molti limiti. Ma anche le forme di gestione dei teatri
semipubblici-semiprivati comportano rischi e problemi. Godono anch'essi
– come gli stabili – di rendite di posizione che non sempre sono in
relazione con la effettiva qualità artistica del lavoro. In genere
obbediscono a logiche personalistiche o familistiche. Pur gestendo
somme di denaro pubblico ragguardevoli sono sottoposti a controlli e
verifiche assai scarsi. I loro vertici sono inamovibili.
Non è un problema di travi e pagliuzze, semplicemente si tratta di
prendere atto del modo in cui certe realtà sono nate e cresciute, e
cercare di evitare che si isteriliscano.
7. Il nuovo – nel vitalissimo campo del teatro – in questi anni si
è trovato da solo le proprie risorse, le proprie forme organizzative e
produttive, il proprio pubblico. Il teatro pubblico (compreso il Crt)
e il potere politico sono arrivati solo in una seconda fase:
riscattando dalla marginalità alcune di queste realtà per offrire loro
una possibilità d'ingresso nel teatro ufficiale, attraverso una parziale
e marginale assimilazione – dando sicuramente molto in termini di
risorse e visibilità, ma chiedendo anche molto attraverso regolamenti
e burocrazie varie, e sottoboschi politici. E spesso soffocando
una autentica crescita artistica e di politica culturale.
Il compito che in questi anni il teatro pubblico
(nel senso ampio che hai giustamente indicato) non ha saputo assolvere
è stato far nascere e crescere il nuovo al proprio interno,
in maniera organica,
assicurando ricerca & sviluppo nel campo della drammaturgia e del
linguaggio teatrale oltre che ricambio generazionale. Certo, quasi tutti i teatri sono pronti a coinvolgere un giovane emergente in qualche "operazione" e poi magari usarlo come fiore all'occhiello. Ma negli ultimi vent'anni quale giovane regista, quale giovane autore è cresciuto organicamente all'interno del nostro teatro pubblico?
8. Postilla 1. Se la questione è dirottare qualche centinaio
di milioni di finanziamenti pubblici dal Piccolo Teatro al Crt
(o dallo Stabile di Torino a Settimo, o dall'Argentina all'India),
la faccenda non mi interessa particolarmente. Anzi.
Insomma, preferirei darli direttamente agli artisti e ai gruppi,
un po' di quei soldi, senza filtri organizzativi, politici ed estetici.
9. Postilla 2. Val forse la pena di notare che l'imperialismo
(se vuoi chiamarlo così) del Piccolo Teatro attuale è molto diverso
da quello del Piccolo ai tempi di Strehler. Allora il progetto era
sostenuto da un'idea forte di teatro e da una concezione precisa
(e unitaria) del pubblico. Oggi Escobar e Ronconi tengono conto che
non esiste più un teatro, ma che esistono diversi teatri e dunque
diversi pubblici. Insomma, un tempo il Piccolo tendeva a ignorare,
escludere e marginalizzare tutte le idee di teatro in qualche modo
"diverse". Proprio per dare spazio a queste molteplici idee di
teatro a Milano negli anni Settanta sono nate realtà come Pier Lombardo,
Crt, Out Off, Elfo. Il Piccolo di Escobar e Ronconi s'appropria
di questa molteplicità di prospettive e invece di escluderle sceglie
di dar loro spazio – anche in base a una evidenza del marketing:
a Milano non esiste più un pubblico compatto in grado di sostenere
un progetto unitario, un'idea di teatro magaru eccellente ma
preconfezionata; invece si confronta con diversi frammenti
di pubblico da inseguire di volta in volta con proposte "appetitose".
Dunque la scelta è quella di una apertura totale (e per certi aspetti
aggressiva) a terreni che un tempo erano appannaggio di questa o quella
sala milanese. E ovviamente il Piccolo, disponendo di maggiori mezzi e
visibilità, può permettersi di scegliere "il meglio". Dunque se si tratta
ancora di un sistema eliocentrico, le sue caratteristiche sono
profondamente cambiate – e rendono per certi aspetti la vita ancora
più difficile a tutti gli altri teatri milanesi. Che però non si possono
accontentare di lamentele e recriminazioni, ma devono fare un nuovo sforzo
progettuale per trovare la loro identità e necessità. Non è un compito
impossibile, anche perché neppure Escobar e il suo staff sono infallibili.
Oltretutto la loro concezione del teatro pubblico tende inevitabilmente
a privilegiare l'esistente (quello che già eccelle, almeno a parere delle élite
culturali) e le strategie di
marketing, e rischia di lasciare in secondo piano le esigenze di progettualità che
dovrebbero costituire una delle ragioni di esistenza del teatro pubblico.
Oliviero Ponte di Pino
Videotiepido
Angela Madesani, Le icone fluttuanti. Storia del cinema d'artista e della videoarte in Italia, Bruno Mondadori, Milano, 2002
di Simonetta Cargioli
Il sottotitolo del libro implica di per sé un progetto di vasta portata: fare una storia del cinema d'artista e della videoarte in Italia, partendo dalle origini dell'uno e dell'altra per arrivare sino ai giorni nostri. L'intero secolo ventesimo, dal futurismo a oggi. Impresa ambiziosa, dalla quale noi lettori attendiamo di essere illuminati da un lavoro capace di sintetizzare, ma con dei punti di riferimento critico-teorici, un secolo di immagini in movimento artistiche e, soprattutto, ci aspettiamo di trovare nuove indicazioni anche sulle relazioni tra cinema d'artista e videoarte.
L'autrice ci avverte sin dalla premessa ci avverte: oggetto del suo studio sono il cinema e il video usati solo ed esclusivamente dagli artisti. Accenna al rischio di confusione tra cinema d'avanguardia, cinema sperimentale, cinema d'artista, videoarte. Accenna ma non sviluppa: nella stessa premessa, viene fatto l'esempio di Alberto Grifi, del quale si legge: “…ha partecipato a numerose mirabolanti imprese artistiche, ma non è un artista.” D'accordo – pensiamo – si tratta della premessa, sono esposti toni e colori del discorso a venire, abbiamo capito che si entra in un territorio dai confini delicati, anche questo essere o non essere artista sarà in seguito argomentato… Invece no, leggiamo tutte le 230 pagine del libro e non c'è un tentativo di definizione teorica e critica.
Il libro ha ovviamente un andamento cronologico. I primi quattro capitoli (1. “Cinematografia e futurismo: una storia complessa”; 2. “Anton Giulio Bragaglia: un cammino nell'avanguardia”; 3. “Dagli anni venti ai cinquanta: quarant'anni di ricerca”; 4. “Luigi Veronesi”) hanno un impianto storico e sintetizzano cinque decenni di ricerca nel campo del cinema d'artista; vi fanno eco in appendice la ristampa del Manifesto del cinema futurista e alcune interviste – Carpi, Barucchello, Mauri, Patella ecc. È la parte meno rischiosa.
Le dolenti note cominciano quando nella storia subentra il video. Siamo al capitolo 5, “Gli anni Sessanta e Settanta: la grande euforia”. Intanto si rileva un errore relativo alle prime presentazioni pubbliche di lavori realizzati con l'immagine video e con i televisori: Paik e Vostell non hanno esposto assieme alla Galleria Parnass di Wuppertal nel 1963: quella mostra fu la prima personale di Paik, nella quale espose dei distorted tv sets; Vostell avrebbe nello stesso anno presentato i suoi television dé-collage alla Galleria Smolin di New York. Passiamo: questo è un errore che si riscontra a volte.
Seguono le ricostruzioni della storia della videoarte in Italia, cominciando con gli anni '70, e con le esperienze delle prime gallerie e delle prime mostre dedicate al video a Bologna, Roma, Milano, Venezia. Con la necessaria importanza data alla preziosa esperienza di Lucciano Giaccari, del quale l'autrice riprende e adotta la distinzione fatta agli inizi degli anni '70 tra “video freddo” e “video caldo”, spiegata nella nota a pagina 121: “Con 'video caldo' si intende il video d'artista, il video creativo, mentre con 'video freddo' si allude a quello documentario, che documenta teatro, danza, performance e qualsiasi altra manifestazione artistica”. Questa distinzione viene poi applicata in tutto il libro alle produzioni video esaminate.
Nel 1999 è stato pubblicato da Costa & Nolan Definizione zero. Origini della videoarte tra politica e comunicazione di Simonetta Fadda (Madesani la cita come artista e cita anche questo saggio). Quello della Fadda è un lavoro molto curato, preciso, storicamente documentato, ma anche critico e teorico, nel quale è dato il dovuto spazio al video militante, di controinformazione, a quelle produzioni che hanno opposto, in Italia e come in tutti gli altri paesi, il video alla televisione come sistema di produzione dell'informazione e dell'immaginario. Di tante idee e esperienze in tale contesto, ci sono solo pochi cenni nel libro di Madesani.
I capitoli che seguono (6. “Gli anni Ottanta: la rivoluzione del video” e 7. “Gli anni Novanta: il boom del video”) vogliono fare una sintesi di vent'anni di produzione italiana. E ci sono, con i problemi di definizione, anche delle confusioni di “territori”: si intrecciano nel discorso la videoarte – citati il festival di Locarno ad esempio, con una programmazione che dal 1980 sino al 2000 è stata incentrata sulle ricerche svolte sul medium video, come tecnologia e come forma espressiva – con il video d'artista – video come estensione della pratica plastica, delle problematiche delle arti visive – con lo svilupparsi della pubblicità, con i videoclip… Niente di questo è analizzato con strumenti critici e teorici adeguati.
L'autrice non si avvale del vasto corpus di studi sulla videoarte costruito in oltre vent'anni dalla ricerche di Sandra Lischi, Marco Maria Gazzano, Valentina Valentini, tra i più importanti specialisti di videoarte in Italia, neppure citati nel libro. La bibliografia è incompleta. Una delle premesse contenute nel sottotitolo non è stata purtroppo articolata: la cinematografia delle avanguardie storiche, oggetto dei primi capitoli, ha profonde continuità con alcune ricerche svolte dagli artisti con il video. Molta videoarte rilegge le avanguardie storiche, e dialoghi fruttuosi e fecondi sono analizzati nei lavori di Sandra Lischi – rimando al suo ultimo libro, Visioni elettroniche. L'oltre del cinema e l'arte del video, Marsilio, 2001 – e Marco Maria Gazzano – rimando all'antologia di saggi da lui curata, Il “cinema” dalla fotografia al computer. Linguaggi, dispositivi, estetiche e storie moderne, Quattroventi, 1999.
Un altro silenzio clamoroso riguarda alcuni autori italiani di videoarte che sono solo citati in liste di programmazioni di festival: Gianni Toti (di cui è citata, in poche righe, la video-poem-opera Planetopolis), Giacomo Verde, Mario Sasso, Mario Canali solo sono dei nomi e cognomi. Però in appendice ci sono delle belle fotografie a colori prese dalle loro opere, ovviamente neanche citate: è il caso di Giacomo Verde. Come non è dato il giusto spazio di presentazione a due manifestazioni che hanno permesso e permettono la diffusione del video non solo in Italia ma anche a livello internazionale: la Rassegna internazionale del video d'autore curata da Valentina Valentini a Taormina negli anni '90; e Invideo. Mostra internazionale di video d'arte e di ricerca, a Milano, diretta da Romano Fattorossi, Sandra Lischi, Felice Pesoli (sino al 1999) Chicca Bergonzi.
Nel capitolo sugli anni '80, l'autrice scrive: “Non mi pare che il problema sia tanto di considerare o meno il video una forma d'arte, quanto di farlo rientrare in un concetto più ampio e articolato della stessa.” Seguono paragrafi sulla tecnologia, sul suo peso nella vita e nella cultura, gli accenni a certi festival e manifestazioni già menzionati, all'attività del Palazzo dei Diamanti di Ferrara, al lavoro di Fabrizio Plessi, di Maurizio Camerani, la nascita di Studio Azzurro e pochi accenni al teatro.
L'ultimo capitolo, sugli anni '90, è esclusivamente dedicato al video d'artista, del quale ancora una volta non vengono forniti i necessari parametri critici e teorici. Il metodo è così enunciato: “Per comodità di lettura ho creato una sorta di mappatura della situazione, cercando di collocare con la libertà dovuta i diversi video all'interno di 'tipologie' molto ampie di taglio contenutistico” (p.122). Seguono presentazioni di lavori sulla televisione, sul sociale, sui rapporti con il cinema; lavori autobiografici, narrativi. Ma il capitolo non è strutturato: autori, titoli di lavori, brevi presentazioni e/o commenti ma senza fili di collegamento. Leggiamo a pagina 133: “Quella del video è, infatti, un'area molto ampia e priva perlopiù di confini ben definiti, in cui si comprendono l'artista visivo tout court, l'autore di performance e ambienti interattivi e coloro che fanno direttamente opere videoinformatiche senza domandasi più di tanto chi sono.”
In appendice, la parte contemporanea è corredata di interviste: Studio Azzurro (Paolo Rosa), Marcello Maloberti, Simonetta Fadda.
SEGNALAZIONI
# NON IO
Direzione artistica: Silvia Fanti.
Arte in mancanza di soggetto. Festival internazionale sullo spettacolo contemporaneo
NON IO si svolge nell'arco di un mese, in diversi spazi di Bologna: la Galleria d'Arte moderna di Bologna ospita le performance, lo spazio industriale Ex Bologna motori gli spettacoli e le installazioni, il Cassero i momenti di visione, Fabrica Features un ciclo di installazioni, la Cineteca di Bologna un forum sulle forme della rappresentazione nella contemporaneità.
info:www.xing.it
Spettacoli:
Sabato 20 Aprile, ore 22
Xavier Le Roy, Giszelle
Sabato 27 Aprile, ore 22
Jan Fabre, My movements are alone like streetdogs
Performance
Giovedì 18 Aprile, ore 21,30
Laminarie, Serpenti e bisce
Giovedì 25 Aprile
Kinkaleri, Otto> (# 1-primo studio)
Installazioni
Lunedì 15/domenica 21 Aprile
Xavier Le Roy/Katrin Schoof, Usf Dolfi X
Forum
Sabato 20 Aprile ore 15
Della rappresentazione, forum sullo spettacolo contemporaneo
con Kinkaleri, Andrea Lissoni, Massimo Marino, Xavier le Roy
# PAJ
a Journal of performing arts
http://muse.jhu.edu/demo/paj/
Nuovo numero (vol. 71, maggio 2002) per la storica rivista trimestrale di Bonnie Marranca (anno di fondazione: 1976) edita da Mit press (che pubblica tra l'altro anche "Computer Music Journal" e "The Drama Review" diretto da R. Schechner).
PAJ è un'osservatorio sui nuovi lavori legati alle arti visive: performance, video, installazioni, danza, fotografia, media, film, e musica. PAJ ospita scritti di artisti, saggi critici, interviste, testi teatrali, resoconti da festival e recensioni.tra gli autori: Philip Auslander, Scott deLahunta
P.O. Box 260, Village Station
New York, NY 10014
tel/fax: 212-243-3885
email: pajpub@aol.com
Questo l'indice del nuovo numero:
## Melinda Barlow, Joan Jonas, Ann Woodward, Woody Vasulka, Beryl Korot, Bill Viola, Gary Hill, Mary Lucier, Peter Campus, Chip Lord, Rita Myers, Doug Hall, Sadie Benning, Julia Scher and Diana Thater
Studio as Study: A Selection of Drawings by American Video Artists
## Joseph Diebes
Notes On presence: A Music Installation for Phantom Chamber Orchestra
@@ Daryl Chin and Larry Qualls
"Here Comes the Sun": Media and the Moving Image in the New Millennium
@@ Lisa Marie Naugle
Distributed Choreography: A Video-Conferencing Environment
## Allen J. Kuharski
Seconding Gombrowicz: A Translator's Introduction to Teatr Provisorium & Kompania Teatr's Ferdydurke
@@ Stanley Kauffmann
Extra Lives: Notes after Major Barbara
## Marina Grzinic
Emil Hrvatin's Memory Cabinets
## Matthew Griffin
Exploring the Technological Imaginary
## Allen J. Kuharski, Teatr Provisorium, Kompania Teatr, Witold Gombrowicz and Danuta Borchardt
Ferdyduke
@@ Emil Hrvatin
Biomechanics in Weightlessness
## Johannes Birringer
Algorithms for Movement: CD-ROMs by William Forsythe & Jo Fabian
CONCORSI
Invideo '02
Mostra internazionale di video d'arte e di ricerca
E' appena uscito il bando di concorso per partecipare alla selezione di opere video non di fiction(videoarte, documentari di sperimentazione, ricerca video) prodotte nel 2001-2002 per la dodicesima edizione di INVIDEO, uno dei più importanti eventi legati al video d'arte e di ricerca che si terrà tra il 6 e il 10 novembre 2002 a Milano presso lo Spazio Oberdan organizzato da Aiace.
Termine per l'invio delle video opere: 15 giugno 2002.
info@mostrainvideo.com
TECHNE 02
Viaggio nel mondo dell'interattività.
Bando di concorso anche per Techne 02, mostra di installazioni interattive che si terrà allo Spazio Oberdan di Milano dal 15 ottobre 2002 al 19 gennaio 2003.
Selezione di tre progetti per la realizzazione ed esposizione di installazioni interattive.
Termine di presentazione dei progetti: 15 giugno 2002.
"Per installazioni interattive sono da intendersi opere che presuppongono la partecipazione attiva del o dei friutori e nelle quali l'azione del o dei fruitori modifica temporaneamente o in modo definitivo l'opera stessa" (dal bando di concorso per Techne 02).
Info: techne@mostrainvideo.com
Paris c'est ici
di Erica Magris |
Le mani sporche di Hans Castorf
Les mains sales - Schmutzige Hände di Jean-Paul Sartre
Parigi, Théâtre National de Chaillot, 10-11-12 aprile 2002
Adattamento e regia: Frank Castorf
Scenografia e costumi: Hartmut Meyer
Drammaturgia: Matthias Pees
Produzione: Volksbühne am Rosa-Luxemburg Platz, Berlin
Interpreti: Henry Hübchen, Matthias Matschke, Silvia Rieger, Kathrin Angerer, Sir Henry, Milan Peschel, Pavel Straka, Hendrik Arnst
Il regista tedesco Frank Castorf è stato oggetto di una certa diffidenza da parte dall'ambiente teatrale francese e decisamente trascurato dai programmatori dei teatri, che tendevano a considerarlo un semplice provocatore privo di spunti di interesse. Ma dall'anno scorso, quando su invito del direttore del Théâtre National de Chaillot, Ariel Goldenberg, è approdato a Parigi con la prima parte de I Demoni da Dostoïevski, rapidamente trasformatosi in uno dei maggiori eventi della stagione, la sua presenza sulle scene francesi è più consistente e acclamata da una critica ormai unanimemente entusiasta. Dal 4 al 7 ottobre 2001 ha portato al teatro MC93 Bobigny, Endstation Amerika, spettacolo creato alla Volksbühne di Berlino nell'ottobre del 2000, tratto dalla celeberrima pièce di Tennesse Williams Un tram chiamato desiderio: una messa in scena delirante, con una scatola scenica in movimento, musica rock e uno schermo televisivo tipo "Grande Fratello", con il quale è possibile spiare cosa avviene in una sala da bagno inaccessibile alla vista.
La settimana scorsa la troupe della Volksbühne ha fatto ritorno in Francia, al Théâtre National de Chaillot, con due creazioni di Castorf da tempo appartenenti al suo repertorio: la seconda parte de I Demoni e Le mani sporche di Jean-Paul Sartre; in particolare quest'ultimo spettacolo ha destato l'interesse della critica e del pubblico. Si tratta infatti di una pièce fondamentale nella storia teatrale e letteraria del teatro novecentesco francese, che pure negli ultimi anni non ha avuto produzioni di rilievo: ha evidentemente pesato nella concentrazione dell'attenzione su questa messa in scena di Castorf la curiosità di assistere a una rappresentazione estranea alla tradizione nazionale, per di più di un regista noto a livello internazionale soprattutto per il suo spirito provocatore e dissacratore. I 1500 posti dell'enorme sala Jean Vilar, un monumento del sogno di un teatro nazionale popolare che unisse tutte le componenti della società, sono quasi interamente occupati da un pubblico variegato, in cui è possibile individuare un folto gruppo di tedeschi, numerosi francesi appartenenti all'ambiente teatrale, e spettatori attratti più dalla celebrità del testo che dalla conoscenza della compagnia; sono questi ultimi a lasciare il teatro a una decina di minuti dall'inizio, forse scoraggiati dal pessimo sistema di sottotitolatura e delusi da una messa in scena straniante e evidentemente inaspettata. Ma la maggioranza resta e alla fine i prolungati applausi spingono gli attori a numerose uscite.
Les mains sales scritta da Sartre nel 1948 e messa in scena la prima volta lo stesso anno al Théâtre Antoine, da Jean Cocteau e François Perier, risponde a problemi legati al periodo storico del dopoguerra, con la netta ripartizione del mondo nei due blocchi contrapposti dell'est e dell'ovest e con il frantumarsi delle speranze sorte alla fine del conflitto mondiale nella rigenerazione della società e nella costruzione di un ordine nuovo. Nelle vicende di Hugo, Olga, Louis, Jessica e Hoederer, situate in uno stato dei Balcani scosso da una guerra non ben definita e chiamato evasivamente "Illiria" e ruotanti intorno all'opposizione entro la fedeltà dogmatica ai principi e il pragmatismo della Realpolitik all'interno del partito comunista, l'autore pone il problema fondamentale del rapporto dell'uomo con la politica: in un momento in cui la gravità dello svolgersi della storia richiede all'individuo un intervento, rimane aperto l'interrogativo che nasce dallo scarto esistente fra la purezza degli ideali e i compromessi che sporcano inevitabilmente le mani e la coscienza di chi si risolve ad agire. Il nodo problematico del dramma è concentrato nella battuta che Hoederer, che è portatore di un realismo cinico e disincantato, rivolge al giovane idealista Hugo:
"Comme tu tiens à ta pureté, mon petit gars! Comme tu as peur de te salir les mains. Eh bien, reste pur! À quoi cela servira-t-il et pourquoi viens-tu parmi nous? La pureté, c'est une idée de fakir et de moine. Vous autres, les intellectuels, les anarchistes bourgeois, vous en tirez prétexte pour ne rien faire. Ne rien faire, rester immobile, serrer les coudes contre le corps, porter des gants. Moi j'ai les mains sales. Jusqu'aux coudes. Je les ai plongées dans la merde et dans le sang."
L'azione si svolge circolarmente entro due poli temporali, separati da un intervallo di tre anni costituito dalla prigionia del protagonista Hugo, intellettuale borghese che ha rinnegato la sua classe di origine e il suo passato per aderire al partito comunista e costruirsi una nuova identità, sognando di rischiare la vita e di uccidere per la causa in cui crede. La prima scena è collocata nel 1946 quando egli torna dalla "compagna" Olga dopo avere scontato la pena per l'omicidio di Hoederer, capo di partito che, in previsione della fine del conflitto, sta concertando un accordo con le opposte fazioni politiche. Il delitto è stato commesso per ordine dei "compagni", ma su di esso pesa l'ombra di essere stato motivato più da ragioni passionali che da motivi politici, e il partito ha decretato l'eliminazione del suo esecutore, ritenuto ormai inutile e inaffidabile. Olga ottiene qualche ora per riesaminare con lui il passato e decidere in seguito se riabilitarlo o ucciderlo. Inizia un flash-back, più caratteristico di una sceneggiatura cinematografica che di un dramma teatrale, e vengono rivissute le vicende che hanno condotto Hugo a sparare. Dopo questo riesame, Olga decide la "recuperabilità" di Hugo, ma quando gli confessa che la memoria di Hoederer è stato riabilitata e che il partito si è in seguito alleato ai fascisti, Hugo rifiuta di rinunciare agli ideali che hanno spinto il suo gesto e si oppone all'oblio che gli viene imposto: urlando ai compagni che attendono fuori dalla porta "Non récupérable!" decide della sua morte, lasciando tragicamente irrisolta la questione della legittimità dell'assassinio politico, della responsabilità dell'individuo e della possibilità della realizzazione "pulita" di ideali puri.
Frank Castorf decide di mettere in scena l'opera di Sartre nel 1998, offrendone un'interpretazione bruciante e strettamente legata all'attualità: l'Illiria immaginaria si trasforma nella Ex-Jugoslavia, devastata da una guerra sorta proprio dalle rovine lasciate dal crollo dei regimi politici e dell'ideologia su cui si concentra Sartre. Il regista non nega la distanza che separa il 1948 dal 1998, ma al contrario, fa della messa in scena una dichiarazione esplicita dello scarto fra la situazione storica del dramma e le condizioni del mondo contemporaneo. Forzando il testo a una collocazione spazio-temporale straniante, Castorf mette in atto un corto circuito illuminante, in cui la lotta politica è vista come un insensato, isterico e terrificante gioco all'eliminazione reciproca, ormai nemmeno più giustificabile dalla tensione alla realizzazione di un ideale. Il neorealismo di cui è impregnata l'opera, le minute didascalie ignorate, e il dialogo riscoperto, dopo un lavoro di "ripulitura" degli elementi più narrativi, nella sua vitalità e nella sua potenzialità teatrale. La precisa connotazione dell'ambiente dei Balcani contemporanei viene effettuata a livello scenografico, drammaturgico e musicale: è presente su una parte della scena una grande bandiera dello stato comunista jugoslavo, le parole dei personaggi sono in alcuni momenti tratte da testi di Radovan Karadzic, Ratho Mladic ed estratti da testimonianze di bambini jugoslavi raccolte in un libro da Senada Marjanovic; infine, l'azione è intercalata dalle musiche violente di Goran Bregovic. Immediato è il riferimento cinematografico ai film di Emir Kusturica, e in particolare a Underground: come non associare i personaggi che ballano scatenati come posseduti dal ritmo al partigiano del film, che rimasto nascosto per cinquant'anni riemerge dalle profondità della terra negli anni Novanta e ricomincia a fare la guerra come prima e a sparare con il suo mitragliatore come un invasato contro i suoi nuovi nemici? Un ulteriore referente cinematografico, è costituito dal noir anni Quaranta: gli abiti hanno la foggia dell'epoca, sigari, cappelli e pistole ricordano gli eroi cinici di questi film dagli intrighi loschi e sanguinosi, e Olga, con impermeabile nero, tacchi a spillo e capelli corti incarna lo stereotipo della dark-lady, che in questo genere tenta di condurre il protagonista alla perdizione. L'organizzazione spaziale è stupefacente e riflette la circolarità temporale del testo e l'insensato scorrere della Storia: si tratta di una struttura praticabile tridimensionale, che ruota sul suo asse a ogni cambiamento di scena. Vi si aprono quattro spazi differenti: un piano inclinato bianco, delimitato ai lati da muri del medesimo colore, che termina in alto con una sorta di camino di ferro, e sulla quale è posto in pendenza un pianoforte a coda suonato in piedi dal "direttore d'orchestra" Louis. Qui sotto un'uniforme e invadente luce rossa si svolgono la prima e l'ultima scena, quando Hugo si lancia nell'impresa dell'omicidio e quando nella resa dei conti finale si lascia uccidere: lo spazio è aperto, ma allo stesso tempo claustrofobico, disagevole per i gli attori, e suggerisce l'immagine del ponte di una nave impazzita, che come la Storia, non avanza, ma gira su stessa lasciando dietro di sé cadaveri inutili. Dalla parte opposta si trova, all'interno della struttura sotto la pedana, una sorta di giardino d'inverno, con palmizi palesemente artificiali e la tenda di plastica bianca di una doccia. Gli altri due lati sono piuttosto simmetrici: da una parte una parete gialla con due porte sopraelevate alle estremità, collegate da uno scivolo rotondeggiante che crea una specie di ponte sospeso; fra lo scivolo e il muro, poggiato per terra, un enorme letto matrimoniale. Dall'altra una pedana rialzata separata dalle due aperture di accesso, con una grande scrivania perpendicolare alla parete che la divide in due parti; si tratta dell'ufficio di Hoederer, dominato dalla bandiera jugoslava. Lo spazio è quindi labirintico, caratterizzato da cunicoli, da pendenze e da sbalzi che pongono gli attori in una costante situazione di difficoltà e di disequilibrio; essi sono inoltre investiti da luci fortissime, colorate, completamente artificiali, che insieme alla musiche ad alto volume creano un effetto complessivo di frenesia e di subbuglio. A ogni scena il dispositivo ruota, mentre si diffonde la musica e gli attori danzando sulla superficie del palcoscenico si stagliano in controluce come le figure spettrali di una danza macabra. Ma mentre il susseguirsi dei quadri è ben cadenzato, il ritmo all'interno di essi è mutevole, ora serrato e più teatralmente tradizionale, ora disteso e quasi piatto. Sono presenti momenti di grande intensità emozionale, come la scena finale, in cui Olga nell'istante in cui accetta che Hugo venga ucciso si lancia istericamente su un mitra e inizia a sparare sulle pareti, per poi accasciarsi mentre i bossoli rotolano lungo il piano inclinato, o come i racconti di guerra delle due donne, tratti dalle testimonianze dei bambini jugoslavi: la tensione è alta, e la sala è avvolta in un silenzio concentrato e commosso. Quasi impercettibilmente l'azione si trasforma in sospensione: nulla accade sulla scena, se non il ripetersi meccanico di gesti e di frasi apparentemente insensate che precipitano i personaggi nella comicità dell'assurdo e del grottesco. Due momento sono particolarmente esemplificativi di questi cali di ritmo: dopo un momenti di azione rapida e violenta, costituita da un attentato a Hoederer organizzato dal partito all'insaputa di Hugo, i personaggi per qualche minuto restano quasi immobili nella serra, dove canticchiano e lanciano brandelli di conversazione, mentre un attore circola fra di essi con una scimmia al guinzaglio, a cui periodicamente dà delle noccioline. Oppure, il primo incontro fra Hoederer e Jessica è rappresentato con un quadro statico e ripetitivo: i due si ritrovano sul letto a guardarsi, mentre Hugo sullo scivolo, pizzicando un contrabbasso, intona a bassa voce una canzone romantica americana; quando Hoederer se ne va canta in maniera ridicolmente sentimentale la sua serenata a Jessica, fra le risa del pubblico. Sono momenti suggestivi, in cui recuperato il senso del gioco e della gratuità dell'azione teatrale, ma nello stesso tempo viene offerta allo spettatore una prospettiva inusuale sulla natura dei rapporti fra i personaggi, e viene rivelata l'inconsistenza del loro essere. L'insieme si profila come una "incoerenza coerente" tutti questi elementi disparati compongono il quadro di una Storia in cui l'insensatezza e l'assurdità inevitabile nulla tolgono alla verità e all'autenticità del dolore. Gli spettatori restano attoniti, sconvolti e divertiti, e lasciano il teatro spogliati di molte certezze e arricchiti di molti interrogativi. Ha dichiarato Franz Castorf:
"Un'opera di cui possa pensare: ah, ah, ecco infatti in cosa tiene la storia, e in cui la rappresentazione del mondo sia così semplificata da risultare immediatamente identificabile, non mi interessa. Ciò che mi affascina sono gli antagonismi, ciò che non può essere immediatamente identificato e che resta incerto, intuitivo."
Frank Castorf è nato a Berlino nel 1951, cresce nella R.D.A., al ritmo della contro-cultura rock americana e inglese, divorando film di Godard, Truffaut, Wajda e Fellini.
Segnato negli anni liceali dai grandi pensatori tedeschi, persegue degli studi di storia della cultura, di filosofia e di teatro prima di essere ingaggiato come Dramaturg e regista a Senftenberg. In seguito presenta i suoi primi spettacoli nei teatri di Greifswald e di Brandebourg. Il regime li giudica scomodi e scorretti, e vengono quindi ritirati dal cartellone, e Castorf è minacciato di essere sospeso dal suo posto. In seguito a un processo da cui alla fine esce vincitore, viene inviato ad Anklam, dove le sue messe in scena di Müller, Shakespeare, Brecht, Ibsen e Goethe in particolare, attirano l'attenzione della critica occidentale. In conflitto costante con la censura, viene licenziato nel 1985. Fino al 1989, data della sua prima regia in Occidente, Hamlet, a Colonia, Castorf viene accolto come regista indipendente in differenti teatri della R.D.A.. Poco dopo la caduta del muro, presenta Ajax a Basilea, Miss Sarah Sampon a Monaco e Stella ad Amburgo.
Arrivato alla direzione della Volksbünhe, Castorf non depone le armi e intraprende l'impresa di raschiare via la ruggine dalla scena dell'istituzione berlinese: nella Berlino riunificata, dove si mira a fare sparire ogni traccia della separazione est-ovest, fa scrivere con lettere giganti sul tetto del teatro OST, Est. Tutte le sere o quasi, teatro, concerti e film attirano gli intellettuali e la gioventù dell'est come dell'ovest: egli ha fatto dell'imponente e brutto edificio della piazza Rosa Luxembourg uno dei teatri più frequentati ma più controversi della Germania.
Ammiratore di Marx, di Hegel, e dei Rolling Stones, Frank Castorf è un artista politicizzato, brillante e discusso: egli incarna da vent'anni il versante indipendente e sovversivo del pensiero e della cultura tedeschi.
Volksbünhe am Rosa-Luxembourg Platz/Berlin è uno dei più noti teatri berlinesi. Ha sede dal 1914 nel pieno centro della città e da sempre è caratterizzata da una pprogrammazione popolare e politicizzata: Erwin Piscator negli anni Venti e Benno Besson negli anni Settanta vi hanno svolto un ruolo fondamentale.
Dopo la caduta del muro la sua direzione è stata affidata a Frank Castorf, la cui programmazione paradossale, elitaria e populista, ostinata ed efficace emana tanto il sentimento di un nuovo inizio, quanto il senso della futilità. Così facendo essa rompe con la concezione classica di teatro, e nello stesso tempo la conferma. Accanto a Frank Castorf, che lavora con un gruppo permanente di attori, e a Johann Kresnik, creatore di coreografie teatrali storico-politiche, si affiancano due registi che regolarmente sono attivi alla Volksbünhe: Christoph Marthaler, conosciuto per i suoi monumenti dell'inazione, e Christoph Schlingensiefl, regista teatrale e cinematografico che influenza la Volksbünhe con l'idea di un teatro senza fondo e senza frontiere in cui mettere in scena la globalizzazione e la rivoluzione high-tech.
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