Pubblico TEATRO Pubblico
Un manifesto
del Teatro Metastasio - Stabile della Toscana
A mezzo secolo dalla fondazione del primo Teatro Stabile Italiano, il Teatro Metastasio, stabile da pochi anni e da molti impegnato invece (forse per la problematicità di uno spazio come il Fabbricone) nella de-stabilizzazione di forme teatrali consolidate, intende interrogarsi pubblicamente sulla funzione di un teatro pubblico, sulla natura e sul ruolo attuale di una possibile dimensione di servizio.
Perché se oggi vi è un pubblico che sta crescendo - numericamente secondo alcuni - quel è oggi il Teatro che sta crescendo in esso?
A noi sembra oggi irrinunciabile ritrovare le condizioni perché l'energia che si spende comunque nella Scena rientri in connessione con una realtà che si è mutata. Emozionare, inventare, non intrattenere, non educare. Non ci sentiamo più preposti a formare un pubblico per il Teatro, siamo invece chiamati a ricercare un teatro che sappia nuovamente ritrovare il Pubblico. Tornare al ruolo che storicamente compete al teatro nella nostra civiltà.
Intendiamo porre domande, invece che proporre conferme rassicuranti. Al teatro italiano, e al suo pubblico. Ci interessa un confronto più che una identificazione in ruoli che altri teatri rappresentano assai meglio di quanto non potremmo fare noi.
Intendiamo non assopirci entro un modello artistico egemonizzante - quale che sia - ma frequentare una scena che non tema di fare i conti con identità e differenze, con la complessità della vita. Quella dell'individuo e quella della società.
Intendiamo lavorare per un teatro in cui la tradizione, non il tradizionalismo, costituisca un potente serbatoio per la ricerca e non una misura per classificazioni di merito.
Intendiamo favorire la naturale evoluzione di processi in atto, privilegiare la vitalità di un percorso artistico piuttosto che perseguire la riuscita di un singolo evento, per quanto significativo: credere ai flussi di idee, non a tesi precostituite.
Intendiamo condividere sogni e progetti di artisti e istituzioni di respiro europeo, mantenendo una attenzione non miope per quel che emerge dal nostro territorio, costruire un sistema di vasi comunicanti aperto alle sollecitazioni del reale. Ragionare in termini di progetto invece che di programmazione. Per il semplice, contagioso piacere di fare ed andare a teatro.
Un Arlecchino di più
Una intervista a Marcello Bartoli
a cura di Oliviero Ponte di Pino
La tua compagnia si chiama I Fratellini, che è il nome di una famiglia di
grandi clown. Quello clownesco è un elemento che hai usato per disegnare il
tuo Arlecchino?
Per il personaggio di Arlecchino non ho pensato al clown anche se
Arlecchino ha tutte le caratteristiche "dell'AUGUSTO" cioè l'anarchia,
l'innocenza, la malizia, la scurrilità, il rapporto con il potere e con il
denaro, la fantasia, l'iperbole e, non ultimo, la fame e il sesso.
E come hai costruito il personaggio? Da dove sei partito? Dal testo e
dalle battute? Dalla gestualità? (ma da dove viene quella gestualità? Da
fonti iconografiche? Da altri attori? Dalla tua esperienza di attore?)
Per quanto riguarda la costruzione del personaggio e dello spettacolo
viene da un lavoro che ho svolto in questi ultimi anni sulla Commedia
dell'Arte anche attraverso laboratori che ho tenuto in vari teatri:
Metastasio di Prato, Ponchielli di Cremona ecc. Ho cercato di evidenziare
non soltanto l'aspetto giocoso ma anche e, soprattutto, il lato sulfureo,
inquietante e violento che questo mondo possiede e quindi il mio Arlecchino
è più vicino allo zanni della metà del Cinquecento che alla maschera saltellante
settecentesca, è vicino al mondo terrigno di Ruzante e quindi anche la
gestualità è concreta e, anche se acrobatica, mantiene una sua pesantezza
che lo ancora alla terra.
Ha ancora senso misurarsi con la tradizione della Commedia dell'Arte e
delle maschere?
Credo che la Commedia dell'Arte sia stata l'invenzione più alta che il
teatro italiano ha conosciuto ma oggi credo che la Commedia dell'Arte vada
reinventata e credo che non abbia senso riproporla in modo archeologico.
A propo, come usi la maschera? E come attore che rapporto hai con la
maschera, in generale & in questo caso particolare?
Ho lavorato tanto con le maschere che non so dire come la uso; so solo
che per me è una libertà. Faccio delle cose che non appartengono a me ma
alla maschera e quindi sono totalmente disinibito.
Arlecchino oggi: la sua forza motrice è sempre la fame di cibo-sesso? o
magari oggi quelle pulsioni le possiamo rileggere solo attraverso il filtro
della parodia? oppure gliene possiamo trovare altre?
Arlecchino oggi è di difficile collocazione. Se ci si pensa, ogni altra
maschera della Commedia dell'Arte ha un proprio corrispettivo attuale:
Pantalone = imprenditore, Brighella = commerciante ecc. ecc. Arlecchino no,
Arlecchino è difficile identificarlo, è un anarchico, uno spirito libero che
vive in un suo mondo concreto e, nello stesso tempo, fantastico. E' uno
Schweyk, è Charlot.
Per interpretare Arlecchino ci vuole davvero un fisico bestiale? Ti sei
allenato in qualche maniera particolare?
Certo Arlecchino è un personaggio da un punto di vista fisico "faticoso"
è un personaggio acrobatico, è agile come un gatto anche se, come il gatto
preferirebbe stare sdraiato al sole, ma è la vita che lo costringe a
saltare. Ecco io salto durante lo spettacolo. Per il resto, neanche una
flessione.
I Frankenstein del Living
Alcuni appunti sul libro di Anna Maria Monteverdi
di Oliviero Ponte di Pino
Sta per arrivare nelle librerie Frankestein del Living Theatre di Anna Maria Monteverdi,
una analisi di uno degli spettacoli chiave del gruppo diretto da Julian Beck e Judith Malina. Lo pubblica la Biblioteca
Franco Serantini, sono 170 pagine e costa 13 euro.
Qui di seguito la segnalazione di Oliviero Ponte di Pino apparsa su "Cut-Up".
Alla fine degli anni Cinquanta, il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina inventa a New York il nuovo teatro e una nuova cultura. Nel 1968 il gruppo americano è esule in Francia con Paradise Now, uno spettacolo che non si limita a raccontare la rivoluzione ma cerca di provocarla - prima di tutto nei corpi degli attori e degli spettatori. Nel luglio del 2001 è a Genova, con il suo ultimo lavoro, Resistence, sempre fedele a un anarchismo militante e non violento, e alla necessità di un teatro politico.
Frankenstein, messinscena dello scontro tra il bene e il male, riflessione sulla violenza nella società, ideato e rappresentato poco dopo la metà degli anni Sessanta, resta il lavoro per certi aspetti più complesso e problematico del gruppo americano. Nell'offrire una personale versione di questo mito contemporaneo, ricchissimo di suggestioni e oggetto di infinite rivisitazioni soprattutto cinematografiche, il Living affronta i propri stessi fantasmi. Ricordando quell'esperienza, Judith Malina cita una vecchio detto: “Abbiamo conosciuto il nemico, e noi siamo lui”. Perché la Creatura è il mostro-robot figlio della violenza, ma al tempo stesso l'uomo nuovo, figlio della Rivoluzione (o delle buone intenzioni dello scienziato). Da questo punto di vista, l'ambiguo mito inventato da Mary Shelley non ha perso nulla della sua attualità. Lo sottolinea, nell'intervista che chiude il volume di Anna Maria Monteverdi dedicato allo spettacolo, la stessa Judith Malina: “Oggi il nemico sono le multinazionali e noi usiamo i loro prodotti, siamo coinvolti, siamo una parte del meccanismo, e anche quando protestiamo, protestiamo dentro la trappola del nemico”.
Anna Maria Monteverdi esplora e cerca di ricostruire nelle sue diverse stratificazioni (copioni, testimonianze, tracce video, interviste...) dunque un lavoro che coltiva e nutre le proprie ambiguità, e dunque si rivela assai complesso da studiare e ricostruire. Perché il Frankenstein non è mai stato la messinscena di un testo preesistente, ma un continuo processo. Non ebbe mai una forma stabile, ma una serie di versioni successive, sempre diverse: agli antipodi del teatro borghese (quello della finzione, del testo codificato), Frankenstein è una creazione collettiva costruita per azioni sceniche, centrate sul rapporto con il pubblico. Opera aperta, dunque, anche nel rapporto con lo spettatore e con lo spazio, secondo una teorizzazione allora in gran voga, ma al tempo stesso recupero della tradizione teatrale, quando le compagnie e gli autori adattavano il testo a seconda delle circostanze e delle reazioni del pubblico, consapevoli di creare a ogni rappresentazione un evento diverso e unico.
Quello che Anna Maria Monteverdi insegue e cerca di fissare nella pagina in quello che vuol essere un libro-film (e non un libro fotografia) è perciò un esempio di teatro vivente, di “living theatre”. E che in queste pagine resta sempre vivo: non tanto come freddo oggetto di studio, ma cercando di tenere vive le provocazioni di quello spettacolo. Da un lato ci interroga sul senso e sulla necessità del teatro - un teatro dove sia l'attore sia lo spettatore rischiano il loro corpo. Dall'altro ricordandoci che i temi intorno a cui ruotano le diverse versioni del Frankenstein sono gli stessi intorno a cui ancora oggi continuiamo a interrogarci.
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