(29) 15.02.02
L'EDITORIALEDa una decina di giorni i Forum di "ateatro" offrono un nuovo servizio: La locandina di Paolo Maier è un’agenda giornaliera di spettacoli in diverse città italiane. Contemporaneamente sono stati risistemate anche le pagine di accesso ai Forum e ai Teatrolinks. La locandina di Paolo Maier è per ora >>> | |
INDICE
Walter Valeri parla della messinscena dell'Enrico IV di Pirandello
da parte dell'American Repertory Theatre - in tempo di guerra. NEWS
(ma intanto andate a cercarle anche nei forum...)
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Enrico IV nel labirinto della guerra
Collaborare come drammaturgo all’allestimento dell’Enrico IV di Pirandello, andato in scena al Loeb Drama Center di Cambridge, in un paese in guerra contro il terrorismo, è stato significativo, forse utile per riscoprire la validità e vitalità dell’opera pirandelliana.
THE NEXT THING, quali confini per la ricerca?
Al Teatro Studio di Scandicci, i Kinkaleri lavorano a un progetto che ci pare interessante, articolato
in una serie di spettacoli e in una giornata d'incontro. Materiali di lavoroIl disoperamento del mondodi René Denizot Nel disoperamento di un mondo deflagrato, che cos’è un’opera d’arte contemporanea? Nasce, il problema, dalla situazione presente, ed esso stesso vi è in gioco. Nulla lo rappresenta. Esso lavora il presente come annullamento del tempo. Esso situa l’opera d’arte nella breccia in cui il suo avvento resta sospeso alla prova del disoperamento. Il disoperamento è all’opera. Ma l’opera del disoperamento fa venire meno la perennità delle opere d’arte, interrompe la continuità della loro rappresentazione, spezza il loro quadro di riferimento, infrange la loro immagine e schiude, all’insaputa, la vacanza del presente, alla stregua di un incidente della storia ove viene alla luce il problema stesso dell’opera contemporanea. Anacronisticamente, lo spettacolo continua come se niente fosse - Documenta, Biennale di Venezia…- come se l’arte e la cultura dovessero salvare le apparenze di un mondo che non esiste più. La messa è finita. D’altronde, non è più questione di Salvezza. La salvaguardia di immagini che si riproducono da sole, quasi si giustificassero nella verifica della loro vacuità, è, per l’attrazione esercitata da nuove tecniche, l’espressione meccanica del disoperamento. Ma ne è l’espressione nichilista, il rigetto cieco dell’opera contemporanea, il ritiro nella fatalità della disoccupazione tecnica. Il problema dell’opera d’arte è senza rifugio. E’ senza fondo. E’ il problema sorto dalla breccia temporale del disoperamento. E’ il problema aperto e muto sulle labbra del tempo. Esso sorprende il mondo al di fuori delle sue rappresentazioni, sul limite occidentale della sua storia, sulla soglia impensata delle metamorfosi che lo attraversano qui ed ora, e il cui gioco travalica, come distanti costellazioni, le figure tutelari della verità, la loro certezza filosofica e il loro fondamento metafisico. Non è più questione di sottomettere l’opera alla domanda dell’essere, ché essa è opera del tempo che squarcia la storia, la prova del disoperamento che la abbandona alla partita del presente, ad una messa in gioco che la espone direttamente al gioco stesso del mondo. La possibilità di creare delle opere non appartiene a nessuno. Essa appartiene al mondo. E’ contemporanea alla deflagrazione di quel sistema di forze geopolitiche che sorreggeva la rappresentazione di una unità dialettica, in un medesimo quadro estetico, in un medesimo scenario ideologico ove la storia del mondo, secondo regole accademiche, svolgeva il protocollo ontologico e la declinazione di un atto univoco. Il teatro del mondo non è più un allegoria. Da Platone a Hegel, il mondo è giunto alla finzione che lo espone al disoperamento dei propri artifici. Non semplicemente disorientato, esso perde contemporaneamente il suo Oriente e il suo Occidente. Si affranca dai vincoli. Non è più un destino. il mondo è entrato nel tempo del mondo. Non è più l’universo chiuso di una realtà sostanziale, bensì il gioco illimitato dell’azione del disoperamento, l’esplosione di un presente frammentario e multiplo. E’ il mondo venuto meno e fratturato dal tempo che lo mette in gioco. E’ il mondo che apre e chiude il problema dell’opera. Il mondo è all’opera, e l’opera è al mondo, stante una contemporaneità che non possiede altro orizzonte se non il momento e il luogo di fratture ed effrazioni in cui il presente dell’opera è un presente del mondo, mutuo abbandono al disopramento che libera il tempo del mondo, alla violenza dell’evento discriminante l’avvento di un opera che non può essere un presente datato ma lo schiudersi qui e ora, sulla soglia critica dell’apparizione e della scomparsa, di una mondializzazione del tempo. La contemporaneità è questa metamorfosi del tempo dell’opera in opera stessa del tempo. Così i Date paintings di On Kawara: pur dipinti di cronologie, essi non sono l’esposizione ridondante di una immagine del tempo fissata in una serie di quadri datati. Fra la datazione dei quadri e il presente della pittura vi sono la frattura del giorno e l’effrazione di un tempo espositivo, che lasciano vedere e leggere qui e ora, e frammentariamente - secondo il gioco metodico degli artifici -, l’evento che apre e chiude l’attuarsi del momento e del luogo dell’apparizione e della dis-apparizione, ciò che rende possibile intendere, sulla soglia dell’apparire, la pittura come porzione del tempo e come pratica del mondo. Il mondo è in gioco nella pittura, non già come lo vorrebbe la storia del quadro che serba l’immagine di una rappresentazione datata e mai disperata, bensì come il presente visivo di una pratica pittorica che, alla prova del disoperamento, la espone la gioco del mondo. La dimora dell’opera d’arte è la soglia, veicolo del presente che schiude la storia come un corpo vivo nell’incontro con un altro corpo. Ed è, la soglia, il luogo di una alienazione senza perdita, di un altrove senza alibi, di una alterità che qui e ora genera degli inizi senza che la memoria sia vana e il tempo lettera morta, bloccato nelle pietre dei monumenti, nelle rovine degli edifici, nel deserto degli antichi centri e delle città nuove. Non c’è niente da inventare, salvo la contemporaneità. La partita del presente va giocata come si lanciano i dati. Aver luogo in ciò che è dato. Nel corpo degli edifici, nel corpo dei testi, nei segni erratici e nelle relazioni che innervano la città, essere afferrati dallo scaglionamento dei luoghi, e cogliere ancora nel disoperameto la vacanza dello spazio e del tempo, come in concedo dall’essere la spiaggia del presente, là dove si gioca di nuovo la rappresentazione di un inizio. E l’opera ha qui il suo abbrivio e il suo slancio. La fine dell’arte non è più una fine. Piuttosto, è la condizione dell’opera contemporanea, necessaria al cospetto del disoperamento che libera il tempo della storia e attualizza i mezzi dei quali l’opera dispone. Nulla predetermina ciò che l’opera deve essere. Non gli elementi di cui si compone, né la sua messa in opera. E’ l’opera stessa, semmai, che si arrischia ad apparire là dove non ha luogo d’essere, opera di esposizione. La contemporaneità dell’opera si commisura alla potenza dell’esposizione che la pone fuori di sé. Nel gioco calibrato degli artifici, essa è la rottura di una morte inventata e l’irruzione di una alterità non figurabile. Ciò che opera dentro l’opera, è l’avvento di un mondo senza epoche. Due vie verso il successo: il fallimento gaio e quello eroico di Bazon Brock Tutti gli scienziati hanno imparato da Karl Popper a lavorare con successo pur incappando nel fallimento. Popper ha chiamato questo procedimento degno di nota falsificazione: uno scienziato formula delle ipotesi il cui senso si manifesta solo quando non si riesce a confutarlo. Nel campo delle scienze naturali gli esperimenti rappresentano il modo migliore di alterare le ipotesi. Quando l’esperimento fallisce si capisce che l’ipotesi è inutilizzabile. Ma per concepire gli esperimenti sono necessarie delle ipotesi. Come possono le ipotesi essere confutate dagli esperimenti se è solo attraverso di esse che gli esperimenti divengono possibili? Gli studiosi di scienze naturali usano esperimenti e ipotesi per costruire una logica (per lo più matematicamente formulata che renda possibile prevedere la discrepanza tra premesse ipotetiche e risultati sperimentali. La falsificazione mira a valutare le discrepanze e a valersene. Il fallimento come forma di riuscita è diventata sotto diversi punti di vista una tematica fondamentale dell’arte contemporanea. Salta agli occhi il fatto che al giorno d’oggi viene sottolineato il carattere sperimentale degli artisti. Attraverso i concetti di “sperimentale e di “arte sperimentale si cerca sempre di fare apparire come interessanti le opere artistiche quando esse rendono evidente la discrepanza tra le aspettative nei confronti dell’artista e l’arte. Da un centinaio d’anni tali discrepanze vengono disapprovate da una parte del pubblico che le considera degenerazione. Le campagne condotte contro le arti degenerate mirano a far considerare riuscite solo quelle opere che coincidono con un concetto prestabilito. Gli artisti vogliono però confutare questo concetto dell’arte per mezzo della sperimentazione. Conglobano esperimenti e concetti artistici ipotetici per creare una logica che permetta di comprendere il significato dell’operato artistico mettendolo in rapporto con ciò che è sconosciuto, incommensurabile e impossibile da dominare. La riuscita del lavoro dell’artista moderno corrisponde al fallimento della verifica, effettuate in base alle regole accademiche, del concetto artistico prestabilito dalle opere; poiché non è l’artista individuale che attraverso la sua opera può confermare un’estetica che impone delle norme o una teoria artistica. Nessuno come l’artista ha in questo secolo posto in maniera così radicale la sgradevole domanda: “E’ arte questa?. E occupandosi di tale questione gli artisti sono giunti al punto di dubitare di aver creato vere e proprie opere d’arte. Poiché un’opera che segue le norme sarebbe solo l’illustrazione di un ipotetico costrutto artistico esistente anche al di là dell’opera concreta. Gli artisti non hanno motivato la necessità della sperimentazione con lo scopo di falsificare le concezioni artistiche dominanti. Hanno scoperto che una discrepanza generale tra il concetto astratto e la sua rappresentazione oggettiva è chiaramente inevitabile, perché per gli uomini è impossibile creare un’identità tra opinione e concetto, tra contenuto e forma, tra coscienza e comunicazione (a prescindere dalla chiarezza della matematica). Hanno imparato a impiegare in modo produttivo la non identità tra concetto artistico e opera d’arte utilizzando la discrepanza per creare qualcosa di nuovo che non si può concepire ipoteticamente. Essere innovativo significava dunque rinunciare fin dal principio alla forzosa identità fra i concetti artistici normativi e la loro corrispondenza nell’opera d’arte. E il fallimento delle opere è diventata la premessa necessaria per l’avvento di temi nuovi finora sconosciuti. Questo procedimento ha acquistato per gli artisti una dimensione esistenziale giacché chi si compromette con il nuovo e con lo sperimentale non è né riconoscibile né accettabile nel suo tradizionale ruolo di artista. Gli artisti sono stati sospinti sempre più lontano sulla via della radicalità della sperimentazione da stigmatizzazioni sociali latenti. Sono stati costretti ad accettare condizioni di vita estreme. Per sopportarle hanno condotto vite tendenzialmente spericolate. Il consumo di droghe di tutti i tipi si è ripercosso sullo stato d’animo dello sperimentatore che spesso si comporta in un modo così singolare d’essere giudicato dal pubblico non solo eccentrico, ma addirittura psicopatologico. Gli artisti hanno percepito il fallimento della propria esistenza borghese sempre più come presupposto della loro capacità della loro sperimentazione radicale. Sotto questo punto di vista essi manifestano delle caratteristiche che li accomunano a certe personalità deviate - terroristi, criminali, profeti - : un esempio fra tutti, Hitler, che sempre sottolineava il fatto di aver patito la fame l’allontanamento, la devastazione spirituale: il fallimento giustificava il suo “radicalismo, e su questa radicalità egli basò l’eroismo dell’azione, quella attitudine artistica dell’eroe che si afferma principalmente nel fallimento radicale. Falsificò, dunque, il vecchio mondo europeo con le sue idee religiose, sociali e artistiche; e “Crepuscolo degli Dei è la locuzione utilizzata per definire questa strategia del fallimento eroico fin da quando Wagner la coniò. Fu così che, con il proprio fallimento, Hitler si convinse di aver cambiato il mondo nella maniera più radicale. Oggi, a maggior ragione, l’eroismo del fallimento viene detto “fondamentalismo estetico e non ha perso nulla del suo fascino. Wagner e Nietzsche, protagonisti del fallimento gaio ed eroico, nel frattempo non interessano più solamente artisti, politici, scienziati e altre categorie salvatori del mondo. Da lungo tempo le subculture giovanili hanno utilizzato la gloria del fallimento per giustificare sé stesse. Un’intera generazione sembra vivere con il presentimento del proprio futuro fallimento - scientifico, ecologico, sociale. Gli hooligans, gli abitanti dei ghetti, i mafiosi fanno propria la radicalità, come fecero Wagner e Hitler. A loro non interessa più la creazione artistica; sperimentano in modo totale e si confrontano apparentemente senza nessuna paura con elementi sconosciuti ed indomabili quali la natura e la società. Non sono interessati alle attitudini di artisti e politici poiché essi stessi rappresentano queste attitudini. Sono eroici con serenità postmoderna. La paura ridente, il cinico menefreghismo fanno da sfondo alla loro esperienza quotidiana anche quando cercano in modo scientificamente giustificato di falsificare sé stessi. Ciò che prima era riservato solo ai costruttori di bombe atomiche, ai santi suicidi e agli impetuosi artisti nichilisti è ora diventato accessibile a tutti. La filosofia del fallimento come forma di perfezionamento è divenuta patrimonio comune. Che successo - da assimilare all’illuminismo. E gli illuministi sapevano che una sola cosa li avrebbe potuti confutare: il proprio successo. Teatro: la libertà di non esistere di Cristina Ventrucci La differenza tre giornalismo e letteratura, ci ha detto Wilde, è la seguente: “ Il giornalismo è illeggibile. La letteratura non è letta. Ponendomi a riflettere su certe problematiche della società teatrale contemporanea, sposto di poco il gioco: quale è oggi la differenza tra informazione e critica teatrale? Una prima risposta potrebbe essere: l’informazione non conosce. La critica non è riconosciuta. Per quanto, se nell’aforisma di Wilde l’accusa sembra andare in gran parte al lettore, o al pubblico, qui s’individua invece una malattia intrinseca alla stessa sfera culturale e politica che s’intende indagare. Se l’informazione teatrale proposta dalle testate giornalistiche risponde ai criteri di una ben vestita superficialità, scandagliando solo i falsi segreti del gia noto, facendosi dunque strumento commerciale anziché conoscitivo, la critica stenta a venire allo scoperto. Secondo una problematica che vede la critica ora non essere pubblicata - è noto ormai, purtroppo, la denuncia della cronica mancanza di spazio dato al teatro nelle pagine della stampa nazionale - ora invece non assumersi in pieno il proprio ruolo, quello del rischio, dello sguardo che punta lontano e che scommette, è il teatro, infine, a risultare suo malgrado illeggibile. Illeggibile è l’informazione-promozione, legata ai lanci di ufficio stampa, spesso ricalcata su di essi, mai autonoma, talvolta poco competente, in preda al gusto e incapace di creare sano interesse. Illeggibile è certa critica che, anche quando trova spazio, non sempre dimostra di aver messo a punto un linguaggio, uno strumento, un genuino motivo di scrivere. Illeggibile è infine il futuro dell’arte se chi è chiamato a occuparsene ha la debolezza di lasciarsi invece sedurre dal passato, l’ansia di affrettarsi a stabilire origini sancire appartenenze. Fatta eccezione del lavoro encomiabile di Rai 3 - che spazia largamente nei territori del teatro tra materiali e collegamenti, tra approfondimento e cronaca con attenzione al nuovo, fino a sperimentare le forme più alte di drammaturgia radiofonica - questi sono gli anni in cui mass media, se adottano la parola “arte è per parlare di un museo, o di un restauro, oppure per inserirla nelle categorie di un nuovo quiz formato americano. Questi sono i decenni in cui della parola “cultura si sono impossessati gli assessori e gli “operatori interinali. Ed è il millennio che non sa più dove siano nascosti gli intellettuali, ovvero “ il sale della terra i cani da guardia della società, i pionieri dell’avvenire, gli ingegneri dell’anima. Lo spazio critico è legato del resto per propria natura alla libera iniziativa dell’auto produzione. Vi sono maestri in questo campo, pochi, pochissimi, grandissimi, che si sono fatti carico di colmare lacune editoriali enormi, di creare spazzi mentali, allargando i confini geografici, drammaturgici, sventrando a ogni appuntamento i dogmi con visionaria ispirazione. Ci insegnano che fuori dal compromesso si ha il vantaggio della libertà di pensiero. Ma se a questo vantaggio, di tutta risposta da parte della società teatrale, c’è il silenzio, oppure, nella migliore delle ipotesi, lo scontro; se la possibilità di un lavoro comune va interamente a impegnarsi in minuscole corporazioni, in alcuni casi addirittura monologanti, di quale libertà stiamo parlando? Della libertà di non esistere? “Cristallizzatevi e sarete qualcuno è stato detto. In questa odissea preferisco chiamarmi Nessuno, applicare questa “meravigliosa facoltà di opporsi che il senso critico mi offre e che il teatro m’impone. L’ultimo decennio teatrale ha nutrito speranze. Abbiamo assistito e in qualche modo partecipato al determinarsi di una congiuntura a dir poco favorevole, ovvero a una rinnovata curiosità critica parallela al nascere di una nuova generazione teatrale. Qualcuno nell’osservatorio ha esercitato il coraggio, qualcuno lo esercita costantemente, qualcun altro non avendo tale dote mette in circolo astio personale o diffidenza congenita. L’ingranaggio del mondo va avanti così, chi produce ruggine, chi con pazienza o imprecando provvede a oliare. Alcuni teatri ed enti hanno risposto con propria intraprendenza alle sollecitazioni della critica, qualche nucleo artistico aveva a sua volta fertilizzato il terreno per la nuova coltura, sono nate altre identità, che l’Europa ha saputo presto ammirare. Il fenomeno è ciclico, ma è proprio con questa ciclicità che si entra in conflitto e anche chi, in tempo di sua vita, ha potuto verificare una generazione, non ha poi saputo accoglierne un’altra. A me piace rileggere le “cronache di un maestro che sollecitava, già negli anni ’70, l’arte dello spettatore a questo andamento, alla necessità di ripartire ogni volta, a spostare sempre l’attenzione e a disporsi in allenamento verso il futuro incombente. Tutti questi gruppi (e altri ancora in stato d’emergenza) sono rapidamente maturati in virtù di una coesione di fondo e di una sintonia di richiamo, attirando l’attenzione e l’intervento di studiosi, di intellettuali, di artisti, di scrittori e assorbendo intorno a se consensi sempre più ampi e più intensi. Così essi anno potuto sopravvivere a rassegna con particolari definizioni, e a pressioni di politici e di intellettuali desiderosi di appropriarsi di esperienze vitali dal punto di vista comunicativo e di consenso; e in un certo senso hanno messo a tacere o comunque resi innocui critici che ne avevano ostacolato lo sviluppo e anche, magari, ne avevano mondanamente fiancheggiato l’apparizione; legandosi strettamente al loro pubblico, ai loro coetanei, e non solo, e dividendone riferimento culturale, non per bassa mitologia, ma per assedio puro e semplice. Gli spettacoli, le pratiche di quei gruppi rimandano a molti particolari, autonomi, la loro sfilata dando luogo a un paesaggio italiano e in essi esistendo una difesa della propria origine e un insediarsi al di dentro del lavoro contemporaneo. Questo scriveva Giuseppe Bartolucci circa vent’anni fa riferendosi a un panorama teatrale che andava dal Beat 72, ai Magazzini e Falso Movimento fino agli “ultimi, allora della Raffaello Sanzio (“e altri ancora in stato d’emergenza). La stessa biologia artistica individuiamo oggi nel nuovo ciclo di gruppi, che abbraccia Motus come L’impasto, Libera Mente come Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander come Accademia degli Artefatti o Egum Teatro o il Laboratorio di Domenico Castaldo. Biologia che anche in questa primavera si compone di una chimica esplosiva, esplora senza cautela i confini del teatro, proponendo in altri campi, con il gesto di chi per allacciare cognizioni filosofica e impatto popolare, codice contemporaneo e disciplina dei maestri, assume in prima persona il senso critico. Ne risulta l’urgenza di ritemprare il rapporto fra artisti e osservatori, stringendo nuovi modi fra teatro e critica, in un idea di teatro che uccide quella di genere e disperde la temporalità. Il timore è però che, quella che ci aspetta, più che una nuova fase di restaurazione, sia un ingresso nell’oblio: ignoranza è al governo e la Polizia ha ricominciato a picchiare; ignoranza è all’opposizione e gli intellettuali sono rimasti in pochi a denunciare. L’esercizio critico è un lusso che questa società non vuole permettersi, uno specchio in cui non vuole guardarsi. La critica teatrale stessa del resto non è avulsa da segni di pigrizia, o da deliri d’onnipotenza. Il vuoto che viene a crearsi internamente al mondo dell’arte scenica, con ripercussioni su tutto ciò che ad essa è legata - per esempio la vita culturale di un paese, - è un vuoto di relazioni e di confronto teorica, di collegamento fra alto e basso, di forza. Un vuoto di spazio dell’azione, oltre che un vuoto d’ironia. E se esiste ancora, in uno stato di solitudine, una verità della critica, “la nostra società che non vuol nient’altro se non ciò che già possiede, un certo benessere, una certa paura, che bisogno può avere di un linguaggio, cioè del teatro?. “Lo spettacolo è finito, gente. Circolare" L’istituzionalizzazione dell’arte e la vita segreta dell’underground di Philip Monk Dal 1960 al 1968, l'altro mondo argentato della soffitta di Warhol sulla 47ma Strada Est, fu il luogo in cui le sottoculture intrecciate degli anni Cinquanta - artistiche, sessuali, talvolta anche criminali - poterono finalmente risalire in superficie e guadagnare lo smagliante glamour dell'eleganza agiata degli anni Sessanta. Stephen Koch, Stargazer: Andy Warhol's World and His Films. Nei trent'anni trascorsi dall'apogeo della Factory di Warhol, di tutte le subculture che in essa sono emerse, soltanto quella criminale, con qualche eccezione, non è ancora stata assunta come una celebrazione della differenza dell'arte. Si può però affermare che l'espansione dei confini dell'arte derivi dall'azione di Warhol per rendere il mondo dell'arte sicuro per Andy. E' questo il salutare effetto, secondo Dave Hickey, che Warhol ha avuto sull'arte in particolare e, di conseguenza, sulla cultura in generale. Con il rovesciamento interno-esterno - offrendo un buco della serratura voyeuristico sulla vita reale o fittizia dell'underground - e con quello esterno-interno - adattando i generi hollywoodiani ai contenuti omosessuali - Warhol fu ampiamente in grado di competere con la rappresentazione mediale mainstream, mentre allo stesso tempo ne diventava un soggetto. Ora, l'arte, di nuovo, è la cugina povera della sofisticazione dell'intrattenimento. Un tempo la Factory rese visibile un entourage di "superstar'' emarginate, protettori e checche. Ora la stella dell'arte impallidisce di fronte alle licenze che Warhol si prese a piene mani con l'androginia e il travestitismo delle superstar dello sport e della moda - Dennis Rodman e RuPaul, per citarne due. E’ verissimo - e mi rivolgo a Stephen Koch -, quanto ha detto della Factory, e cioè che “lo speciale destino di questo luogo era rendere visibile l’underground. Quando quel processo finì, finì anche lo spettacolo. L’unica sorpresa è che ci sia voluto così tanto al mondo dell'arte per rendersi conto che il suo spettacolo è in tutto e per tutto finito, e per comprendere quanto il suo stesso successo abbia contribuito a questa fine. Inoltre, che potere ha oggi l'immagine dell'underground per attirare un giovane, ad esempio, da Topeka nel Kansas e indirizzarlo alla scena artistica, anche per diventare un artista, di fronte a quello di uno spettacolo sostenuto dalla maestria massmediatica della pubblicità e della televisione? E tuttavia, il destinatario diffuso dell'espediente travestitistico di Dennis Rodman rende la sua immagine così accettabile da far scaturire soltanto una reazione incerta e inarticolata - “been there, done that. “Rendere il mondo dell'arte sicuro per Andy siginificava anche rendere tossiche le immagini di cultura, o piuttosto rendere culturali le immagini tossiche. Forse l'underground ha sempre svolto un ruolo supplementare: quello di affrancare un pubblico distante, anche se soltanto un individuo alla volta, attraverso l'identificazione con le immagini. Anche se ha inizio con l'individuo, questo ruolo sfocia in un effetto sulla società in generale. Il legame dell'arte con i margini, articolato attraverso l’underground, avvia un dialogo che si conclude con la società che rende mainstream l'immagine dell'emarginato (per degli esempi recenti basta pensare all'influenza esercitata dalle immagini di Larry Clark e di Nan Goldin sulla fotografia di moda). Ciò che ha inizio come una celebrazione fatta da artisti viene fagocitato dai media, e spesso finisce col diventare panico sulla stampa (si pensi alla reazione alla campagna pubblicitaria in stile “pornografia adolescenziale" di Calvin Klein del 1995, derivata dalle immagini di Clark). La fascinazione degli artisti per i margini è un segno dell'attrattiva dell'underground. Dopo tutto, l'underground corrisponde a un tema dinamico nella storia americana, il rifiuto della famiglia e la riforma della comunità, messi in atto sulla base di un ideale. Che questo ideale venga oggi espresso nelle subculture, o semplicemente culti, non affievolisce la sua attrattiva - al contrario. Oggi l'underground è rappresentazione. Se sia o meno un'illusione romantica non ci riguarda in questa sede; diciamo che rappresenta l'idea che ci aveva originariamente attratto verso l'arte contemporanea. Per molti nel mondo dell'arte, tuttavia, la fascinazione iniziale è confluita nella loro successiva adozione di varie modalità critiche nei confronti dell'arte. Purtroppo la ''critica'' è il punto di partenza per gli studenti nelle scuole d'arte di oggi - il che equivale a riconoscere che si è tramutata in un dibattito accademico radicato. Come tutti i dibattiti accademici che giustificano le istituzioni, la “critica istituzionale dell'arte richiede che il suo status venga mantenuto come parte dei beni pubblici. Benjamin BuchIoh lo chiarisce perfettamente in una elegia pubblicata di recente sulla perdita del privilegio critico. In Artforum aveva preteso dalle istituzioni artistiche “uno spazio critico in deroga, se non in opposizione [sic], all'interno della sfera di potere borghese per “il numero relativamente limitato di posizioni e pratiche artistiche della sua generazione che aveva difeso nel corso degli anni, per non subire altrimenti le “irreversibili conseguenze, una delle quali sarà la suo assenza dal settore. Ritengo che molti troverebbero questo ultimatum, e la “produzione culturale che ne risulterebbe, incoerente con i loro desideri di arte. Ma in fondo siamo tutti afflitti dalle contraddizioni delle nostre posizioni istituzionali e dalle nostre radici radicali. L’insistenza di Buchloh sull’impegno dell'arte solo pubblico e collettivo è in disaccordo con una nozione più attraente, a mio avviso, dell'arte (o dell'underground) come, in primo luogo, “una modalità di discorso privato, un accumulo di occasioni sociali minute e gracili, il prodotto e il legame delle comunità fuggiasche di partecipanti con mentalità simili, come la descrive più generosamente Dave Hickey. Se lo spettacolo è finito, è possibile che l'underground abbia mantenuto una vita segreta nella rappresentazione? Visto che quella forma di comunità artistica non potrebbe essere né piantata né ricreata all'indomani della sua dissoluzione, l’idea dell'underground doveva essere rivissuta nell'immaginazione, il che significava dover attendere l'arrivo di una nuova generazione che non avesse avuto di essa un'esperienza diretta. E non sorprende che la generazione la cui adolescenza è coincisa con “gli anni Sessanta - gli artisti degli anni Ottanta - abbia replicato a sua volta le dicotomie di quel decennio nel proprio. Già negli anni Sessanta, ai loro reali albori, l'opposizione tra “istituzione e “underground fu rimpiazzata dal successo galleristico della prima espressa nella teatralità machistica del minimalismo e la sua apoditticità “bianco-cubica. Nel frattempo, la teatralità omosessuale che dominava l'underground non sarebbe sopravvissuta alla teatralità stessa del decennio. Il teatro underground dell’autorappresentazione avrebbe necessitato di un ritorno in un'altra forma, di una ripetizione che si sarebbe dovuta considerare, per utilizzare un'espressione ad esso congeniale, ugualmente oltre ogni limite. Negli anni Ottanta, sopportare un riferimento furtivo all'underground avrebbe implicato qualche genere di ri-rappresentazione dei sé all'interno di una strategia di citazioni, un concetto che è stato a lungo messo alla prova, anche se con diversa enfasi, nell'arte dell'appropriazione e nei dibattiti attuali sulla “morte dell'autore. Potrebbe essere questo un modo per caratterizzare l'arte americana degli anni Ottanta: da un lato l'arte citatoria istituzionale del neo-minimalismo, del neo-concettualismo e del neo-geo; dall'altro, un'arte performativa citatoria di foto-artisti come Cindy Sherman e Richard Prince. Così, l'interpretazione delle opere di Sherman e di Prince offerta su basi post-moderniste penderebbe verso una mnemonica underground. Ma un “immagine da sola può sopportare qualche riferimento all'underground senza diventare la sua effettiva documentazione? E i “ruoli ripetuti sono sufficienti a mantenere un dialogo per lo meno intermittente con l'idea dell'underground? Considerando che l’immagine fotografica è anche una dislocazione di tempo o spazio, una relazione all'idea o all’immagine dell'underground non è anch'essa compartecipe dello stesso duplice distanziamento: nel passato, la distanza spaziale dei suoi non ancora partecipanti; nel presente, la distanza temporale del ricordare chi era troppo giovane per conoscerlo? Le immagini ri-fotografate di Richard Prince, che egli stesso definisce come proiezioni dei suoi desideri, allo stesso modo inducono questo dualismo: ritraendo lo spazio dell'altro (le sue belle ragazze in moto o qualche altro sostituto subculturale per i margini), e suggerendo un altro tempo (poiché spesso si può pensare che le immagini rappresentino un'altra epoca - gli anni Cinquanta, gli anni Sessanta o Settanta - epoche, comunque, che Prince ha attraversato dall'adolescenza in poi). Tali ricorsi alla memoria, ma non alla nostalgia, allineano giustamente il suo lavoro ad altri scavi nell'adolescenza che ispirano così tanto della successiva arte “giovanile degli ultimi anni Ottanta, come pure l'arte più astratta di quel decennio. Fissando il proprio centro sui suburbs, sulla periferia, la memoria di quel luogo dell'infanzia diventa il contenuto ironico per la citazione formale dell'arte modernista corrispondente del periodo, laddove quest'ultima si considera comprendere, naturalmente, tanto Pillow Tolk quanto Vir Heroicus Sublimis. Già negli anni Sessanta, e da quell'archeologo del futuribile che è sempre stato, Robert Smithson aveva compreso che i suburbi e l'underground erano segretamente accomunati: “Suburbia significa letteralmente città sotto, scrisse in A Museum of Language in the Vicinity of Art. Di conseguenza fu in grado di collassare gli uni e l'altra nella “outdoor immateriality, l'immaterialità dell'aria aperta periferica delle fotografie Sunset Strip di Edward Ruscha e “i pallidi ma sgargianti interni dei film di Andy Warhol. Dalla conclusione entropica degli anni Sessanta, quando i bambini delle periferie attirarono l'attenzione dei media, Smithson previde che la distanza spaziale tra l'underground e le “periferie spettrali, gli spectral suburbs, sarebbe stata obliterata dalle “enormi distanze mentali della storia e del tempo. Quel tempo di riconciliazione e ripresa è qui. Le periferie, quindi, non esprimono una mancanza che l'underground compensa, ma soltanto la necessaria distanza perché la si desideri. Eppure, con la perdita di quel l'underground originale e la realizzazione che non tornerà, l'arte compensa. Non appena un'immagine underground viene espulsa dall'orbita di interesse dell'arte perché si è fatta troppo visibile, l'arte cerca smaniosamente altri margini, anche quando immagine dopo immagine tutto viene ricondotto al mainstream. L’arte è costretta a cercare i margini in cerchi sempre più ampi o ristretti. In quest'ultimo caso, l'arte si concentra su un posto, cosicché nel tempo, per esempio, i travestiti e transessuali delle fotografie di Nan Goldin sostituiscono le checche dell'underground degli anni Sessanta che prosperavano nel film di Warhol. Oppure, nel primo caso, l'arte ci fa viaggiare verso l'esterno dalla criminalità senza nome della Factory di New York alla sottoclasse criminale bianca white trash del cuore e dei margini dell'America, che dominano in maniera così prominente le opere di Cady Noland, Richard Prince e Larry Clark. Che cosa è rappresentato in queste immagini di emarginati se non famiglie surrogate? Dalle checche di Goldin, alla famiglia Manson di Noland, alle motocicliste di Prince, ai tossici, e ai criminali di bassa lega di Clark nei suoi giorni a Tulsa, agli skateboarders dell'ultimo stile di Clark, il cerchio si chiude sui suburbs. Non sorprende dunque trovare qui la fonte di future identificazioni, nell'una o nell'altra immagine di “criminalità. In nessun luogo è più grande la paura che nel cuore delle periferie americane, paura che il nemico sia all'interno della famiglia e che i ragazzi non siano “a posto. L’emarginato è la ragazza o il ragazzo della porta accanto, pronto a cercare legami di parentela al di là della sua famiglia naturale. Così l'underground rimane un ideale in ciascuna di queste immagini, continuando a serbare il suo intimo legame con i desideri delle periferie. Nei materiali preparatori è stato inserito anche, da ateatro25, L'Alchimie du Verbe tra Arthur Rimbaud e Fanny & Alexander di Luigi de Angelis (con un mail di risposta di Oliviero Ponte di Pino). Nei successivi numeri, vari interventi sul tema (semprekaldo) dei giovani... Short Connection appuntamenti con la scena contemporanea progetto Kinkaleri in collaborazione con Teatro Studio di Scandicci con il sostegno di Regione Toscana, Istitut Francais de Florence, AFAA - Association Française d’Action Artistique Short Connection è un progetto che intende creare un momento di approfondimento sullo stato delle arti, e più specificatamente aprire una riflessione sul territorio ibrido della ricerca nel campo delle arti sceniche, alla luce del profondo isolamento culturale del panorama italiano. La relazione con linguaggi pertinenti alla spettacolarità, al di là delle forme e degli stili in cui questo si concretizza, configura la ricerca come un’area instabile in continuo posizionamento e superamento del limite, della soglia fra linguaggio ed esperienza estetica, tra “teatro e spettacolo. Attraversare linguaggi diversi e combinarli in forme imprevedibili, diventa la prerogativa di un campo d’azione che trova il proprio riferimento nel generico mondo dell’arte, più che nella specifica tradizione del fare teatrale. Il confronto continuo con qualcosa che non si conosce, con la sua irrapresentabilità, definisce marcatamente la profonda differenza di un’area che storicamente ha sempre abitato la sua natura separata e protetta. La creazione di spettacoli complessi, vere e proprie anomalie teatrali, rende difficile qualsiasi adeguamento a criteri di riconoscibilità, generando un processo in cui la produzione artistica è gravemente penalizzata. Il continuo rinnovamento della forma scenica trova difficile corrispondenza nella dimensione istituzionale, poco attenta ad accogliere le innumerevoli ed impreviste modificazioni del processo artistico, ma strettamente collegata ad esso ed estremamente condizionante. Short Connection vuole essere un momento di apertura e confronto con l’esterno, un incontro tra le visioni di chi si rende partecipe dell’esperienza teatrale e quelle di un gruppo che ha deciso di occuparsi di arte. Nessuna volontà di sostituirsi a mestieri altrui ma il tentativo di contribuire ad un dibattito culturale che in Italia nasce e si sviluppa in modo discontinuo. Raccogliendo l’eredità del Teatro Studio che è sempre stato il luogo degli appuntamenti meno prevedibili per chi a teatro non va solo per distrarsi, il progetto si svilupperà attraverso una giornata studio e una serie di eventi/spettacoli che andranno a mettere in crisi proprio le denominazioni di genere, lanciando una serie di rapporti instabili sulle modalità del fare contemporaneo La giornata studio raccoglierà le domande e le indicazioni a partire da un discorso che vede la ricerca come corpo sensibile al divenire, capace costantemente di sorprendere, investendo sia la sperimentazione teatrale con le continue connessioni con altre forme artistiche, il rapporto con il pubblico, le forme dell’organizzazione, i percorsi produttivi e le strategie di sopravvivenza. Prendendo a prestito la definizione dal lessico della ricerca informatica, the next thing, quali confini per la ricerca? sembra essere un probabile titolo che racchiuda quel materiale inerte, l’indeterminatezza di un mondo in cui le classificazioni di generi appaiono ormai obsolete. Una serie di domande per aprire o continuare dei discorsi perduti o non rinnovati da una pratica del fare teatro, riflettendo sulle contraddizioni di un “sistema cultura che in Italia ha vissuto più di un ritardo. Che cosa vuol dire oggi fare ricerca? Cosa vuol dire sostenerla? Che cosa le istituzioni chiedono alla ricerca e cosa chiede la ricerca alle istituzioni? Le dinamiche produttive generali possono essere le stesse in questo ambito? Come concepire il rapporto tra il teatro e la sua critica? Riferimento a nuove oggettività: esiste un modo per artisti, organizzatori, amministratori di procedere nello spazio dell’imprevedibilità?… All’organizzazione della giornata di studio seguiranno una serie di eventi/spettacoli come luoghi di visioni specifiche. Nella costruzione di questa sezione il “tema, che non è un tema, riguarda strettamente la volontà di affrontare il bisogno di non avere limiti di collocazione, di presentare oggetti nella loro importanza “oggettiva: affrontare il linguaggio nelle sue deviazioni ed evoluzioni, mettendo in relazione schemi di un discorso che cortocircuita e reagisce. All’interno della programmazione del Teatro Studio di Scandicci saranno presentati dei singoli “oggetti accuratamente scelti: non un rapporto con uno o un gruppo di artisti, ma con “cose parlanti nella loro essenza. Il periodo di riferimento per questi eventi sarà il mese di marzo 2002 con appuntamenti diluiti nei primi tre fine settimana del mese. Short Connection, coincidenza breve dunque, a cui si rinuncia con estrema coerenza di fornire ulteriori definizioni. PROGRAMMAsabato 2 marzoh.10.00/ 18.00: Giornata studio: The next thing, quali confini per la ricerca? ore 10.00/13.30: relatori Antonio Caronia, Paolo Ruffini, Andrea Nanni, Cristina Ventrucci, Sivia Fanti, Andrea Lissoni, Fabio Acca, Elisa Vaccarino, Goffredo Fofi; coordinatore: Massimo Marino ore 15.00/19.00: Discussione sabato 2 marzo h.21.30: Metamkine (Francia) Cellule d’intervention METAMKINE domenica 3 marzo h.21.30: Jerome Bel (Francia) Nom donné par l’auteur sabato 9 marzo h.21.30: Marco Berrettini (Italia/Francia) Freeze/Defreeze domenica 10 marzo h.21.30: Pierre Bastien (Francia/Olanda) Mecanium sabato 16 marzo h.21.30: Arbus (Italia) Struttura per movimenti improvvisati secondo il protocollo Olivier Casamayou (Francia) Natyam - Techno animal Mk (Italia) Mk Ultra domenica 17 marzo h.21.00: Luca Sossella editore e Xing presentano il libro Italian Landscapes/Paesaggi Italiani Kinkaleri (Italia) Ecc.etera Ogi.no Knauss (Italia) EUR INFO: Teatro Studio di Scandicci, Via Donizzetti 58, Scandicci - Firenze - tel.055.751853 info: teatrostudio@scandiccicultura.org
Per questo secondo numero di tnm un po' di storia.
Verso la multimedialita?
Per leggere il saggio, clicccaquì.
Ballando nella profondità del bosco
Ai Giardini della Biennale di Venezia, dal primo al dieci febbraio, è stato possibile vedere l'installazione Deep in the wood, del compositore e regista belga Thierry de Mey. L'evento era inserito nell'ambito della manifestazione Temps d'images, primo tentativo di Festival di respiro europeo, promosso dalla Biennale di Venezia (settore Danza, Musica e Teatro), dal centro nazionale La Ferme du Buisson di Parigi, dal centro culturale Les Halles de Schaerbeek di Bruxelles, e dal canale televisivo franco-tedesco Arte. La manifestazione si è svolta all'incirca negli stessi giorni a Venezia, Parigi e Bruxelles, con un unico programma e con scambi di collaborazioni, focalizzando l'attenzione sulle contaminazioni sempre più frequenti tra l'universo variegato delle immagini filmiche, fotografiche, video, computerizzate - e forme di spettacolo quali il teatro, la musica e la danza.
Un’Orgia teknologica
Italian Landscapes/Paesaggi Italiani
Italian Landscapes raccoglie, in oltre cento tavole, lavori di immagine sul tema del 'paesaggio' commissionati a 22 autori, ognuno dei quali riporta nel libro il suo personale clima visivo.
Appuntamento al
prossimo numero. |