ateatro
(non
solo guerra)
numero 6 - 1 aprile
2001
a cura di Oliviero
Ponte di Pino (in collaborazione con Federica Fracassi)
INDICE
Fare
un teatro di guerra
a
cura di Federica Fracassi con interventi di
-
C.S: Leoncavallo,
-
Pippo Delbono,
-
Gigi Gherzi,
-
Antonio Moresco e Carla Benedetti,
-
Massimo Munaro,
in
occasione delle retro-prospettiva su Mario Martone al Leonka, a cura di
Teatroaperto (13-16 marzo 2001)
Questi
materiali sono stati pubblicati (insieme ad altri testi, alcuni dei quali
anticipati in "ateatro" 4 e 5) in Fare un teatro di guerra a cura
di Federica Fracassi, scriba studio edizioni, Milano, 2001.
La
scena trasformista di Lepage
di
Anna Maria Monteverdi (sul nuovo spettacolo La face cachée de
la lune)
Un
questionario su Santarcangelo
di
Oliviero Ponte di Pino
I
Ricordi tristi e civili di Cesare Garboli
di
Oliviero Ponte di Pino
Imperdibile: Chi non legge questo libro è un . I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999. |
Fare
un teatro di guerra
a
cura di Federica Fracassi
"ateatro", nei
numeri 4 e 5, ha ospitato alcuni degli interveti che sono poi confluiti
nel volume a cura di Federica Fracassi, pubblicato da scriba studio
edizioni (info: scribastudio@tin.it). Con questo numero di "ateatro"
si completa la panoramica degli interventi in anteprima.
Grazie
Centro
Sociale Leoncavallo
"per stare in questo viaggio dovete dimenticare il vostro nome, bruciare le vostre carte d'identità….." (Viaggiatori, 1996)
Vogliamo darvi il
benvenuto con questa battuta di uno spettacolo* di
alcuni anni fa perché ci piace pensare quest'incontro come l'inizio
di un viaggio, la partenza di una carovana di uomini e donne che hanno
la necessità e il desiderio di abbandonare le posizioni raggiunte
per mettersi a rischio nelle zone di guerra. In quei territori bombardati
dal conformismo culturale, come Milano, città in cui - più
che altrove - il vorticoso e vorace consumo di eventi spettacolari produce
svuotamento di senso, annullamento delle differenze e omologazione di ogni
spinta creativa.
Milano, dove al vuoto
culturale che avanza, come paradosso dei molteplici eventi proposti anche
di ottima qualità e spesso a buon mercato, si risponde con la Fabbrica
del Vapore: appropriazione indebita e strumentale di formule organizzative
e autogestionarie altrui per trasformarle in operazione d'immagine calata
dall'alto a scapito e dichiaratamente contro le esperienze spontanee e
informali già esistenti e consolidate negli anni. Distanti dai bisogni
della città. Questi ultimi espressi soprattutto nelle necessità
diffuse di riqualificazione - anche attraverso percorsi progettuali periferici
- dei territori , di valorizzazione delle pluralità artistiche e
dei linguaggi, di potenziamento di momenti d'incontro delle comunità
e di sostegno a quegli ambiti informali di produzione culturale che spesso
proprio su quegli stessi territori sono presenti.
A mancare, ci sembra,
è quel contesto di relazioni sociali e culturali che rendono significativo
e pregnante un fatto artistico, trasformandolo in capacità di incidere
sui comportamenti e sugli immaginari collettivi. Per questo abbiamo sostituito
da tempo l'attenzione ai luoghi della cultura con quella per i contesti
in cui questa viene prodotta e consumata.
Ed è da qui
che vogliamo partire (nuovamente, lo abbiamo fatto varie volte nel corso
della nostra storia), per tentare di riallacciare il legame tra produzione
culturale e tessuto sociale, di trasformare il lavoro e l'esperienza dei
singoli gruppi, operatori culturali ed artisti in una nuova visione critica
del mondo che ci circonda, e in definitiva di riportare la metafora dell'arte,
alle tensioni della vita.
Un procedere per
tappe, inventando occasioni di riflessione con cui scandire i prossimi
mesi, che ci vedrà camminare insieme ai tanti incontrati in questi
anni (soggetti diversi per natura ruoli, appartenenze, per biografia e
storia), coinvolgendoli nel tentativo di dar vita, per quanto ci riguarda,
ad un nuovo percorso progettuale che partendo dai luoghi non convenzionali,
non istituzionali, possa ripensare il senso e la funzione del teatro nella
in-civiltà contemporanea..
E' tempo di andare
al di là della transitorietà degli eventi, di aprire cantieri
permanenti, tessere reti, costruire piccoli osservatori per lo scambio
delle esperienze. Uscire dagli steccati dei propri luoghi (e ruoli) affinché
nuovi "centri", intesi come catalizzatori di energie, risorse, ragionamenti,
progetti si affermino e si moltiplichino, e - non ultimo - per sperimentare
nuove formule di organizzazione e di finanziamento, e consolidare percorsi
artistici sottraendoli alla precarietà delle proprie condizioni
di vita e di lavoro.
Infine, riteniamo
- ed è per questo che vi chiediamo di dimenticare il proprio nome...
- che non serva oggi al teatro l'affermazione di forti identità
ed appartenenze (il regista di fama, il critico noto, il gruppo ormai arrivato,
l'istituzione teatrale affermata, consolidata e fagocitante) ma si debba
partire dalla messa in relazione dei molteplici soggetti che a vario titolo
producono cultura intrecciando nella rete sensibilità, riflessioni,
competenze, progettualità per affermare con forza che il sistema
teatrale attuale non è l'unico teatro/mondo possibile.
*(spettacolo
prodotto da Senzasipario nel '96 per la regia di gigi gherzi con attori
provenienti dai centri sociali milanesi)
Due
frammenti
di
Pippo Delbono
Una volta mi ricordo
quando ero piccolo stavo dormendo nella casa di mia nonna, una casa sulla
collina dove si apriva una grande visione del mare e io una notte ho sognato
che da quel grande mare usciva una grande nave e da questa nave spuntavano
degli uomini vestiti di nero con gli occhiali scuri come soldati e riempivano
tutto il mare e scoppiava una guerra su tutto questo mare e poi tutti si
trasformavano in angeli e volavano via.
C'è un mistero
che non diventa comunicazione se non l'ami tantissimo e se non vuoi che
esca fuori in una maniera che altri la sentano, come la senti tu. Bobò
è come se fosse al cuore di una profonda contraddizione della vita
in cui nella violenza, nel limite, nel dolore c'è l'aspirazione
alla gioia. E' così anche nella vita personale di ciascuno: quando
sei ferito, trapassato, quando sei precipitato nel dolore non hai voglia
di giocare col dolore o di parlare tristemente del dolore, hai voglia di
vita. Quando sono stato a Sarajevo la gente che aveva vissuto per quattro
anni assediata, circondata, bersagliata dalla mattina alla sera dai cecchini,
ora voleva parlare di vita. Parlano con tristezza della guerra quelli che
la guerra la vedono sui giornali o la vivono da lontano. E' lo stesso per
quelli che parlano di handicap rispetto agli handicappati.
C'è stato
qualcuno che Barboni l'ha odiato: ha proiettato una sua rabbia,
qualcuno addirittura parlava di "relitti umani in scena". Invece io credo
che nell'esperienza della crisi, del disequilibrio, della sofferenza c'è
una possibilità straordinaria di bellezza. E' questa bellezza che
io cerco…
E poi questo era il
periodo della guerra in Bosnia e io vedevo alla televisione tutti quei
morti, quei massacri, quelle stragi, e mi dicevo: "Ma Pippo, non puoi stare
lì col tuo piccolo problemino mentre nel mondo ci sono le guerre!".
Niente. Ero diventato apatico a tutto. E poi mi veniva in mente quando
ero a Lima, in Perù, e c'era il coprifuoco e la polizia sparava
per le strade e non si poteva uscire e la gente faceva delle feste dove
ballavano, ballavano tutta la notte, e allora io mi dicevo: "Anche tu Pippo,
devi danzare, danzare, danzare in questa guerra!"
(Da Barboni. Il
teatro di Pippo Delbono, Ubulibri, 1999)
Teatri
di guerra
di
Gigi Gherzi
La guerra non è
un tema.
Non si chiama Kossovo,
Mafia, Chiapas.
Non farsi belli della
guerra.
Non aggiungere l'ennesima
perlina
alla collana del
"politically correct".
La guerra racconta
di noi,
del nostro rapporto
col mondo.
Tanto teatro vive
ignorando la guerra.
Per ignoranza si
ignora.
Per l'arroganza tipica
dei professionisti invecchiati.
In omaggio agli ultimi
miti decadenti "sull'essere artisti".
L'unica guerra che
conosce è quella meschina
per la sopravvivenza.
Occupare poltrone.
Trombare l'avversario.
Vendere più
del gruppo concorrente.
Intortare il critico.
Passare il provino.
La tristezza: giovani
che invecchiano
aspettando di passare
i provini.
La guerra vive nelle
nostre cellule.
E' quella a bassa
intensità che si avverte quando si guarda fuori
e ci si accorge che
il mondo sta morendo.
Consumato dalle regole
di una "necessità"
che ha assunto la
forma dell'incubo.
Le leggi oggettive
del mercato.
Le leggi oggettive
del sopravvivere.
Palle.
Allora non si parla
di Chiapas.
Si è Chiapas.
Si partecipa a quella
bestemmia.
Si è Vajont.
Si è quel
paese distrutto.
Si è la guerra
presente nel mondo, perché, qui e ora,
la stiamo vivendo.
Testimoniarlo è
atto d'amore.
E' anima che trabocca
e si espande.
Che incontrando l'altro
incontra se stessa.
Non si può
che essere teatro di guerra, sempre.
Con visione e fantasia.
Imparando dagli errori
del passato prossimo.
Non affrontare il
nemico sul territorio a lui favorevole.
Non copiarne il linguaggio.
Non accontentarsi
della miserabile nocciolina
rappresentata dal
"riconoscimento della diversità".
Disinteressarsi del
ricambio generazionale.
Delle politiche rivolte
ai "giovani gruppi".
Dedicare forza e amore
e passione
al pezzo di mondo
che si sta costruendo.
Sapere che solo quel
mondo, quei fratelli,
sono la tua forza,
il virus che potrà
espandersi ed attecchire.
Essere più
belli del nemico.
Praticare la sfida
disarmata.
Essere coscienti che
le luci del "centro"
vivono di uno splendore
mortuario.
Costruire nuove forme
di produzione e di incontro.
Pensare al teatro
come a una selva
in cui, inizialmente
pochi, si ha bisogno di capirsi,
di sperimentare leggi
ed etiche,
forme della solidarietà,
dell'incontro, della creazione.
Nessuna distinzione
tra noi e il pubblico.
Ogni spettatore è
un'artista che ti guarda.
La scommessa è
comune.
Quando la colonna
sarà pronta per partire
che il viaggio sia
meraviglioso.
Nel frattempo, lavorando
nel piccolo,
costruire mondi che
permettano il respiro.
Essere combattenti
della guerra che mira
a incrinare l'ignoranza.
Estinguerci nelle
nostre identità fasulle.
Rinascere ricreando
il sogno dell'arte.
Antonio
Moresco a colloquio con Carla Benedetti
CARLA BENEDETTI -
Per quale ragione il tuo primo libro pubblicato si intitola Clandestinità
?
ANTONIO MORESCO -
Si intitola Clandestinità perché non avevo la possibilità
psicologica, artistica e spirituale di disporre di un altro titolo. Questo
è stato l'unico titolo che mi è stato permesso. Allora mi
trovavo davvero nel più assoluto anonimato sociale, perché,
oltre tutto, non svolgevo nessun mestiere, nessuna professione. Prima avevo
fatto anche dei lavori pesanti.
C.B. - Per esempio
?
A.M. - Ho lavorato
nelle fabbriche, stagionale, in campagna, facchino, portiere di notte,
in un'officina seminterrata a costruire i piani dei flipper… Ma poi ero
crollato, stavo male, piangevo continuamente, avevo degli scoppi di pianto
anche in pubblico, ero spezzato.
C.B. - Quanti anni
avevi?
A.M. - Una trentina.
E' durato per tre o quattro anni in una maniera così terribile…
C.B. - "Clandestinità"
mi pare una parola chiave per te, indica la condizione del tuo personaggio
non solo nel racconto che ha questo titolo ma anche in altri. Questa è
l'impressione che ho io. Cioè che l'occhio di questo narratore non
può essere altro che quello di un clandestino, come se, appunto,
il suo sguardo venisse da un luogo, un altro luogo, esterno ai normali
rapporti sociali. L'immagine che mi viene in mente è quella di un
alieno che è capitato su questo mondo che deve osservare e da cui,
nello stesso tempo, deve difendersi.
A.M. - Non saprei
dire se avevo la consolazione di sentirmi perlomeno un alieno! Forse non
avevo neanche quella. Ma poi non è che questa condizione me la sia
inventata, non c'era bisogno di una grande fantasia, era la mia situazione.
Non è cambiata molto, in un certo senso, mi pare, perché
in ultima analisi vedi anche tu che l'accettazione pubblica dei miei libri
non è avvenuta, la parte decisiva di questa società culturale,
i cosiddetti nomi che contano non si sono mai confrontati col mio lavoro,
non una sola di queste persone che vengono considerate decisive, quelle
che forniscono il nulla osta, la cooptazione, ha fino ad oggi mai recensito
un mio libro. Se si sono occupati fuggevolmente di me è stato per
denigrarmi… E' inutile star qui a raccontare. Però, nello stesso
tempo… Tu sai come io ami quella frase di Dostoevskij che c'è proprio
all'inizio dei Karamazov, dove l'autore si rivolge direttamente al lettore
e dice: "Giacché non solo lo stravagante non sempre è particolarità
e idiosincrasia, ma al contrario può avvenire che appunto egli,
se non vi dispiace, rechi in sé, qualche volta, il midollo dell'universo,
mentre gli altri uomini della sua epoca, tutti quanti, in una specie di
turbine, si sono temporaneamente, per un motivo o per l'altro, distaccati
da lui…"
C.B. - Torniamo a
Clandestinità. Senti, tu questo libro l'hai scritto a trent'anni,
mi hai detto. Però sei riuscito a pubblicarlo soltanto nel '93.
Cioè quanti anni dopo?
A.M. - Quindici.
C.B. - Quindici anni
dopo? Tanto ci hai messo a farlo accettare da un editore?
A.M. - Sì.
C.B. - Hai mai pensato
di passare tutta la vita come un autore clandestino?
A.M. - Sì,
certo, ormai pensavo che sarebbe finita così. E' come quando qualcuno
rimane sepolto sotto le macerie della sua casa, dopo un terremoto. Lui
grida, grida, ma se non passa per di lì qualcuno che senta, che
sappia sentire, che voglia sentire, quello che sta sotto muore, e lo sa.
C.B. - Tu dici?
A.M. - Sì,
ne sono convinto. Chissà quanti sono morti così! Ma questo
vuol dire almeno che si tratta di una cosa vivente. La letteratura… può
essere anche una cosa maledettamente vivente, dove entrano in gioco fattori
che annichiliscono i grossi meccanismi della selezione naturale. Possono
venir fuori cose che secondo le previsioni, le programmazioni non avrebbero
dovuto aver spazio, avere vita, invece eccole lì, in una situazione
di suspence terribile, cose che vengono giocate proprio all'ultimo secondo,
a tempo scaduto, addirittura, la scena della macchina che corre e non si
sa se riuscirà a passare un secondo prima che passi il treno, o
dell'astronave che non si sa se riuscirà a passare prima che si
chiudano le mastodontiche porte di metallo della base aliena in cui è
intrappolata… Eppure questa sbalorditiva situazione può creare,
per chi la vede, la sente, la soffre, un dramma che apre uno spazio verticale.
C.B.- Come sei riuscito
a reggere questo scontro, visto che stavi solo su questo terreno, non avevi
voluto tenere in mano altre carte, da un certo punto in poi, altre soluzioni
di ricambio, linee di fuga?
A.M. - Non lo so.
C.B. - Cosa c'era?
A.M. - Non lo so...
continuavo, nonostante tutto quello che mi succedeva, il prezzo psicofisico
che stavo pagando…continuavo a sentire dentro di me questa cosa che prima
avevo chiamato midollarità, mi percepivo in una zona irradiante.
C.B. - Proprio quella
cosa che alcuni ti rimproverano, no?
A.M. - Sì.
C.B. - Cioè
di credere troppo nella tua... vocazione, chiamiamola così. Questo
è il paradosso: se tu non avessi avuto questo tipo di urgenza, di
midollarità, come avresti potuto andare avanti in una situazione
simile? Avresti smesso da un pezzo!
A.M. - Questo è
certo. Oppure avrei cominciato a scrivere cose diverse, che non avrebbero
avuto difficoltà a venire accolte subito dagli editori.
(Il brano è tratto da un libro di dialoghi con Carla Benedetti, La visione - KKP).
Il
festival Opera Prima
di
Massimo Munaro
Per un gruppo teatrale
nato e cresciuto in una piccola città di provincia come Rovigo,
l'idea di un Festival era di per sé una chimera da inseguire con
costanza e una buona dose di follìa. Tanto più un Festival
dedicato interamente ai gruppi - così ci sentivamo noi - della nuova
ricerca teatrale italiana.
Chi ci avrebbe potuto
prendere sul serio qui e tanto più fuori dalla nostra città,
relegata com'era, ma oggi non è poi tanto diverso, letteralmente
ai confini dell'impero - come amavamo dire allora?
Era il 1994: il Lemming
contava già setti anni di esistenza. Un'esistenza fatta, già
allora, di prove, spettacoli, laboratori. Ci sentivamo confinati ai margini
di una città ai margini.
Il nostro rapporto
con Rovigo non è mai stato facile. All'inizio ci guardavano con
quella simpatìa con cui si guarda i giovani quando li si pensa innocui.
Col passare degli anni, al nostro progressivo rivelarci non propriamente
innocui , le cose sono via via cambiate, e ci siamo sentiti oggetto
di una contesa fra una parte della città che ci guardava sempre
più indispettita e un'altra parte della città che riconosceva
in noi probabilmente una spinta al nuovo, al cambiamento.
Racconto queste cose
perché trovo importante riflettere anche sul contesto, sui luoghi,
in cui gli eventi accadono. E allora può sembrare assurdo che un
festival dedicato alla nuova avanguardia teatrale italiana (uso questa
parola consapevole di tutti gli equivoci che una simile definizione porta
con sé) sia nato proprio in una piccola città culturalmente
conservatrice - in cui esisteva, ed esiste, un unico teatro pubblico che
proponeva da sempre una stagione lirica e una stagione di prosa tradizionale,
e un teatro parrocchiale volto esclusivamente alla promozione del teatro
dialettale. Di avanguardia o di Nuovo teatro qui non si era proprio mai
sentito parlare. Può sembrare quindi un paradosso che Opera Prima
sia nata (o meglio rinata come vedremo) proprio in questo contesto: ma
certo non è un caso.
La scommessa, per
noi, oltre tutto si faceva anche più ambiziosa visto che si estendeva
a tutto il territorio nazionale. Proprio nel momento in cui i gruppi della
ricerca storica conoscevano un forte momento di crisi e di involuzione
poetica e artistica, o almeno così ci sembrava, noi eravamo pronti
a scommettere che nell'oscurità una nuova fila di giovani teatranti
lavorava e sperimentava con coraggio nel misconoscimento più assoluto.
Nessuno per altro sapeva se questa loro esistenza era reale oppure no.
Nemmeno noi. Si trattava di scommeterci.
Devo dire che fummo
i primi a sorprenderci quando, in risposta ad una nostra scarna lettera/bando
di presentazione (spedita ad un indirizzario fatto di biblioteche, scuole
di teatro, compagnie riconosciute, centri di ricerca teatrali, e di quelle
pochissime nuove realtà con cui eravamo già in contatto),
fummo letteralmente sommersi da quasi duecento domande di partecipazione.
Fummo colti alla
sprovvista. All'epoca non avevamo nemmeno un ufficio dove raccogliere tutto
il materiale. Passavamo i giorni a vedere video e a viaggiare, quando ci
era possibile, non solo per visionare degli spettacoli ma proprio per conoscere
altri gruppi, altre metodologìe di lavoro, altre esperienze.
L'entusiasmo era
crescente. Non eravamo soli. Una prima scommessa era già vinta prima
ancora di realizzare concretamente la prima edizione del Festival.
Il Festival Opera
Prima nasceva innanzi tutto in una sorta di continuità ideale con
un analogo Festival realizzato a Narni una decina d'anni prima dal critico
Giuseppe Bartolucci. Come Narni si era fatta promotrice della generazione
teatrale precedente, noi ci proponevamo, per citare alla lettera il programma
della nostra prima edizione, "in controdenza rispetto alle consuetudini
odierne, di offrire un panorama significativo, anche se non esaustivo,
dei diversi percorsi intrapresi dal giovane teatro italiano - di fare il
punto, in sostanza, sul teatro degli anni '90".
Piuttosto che di
teatro sarebbe più giusto, come è stato successivamente rimarcato
da Antonio Calbi con il nome dato alla sua fortunata rassegna milanese,
parlare di teatri '90. Per noi, fin dall'inizio, le tendenze dovevano essere
rimarcate proprio nelle differenze. Le differenze erano un valore e costituivano
un po' la caratteristica di questa che andava configurandosi via via come
una nuova ondata.
Scegliemmo la metà
di giugno come data di realizzazione del Festival un po' perché
si proponesse come il primo dei Festival estivi italiani, lontano da antipatiche
e per noi deleterie sovrapposizioni di date con altri Festival, un po'
come ulteriore omaggio a Martino Ferrari da poco prematuramente scomparso.
Martino aveva fondato il gruppo con me e aveva condiviso e contribuito
a tutti i nostri progetti, compreso l'idea di un Festival da dedicare ai
giovani gruppi della ricerca teatrale italiana. Lavorava come ricercatore
presso l'Università di Ferrara. Durante un sopralluogo aereo su
degli scavi archeologici che conduceva ad Isernia, l'aereo su cui era è
precipitato. Giugno era il mese in cui era nato. Era giusto che Opera Prima
nascesse in giugno.
Alcune precisazioni
metodologiche.
Volevamo realizzare
un Festival anche da un punto di vista politico e organizzativo diverso
dagli altri. Nonostante i nostri rapporti non facili con la città
per noi era chiaro che il Festival doveva riuscire a coinvolgere almeno
la parte più viva di Rovigo, altrimenti non avrebbe avuto senso.
Lanciammo così l'idea di una sorta di sottoscrizione, attraverso
il tesseramento alla nostra compagnia, per sostenere la realizzazione del
Festival. Raggiungemmo quota 300 soci. Il valore politico di questa adesione
convinse il Comune a garantire un sostegno economico e logistico (per l'allestimento
tecnico degli spazi) all'intera iniziativa. Anche Provincia, Regione e
il Circuito teatrale regionale ArteVen aderirono al progetto seppure con
cifre quasi simboliche (in tutto il badget della prima edizione del Festival
era di 67 milioni - budget non aumentato nel corso degli anni).
La responsabilità
organizzativa doveva essere collegiale e investire più persone possibili.
Alle Compagnìe
doveva essere garantita la liquidità immediata del loro cachet e
una assistenza tecnica completa.
Scegliere pochi gruppi
ogni anno su una quantità davvero enorme di richieste non era facile.
Ce ne siamo sempre assunti la responsabilità: oneri e onori. Questo
succede sempre e a chiunque organizzi un Festival. Noi avevamo l'aggravante
di dover scegliere fra colleghi e di essere, da questo punto di vista,
misconosciuti ed esposti al giudizio come tutti gli altri.
Per quanto riguarda
la critica decidemmo subito di fare le cose in grande. Prendemmo in mano
telefoni e fax e sommergemmo di comunicati stampa le redazioni di quotidiani
e di televisioni, oltreché un numero imprecisato di critici importanti:
unico a rispondere il critico di Repubblica Franco Quadri.
Provammo a invitare
anche organizzatori di altri Festival, i responsabili dei Centri di Ricerca:
non si vide nessuno.
Il fatto più
clamoroso restava il dato politico. L'esistenza di un numero così
impressionante di gruppi teatrali (al nostro censimento arrivammo a 200
ma di lì a un anno il numero arrivò a 300) che popolava in
modo sommerso la realtà teatrale italiana ci pareva un dato importante
e decisivo.
Così sull'onda
dell'entusiasmo, alla fine del Festival ci facemmo promotori di una serie
di incontri fra i gruppi teatrali e arrivammo un anno dopo alla seconda
edizione del Festival ad un Convegno il TEATRO ESPLOSO in cui si decise
di presentare un documento politico comune. I quattro giorni del Festival
si trasformarono in assemblea permanente: una sessantina di gruppi discussero
animatamente le bozze di un manifesto che solo una parte dei presenti (35)
finì poi per sottoscrivere. Ma il dardo era stato lanciato e l'attenzione
verso il nuovo sarebbe da lì a poco, finalmente, cresciuta a dismisura.
Il documento politico
era diviso in quattro punti:
1. la denuncia sull'impossibilità
effettiva di un ricambio generazionale - "da dieci/quindici anni il
Carrozzone Teatro si è rinserrato in se stesso e ha gettato le chiavi.
Entrarvi non è più possibile per nessuno";
2. la constatazione
della mediocrità e del marciume in cui il teatro italiano ufficiale
perversava;
3. la rivendicazione
di esistenza di un teatro sommerso e che è finalmente vitalmente
esploso;
4. la necessità
di una solidarietà comune.
Da quel Convegno
nacque successivamente l'Associazione dei Teatri Invisibili (da cui il
Festival omonimo a San Benedetto) che segnò per altro una spaccatura
(ideale, politica, ma anche poetica) all'interno di questo movimento nascente:
spaccatura che per altro non si è più rimarginata. Spaccatura
che infondo era già insita nelle premesse. Così recitava
la premessa poetica a quel manifesto scritta come IO collettivo da Paolo
De Falco giovane artista leccese: Addìo. Restiamo ad aspettare.
La giovinezza ha un rapporto meraviglioso con l'attesa. E l'attesa del
teatro ha un rapporto meraviglioso con la giovinezza. L'arte non ha bisogno
di generazioni. Ma noi rappresentiamo un diritto del tempo a poter morire.
A inventarsi il passatempo dell'inizio e della fine. Niente di nuovo ma
le ripetizioni a teatro sono la vita. La sua vita. (...) Noi siamo il dubbio
del teatro. L'eredità del dubbio... che ha bisogno per la sua stessa
sopravvivenza di conservarsi giovane e audace. Noi siamo il suo strumento.
(...) Sicuramente finirà questo legame d'intesa ma che importa se
è così bello piegarsi al destino dei fallimenti.(...)"
In quei giorni si
respirava nell'aria febbrile la sensazione che qualcosa potesse davvero
cambiare.
Decidemmo di dedicare
la terza edizione del Festival ad una prima riflessione pubblica sulle
linee poetiche che caratterizzano il Teatro degli anni '90. A questo Convegno
di due giorni furono invitati una decina di critici e storici del teatro,
alcuni artisti delle passate generazioni, e soprattutto una trentina di
gruppi invitati finalmente a parlare del loro lavoro, della loro ricerca,
della loro poetica. Anche questo fu credo un momento decisivo per far rivelare
la consistenza e la maturità almeno di alcuni percorsi artistici
in seno a un movimento così magmatico.
Giungiamo così
al 1997 e al 1998, e cioè alla quarta e alla quinta edizione del
Festival. Lo scenario intorno, come da auspici, è completamente
mutato. Sul modello di Opera Prima altri Festival analoghi nascono in Italia:
il Festival Extraordinario a Roma (che purtroppo conosce solo lo spazio
di una stagione), Crisalide a Bertinoro e poi Scena Prima seguita da Teatri
'90 a Milano, che si estende prima a Torino e quest'anno anche a Palermo.
Festival importanti come Santarcangelo, Volterra, Polverigi aprono le porte
ai giovani gruppi. I Teatri e le stagioni consacrate da sempre alla ricerca
storica cominciano a contenderseli i nuovi gruppi. L'interesse critico
si estende a macchia d'olio. I giovani gruppi sembrano diventare la moda
del momento. Le grandi istituzioni, l'Eti in testa, dimostrano un'attenzione
al nuovo che non sembra del tutto effimera. Persino lo Stato ripensa la
sua mitica circolare ministeriale (di una legge al momento si continua
ancora soltanto a parlare) e aggiunge un articolo (il 14 - per altro già
sparito nel nuovo regolamento) che è (era) una porta di accesso
- seppure densa di inganni e trappole - aperta apposta per le giovani formazioni.
Potremmo dire, per i pochi gruppi entrati al finanziamento, dalla invisibilità
alla precarietà. In buona compagnia.
Basta aspettare però
qualche anno - siamo ariivati già ai giorni nostri - e tutto torna
ad una preoccupante normalità. E' il ritorno all'ordine. I segnali
si sono fatti, improvvisamente, sempre più sconfortanti. Della apertura
ai giovani gruppi non resta traccia nel Nuovo Regolamento ministeriale.
E di nuovo per chi nasce oggi accedere ai contributi torna ad essere una
chimera. Il Carozzone è tornato a rinserrarsi in se stesso. La moda
del nuovo si è rivelata piuttosto effimera: e l'interesse critico,
così come quello dei grandi Festival, sembra essersi fossilizzato
soltanto su alcuni gruppi già per altro abbondantemente emersi.
Chi si preoccupa oggi del Teatro sommerso? La risposta è: nessuno.
Le prime ricostruzioni
storiche, siamo già nell'epoca dei bilanci, danno un quadro semplificato
di una complessità che, per altro, appunto, non registrano affatto.
Le pubblicazioni, che oggi si affrettano ad uscire, lasciano così
piuttosto imbarazzati. E uno sguardo sullo stato generale del teatro italiano
lascia stupiti. Annichiliti. Arrabbiati. Corsi e ricorsi della storia,
il movimento resta ciclico. Siamo nell'epoca della risacca.. Tutto è
ritornato allo stesso punto da cui siamo partiti otto anni fa.
Così, al solito,
tutto sembrava cambiare per rimanere in realtà sempre lo stesso.
La Tetralogia del
Lemming:
il mito e lo spettatore
In un'epoca di pensieri
deboli e di fragili idee sul teatro, questi lavori implicitano innanzitutto
la necessità di un ritorno al senso originario e profondo dell'esperienza
teatrale.
Il teatro, al contrario
di quanto comunemente si pensa e si pratica, non nasce come mera rappresentazione,
ma è, prima di tutto, accadimento: l'evento condiviso, da almeno
un attore e uno spettatore, in uno spazio e in un tempo comune.
Se per i greci Dioniso
era il dio del teatro, lo era per la sua capacità di instaurare,
attraverso il teatro, il regno della con-fusione fra realtà e illusione.
Da cui il noto paradosso per cui "la tragedia opera un inganno per cui
chi inganna è più giusto di chi non inganna e chi è
ingannato è più sapiente di chi non è ingannato" (Gorgia,
B 23 DK).
Ma oggi, ormai, il
gioco rappresentativo, esautorato ogni stupore, ci appare come una mera
finzione che non inganna più nessuno. Seduti comodamente nelle nostre
poltrone, abbiamo imparato ad addomesticare ogni qualsivoglia immaginazione.
Questa distanza, questa assoluta passività in cui ci troviamo relegati
quando andiamo a teatro, mima una più temibile passività
che è quella delle nostre vite. Ha scritto Umberto Galimberti: "Istituendoci
come spettatori e non come partecipi di un'esperienza o attori di un evento,
i media ci consegnano quei messaggi che per diversi che siano gli scopi
a cui tendono veicolano eventi che hanno in comune il fatto che noi non
vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto le immagini".
Ora che la RELAZIONE
costituisca oggi un territorio dell'impossibile, la dice lunga su questi
tempi oscuri di comunicazioni sfrenate, di telefoni, telefonini, fax, internet,
di milioni di solitudini in Rete, in cui a mancare finisce per essere proprio
la comunicazione. Siamo sommersi di messaggi i cui contenuti ci sfuggono:
mille voci di una Babele ormai sorda alla parola. Una Babele in cui la
stessa pratica del teatro si è ridotta a qualcosa di poco più
(o di poco meno) di un passatempo.
A noi piace pensare,
invece, ad un teatro la cui natura torni ad essere CONTATTO.Ad un Teatro
che può contrapporre alle pratiche imperanti il segno della sua
differenza, della sua specificità che è quella, appunto,
della condivisione di un'esperienza.
La
scena trasformista di Lepage
(Annecy,
10 marzo 2001)
di
Anna Maria Monteverdi
Il nuovo spettacolo del regista canadese, La face cachée de la lune, ovvero La faccia nascosta della luna, offre lo spunto per una riflessione sul rapporto tra teatro e tecnologia.
Il regista canadese Robert Lepage (nato a Québec City nel 1957) è veramente un "caso" nel teatro contemporaneo di ricerca: la sua biografia è costellata di una serie di successi internazionali infilati uno dietro l 'altro sin dal suo apparire sulla scena, da Vinci (spettacolo dedicato a Leonardo e ai luoghi e ai personaggi della Toscana rinascimentale), a Geometry of miracle (ispirato alla figura dell'architetto Frank Lloyd Wright) a Tectonic Plates a The Needle and the Opium (1992, sulla biografia di Miles Davis e Jean Cocteau).
Consensi unanimi e
riconoscimenti per il suo teatro, caratterizzato da una presenza di immagini
in forma di proiezione video e filmica e da una narrazione vicina a quella
cinematografica, sono arrivati dai maggiori Festival mondiali (dal Festival
del Teatro delle Americhe di Montréal al Festival del teatro "off"
di Avignone). Lepage è stato, tra l'altro, l' unico artista nordamericano
ad aver diretto un'opera shakesperiana per il London Royal Theatre (A
Midsummer Night's Dream).
Teatro senza frontiere
quello di Lepage nel senso di un teatro finalmente liberato dai confini
della lingua e del genere: produzioni internazionali (Le poligraphe
in tre versioni: francese, spagnola e italiana), vere e proprie epopee
teatrali kolossal (le sei ore de La trilogia dei dragoni presentata
in Canada, Europa, Messico, Australia e Stati Uniti), un Romeo and Juliet
creato in due lingue a ricordare nuove divisioni linguistico-politiche
(francofoni e anglofoni in Canada); vicino al teatro orientale, ha realizzato
una regia in giapponese de La tempesta e del
Macbeth per
il Globe di Tokyo, mentre alterna l'attività teatrale a quella di
regista cinematografico (Le confessional, presentato al Festival
di Cannes del 1995, No ambientato in Giappone e Possibile Worlds),
regista d'opera (allestirà per il Teatro della Bastiglia di Parigi
La Damnation de Faust) e regista di concerti rock (ha curato le
scenografie del Secret World Tour di Peter Gabriel). Si misura anche
lui con un Amleto solo in scena (come Bob Wilson): Elsinore, 1997
ovvero "Lepage's one-man
Hamlet". Nell'aprile del 2000 presenta
La face cachée de la lune che approda in Europa solo nel
marzo 2001 con pochissime date dopo un primo tour in Australia e in Canada.
La questione se il
suo teatro sia o no eccessivamente tecnologico (l'" over-use of technologies"
è l'accusa che gli è stata rivolta in occasione del suo Elsinore,
1997, in cui i pensieri nascosti di Amleto, solo in scena, venivano letteralmente
passati ai raggi X) è a nostro avviso marginale.
L'uso della tecnologia
in scena è, indubbiamente, il marchio di fabbrica del teatro di
Robert Lepage, anche se forse sarebbe più corretto parlare di un
"teatro della visione" (quello che a Franco Quadri fa ricordare "il Bob
Wilson degli anni d'oro").
Lepage stesso, infatti,
definisce il suo un "image-based work" (come non ricordare la scena di
The needle and the opium in cui l'attore Lepage danzava al suono della
musica di Satie divorato dentro il vortice dei
Rotorelief di Duchamp
proiettato su uno schermo-lavagna, unico oggetto scenico).
Il "teatro dell'Età
del Nintendo" o delle "chincaglierie tecnologiche" non ha, in realtà,
paura di contaminare, rendere impuro o corrotto il Teatro, arte nobile
e antica. Al contrario, Lepage risponde alle accuse definendosi provocatoriamente
un "formalista": la tecnologia-dice- implica una forma (...) le tecnologie
sono oggi la nuova materia a disposizione dell 'artista per creare nuove
forme di narrazione a teatro.
Lepage per questo
spettacolo Le face cachée de la lune che prende spunto, proprio
nell'anno dell'Odissea kubrickiana, dall'invio delle sonde spaziali,
prima sovietiche e poi americane, in esplorazione della faccia nascosta
della Luna, costruisce una macchina teatrale che funziona complessivamente,
a partire proprio da una perfetta integrazione della tecnologia (che, a
dispetto dei detrattori di Lepage, è sempre più prossima
alla meccanica) nell'intero apparato drammaturgico, recitativo, sonoro,
scenografico e concettuale dello spettacolo.
Una tecnologia poco
sofisticata ma molto leggera dà vita, infatti, ad un nuovo ambiente
"contrainte" per l'attore e suo doppio elettronico: questa tecnologia ha
perso le caratteristiche di mostrum o di macchineria infernale barocca
per assumere, invece, la qualità evocativa ed espressiva della luce.
Durante una conversazione
ad Annecy al termine dello spettacolo, Lepage ci parla proprio della luce
e del suo contrario, l'ombra, come componenti fondamentali e quasi fondanti
della sua scena, alla cui definizione è giunto in parte ispirato
alla teoria leonardesca dell'arte (a cui ha dedicato anche uno spettacolo,
Vinci, 1984), in parte al teatro giapponese: "il video è
fatto di luce".
Lepage inventa un
fondale metallico di color grigio scuro che nasconde al suo interno, una
serie di ambienti tra loro separati a mo' di vani che scorrono silenziosi
su binari nascosti. Un'apertura-varco centrale di questo fondale, fa intravedere,
nel corso dello spettacolo e come un vero movimento di macchina da presa,
oggetti e ambienti sempre diversi: armadio, ascensore, stanze. "Interiors",
cose nascoste, svelate appunto. Questo fondale ha anche una corrispondente
quarta parete "fisica": una enorme lavagna-specchio dotata di tre movimenti:
la scatola scenica si apre una prima volta grazie a un sollevarsi della
lavagna-specchio che "scopre" all'attore gli spettatori e agli spettatori
l'armamentario scenico della storia; un movimento verso l'interno fa, in
seguito, "diventare" la lavagna un oggetto di scena (un lunghissimo bancone
da bar); infine, un movimento verso l'alto a 45° a formare un soffitto
riflettente, alla fine dello spettacolo, restituisce percettivamente agli
spettatori l'impressione di un corpo duplicato sulla scena avente movimenti
uguali ma rovesciati dell'attore stesso steso in terra e impegnato in una
danza quasi in assenza di gravità.
In prossimità
del boccascena un binario quasi invisibile trattiene due videoproiettori
mobili che proiettano alla sinistra e alla destra del fondale, immagini
non sincronizzate tra loro di spezzoni di documenti televisivi e fotogrammi
di archivio sulla conquista della Luna: gli esperimenti con gli animali,
i primi astronauti, l'incontro e la stretta di mano nell'atmosfera extraterrestre
di Russi e Americani. Fa da colonna sonora la musica originale di Laurie
Anderson.
Lepage in questo
spettacolo ha la capacità di sorprenderci con una scena trasformista
come forse solo Fregoli è riuscito a concepire con il suo corpo
dai mille personaggi e mille facce che si trasformavano l'uno nell' altro
a un ritmo così veloce da essere quasi assimilabile al cinematografo.
Come gli screen di
Gordon Craig (i pannelli semoventi definiti "le mille scene in una" progettate
per l'Amleto di Mosca del 1912) la scena dal volto mobile di Lepage
si trasforma continuamente grazie al solo movimento della luce (questa
è la caratteristica dell'elettronica): cambia sembianza, diventa
tutto quello che la narrazione ha necessità di raccontare sotto
gli occhi degli spettatori senza che questi si renda conto di quando avvenga
(anche se è, invece, chiaro come avviene). Il problema non è,
infatti, tenere nascosto il meccanismo quanto creare un dispositivo-macchina
contenitore delle esigenze della narrazione di cui l' artista-autore-attore
sia consapevole quanto lo stesso spettatore. Non c'è trucco, non
c'è inganno.
Lepage ci parla del
suo uso in teatro di una macchina non sofisticata ma ingegnosa e intelligente
("clever") il cui funzionamento è a vista ed è facilmente
compreso dal pubblico perché "oggi le persone hanno grande familiarità
con telecamere e video. Per me questa tecnologia è interessante
per invitare la gente ad andare a teatro, perché ora la gente sa
come funziona. Metteresti il pubblico in una posizione di incapacità
("unepowered") se tu non mostrassi i "fili"o non dessi indizi per capire
il modo di costruire (la scena)".
Per farci capire meglio
questo concetto Lepage ci racconta del teatro giapponese tradizionale di
marionette di Osaka (il teatro Bunraku) in cui , il più anziano
dei tre manovratori si leva il cappuccio e mostra il proprio volto dando
pubblica esibizione della sua magistrale abilità manuale. (Questa
particolare maniera di manovrare marionette allo scoperto, introdotta nel
1705 dal famoso burattinaio Tastumatsu Hachirobei, fu chiamata il "de-zukai").
L'esplorazione della
luna è la metafora di cui si serve Lepage per parlare di un'altra
esplorazione, quella dello spazio interiore, intimo e privato: è
la storia di due fratelli, uno metereologo e l'altro venditore di spazi
pubblicitari per telefono. Separati da stili di vita e caratteri (anglofoni
e francofoni?) viene loro a mancare la madre. Separati si riconciliano
(Russi e Americani?).
La loro vita è
costellata da domestiche esplorazioni spaziali: una telecamera percorre
i diversi spazi familiari (e talvolta l'impressione è quella di
stare realmente dietro i movimenti di macchina di un cameraman) mentre
la forma circolare del casco degli astronauti diventa un vero tormentone
visivo: oblò di un aereo, immagine digitale della Terra e delle
sue perturbazioni ad uso del metereologo, vaschetta per i pesci rossi,
apertura di una lavatrice; così come la forma allungata della navicelle
è presenta nell'asse da stiro in verticale e nei pezzi del thermos
impilati. Come la fila o la pila di sedie da cucina di A Midsummer Night's
Dream che sono lì a rappresentare un ponte o una piramide, gli
oggetti del quotidiano diventano ne La face cachée de la lune
quasi immagini universali: fanno appello al potere immaginativo del pubblico
richiedendo uno sguardo nuovo, creativo, che non prenda in considerazione
solo la funzione ma appunto la loro forma quasi primitiva ed elementare,
oppure semplicemente la loro somiglianza a qualcos'altro, come nei Tele-racconto
di Giacomo Verde; vale a dire, rappresentare la storia con pochi elementi
e oggetti, esattamente come la nostra memoria che trattiene l'essenziale.
Il domestico e la memoria collettiva, formate entrambe a partire da un archivio di immagini, si intrecciano continuamente e si mescolano l'uno con l'altro fino a confondersi come in continue dissolvenze incrociate: l' uomo entra nell'apertura della lavatrice di una lavanderia a gettoni e la telecamera interna collocata nella macchina ad uso domestico, riporta il volto e i movimenti dell'uomo al ralenti che ci ricordano in maniera inequivocabile le immagini dell'interno delle navicelle spaziali e i movimenti degli astronauti in assenza di gravità trasmesse dalle televisioni o dai documentari. Ancora: uno dei due fratelli va in ospedale, fa una tac e viene collocato dentro l'oblò; i raggi x rilevano episodi dell'infanzia in forma di filmino in Super otto.
La narrazione è
piena di episodi divertenti e di gag e situazioni degne della più
classica commedia degli equivoci. Dice Lepage che questo serve a "spezzare"
la solitudine dell'attore solo in scena e a creare un contrasto al naturale
confluire della narrazione teatrale verso l'estrema drammaticità.
Ma a parte il gioco
degli oggetti che sono ma che soprattutto diventano altro rispetto alla
loro funzione (ma Duchamp non c'entra.), c'è il sovrapporsi di memorie,
personali e collettive, ricordi ed esplorazioni di zone buie. Siamo venuti
alla luce e al mondo come piccoli astronauti che prendono per la prima
volta fiato dopo che il cordone ombelicale-cavo che ci collega alla navicella
madre è stato staccato e dopo il preciso colpetto alla schiena dato
dalla levatrice al neonato a testa in giù che per questo piange
ma contemporaneamente prende per la prima volta l' ossigeno necessario
alla vita e impara a respirare autonomamente. Da quel momento in poi la
nostra vita è una ricerca della verità nascosta, del progetto
interiore da inseguire, del calore che ci riscaldi dopo il gelo del vuoto
cosmico.
Una marionetta manovrata
nel buio da una mano nascosta, percorre la scena: un piccolo astronauta
autonomo impara a camminare.
Riuscirà qualcuno
a costruire davvero quell'enorme Torre Eiffel (che a noi ricorda il Monumento
alla Terza Internazionale di Tatlin!) che innalzata fino oltre la stratosfera,
come si racconta all'inizio dello spettacolo, dovrebbe essere in grado
di captare quello che a noi è ancora segreto: il lato nascosto della
Luna?
Quale sonda riuscirà
mai a scoprire il lato più misterioso e rimosso del nostro Io?
E ritorna, come nel
programma televisivo sugli extraterrestri seguito da uno dei protagonisti,
l'interrogativo fondamentale: "Sommes-nous seuls?" Ma sulla Terra.
Un
questionario su Santarcangelo
di
Oliviero Ponte di Pino
Qualche tempo fa, mi sono state fatte via e-mail alcune domande sul Festival di Santarcangelo, nel corso di un'indagine sulle realtà culturali della riviera romagnola. Mentre il dibattito sul futuro del festival (leggi "budget dell'edizione 2001") è in corso, mi sembra utile offrire questi spunti di riflessione.
E’ a conoscenza
dell’evento in questione?
Sì.
In quale occasione
è venuto a conoscenza dell'evento?
Lo conosco da quand'ero
ragazzino: da decenni è un punto di riferimento per tutti quelli
che amano il teatro, da artisti o da spettatori. Lo frequento da una ventina
d'anni e ne ho scritto in diverse occasioni.
Che tipo di valutazione
dà dell’evento, relativamente ai contenuti, all’organizzazione e
gestione, al riscontro del pubblico, alla comunicazione?
E' una manifestazione
che ha una propria storia e identità, che ha costruito un'ampia
rete di relazioni con gli artisti, con il pubblico, con i volontari che
collaborano ogni estate. Non è un festival rivolto alle grandi masse:
prende atto che il teatro è, oggi, uno spettacolo per pochi - un'élite
per scelta, per affinità, per passione, più che per classe
sociale o per origine. Da questo punto di vista, e considerando gli scarsi
mezzi di cui dispone a paragone di iniziative analoghe, mi sembra che i
risultati siano positivi. Dal punto di vista artistico - se vi interessa
- più che una vetrina di megaspettacoli è un laboratorio
aperto. Non a caso vi sono passati, in questi anni, molti grandi artisti.
E soprattutto molti giovani hanno avuto l'opportunità di farsi conoscere
e apprezzare in una cerchia più larga. Negli entusiasmi e nei momenti
di stasi, è uno specchio di quello che si muove nel teatro italiano,
di quello che è più vivo (e a volte discutibile: ma fa parte
del gioco).
Come valuta l’evento
relativamente ad altri della medesima tipologia? Può indicare eventi
che ritiene similare a questo e perché?
Per certi aspetti
è un evento unico: per la sua lunga storia (lunga relativamente
ai tempi teatrali), perché è riuscito a conciliare il meglio
dell'avanguardia con le più antiche e autentiche tradizioni teatrali.
Esistono molti tentativi di imitazione, che però hanno avuto poco
respiro. Forse l'esperienza più vicina in Italia è quella
di Pontedera e Volterra (non a caso l'animatore di queste realtà,
Roberto Bacci, ha lavorato a lungo a Santarcangelo).
Ritiene che l’evento
abbia una vocazione locale, nazionale o internazionale?
Credo che abbia una
vocazione nazionale ma un respiro internazionale. Il fatto che la recente
Biennale veneziana di Giorgio Barberio Corsetti si sia mossa in una direzione
analoga dimostra l'importanza e le potenzialità di Santarcangelo.
Come si colloca
l’evento (se non solo nazionale) nel panorama internazionale?
La forma festival
ha vissuto negli ultimi decenni, dopo il boom del dopoguerra (quando nacquero
Avignone, Spoleto, Edimburgo, i grandi festival internazionali) alti e
bassi. Un autentico, grande festival internazionale, con gli spettacoli
dei registi di nome, ha un budget di 10 volte (credo) quello di Santarcangelo:
ma ne esistono già, e Santarcangelo non è mai stata una vetrina
di "begli spettacoli", è sempre stato qualcosa di diverso. Forse
Santarcangelo potrebbe, continuando a restare quello che è sempre
stato, investire su una maggiore presenza di spettacoli stranieri - che
però rientrino nel progetto complessivo della manifestazione, che
non siano insomma fiori all'occhiello o semplici acchiappapubblico.
Ritiene giusta
la collocazione nel riminese di un evento del genere? Per quali motivi?
E' una manifestazione
che è nata e cresciuta a Santarcangelo, che è ormai stabilmente
legata al nome di quel borgo, e non vedo dove potrebbe approdare. Non a
caso, forse, molti dei nuovi gruppi più interessanti del teatro
italiano hanno profonde radici romagnole, tra Rimini & Ravenna (vi
serve l'elenco? Raffaello Sanzio, Valdoca, Ravenna Teatro-Albe, Masque,
Motus, Fanny & Alexander...). Piuttosto, il problema sta nel rapporto
tra Santarcangelo (e gli altri comuni coinvolti) e Rimini: una grande città
dove di fatto la programmazione teatrale (sia nell'arco della stagione
teatrale "regolare" sia nell'estate ) lascia molto a desiderare.
Quali ritiene siano
i punti di forza dell’evento (organizzazione, gestione, successo di pubblico,
contenuti, comunicazione)?
Il punto di forza
è senz'altro la passione. L'amore per il teatro, la necessità
di salvaguardare e far crescere una rete di rapporti e un nucleo di creatività
collettiva. Da molti punti di vista, è un'isola ecologica assai
preziosa. Quali ritiene siano i punti di debolezza dell’evento (organizzazione,
gestione, riscontro di pubblico, contenuti, comunicazione)? Il punto debole
sono da anni le meschine diatribe politiche che rappresentano da sempre
una pesante zavorra. Dietro di esse ci sono varie illusioni: quella di
trasformare Santarcangelo in qualcos'altro (nessuno osa probabilmente confessarlo,
ma di sicuro qualcuno pensa: "Siamo in Romagna in alta stagione, perdio!
Si può far di meglio che raccogliere qualche centinaio di teatranti
straccioni! Un bel concerto rock!! Uno spettacolone con gli attori della
tv!!!"). Oppure quello di immaginare che possa essere (o diventare) un
centro di potere. Dopo di che, anche per mancanza di mezzi, l'organizzazione
può anche essere a volte sgangherata - ma sono i tipici difetti
del volontarismo, e senza di esso Santarcangelo morirebbe.
A suo avviso quali
sono gli aspetti che potrebbero essere migliorati?
Investire su progetti
di più ampio respiro: questo vuol dire più soldi, e una programmazione
su tempi più lunghi, e qualche certezza sui tempi e modi del finanziamento.
Questo dovrebbe anche significare un rapporto più organico con Rimini
(e con l'inverno riminese, allargando l'attività sull'arco dell'anno).
E poi - ma l'ho già detto - si potrebbe pensare di più all'estero.
Ma se dare più soldi vuol dire snaturare l'iniziativa, meglio tenersela
sgangherata e povera.
Quali ritiene possano
essere le prospettive future dell’evento?
Vedi sopra.
I
Ricordi tristi e civili di Cesare Garboli
di
Oliviero Ponte di Pino
E’ arrivata da poco
in libreria una raccolta di articoli di Cesare Garboli (Ricordi tristi
e civili, Einaudi, 100 pagine, 22.000 lire), che nel loro insieme offrono
una tra le più interessanti riflessioni sugli ultimi trent'anni
di storia italiana. In queste pagine, il teatro viene spesso usato come
chiave per comprendere alcuni snodi drammatici e oscuri della nostra storia.
Questa chiave di lettura non può certo essere una sorpresa, considerata
l'attività di critico teatrale (vedi gli scritti raccolti in Un
po' prima del piombo, con prefazione di Ferdinando Taviani, Sansoni,
1998) e di traduttore di Garboli, e tuttavia alcuni squarci restano memorabili:
come il parallelo tra Verdiglione e Tartuffe (che all'epoca suscitò
un acceso dibattito), o il passaggio dedicato all'orazione funebre di Paolo
VI per Aldo Moro: "lo spettacolo di Paolo VI in Laterano era più
terribile di uno Shakespeare che varcasse il gusto dei secoli borghesi
e si ripresentasse nella sua corrusca barbarie elisabettiana; un papa vinto,
un papa folgorato che balbettava oppresso dai paramenti le ultime e confuse
battute della propria sconfitta" (p. 23).
La pubblicazione
del volume è stata salutata da Eugenio Scalfari con un articolo
assai lungo (inevitabilmente) e affettuoso (Garboli è collaboratore
di "Repubblica"), e che però aveva come obiettivo principale quello
di rendere sostanzialmente inoffensiva la fortissima provocazione di questi
Ricordi.
Garboli, a partire
in sostanza dal sequesto e assassinio di Aldo Moro (1978), s'accorge di
soffrire di "un'afflizione rimossa e sgradevole (...): l'incapacità,
o l'impossibilità, di sentirmi un cittadino del mio paese". Si sente
"un esule in patria", "separato dal vasto e cespuglioso continete politico
in cui vivono, impraticabile per chi ne ignori le strade e le leggi", perché
"non è facile sentirsi cittadini di uno Stato diviso dalla politica
in due metà, quelli che la praticano e quelli che la disprezzano".
Scalfari attribuisce
questa estraneità al fatto che Garboli abbia assunto la posa del
grande moralista. Insomma, il vizio starebbe in un atteggiamento sostanzialmente
"filosofico" e non "politico" di fronte alla realtà. Eppure la prefazione
e gli articoli di Garboli sono pieni di episodi, nomi e date tratti dalla
recente storia italiana: dal caso Tortora alla vicenda di Serana Cruz,
dalla strage di Bologna a Ustica, da Alessandrini e Dalla Chiesa a Falcone
e Borsellino, da Sindona alla SIR, da Mani pulite (anzi, "la rivoluzione
di Mani pulite") ai suicidi di Cagliari e Gardini... Insomma, questi ricordi
non sono opera di un filosofo o di un moralista, ma di uno storico e di
un cittadino che valuta gli orrori e i misteri di cui è stato testimone
e misura le proprie responsabilità e possibilità d'azione
(come intellettuale ma ancora prima come cittadino) di fronte a questi
eventi. Questa estraneità alla politica non nasce in astratto, dedotta
da un qualche principio metafisico, o da una ipotizzata "natura umana",
ma ha una data d'origine ben determinata (e per certi aspetti discutibile):
il 1978, il punto di non ritorno, lo spettro che continua a angosciarci.
Il bilancio è
catastrofico, seppur condiviso da molti: l'Italia non è stata -
e non è ancora - un "paese normale". Chi vuol farcelo credere, allestisce
una farsa destinata a evolvere - inevitabilmente - in tragedia.
Certo, scandali e
obbrobri ne succedono ovunque, anche nelle nazioni "civili". Certo, questo
"paese anormale" è pesantemente reale, e dunque è l'unico
orizzonte con cui possiamo confrontarci. Tuttavia ritenere che la diagnosi
sia determinata da astratti furori (e non da dati di fatto) è far
torto all'intelligenza di Garboli e dei suoi lettori, e alla lunga porta
a rendersi complici di un sistema perverso. Servirebbe invece una discussione
sugli snodi evidenziati da Garboli: solo comprendendo le cause reali dell'"anomalia
italiana", solo cogliendo qualche brandello di verità sulla nostra
storia recente sarà possibile emanciparsi e diventare forse un paese
"normale". Ma il recente dibattito sul revisionismo (solo per fare un esempio)
lascia poche speranze.
Appuntamento al prossimo numero.
Se volete scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
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