ateatro
n. 18 - 10 settembre
2001
a cura di Oliviero
Ponte di Pino
INDICE
La
forza della tradizione
una
testimonianza di Moni Ovadia
Contemporaneità
del teatro ragazzi
di
Cristina Valenti
(continua
il dibattito sulla Carta d'intenti
di Marco Baliani)
Il
progetto "No Fret"
(ovvero
come ottenere fondi pubblici e privati per il teatro)
"No Fret" è un progetto
specificamente centrato sul "fund raising" per il teatro (insomma, ti
insegnano come farti dare dei soldi per i tuoi scombiccherati progetti).
Se vuoi saperne di più, leggi qui sotto o vai direttamente al sito
No Fret.
Comunicazioni di servizio
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E' andato in scena
al Baxter Theatre di Cape Town (e debutterà a New York nel gennaio
dell'anno prossimo, al Second Stage Theatre) il nuovo testo di Athol
Fugard, Sorrows & Rejoicings (Lacrime e allegria).
Nella pièce il 69enne drammaturgo sudafricano riflette sulla propria
situazione di bianco in un Sudafrica a maggioranza nera. Al "New York Times"
Fugard ha dichiarato: "Ho dovuto affrontare - qual è la parola giusta?.
- credo dovrei definirlo un rifiuto per il fatto che si ritiene che io,
un bianco, debba far parlare i neri, dar voce alla realtà dei neri
sudafricani (...) La gente vuole parlare con la propria voce, reclama il
diritto di parlare in prima persona. Molti sarebbero felici se io, dopo
il '94, avessi smesso".
Il protagonista del
nuovo testo è un liberal bianco che dopo 17 anni di esilio a Londra
torna in un Sudafrica profondamente cambiato, ma ancora sospeso tra vecchio
e nuovo. Accanto a lui, il contrasto tra sua moglie Allison e Marta, la
cameriera nera, la sua amante (contro le leggi che vietavano relazioni
sessuali tra bianchi e neri), la donna a cui dedicava i suoi versi e dalla
quale ha avuto una figlia. Dopo due testi in qualche modo più legati
a tematiche personali, Valley Song e The Captain's Tiger,
Fugard torna così a esplorare il problema delle relazioni razziali.
E' in libreria l'autobiografia di Peter Brook, I fili del tempo. Memorie di una vita, Feltrinelli, Milano, 228 pagine, 45.000 lire.Se vi interessa saperne di più sul libro, provate su Internetbookshop.
Nell'ultimo "ateatro"
parlavo delle parole che diventano teatrini nel saggio di Stefano
Bartezzaghi Lezioni di enigmistica: a Mantova,
per il "Festivaletteratura" con l'accompagnamento del maestro Carlo
Boccadoro l'imprevedibile Bartezzaghi ha fatto danzare le sue lettere sul
palcoscenico del Teatro Bibiena in uno show piroteknigmistco. Se vi interessa
saperne di più sul libro, provate su Internetbookshop.
Imperdibile: Chi non legge questo libro è un . I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999. |
La
forza della tradizione
una testimonianza
di Moni Ovadia
In questi giorni Garzanti
pubblica I racconti dello Yiddishland di Ben Zimet, un viaggio
attraverso il mondo degli ebrei dell'Europa Orientale attraverso una serie
di racconti, fiabe, aneddoti, storielle... Il volume è accompagnato
da una testimonianza di Moni Ovadia, che tocca alcuni dei temi ricorrenti
in "ateatro": il racconto, la memoria, il senso e la necessità della
testimonianza, e ancora il rapporto tra arte e esperienza di vita, tra
arte e storia (sulla cultura ebraica e su Moni, sia in "olivieropdp" sia
in "ateatro" potete trovare molto altro materiale...).
Questa conversazione
viene presentata su "ateatro" in anteprima.
Conosci Ben Zimet?
Ne avevo sentito parlare già dall'epoca del primo Festival di Cultura Ebraica fatto a Milano al Salone Pier Lombardo nel 1986-87. Ben Zimet stava sviluppando un tipo di lavoro analogo al mio. Poi ne ho perso le tracce, ogni tanto mi arrivava qualche nastro, qualche disco... Ha dedicato la parte centrale della sua attività al mondo della yiddishkeit e per questo lo conoscevo.
Che affinità ci sono rispetto al tuo lavoro?
Io credo di essere un solitario perché ho accolto in tutta la pienezza - e questo l'ha osservato qualcuno un po' malizioso nei miei confronti - la falsità dal mio approccio: io cerco di restituire il mondo degli ebrei dell'Europa Orientale attraverso un processo totalmente artistico - nel senso tecnico della parola.
Nel senso che alla base del tuo lavoro non ci sono esperienze autobiografiche o radici che rimandano direttamente a quel mondo...
No, assolutamente. E ho accolto quello che implica questa "falsità". Kantor diceva: "La tragica bellezza del teatro dipende proprio dalla sua falsità."
Mentre invece Ben Zimet ha delle origine biografiche in quel mondo...
...e credo si sia mosso nella linea che in qualche modo cerca una continuità con il passato. Io assolutamente no: per me c'è quella voragine che è l'Olocausto e io lavoro sull'orlo dell'abisso con l'assoluta consapevolezza che quel mondo non esiste più. Parto dall'assunto che non si possa più fare quello che si faceva prima, come lo si faceva allora. C'è un altro pubblico: persino chi viene da quel mondo sa che oggi si sarebbe evoluto, che oggi non ci sarebbe più lo shtetl con la sua poesia stralunata, povera e perseguitata. Tuttavia ci sarebbe stata una continuità culturale - anche se quell'arte, quel teatro sarebbero diventati un'altra cosa, come è successo a tutte le tradizioni, anche a quelle delle minoranze, che però non hanno subito quella vicenda così "assoluta". Io ho preso coscienza di questo fatto. È una delle ragioni per cui ricevo da certi guru del genere yiddish attacchi molto violenti.
C'è un elemento che, almeno a giudicare da questi Racconti dello Yiddishland, accomuna il tuo percorso a quello di Ben Zimet. Questo libro raccoglie molte delle più belle storielle ebraiche - alcune già note, riprese da una tradizione che si sta stabilizzando - e le divide in due blocchi: nel primo ci sono le esilaranti vicende degli sciocchi, ambientate a Khelm, e quindi la prima parte è - diciamo - più direttamente comica. Il secondo blocco si fa più serio, raccoglie storielle e favole dal tono più alto. C'è un passaggio da temi puramente comici a tematiche più "serie", che è un po' anche il percorso che hai seguito tu nell'introdurre in Italia questo mondo e la sua cultura.
C'è un elemento di comune risonanza. Perché, con tutto il rispetto per le barzellette, la storiella ebraica è un'altra cosa, arriva da un altro mondo. L'approccio è diverso, gli scenari che crea sono diversi. È profondamente inscritta nella cultura yiddish, dove non c'è differenza fra alto e basso. Per esempio, nel terzo pasto dell'uscita del Sabato, o in generale negli incontri sabbatici, sia nelle feste sia in quelli conviviali, raccontare storielle fa parte dell'intero processo. L'umorismo ebraico non ha una funzione di puro divertimento ma di pensiero. Mi sono permesso di definirlo "critica della ragion paradossale", perché attraverso il paradosso illumina la stupidità del mondo, l'insensatezza della violenza. Tuttavia questo paradosso è collocato in una dimensione calda che crea uno stato di empatia, una simpatia e una risonanza con ciò che vuoi comunicare. Questa è la grande funzione dell'umorismo. Il suo statuto è una vertigine di intelligenza. Ben Zimet ne è profondamente consapevole, è come se dicesse: "Ci sono queste storielle, ma fanno anche parte di un patrimonio dallo statuto altissimo." Anche il Talmud è un'opera umoristica, lo dice il più grande studioso vivente del Talmud, din Steinsalz: "Tra le altre cose il Talmud è una grande opera di umorismo."
In che senso?
Il Talmud è un libro
non-libro. Non doveva essere scritto. Perché quello che viene chiamato
Talmud è in realtà quello che noi ebrei chiamiamo Torah-she-bealpeh,
la Bibbia che è sulla bocca; mentre l'altra è quella ricevuta
dall'Eterno, la Torah-she-bikhtav, quella che è scritta.
La relazione fra le due crea l'ebraismo, attraverso un immenso pensiero
ermeneutico che non lascia fuori nessun aspetto dell'esistente. Il Talmud
è stato scritto attraverso le discussioni dei maestri: sono argomentazioni
di grande sottigliezza, si tratta di spaccare il capello non in quattro
ma in diecimila parti, proprio per impedire che l'idolo dell'argomentazione
rigida e ossificata sconfigga il pensiero. Ma tutto questo ha grandissimo
bisogno dell'umorismo, una delle armi attraverso cui si mostra la debolezza
di un pensiero. L'umorismo è la forza di un pensiero debole.
Provo a spiegarmi con un esempio:
la relazione fra l'aggressore e l'aggredito. L'antisemita dice all'ebreo:
"Il mondo va a rotoli e la colpa è tutta degli ebrei." L'ebreo risponde:
"Sì, degli ebrei e dei corridori ciclisti." "E perché dei
corridori ciclisti?" "E perché degli ebrei?" È un meccanismo
tipico che serve per illuminare un terzo piano imprevisto, e questo attiva
il pensiero.
Ma nella tradizione ebraica ci
sono anche storielle folgoranti contro la rigidità del comandamento.
Ce n'è una per cui impazzisco, sul comandamento: "Onora il padre".
Un padre rientra a casa sfatto dal lavoro e i suoi tre cuccioli - uno di
tre, uno di cinque e uno di sette anni - gli si precipitano addosso, lo
baciano, gli scompigliano i capelli, gli fanno grande festa. E lui è
così stanco eppure così orgoglioso di questi figli. A un
certo punto dice: "Bambini, chi lo va a prendere un bel bicchiere di acqua
al papà?" Allora il più grande dice: "Io sono il maggiore,
dunque tocca a me questo kavod, questo onore etico, di ottemperare
a questo comandamento: "Onora il padre"." E il medio dice: "Io do tutti
i miei risparmi, cinque rubli, ma io voglio questo kavod." E il
piccolo si alza sulla sedia e dice: "Io darò tutti i miei risparmi
dei prossimi dieci anni - ma io voglio questo kavod." E si azzuffano.
Quando capiscono che non possono venire a una conclusione litigando, chiedono
al padre il permesso di discutere la questione. E come dei bravi maestri
della
Torah si mettono in un angolo e cominciano una serrata discussione
con i pro e i contro e tutte le sottigliezze. Il padre si gonfia d'orgoglio,
come un tacchino, nel vedere i suoi bambini discutere. Dopo venti minuti,
quando lui ormai è divorato dalla secchezza delle fauci, i tre fratellini
ritornano e il grande, a nome del comitato dei fratelli, dice: "Papà,
noi abbiamo discusso la questione molto accuratamente e abbiamo deciso:
questo è per noi un onore troppo grande! Va' a prenderti l'acqua
da solo."
Che cosa c'è in questa storiella?
Naturalmente c'è l'aspetto umoristico, ma racconta anche che nessun
comandamento dev'essere rigido: al contrario, dev'essere attivo nel suo
processo di relazione con l'essere umano. L'ordine è: "Vivrai in
essi." I comandamenti sono per la vita e non la vita per i comandamenti.
E nessuno ha risparmiato l'umorismo, e nessuno è offeso dall'umorismo.
I rabbini sono quelli più presi di mira. C'è una frase umoristica
- potrebbe essere una storiella - di un grande maestro di 2000 anni fa,
rabbi Simon, che dice: "Se una comunità non è contro il suo
rabbino, quella comunità non è una vera comunità e
quel rabbino non è un vero rabbino."
Questa in parte è la differenza fra quello che noi chiamiamo "umorismo da oratorio" e l'umorismo ebraico. Estremizzando, nella tradizione cattolica l'umorismo costituisce uno sfogo per tutta una serie di pulsioni che vengono in qualche modo conculcate o frenate e che trovano nella barzelletta, nella battuta, nella parodia una valvola di decompressione. Ma in questa tradizione i fondamenti non possono e non devono mai essere messi in discussione. Nel caso dell'umorismo ebraico, mi sembra che si tratti proprio di mettere in discussione tutti i fondamenti.
Non ci sono dogmi nell'ebraismo. Ci sono atti di fede, non dogmi. Si può essere ebrei ortodossi e insieme atei. Prendiamo per esempio il Midrash, che è la forma più poetica, più lirica, più ardita di ermeneutica. Ci sono dei Midrashim che fanno tremare le gambe. Per esempio ce n'è uno che si intitola Dio ride. Riferisce di alcuni maestri che discutevano di un punto della legge. Discutono discutono discutono e alla fine, esasperato, rabbi Eliezer, che era considerato il più sapiente tra i maestri, dice: "È inutile che discutiamo, ho ragione io su questa questione", e per dimostrare la sua ragione indica un carrubo che si sradica. Allora gli altri maestri dicono: "Un bel giochino, bene, però la regola è che si discute, che ti siedi e discuti." Altri giorni di discussione, i maestri sono ancora più esasperati, e alla fine rabbi Eliezer dice: "Siete dei testoni, ho ragione io." Indica un torrente e il corso dell'acqua cambia direzione. E gli altri: "Sei un grande taumaturgo, però siediti e discuti." Ricominciano, e lui continua con i miracoli: indica la sinagoga, la schola, e - dice il Midrash - "i muri della sinagoga cominciano a crollare." Allora un altro dei rabbini, rabbi Jehoshua, si alza e strilla: "Ma cosa c'entrano i muri della sinagoga? Tu sei rabbino e i maestri discutono di legge." Allora, dice il Midrash con straordinario senso dell'umorismo, "per rispetto a rabbi Eliezer i muri erano un po' crollati, ma per rispetto a rabbi Jehoshua non crollarono del tutto!" Miracolo dialettico fra i due maestri! Alla fine, cosa fa rabbi Eliezer? Esasperato, chiama a testimonianza il Cielo. Esce una voce celeste che dice: "È vero, su questo punto ha ragione rabbi Eliezer." Allora rabbi Yirimia schizza in piedi e urla un versetto del Deuteronomio, correndo nel consesso: è Deuteronomio 30,12, "Non è nei cieli." Che cos'è il commentario? Il Talmud dice che la legge è stata data sulla terra, agli uomini per gli uomini, e contiene in sé i principi che regolano i rapporti umani: libera discussione e voto della maggioranza. Non c'è bisogno di ascoltare voci celesti. E il Talmud racconta che un giorno uno degli altri rabbini che era presente, rabbi Nathan, incontrò il profeta Elia (che come sappiamo è asceso al cielo con il carro di fuoco e dunque sta sempre dalle parti del Padre Eterno) e gli domandò: "Che cos'ha fatto il Signore benedetto nel momento in cui rabbi Yirimia si è messo a strillare "Non è nei cieli?" "Dio è scoppiato a ridere e ha detto: "I miei figli mi hanno sconfitto, i miei figli mi hanno sconfitto"." È la vertigine, il Padre Eterno che ride di sé stesso... All'interno di questa prospettiva, non c'è limite: nell'ebraismo la balbuzie di Mosè è irrisa, la stonatura di Abramo è irrisa... Del resto, come nasce l'identità ebraica? Dice il rabbino Ouaknin, di cui ho curato l'edizione italiana di un libro [Così giovane e già ebreo. Umorismo yiddish, Piemme, Casale Monferrato 1998 - n.d.r.]: "L'identità ebraica è un éclat de rire, uno scoppio di risa." Infatti chi è il primo ebreo per nascita? Isacco. E cosa vuol dire Isacco? "Colui che riderà." E perché ha questo nome? Perché quando arriva la notizia che Sarah, sterile novantenne, e Abramo, centenario appena circonciso, avranno un figlio, i due scoppiano a ridere. È esattamente l'anticipazione del parto miracoloso di Maria, 1500 anni prima. Tuttavia, mentre lo scenario mariano è soffuso di una luce, di un'aurea di candore...
...nessuno immagina la Madonna che ride al momento dell'Annunciazione...
Il grande Troisi ha potuto farne una parodia da cabaret, ma siamo in un altro ordine. Nella Bibbia la storia è chiara: quando Dio, tramite i tre arcangeli travestiti da viandanti, gli dice: "Avrete un figlio", Abramo si mette a ridere, si butta per terra, si scompiscia dalle risate. Anche Sarah scoppia a ridere e l'arcangelo le chiede: "Cosa fai, ridi?", e Sarah risponde "No, non è vero", e lui: "No, ti ho visto"... È uno strano scenario...
C'è un'ampia discussione sulla differenza fra la risata di Sarah e quella di Abramo...
...poi il Padre Eterno si presenta ai due quando il parto miracoloso è avvenuto, e allora il riso è l'utopia, la capacità di ridere di sé stessi. Il Signore dice loro: "Avevate tanto da ridere e dunque chiamerete questo figlio Colui Che Riderà." Ma attenzione alla riflessione di Abramo: "Le genti rideranno di me perché ho riso di questo." Così Abramo inaugura l'elemento del ridere di sé come elemento fondante e costituente di un cammino identitario. Infine c'è Isacco, che dovrebbe essere sacrificato da Abramo sul monte: Colui Che Riderà va al sacrificio ma non viene sacrificato. Ecco l'ebreo: il sopravvissuto che riderà.
Prima parlavi della legge scritta e della legge orale e del fatto che la Torah non avrebbe dovuto essere scritta. Da un certo punto di vista anche queste storielle - come quelle che hai raccontato adesso - non dovrebbero essere scritte, perché fanno parte di un patrimonio orale. Perché a un certo punto vengono scritte? Nella seconda parte del libro di Ben Zimet ci sono sia storielle desunte dalla tradizione orale, tra fiaba e mito, sia brani di grandi scrittori. Per esempio c'è un brano di Kafka...
L'umorismo kafkiano, chi l'ha capito? È un'operazione molto acuta e molto lodevole, quella di Ben Zimet...
Tra l'altro il brano di Kafka che cita Ben Zimet è Il messaggio dell'Imperatore...
Il Messia: se volessimo raccontarlo
con una storiella sarebbe proprio Il messaggio dell'Imperatore di
Kafka. Anch'io l'ho usata in un mio spettacolo, perché secondo me
è la sintesi dell'attesa messianica ebraica: il Messia è
partito, c'è, ma non arriverà mai. È in permanente
ritardo. Tra l'altro, alcuni maestri un po' più birichini interpretano
così l'atto di fede nella venuta del Messia: "Io credo con fede
ferma nella venuta del Messia. E anche se lui indugia, io lo aspetterò
tutti i giorni che vengono." Qualcuno dice che la modalità ebraica
del messianesimo è questa: il permanente indugio, "tu devi costruire
l'attesa". È stato lungimirante inserire quel brano. Come ha notato
un grande studioso come Giuliano Baioni, Kafka non è leggibile fuori
dall'ebraismo. Al di fuori dell'ebraismo, non si poteva capire come, in
una situazione apparentemente così drammatica come quella del Processo,
nella prospettiva da incubo delle società totalizzanti - nazismo
e stalinismo -, Kafka leggesse le prime cento pagine del romanzo ridendo,
con il fou rire. Perché? Perché l'aspetto umoristico
non va mai disgiunto dall'angoscia: è l'elemento che impedisce che
l'angoscia si costituisca come idolo e oppressione.
È per questo che alcuni
ebrei sono arrivati a ridere fino sulla soglia dell'abisso. Le storielle
nel periodo nazista sono proliferate a centinaia. Sono emerse persino nella
parte più oscura del nazismo... Sono cose che nessuno racconta,
per ritegno e per delicatezza, ma anche per evitare di essere equivocato:
ci vuole una concezione dell'umorismo come quella ebraica - autodenigratoria,
altissima e antiidolatrica - per collocare storielle come queste nel loro
contesto. Ed è impossibile farlo se uno scotomizza l'aspetto dell'indagine
spirituale di quell'umorismo, perché quelle storielle mirano sempre
a mostrare l'immenso splendore della vittima - non in quanto santo, ma
proprio in quanto collocato nella posizione di non avere scelto la violenza
e di aver preferito il pensiero. Perché i maestri dell'ebraismo
sono grandi eroi del pensiero.
Riferisco una storiella del periodo
nazista, in un contesto dove è possibile fare questo discorso. Rabinovich
è in un ufficio della Gestapo e lo stanno massacrando di botte,
lo stanno facendo letteralmente a pezzi perché vogliono sapere dove
sono i suoi soldi, o i suoi parenti. A un certo punto squilla il telefono
e l'ufficiale nazista - lo sbirro della Gestapo - sente una voce polacca
che farfuglia frasi trafelate. Non capisce, diventa isterico, e allora
non sapendo come fare tende la cornetta a Rabinovich e gli ordina: "Rabinovich,
senti chi è." Il povero Rabinovich rimette insieme le ossa. Tutto
pesto e sanguinante si avvicina al telefono, si siede sulla sedia dello
sbirro, con uno sforzo disumano incrocia i piedi sulla scrivania, prende
la cornetta e con voce disfatta dice: "Hallò, qui parla Rabinovich
della Gestapo, dica pure."
È una storia sublime! Me
l'ha ha raccontata Michel Monnheit, studioso di ebraismo e figlio di due
sopravvissuti. Ancora una volta è il paradosso, questa risata che
è la conquista della consapevolezza. In Danubio, nel capitoletto
"Il Kitsch del male", dedicato a Mengele, Magris spiega che vittime e carnefici
non possono stare sullo stesso palcoscenico: "Le vittime di Mengele sono
figure di una tragedia, Mengele è una figura da polpettone" (p.
107). Perché quello che stupisce dei nazisti è che non erano
dei titani del male, erano gentucola, quando sono stati catturati hanno
cominciato a piagnucolare: "Obbedivo agli ordini", non ce n'è uno
che si sia assunto la grandezza del male, i più coraggiosi si sono
suicidati... Erano omuncoli, contabili...
Secondo me in questa chiave diventa
possibile capire lo scopo dell'umorismo ebraico e perché noi - Ben
Zimet come me e come altri - siamo assillati a ritornare su queste cose.
È il motivo per cui ci impegniamo nella riconquista di quella tradizione,
in un lavoro di tessitura che abbiamo iniziato e che altri continueranno
in futuro - in yiddish si dice: "di generazione in generazione". Come insegna
la Bibbia: "Ne parlerai", perché qui si tratta di ritessere
ciò che è stato squarciato, e ci vorranno migliaia di anni.
Non illudiamoci.
Quando sento le polemiche sul film
di Benigni [La vita è bella - n.d.r.], mi dico: "È
solo un film, è solo un regista con la propria sensibilità,
il film può piacerti o no, ma non può sminuire o incrementare
il valore o il significato della Shoah." E poi - soprattutto - non si può
togliere la responsabilità agli individui. Molti mi hanno chiesto:
"Ma lei raccontando le storielle non corre il rischio di essere equivocato?"
Ma se avessi paura di essere equivocato mi metterei un sigillo sulla bocca
e tacerei per sempre. Il mondo è pieno di ignoranti, di gente in
malafede o di malvagi, ma guai se prendiamo questa strada. Noi siamo responsabili
di ciò che diciamo, ma chi ascolta è responsabile di come
lo sente. Io non posso sostituirmi alla responsabilità di chi mi
ascolta, altrimenti concepirei un mondo in cui devo dichiarare tutta una
parte di popolazione minus habens e interdirla... Per amor del cielo!
Voglio tornare sul rapporto tra la tradizione orale e la sua sedimentazione letteraria. Prima avevo citato Kafka, Ben Zimet cita anche Shalom Aleychem. A un certo punto questa tradizione orale, che vive nei villaggi dell'Europa orientale, diventa letteratura. Che cosa guadagna e che cosa perde in questo passaggio?
Secondo me non è una questione di perdita o di guadagno, ma è bene mantenere distinte le due cose. Io per esempio ho cercato di preservare l'oralità in quello che scrivo, però con la consapevolezza che non sostituivo l'oralità. È stata una scelta di scrittura. Anche questa è ovviamente un'operazione falsa, e però nella consapevolezza della sua falsità può avere delle iridescenze interessanti. C'è un bisogno di oralità immenso, non è il caso che nel nostro teatro vari personaggi - non diciamo Dario Fo, il capostipite e grande maestro - ma Paolini, io stesso per la mia parte, Baliani e oggi questo straordinario narratore che è Ascanio Celestini, lavorino in questa direzione. Dobbiamo continuare con il racconto: io non faccio altro, queste storie le racconto e le riracconto in ogni occasione. Se uno mi chiede: "Moni, cantami una canzone!" mi viene da scappare. Le serate in cui quello che sa cantare si mette lì con la chitarra e va avanti tutta la sera, si può fare una tantum perché qualcuno ha voglia di farlo, ma è una forma che non amo. Il racconto di una storiella è diverso, perché qui stiamo ragionando su una cultura, non è cantare Dieci ragazze per me... Raccontare fa parte della natura del popolo ebraico. Capisco perché queste storie dovrebbero essere raccontate nelle scuole, perché non si perdano. È un grande esercizio. E mi sono reso conto di quanto questo patrimonio sia cruciale in un mondo in cui la parola ci viene depredata. Allora anche queste raccolte di racconti servono a riattivare questa facoltà: leggere un racconto può forse riattivare la voglia di raccontare. Elie Wiesel ha detto: "Dio ha creato l'uomo perché ama sentire raccontare storie." Senza questa capacità di raccontarci, siamo spacciati. E lo siamo anche se ci tolgono questa facoltà e ne fanno un mercato, cioè se il racconto diventa un prodotto televisivo. Attenzione, non è che la televisione non possa raccontare: il mezzo televisivo lo può fare benissimo, ma il sistema televisivo tende a trasformare tutto in feticcio o in merce. Claude Lanzmann ha dimostrato cosa si può fare con delle persone che raccontano semplicemente la propria vicenda. Il suo film è il capolavoro ineguagliato, sulla Shoah non è facile dire altro dopo Shoah di Lanzmann e Memoria di Ruggero Gabbai, che si muove sulla stessa linea. Perché un film è solo un film: può essere bello o brutto, può piacermi o non piacermi, ma è solo fiction.
Quindi rispetto a qualunque creazione letteraria o artistica, l'esperienza personale, la testimonianza di vita, hanno un valore in più, che il racconto riflette con maggiore autenticità o forza?
È una questione molto complessa, perché il raccontare è anche arte: non tutti sanno raccontare.
Chiaro, però prima spiegavi la differenza tra il film di Lanzmann, dove vedi delle persone che raccontano la loro vita, e quello di Benigni, che può essere bello o brutto ma resta solo un film, non è Benigni che racconta la sua vita.
Esattamente. Ma non è che con questo voglio delegittimare il prodotto artistico, figurati, è il mio mestiere. È che non possiamo attribuirgli responsabilità che non può avere. Anche Primo Levi in un certo senso ha fatto un prodotto artistico, perché solo la pietas artistica ci permette di accostarci a quell'evento. Se ci prendessero per mano e ci aprissero una porta e vedessimo un Lager, dopo quindici giorni probabilmente ci troverebbero impiccati. Perché quella realtà non si può reggere - paradossalmente solo chi ci è stato "dentro" può reggere l'uscita dall'inferno, perché nel proprio percorso trova un senso terribile e forte. Ma chi vedesse questo orrore dall'esterno... È capitato all'"Angelo di Pechino", l'infermiera che assisté i poveri cinesi durante l'invasione giapponese in cui furono commesse efferatezze inenarrabili. Lei non venne scalfita neppure con un graffio, è ritornata, ha scritto queste cose e si è suicidata. Vedere all'improvviso tutto questo e rendersene conto, sarebbe intollerabile. A renderlo tollerabile è per noi la pietas artistica - ma in questo senso anche il racconto è una mediazione "artistica". Il racconto di quei testimoni non è un racconto, una fotocopia della realtà: è la loro elaborazione, una presa di distanza, con una sorta di epos assoluto della loro stessa vicenda. Anche se resta definitivamente una cosa diversa dall'operazione artistica alla Spielberg: non puoi far vedere un bambino a cui un nazista spara in testa e pensare che sia come vedere un nazista che spara in testa a un bambino. Nessuno di noi è tanto pazzo da crederlo. Mi sconcertò l'affermazione di una mia amica che fu deportata dal ghetto di Lodz ad Auschwitz a diciassette anni. Vedendo il film di Spielberg [Schindler's List - n.d.r.] ha detto: "Non ci sono neanche trenta secondi della mia angoscia in quel film."
Mentre nei libri di Primo Levi la ritrovava questa angoscia?
Immagino di no. Perché noi riusciamo a leggerli, il libri di Primo Levi. Altrimenti non ci riusciremmo. È proprio questa la sua immane grandezza: essere riuscito a scrivere quello che ha scritto avendolo vissuto. Quando sento i testimoni che raccontano, sono ogni volta commosso. Quando partecipo con loro a un incontro davanti ai giovani, cerco di sottolineare il grande e immenso dono che ricevono, perché riescono ogni volta a raccontare pur strappandosi le viscere. La grandezza di Primo Levi è di essere stato in grado di disegnare un'opera di una classicità totale senza essere sopraffatto dal dolore. Il racconto, l'oralità non può essere a mio parere sostituita da altro. Quando dico che Lanzmann è meglio di Spielberg, non voglio dire che la verità del racconto è meglio della fiction. Ma parlare di questo argomento attraverso un'operazione di tipo artistico pensando di averlo esaurito è impossibile, secondo me. Invece il lavoro artistico si svolge proprio sull'abisso che si apre fra l'impossibilità di raccontare e la necessità di farlo. Per esempio, con il mio Dibbuk ho scelto di fare un rito: non ci sono nazisti sulla scena. E ho fatto questa scelta proprio perché il rito rimanda a un'urgenza dell'artista di esprimersi, ma non pretende di spiegare come avvenne quel fenomeno.
Ma a questo punto si apre un altro problema, ed è poi quello che emerge nell'ultimo racconto ripreso da Ben Zimet. Il giorno in cui l'ultimo testimone sarà scomparso e non ci saranno più testimoni diretti di quello che è successo, quando nessuno potrà più provare quell'angoscia, che cosa succederà al racconto?
Nessuno di noi ha visto l'apertura
del Mar Rosso, però lo raccontiamo ogni anno, in tutte le celebrazioni
del Pesach, la Pasqua ebraica. Perché i maestri ci dicono: "Guarda
che sei stato liberato." Anche Auschwitz è un Egitto, e in Egitto
chissà quante volte ci ritorneremo, perché ci sono tanti
Egitti e ci sono pezzi di Egitto persino in Israele. È per questo
che devi farti carico della generazione che segue e continuare a raccontare...
Le generazioni che seguiranno avranno altre modalità, che però
sono inscritte nella stessa linea. In un cammino etico c'è anche
questo: ognuno dà il suo contributo, avendo però la consapevolezza
che certe cose non le avremo più, è inutile illudersi. Proprio
questa consapevolezza ha attivato il mio teatro: è inutile illudersi
che ci sia lo shtetl, è inutile rappresentare i mendicantucci con
le pezzucce eccetera. Se invece prendiamo quel mondo per creare una forma
artistica altra, allora ci assumiamo in pieno la nostra responsabilità.
Oggi tutti noi dobbiamo raccontare,
ebrei e non ebrei. Noi ebrei in particolare vogliamo comunicare questo:
"Ne parlerai." È anche uno dei grandi problemi della nostra storia.
La cattiva coscienza della sinistra dice: "Non se ne parla più,
tutto questo appartiene al passato." No, invece: se ne deve parlare, con
le modalità di oggi. Noi andiamo avanti e lo faranno i nostri figli
e i nostri nipoti: guai a noi, saremo dannati se dimentichiamo le sofferenze
di milioni di umili, il loro desiderio di riscatto. Certo, non possiamo
metterci a fare la retorica, ricominciare a cantare le canzoni anarchiche
sulle arie del Nabucco o di Fratelli d'Italia, "Vieni o maggio
t'aspettan le genti..." È chiaro, non siamo più nell'Ottocento,
siamo passati oltre, ma questo vuol dire che quei temi non ci interessano
più? Sono i quattro o cinque grandi temi sui quali si gioca il futuro
dell'uomo. Il problema di raccontare la Shoah si porrà di generazione
in generazione e ognuno dovrà risolverlo con la sua sensibilità,
ma anche con la consapevolezza che il tempo cammina, che tutto diviene
obsoleto... È nella natura delle cose, altrimenti le generazioni
successive non saprebbero cosa fare, sarebbe stato tutto detto.
Dunque mi sembra che ci sia la necessità di parlare della Shoah e del suo significato anche al di fuori del mondo ebraico, senza chiudersi in una presunta purezza del discorso.
Prima di tutto rifiuto questi atteggiamenti
filologici su una cultura che nasce anche dalla contaminazione. E poi secondo
me noi dobbiamo parlare della Shoah all'esterno, perché gli ebrei
hanno ricevuto la Torah per portarla al mondo. Il sacerdozio ebraico è
portare la Torah - il monoteismo - nel mondo. È per questo che gli
ebrei sono stati ammazzati, non certo per i nasi, per l'economia, per tutte
queste stupidaggini... I tiranni hanno sempre odiato gli ebrei: in una
democrazia matura non esiste l'antisemitismo, al massimo ci possono essere
forme - come dire - "ragionevoli" di sarcasmo giudeofobico. L'antisemitismo
è legato al fenomeno tirannico, perché l'ebreo è l'unico
che non piega il ginocchio davanti a chicchessia, perché ha un solo
padrone: è un padrone che non si vede, il suo nome non si può
nemmeno pronunciare. E l'ebreo non si inginocchia neanche più davanti
a Lui. È per questo che Hitler in un'intervista poco conosciuta
disse: "O noi o loro." Sapeva che finché ci fosse stata in giro
un'oncia di spirito ebraico, lui non sarebbe stato al sicuro. C'era già
stato qualcun altro, molto tempo prima, che voleva sterminare tutti gli
ebrei in Persia: il famoso Hamman, il ministro del re persiano Assuero,
come racconta il libro di Ester. Perché voleva sterminarli? Perché
tra tutti i dignitari Mordecai l'ebreo era l'unico che non si inginocchiava
quando lui entrava. Che cosa voleva dire? Non riconosceva il potere. Abramo
è l'uomo che spezza gli idoli, che sono la forma cultuale della
tirannia, è il mediatore religioso del processo tirannico, che più
tardi assume le forme sofisticate dell'ideologia, del partito eccetera.
Abramo dice che non ci sono padroni per l'uomo, che l'uomo è libero,
che l'essere umano è santo, intoccabile e inviolabile. Come possono
i tiranni non odiarti per questo? Spezzi tutti i loro giochi, dichiari
che gli esseri umani sono uguali perché hanno un solo padrone -
l'Altissimo - e hanno un solo genoma, Adamo. Se ne sono accorti un po'
tardi, gli scienziati. Ma quel genoma è anche un genoma etico: nessuno
può dire "il mio progenitore era migliore del tuo".
Dobbiamo avere la piena consapevolezza
di ogni piccolo tassello. Ben Zimet ha seguito questo percorso, dal witz
alla favola, vi ha messo qualche racconto...
È andato anche a ricercare in un patrimonio orale di miti e di favole molto antichi, accostandoli a forme letterarie più recenti...
E arriva a Kafka, per fare capire
che siamo nello stesso contesto. E per farlo va contro la logica dei generi,
che è totalmente estranea allo spirito ebraico. Perché il
teatro del Novecento, il teatro moderno, nasce con un contributo fondamentale
della scena della yiddishkeit? Perché nella yiddishkeit
si passa dal racconto al canto e alla danza, non c'è soluzione di
continuità, non c'è la logica aristotelica. Questa divisione
non appartiene all'ebraismo: in sinagoga mangi, dormi, preghi, c'è
il trasporto mistico, la serietà più estrema, e subito dopo
ridi. Questo atteggiamento corrisponde all'urgenza della vita, che è
al centro del sistema etico ebraico. E la vita non può essere compartimentata,
ha un movimento irresistibile. E tu devi assumerti le tue responsabilità
sulla vita, ma non possono essere schematizzate a priori dal potere, da
un qualunque potere. È così che quando vai in sinagoga la
gente parla, mangia, litiga... vive!
La solennità non può
diventare un laccio, c'è il momento di grande solennità e
concentrazione, ma poi c'è il momento dove si ride. Guai al momento
in cui si diventasse lugubri! Si vedevano - e si vedono ancora - questi
ebrei vestiti di nero, tutti pensavano che fosse gente lugubre: invece
balla, canta e celebra la vita in tutto quello che fa. Per chiarire il
non moralismo ebraico: come ebreo, tu hai 613 precetti da osservare, ma
puoi trasgredirli tutti se c'è un vero pericolo di perdere una vita
umana. Altrimenti a cosa servono tutti quei precetti? E perciò ridere
e soprattutto ridere di sé stessi è uno dei grandissimi strumenti
della cultura ebraica: ha una funzione antiidolatrica.
Ecco perché l'umorismo è
connaturato all'ebraismo ed è anche uno dei suoi strumenti più
preziosi. Se l'ebraismo perdesse questa sua capacità - faccio un'affermazione
apodittica - diventerebbe inesorabilmente idolatrico. E cadrebbe nell'idolatria
dell'idolo peggiore: l'idolo che fai di te stesso. Guarda che cosa combinano
a Hebron con le tombe dei patriarchi... Invece Mosè si è
fatto seppellire nel deserto, di lui non c'è più traccia,
resta la grandezza di un balbuziente che ha tenuto testa al Padre Eterno
e al Faraone. Ma, per esempio, con quale argomentazione Mosè ha
salvato noi ebrei dall'ira del Padre Eterno dopo l'episodio biblico del
Vitello d'oro? "Eh", gli ha detto, "hai preso questa masnada di sbandati
dementi, e cosa ti aspettavi? Delle mammole?" C'è un Midrash che
racconta di questa vicenda, che per me è molto importante. Un re
sposa una schiava, e il contratto lo firma il tutore della schiava, come
se fosse il padre della ragazza. E tre mesi dopo che il matrimonio è
stato celebrato in pompa magna, il re vede che questa schiava fa la porca
con tutti i cortigiani e si dà a gozzoviglie, a orge, e allora vuole
ammazzarla. Arriva il tutore della schiava e chiede: "Che cos'è
questa storia?" "È una porca schifosa, una fedifraga." E il tutore:
"Maestà, non sapevi dove prendevi questa donna? Che cosa ti aspettavi
da lei? Sapevi attraverso quali sofferenze e quali dolori era passata..."
Allora il re: "Che cosa vuoi dire? Che dovrei riprovarci?" "Penso di sì."
E allora il re dice al tutore: "Be', riscrivilo tu il nuovo contratto,
questa volta io mi limiterò a firmarlo." Così forse sono
andate le cose fra l'Eterno e Mosè: il popolo ebraico era la meretrice
e la sposa, e sembra che la nuova Torah l'abbia scritta Mosè...
Allora capisci che l'ebraismo si muove continuamente nella logica del paradosso
umoristico. È una delle grandezze del Talmud: impedisce che la dimensione
del tetragramma ineffabile che è il divino nell'ebraismo venga sostituito
con degli uomini, o con un uomo. Persino l'umorismo nei confronti del Padre
Eterno viene esercitato perché quella dimensione del divino non
diventi un idolo.
Dichiarazioni raccolte da Oliviero Ponte di Pino
Contemporaneità
del teatro ragazzi
di Cristina Valenti
Prosegue con l'intervento di Cristina Valenti il giro d'orizzonte sul teatro ragazzi, innescato dalla Carta d'intenti redatta da Marco Baliani per il Teatro delle Briciole. Per le puntate precedenti, cfr. "ateatro 9" e "ateatro 16".
...
Quello contemporaneo
non è tutto il mio tempo
Essere contemporaneo:
creare il proprio tempo e non rifletterlo.
(Marina Cvaetaeva)
Premessa: insoddisfazione e paradossi
Dobbiamo essere grati alle Briciole
e a Marco Baliani per l'iniziativa di questo Cantiere dedicato al Teatro
Ragazzi. Un ambito nel quale i borbottii e le chiacchiere sottovoce sono
cresciuti negli ultimi anni senza farsi dibattito aperto, riflessione a
voce alta. Situazione, questa, abbastanza diffusa nel teatro, ma che nell'area
ragazzi sembra ormai appartenere alla sostanza più che all'aneddotica.
Scontento e malumore sono di fatto incapsulati in zone ininfluenti e tali
da non mettere in discussione il funzionamento della macchina generale
e i suoi fondamenti. Così la mia prima provocazione - accogliendo
l'invito di Marco Baliani alla franchezza del confronto - è l'esternazione
di una certa diffidenza: non riesco a credere fino in fondo che il Teatro
Ragazzi sia animato da una reale volontà di ripensamento, da una
sostanziale esigenza di rifondazione.
La riflessione sul presente del
Teatro Ragazzi è segnata (forse bloccata) da una serie di paradossi:
1. Il TR è attraversato
da un'insoddisfazione diffusa e apparentemente generalizzata (si parla
e si legge ricorrentemente di "degrado", "mediocrità", "stilemi",
"cliché") eppure costituisce un settore che (almeno rispetto ad
altri) gode di ottima salute, in quanto sistema economico, organizzativo
e distributivo florido e funzionante.
2. Il TR fonda la sua storia e
la sua vocazione sulla ricerca - e dalla ricerca deve costantemente ripartire,
rivolgendosi allo spettatore più esigente: quello che deve essere
conquistato al teatro sempre per la prima volta - eppure il suo sistema
distributivo e di mercato consiste in una macchina che può anche
prescindere dai contenuti e dal valore della ricerca.
3. Il TR si definisce per la specificità
del destinatario, eppure riflette ed opera in assenza di esso. Il destinatario
è sempre evocato, ma in assenza. (E anche un progetto tanto importante
in questo senso, come "Il tempo dello spettatore", stenta a veder inseriti
i suoi contributi in maniera organica e programmatica nella riflessione
del TR).
4. La storia del TR appartiene
a quella della ricerca (e il teatro di ricerca è sicuramente debitore
del TR in termini di acquisizioni di lunga durata: la drammaturgia della
narrazione; il problema del destinatario come questione complessa: etica,
artistica, comunicativa; la ricerca sugli oggetti e sulla figura; il confronto
con lo spettatore come scuola per l'attore...), eppure sono assai rari
gli scambi reali con gli operatori, i pubblici e la critica dell'altro
teatro: di più, sembra che gli scambi siano persino temuti, basti
pensare ai malumori che circolano attorno ai teatri che praticano il doppio
circuito (ricerca e ragazzi).
5. E' un teatro nato dall'aver
ucciso i suoi padri naturali (in quanto proveniente dall'esperienza ideologizzata
e antagonista dell'animazione, e quindi erede di un ripensamento radicale
del concetto stesso di spettacolo inteso come organismo formalizzato e
autosufficiente), eppure oggi stenta a costruire un rapporto reale con
figli dai quali farsi tradire, superare, mettere in discussione.
6. Il TR si fonda sul rito di iniziazione
al teatro, eppure tollera le condizioni meno favorevoli all'incontro (la
macchina distributiva del TR accumula repliche su repliche privilegiando
il dato quantitativo su quello qualitativo a scapito dell'attenzione alla
congruità degli spazi, alle fasce di età dei fruitori, alle
condizioni professionali degli attori - e le "vetrine" meriterebbero in
questo senso un lungo discorso...).
Questo insieme di paradossi fornisce
materia all'insoddisfazione attuale, che si esprime in particolare attraverso
i seguenti argomenti:
1. prevalenza del mercato
2. rinuncia alla ricerca
3. smemoratezza rispetto alle origini
("i ragazzi si sono persi per strada")
4. mancato superamento delle barriere
di genere
5. mancato ricambio generazionale
6. disattenzione alle condizioni
di fruizione
Ma, per quanto generalizzata, l'insoddisfazione
è il risultato apparentemente univoco di una serie di prospettive
assai eterogenee: che mescolano visioni squisitamente soggettive (generazionali,
ideali, poetiche) con dati strutturali e di contesto.
Cosicché nella scontentezza
attuale troviamo mescolati contenuti utili e atteggiamenti nostalgici,
tensioni al cambiamento e vezzi passatisti, necessità di rifondazione
e malcelati interessi alla conservazione.
La zona più sterile dell'insoddisfazione
è sicuramente quella che coincide con la nostalgia. Anche se è
una zona sincera e appassionata: legata alle biografie degli artisti e
degli spettatori che sono stati protagonisti degli anni irripetibili dell'invenzione
di un teatro precedentemente inesistente. La definirei nostalgia dell'adolescenza.
Storia: dall'invenzione antagonista
alla lunga durata della cultura
L'adolescenza a teatro (come nelle
arti in genere) è l'età della ricerca vera: esplorazione
di possibilità inusitate a partire dalla critica e dall'irrequietudine
verso il presente. Le generazioni teatrali e le invenzioni ad esse legate
si configurano nei primi tempi della professione, o prima della professione
stessa. Le fasi innovative durano un quinquennio e sono distanziate da
ventenni all'interno dei quali le invenzioni costruiscono ed affermano
i loro modi produttivi: è questa l'analisi che Claudio Meldolesi
applica al teatro del XX secolo, e in particolare alla vicenda che dal
metodo produttivo del grande attore porta alla regia critica e via via
fino all'epoca dell'attore funzionale e quindi alla "terza avanguardia"
degli anni Settanta. Ed è un modello che dà interessanti
risultati anche in riferimento al Teatro Ragazzi.
Fra il 1971 e il 1977 nascono le
compagnie storiche di Teatro Ragazzi: Teatro del Sole, Giocovita, Magopovero,
Teatro del Buratto, Teatro delle Briciole, Ruotalibera... Sono anni di
espansione
e radicamento, in cui un nuovo teatro conquista il proprio territorio,
a partire dalle esperienze anticipatrici del quinquennio precedente (che
aveva avuto come protagonisti Carlo Formigoni, Giuliano Scabia, Franco
Passatore, Remo Rostagno, Franco Sanfilippo, Mafra Gagliardi, Loredana
Perissinotto...).
Gli anni Ottanta portano a compimento
la parabola ventennale e segnano la fase della maturità,
che tiene dietro alle aperture creative dell'adolescenza artistica. Si
producono spettacoli più compiuti: agli anni dell'invenzione
seguono quelli dei risultati e delle opere. (Marco Baliani firma Oz
nel 1985 e Storie nel 1989; Carlo Formigoni firma per il Kismet
I
viaggi di Simbad nel 1984 e Cenere nel 1986; il Teatro Giocovita
realizza Odissea nel 1983, Pescetopococcodrillo nel 1985,
Il
corpo sottile nel 1988; le Briciole creano Genesi nel 1980,
Il richiamo della foresta e Miracoli nel 1982; nel 1983 nasce
il Teatro del Carretto; nel 1986 nasce Vetrina Italia a Cascina; dello
stesso anno è la prima edizione del Premio Stregagatto; dopo
Pietre,
del 1978, il Magopovero crea Moby Dick nel 1980,
On the Road
nel 1981, Galileo nel 1982, Il valzer del caso nel 1987 e
Van Gogh nel 1988. [Mi si perdoni la selettività sicuramente
poco sistematica dei dati, che vogliono solo essere indicativi di un percorso.
Ma una cronologia completa sarebbe davvero utile al lavoro storico: qualcuno
può indicarmene eventuali fonti, anche parziali, da collazionare?].
Nel corso degli anni Novanta avviene
un cambiamento sostanziale, che corrisponde alla fisiologia della vicenda
artistico-produttiva. Il Teatro Ragazzi è ormai un sistema strutturalmente
definito. Il suo modo produttivo ha esaurito la fase inventiva, ma porta
avanti la propria espansione in termini culturali: la cultura del teatro
ragazzi si afferma diffusamente e costituisce un patrimonio riconosciuto
all'interno dell'orizzonte più vasto della civiltà teatrale.
Significativamente, appartengono agli anni Novanta episodi emblematici
di sconfinamento e contaminazioni. Kohlhaas (1990) inaugura il decennio
aprendo al teatro in generale i risultati della ricerca sulla narrazione;
la Societas Raffaello Sanzio apre nel 1995 la Scuola sperimentale di teatro
infantile; dalla collaborazione fra teatro danza e teatro ragazzi nasce
Romanzo
d'infanzia della compagnia Abbondanza Bertoni (1997); altri danzatori
si cimentano col Teatro Ragazzi, insieme a compagnie della "ricerca"; sono
sempre più frequenti gli spettacoli pensati per il doppio circuito
adulti/ragazzi (si pensi alle produzioni di Quelli di Grock, del Teatro
Kismet OperA - in particolare nel suo versante di attività dedicato
all'handicap - del Teatro Due Mondi, della Ribalta, di Gigi Gherzi - con
le fuoriuscite verso le tematiche della marginalità e gli spazi
dei centri sociali...
Riassumendo: l'adolescenza
eroica del TR, l'epoca dell'invenzione ribelle, che ha mescolato impulsi
teatrali, politici, esistenziali è ormai distante decenni. E anche
la vicenda artigiana che ha capitalizzato le scoperte, definendo le linee
professionali e produttive di questo teatro ha compiuto il suo corso. Ha
detto Marco Baliani, provocatoriamente, in apertura di questo Cantiere,
che il TR è finito: dopo essere stato movimento, dopo essersi inventato
come settore, ora è mercato, cui tutti possono accedere [non importa
se animati o meno dal sacro fuoco]. E' come dire che all'invenzione è
seguita la vicenda produttiva, ed ora che anche questa si è esaurita
permane la stabilità (o l'istituzionalizzazione) di un ambito che
appartiene alla cultura del teatro, non più alle sue rivolte.
Domande: impatto e ricerca
Restano aperte due domande: perché
gli spettacoli attuali appaiono di minor impatto?
Seconda domanda: E' ancora possibile,
per il Teatro Ragazzi, ormai appartenente a una cultura di mercato, essere
teatro di ricerca?
Alla prima domanda risponderò
con una citazione. Judith Malina osserva che molti degli "scandali" del
Living Theatre sono entrati persino nel bagaglio di Broadway. Da un lato
è una cosa buona: vuol dire che lentamente sono stati capiti. Che
una certa ricerca espressiva da rivoluzione è diventata patrimonio
del teatro (che se ne abbia o meno la consapevolezza). Ma dall'altro lato
significa che non "forano" più: né il teatro, né la
coscienza, né il comportamento. "Anche se diciamo "Rivoluzione adesso!"
è più comprensibile di quanto non lo fosse nel 1968, ma non
ha nessuna importanza: possiamo dirlo finché vogliamo, che tanto
non otteniamo nulla. Che si dica rivoluzione o discoteca o rock and
roll o reebok, non importa: tutto è raggelato sotto la
sensazione di una perdita totale di speranza". Non è forse la stessa
cosa per il Teatro Ragazzi? Oggi gli spettacoli che produce sono per certi
aspetti anche più belli, più compiuti che in passato, presentano
certamente uno standard professionale mediamente elevato, eppure non possiamo
non provare nostalgia per l'adolescenza di questo teatro, per gli spettacoli
che ci hanno colpito con la forza dell'invenzione. Oggi che la cultura
professionale del TR è un dato di fatto, gli spettacoli appartengono
all'orizzonte di attesa del pubblico, sono già presenti nella coscienza
dello spettatore - più o meno specializzato - e godono perciò
di maggiore comprensione, ma di minore capacità di penetrazione.
Se non "raggelati" ci arrivano di certo più freddi, in seguito alla
"perdita di speranza" circa la possibilità che insieme al teatro
si potesse cambiare il mondo!
Ma questa è insoddisfazione
positiva o nostalgia? Cito ancora Judith Malina, la quale afferma che i
giovani oggi sono stanchi di sentirsi dire che tutto è già
stato fatto, e peccato per loro che non c'erano nel '68 o negli anni Settanta.
E' evidente che la ricerca deve continuare e i giovani devono farsene protagonisti,
seppure tenendo conto che l'orizzonte di attesa è dato, così
come il contesto produttivo e le sue acquisizioni culturali. E vengo così
alla seconda domanda.
Fare ricerca per i giovani che
si affacciano al TR - un teatro che esisteva già quando loro sono
nati e che, se fosse un individuo, sarebbe forse almeno settuagenario -
significherà lavorare nelle zone modificabili di un sistema dotato
di linee di funzionamento specifiche e definite, non solo in termini produttivi,
ma anche di mercato. Il nuovo, rassegniamoci, è giocoforza che nasca
altrove... voltando le spalle ai padri e trasmigrando chissà dove...
e altrove forse è già nato, o sta nascendo e nel giro di
un quinquennio forse ce ne accorgeremo...
Pensiamoci: il teatro ragazzi appartiene
attualmente alla cultura teatrale, non alla sua rivoluzione. Ci aspetteremmo
che un giovane che si affaccia al teatro di prosa senta gli stessi impulsi
riformatori che hanno animato i maestri della regia critica? Forse quella
del teatro ragazzi non è tanto nostalgia dell'adolescenza quanto
incapacità di pensarsi se non adolescenti: delizia di un teatro
che continua ad abitare l'infanzia... ma anche croce. E su questa croce
i giovani hanno precisamente posto l'accento (nella giornata di lavoro
dell'8 giugno), insistendo in particolare sulle questioni legate al linguaggio,
nella consapevolezza che una distanza si è irrimediabilmente consumata
rispetto a quell'immaginario infantile che negli anni Settanta si cercava
di immaginare. In questa prospettiva, ritengo, vanno compresi i temi da
loro posti: ascolto, laboratorio, pedagogia, necessità di reimparare
- parole che solo apparentemente sembrano riesumare antiche radici, in
realtà esprimono necessità di rifondazione.
Concludendo: investimenti e intenti
Venendo alle proposte (o agli intenti).
Il TR ha inventato il suo sistema, ossia il suo mercato, ed ora non può
che rispondere a quelle specifiche leggi. In quanto macchina economica
ed organizzativa gode di ottima salute ed è difficile metterla in
discussione proponendo un ritorno ai tempi della povertà e della
bellezza. Abituiamoci alla ricchezza, è stato detto nel secondo
incontro del cantiere: e interveniamo su quanto c'è di correggibile
(e di particolarmente intollerabile): ripensiamo le vetrine, le collocazioni
degli spettacoli, le modalità dell'incontro col pubblico...
E per il resto investiamo sui giovani.
Con progetti mirati, di cui i centri si facciano carico, creando le condizioni
perché le loro esigenze di ripensamento trovino modo di esprimersi.
Solo in questo modo, attraverso azioni concrete, la necessità di
rifondazione espressa da tanta parte del TR sarà credibile. Occorre
immaginare progetti di cui i giovani siano protagonisti fino in fondo,
senza tutoraggi, persino con quella possibilità di sbagliare che
Patrizio Dall'Argine ricorda nei suoi anni di formazione alle Briciole
(ma senza nulla togliere all'importanza della "responsabilità della
parola" e della scuola, o "skholé", di cui ha detto Carlo Bruni).
Il "teatro bambino" di cui parla Gigi Gherzi ha bisogno di un pensiero
forse non bambino, ma che conservi la freschezza dello stato nascente.
Il degrado che vediamo nel teatro ragazzi dei cinquantenni non è
rinuncia, è sfasatura rispetto alla contemporaneità dell'infanzia.
Su questo hanno dimostrato di interrogarsi i giovani. Qui poggia soprattutto
la loro insoddisfazione. Parafrasando Marina Cvaetaeva, i versi suonerebbero
così: "quello contemporaneo non è il teatro di cui siamo
eredi: creare il proprio teatro e non abitarne vecchie case gloriose".
Imola, 24 giugno 2001
Il
progetto "No Fret"
(ovvero
come ottenere fondi pubblici e privati per il teatro)
L'economia della cultura è
una delle ossessioni di "ateatro". Ne abbiamo già parlato in diverse
occasioni (vedi i servizi sul libro di Mimma Gallina Organizzare teatro),
e abbiamo già accennato al progetto "No Fret" (se n'è parlato
anche a Santarcangelo quest'estate).
E' un progetto specificamente
centrato sul "fund raising" per il teatro (insomma, ti insegnano come farvi
dare dei soldi per i tuoi scombiccherati progetti). Se vuoi saperne di
più, leggi qui sotto o vai direttamente al sito No
Fret.
In queste settimane il progetto
è giunto in una fase cruciale per la raccolta dei dati (che è
ovviamente un elemento fondamentale). "Nofret" ha diffuso e sta diffondendo
un questionario (lo puoi scaricare
anche da internet).
Intanto, se non l'hai già
fatto, riempilo (in fretta!!!). Il 28 settembre a Bologna ci sarà
una giornata di studio dedicata all'argomento (su "ateatro" troverai a
suo tempo il programma definitivo e materiali sulla faccenda).
Poi, visto che siamo in argomento,
la segnalazione di un paio di libri legati alla questione: Porta lontano
investire in cultura. L'opinione degli italiani sul rapporto impresa-cultura,
a cura di Bondardo Comunicazione, Il Sole-24 Ore, Milano 2000, una indagine
commissionata a Astra e Demoskopea per indagare, conoscere e capire l'opinione
degli italiani rispetto alle imprese italiane che scelgono di adottare
gli investimenti culturali nelle loro politiche di comunicazione; e Valore
cultura. Due anni di Premio Guggenheim - Impresa & Cultura, a cura
di Bondardo Comunicazione, Il Sole-24 Ore, Milano 1999, che presenta il
profilo e i candidati del Premio e offre un primo censimento ragionato
delle imprese italiane che hanno ideato e realizzato progetti culturali.
I partner di No
Fret
* Scienter (Bologna)
* ERT - EMILIA ROMAGNA
TEATRO (Modena)
* ARTECA (Vandoevre
- France)
* ARB - Aufbauwerk
Regierungsbezirk Leipzig GmbH (Leipzig -
Deutchland)
* Thomas Consulting
Group (Bologna)
* Moonlight Club
(Milano)
* Comune di Bologna
* Mainzer Kammerorchester
(Mainz - Deutschland)
* Musique sans Frontières
(Annecy - France)
* UIL-SIC (Roma)
Gli obiettivi
Il progetto No Fret si propone
di rendere disponibili informazioni significative circa le buone prassi
utilizzate per il fund raising nell'ambito dello spettacolo dal vivo, con
particolare se non esclusivo riguardo all'attività delle microimprese
non profit e non istituzionali. L'ottica con la quale si guarda al fund
raising è quella dello sviluppo delle opportunità di lavoro
per gli operatori artistici non commerciali, sfruttando metodologie gestionali
volte al miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza nell'utilizzo delle
risorse economiche (networking, controllo di gestione, ecc.) Al termine
del progetto risulteranno disponibili informazioni di natura qualitativa
sui diversi approcci al fund raising in ambito non istituzionale e verranno
promossi network informali per il migliore impiego delle risorse disponibili
nell'ambito di un settore di nicchia ma di grande impatto sull'immagine
e sulla percezione della cultura europea. Riflesso e conseguenza diretta
dell'esperienza di indagine all'interno delle microimprese del terzo sistema,
sarà l'individuazione delle forme di partenariato più idonee
a fornire un input stabile per gli interessi delle organizzazioni interessate
e nei processi decisionali.
Lo spettacolo dal vivo, pur caratterizzato
da un costante calo dell'occupazione anche a fronte di un incremento della
domanda da parte del pubblico, costituisce una delle espressioni più
apprezzate e significative della cultura europea, correlato com'è
al tessuto economico e produttivo, sia a livello locale - per l'effetto
di traino che eventi e manifestazioni artistiche esercitano nei confronti
di attività legate al turismo - sia su un piano più generale
- per il rafforzamento dell'immagine dell'Europa nel mondo. Il relativo
insuccesso sul piano occupazionale - in Italia, tra il 1996 e il 1999,
sono stati persi quasi 20000 posti di lavoro, pari al 12,6% della forza
lavoro complessiva impiegata nel settore - non può essere quindi
imputato ad una crisi di comparto, mentre sono numerose le organizzazioni
che, grazie allo sviluppo di buone prassi gestionali e creative, riescono
a garantire, in controtendenza, uno sviluppo delle opportunità di
impiego, nelle forme più svariate. Questi sono pertanto gli obiettivi
del progetto:
- sviluppo di metodologie efficaci,
evidenziando i fattori strettamente locali e quelli riutilizzabili e trasferibili
tramite l'impiego di benchmark elaborati ad hoc, anche sulla base delle
informazioni raccolte e rese disponibili dai partner al fine di consentirne
la trasferibilità;
- disponibilità di informazioni
soddisfacenti ed esemplari sulle prassi di individuazione delle risorse
economiche e del loro impiego in termini di sviluppo dell'occupazione nel
settore;
- diffusione di conoscenze circa
le soluzioni innovative individuate dalle micro-imprese, anche in tema
di networking;
- sviluppo di metodologie di monitoraggio
sull'uso delle risorse e sulla loro efficacia in termini di sviluppo dell'occupabilità
degli operatori artistici.
Le attività
Il tema da sviluppare nell'ambito
del progetto No Fret è la diffusione di buone pratiche per
il fund raising nel Terzo Settore, con particolare riferimento all'ambito
della cultura e della produzione di spettacolo dal vivo da parte di microimprese
non profit e non istituzionali.
Dato il particolare contesto nel
quale ci si appresta ad agire, il significato stesso della locuzione "fund
raising" assume un'accezione più ampia: non solo "insieme di strumenti
per il reperimento e l'incremento delle risorse finanziarie di un ente"
con finalità di sostegno agli obiettivi dell'organizzazione, ovvero
di espansione del mercato di riferimento, ma anche metodologia strategica
per la creazione di opportunità occupazionali, non legate alla singola
organizzazione ma connesse all'esistenza di una rete articolata di operatori
attivi, rete non rigida e non formalizzata, caratterizzata da grande mutevolezza
e flessibilità. No Fret è orientato in prima istanza
all'analisi delle metodologie di fund raising implementate dai partner
e all'individuazione dei migliori risultati ottenuti in questo campo, occupandosi
in seconda istanza di rendere possibile la circolazione delle buone pratiche,
osservate attraverso una concreta frequentazione dei partner, certificate
attraverso lo studio e l'applicazione di un sistema di benchmark in grado
di quantificare i positivi effetti di tali pratiche sull'occupazione e
disseminate attraverso la costituzione di strumenti di diffusione dei risultati.
Alla base di questo approccio sta
la consapevolezza che non sono sufficienti l'individuazione e la diffusione
delle buone pratiche, se le stesse non sono supportate da comparabilità
in un'ottica di benchmark, inteso come messa a punto di un sistema univoco
di confronto che renda possibile la misurazione dei processi di fund raising
e la loro trasferibilità.
Le fasi di realizzazione
Fase I. Incontri preparatori
- Definizione del calendario dettagliato
dell'attività di ciascun
partner.
- Assunzione di informazioni dettagliate
da parte dei partner operanti nel settore della produzione di spettacolo
dal vivo non istituzionale, relativamente alle prassi da essi adottate
in materia di fund raising e ai positivi effetti sull'occupazione da esse
prodotti, al fine di costituire un valido supporto alla creazione di parametri
di misurazione univoci (benchmark).
- Individuazione delle linee guida
e dei parametri da applicare per la misurazione univoca (benchmarking)
delle buone pratiche di fund raising e dei loro effetti positivi in termini
occupazionali, implementate dalle microimprese di produzione artistica
partner del progetto o ad esse connesse o analoghe per tipologia e attività.
- Definizione di un questionario
da sottoporre ad un campione di microimprese operanti nel settore della
produzione di spettacolo dal vivo, volto ad accertare le pratiche di fund
raising e gli effetti positivi sull'occupazione da esse provocati. Tale
campione sarà costituito dalle organizzazioni partner del progetto,
da organizzazioni ad esse legate da rapporti di collaborazione e da organizzazioni
analoghe per tipologia e attività, da contattare attraverso i partner
che svolgono servizi di informazione e raccordo per le organizzazioni del
terzo settore, come i Comuni (Bologna, Lipsia), le associazioni di formazione
e animazione (Moonlight e MOPL), istituzioni di spettacolo che collaborano
abitualmente con gruppi costituiti di artisti (Emilia Romagna Teatro).
In questa fase ci si potrà avvalere della collaborazione dell'Institute
of Charitable Fundraising Managers, che metterà a disposizione la
sua esperienza in materia di individuazione e promozione dei più
alti standard nelle pratiche del fund raising.
Fase II Rilevazione dei dati
relativi alle buone prassi nel fund
raising e sperimentazione della
loro trasferibilità
- Studio di casi esemplari di imprese
operanti nel settore della produzione di spettacolo dal vivo non istituzionale,
appartenenti alla categoria delle imprese non profit, al fine di documentare
un modello di gestione efficace ed efficiente dal punto di vista amministrativo
contabile.
- Somministrazione del questionario
elaborato nel corso della fase I, al su citato campione di imprese.
- Sperimentazione dello scambio
di buone prassi del fund raising tra le imprese partner del progetto ed
altre organizzazioni ad esse analoghe.
- Sperimentazione della trasferibilità
delle buone prassi del fund raising verificate dalle imprese partner del
progetto ad altre organizzazioni ad esse non omologhe.
Fase III. Analisi dei risultati
e realizzazione dei prodotti
- Analisi dei materiali risultanti
dalla somministrazione dei questionari
- Pubblicazione dei materiali (su
siti web, su supporti informatici, su carta)
Fase IV. Diffusione dei risultati
- Pubblicazione di un catalogo
- cartaceo e su CD rom - delle metodologie di fund raising più efficaci
ai fini dello sviluppo dell'occupazione nel settore
- Realizzazione di uno sportello
elettronico on-line di diffusione delle informazioni sulle buone prassi
del fund raising
- Organizzazione di due incontri,
da organizzarsi in due diverse regioni d'Europa, di disseminazione dei
risultati del progetto, volti altresì a raccogliere dalle microimprese
del settore dello spettacolo dal vivo indicazioni utili allo sviluppo delle
politiche comunitarie nell'ambito dell'occupazione a livello locale nel
settore dello spettacolo dal vivo.
Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
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