(111) 04/09/2007

Il nuovo forum di ateatro: non ti 6 ancora iscritto?
L'editoriale di ateatro 111
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and1
 
Chi l’ha detto che Bruxelles è grigia?
L'edizione 2007 del Kunsten Festival des Arts
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and12
 
Il doppio codice dei Motus
X (ICS) racconti crudeli della giovinezza a Santarcangelo
di Annamaria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and19
 
Per un'economia politica del corpo
La Biennale Danza 2007: Ismael Ivo chiude il triennio con l'edizione dedicata a Body & Eros
di Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and20
 
Le recensioni di ateatro Água di Pina Bausch
Alla Biennale 2007
di Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and21
 
Il Watermill Center della Byrd Hoffman Foundation a Long Island: il sogno di Robert Wilson è diventato realtà
Dalla moleskin di viaggi teatrali
di Claudia Provvedini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and27
 
Il dramaturg tra marketing e sovversione
Claudio Meldolesi e Renata Molinari, Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote, Ubulibri, Milano, 2007
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and30
 
Il rivoluzionario mite del teatro italiano da Roland Barthes alla Raffaello Sanzio
Giuseppe Bartolucci, Testi critici 1964-1987 a cura di Valentina Valentini e Giancarlo Mancini, Bulzoni, Roma, 2007
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and31
 
La cultura globale tra buone intenzioni e contraddizioni
La convenzione UNESCO sulla Protezione e la Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and40
 
Scade il 18 settembre il bando del Premio Tuttoteatro.com "Dante Cappelletti"
Al vincitore un premio di produzione di 6000 euro
di Ufficio Stampa

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and50
 
Pina Bausch, Platel, Cunningham, il butoh, Meredith Monk: il documentario in festival a Milano
Midoc 07 dal 12 al 30 settembre
di Ufficio stampa

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and81
 
Il nuovo progetto di Luca Ronconi a settembre a Ferrara
Una doppia Odissea dal 4 al 9 settembre
di Ufficio Stampa

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro111.htm#111and82
 

 

Il nuovo forum di ateatro: non ti 6 ancora iscritto?
L'editoriale di ateatro 111
di Redazione ateatro

 

Come forse alcuni di voi avranno già visto, ateatro ha un nuovo forum, che dopo una fase di collaudo sta iniziando a funzionare (ed è sempre più visitato e frequentato).
Ci sono le abituali sezioni del mitico forum di ateatro (1. Fare un teatro di guerra?; 2 Le segnalazioni di ateatro; 3. tnm; 4. Aiuto!!!), ma con molte nuove potenzialità e funzioni che pemettono di creare una vera comunità. E abbiamo anche inserito l’Agenda di ateatro con il calendario dei principali festival italiani (e provate a dare un’occhiata a quel che succede a Festivalia...).
Il forum lo potere trovare cliccando sulla homepage di ateatro (naturalmente), oppure all’indirizzo http://www.ateatro.it/forum. Ci potete trovare, tra l’altro, notizie sulla polemica Costanzo-Proietti per il Brancaccio, le primarie del mondo dello spettacolo (e potete votare anche voi), la destinazione del 50 milioni di euro del patto Stato-Regioni, notizie sui corsi per attori in diverse città italiane, e molto altro ancora. Ma naturalmente il forum di ateatro può vivere solo grazie al vostro contributo, alle notizie che inserite, alle discussioni a cui partecipate...
Insomma, non vi siete ancora iscritti? (ci potete mettere persino la vostra foto...)
Ed è online il nuovo ateatro 111, dove si parla tra l’altro di corpo ed erotismo, di una Bruxelles imprevedibimente colorata, di Motus e Lepage tra teatro e cinema, di dramaturg tra sovversoone e marketing, di scrittura scenica, della convenzione dell’Unesco sulla cultura, di Robert Wilson a Long a Island...


 


 

Chi l’ha detto che Bruxelles è grigia?
L'edizione 2007 del Kunsten Festival des Arts
di Mimma Gallina

 

Dopo dieci anni Frie Leysen ha lasciato la direzione del Kunsten festival des Arts di Bruxelles e passato il testimone al suo principale collaboratore, Chrisophe Slagmuydler (resterà nel consiglio di gestione ma si occuperà ora di un progetto dedicato ai paesi arabi). L'intervista Silvia Bottiroli sul numero 2/2007 di “Hystrio”, in un pezzo ricco di stimoli e molto opportuno (oltre che – mi è parso - giustamente affettuoso): la Leysen è nota in Italia per le presenze assidue, la curiosità e la partecipazione con cui ha scovato, coltivato negli anni e contribuito a lanciare a livello internazionale gruppi italiani come Raffaello Sanzio, Scimone Sframeli, Teatrino Clandestino, Fanny&Alexander, Kinkaleri. Gruppi scelti in coerenza con le linee anomale di quel festival, sempre alla ricerca – sul fronte europeo e extraeuropeo - di linguaggi diversi da mettere a confronto fra loro e con la scena locale.
Personalmente non ero mai stata al Kunsten, ma ne avevo osservato i programmi e avevo avuto spesso occasione di incontrare la sua direttrice in giro per il mondo, nell’Est europeo soprattutto, e di intuire il suo “fiuto” e di cogliere i suoi gusti, decisamente “radicali”. Ero curiosa del cambiamento.
Quando un festival italiano – o anche un teatro - cambia direttore il nuovo cosa fa? Difficilmente interpreta una linea a una tradizione, quasi mai “studia” i programmi passati (neppure si legge i cataloghi), quasi sempre “salva la situazione” con la sua forte personalità. E’ anche colpa dei criteri con cui i direttori sono nominati, ma è anche per questo che non abbiamo istituzioni, o quasi, ma al massimo manifestazioni. Forse perché all’estero non si fa così, forse perché la missione del Kunsten è stata disegnata con molta chiarezza e la personalità del direttore uscente è molto forte, o forse perché era da anni al suo fianco, Chrisophe Slagmuydler, che firma l’edizione 2007, ha intrapreso invece una strada che mi sembra segnata da una continuità sostanziale e intelligente e assieme da un gusto personale, che sarà più evidente nelle edizioni future, ma imprime comunque già nel programma di quest’anno, alcuni precisi segni (cercherò di coglierli dopo aver riferito del programma e di qualche spettacolo visto).



Regia di René Pollesch, L'Affaire Martin! Etc. ((c) Michèle Rossignol).

La continuità, è nella missione artistico-politica e nell’impostazione organizzativa del festival che sintetizzerei in tre punti essenziali.

- Sostenere opere artistiche contemporanee “singolari” (nell’accezione di originali e assieme d’autore), “raccogliere persone, far circolare e condividere idee, visioni, intuizioni provenienti da più parti del mondo, in un crocevia di influenze che sottolinea (e valorizza) le differenze e assieme indica l’incontro come possibile.
(Gli incontri – a mio parere - sono tali anche semplicemente nell’accostamento di spettacoli in un programma, e sappiamo che non sempre gli artisti si cercano a vicenda. Ma qui i gruppi circolano e si respira nelle sale e nel caffè-ristorante che è un po’il cuore del festival un clima di comunità, si avvverte energia, anche grazie alla presenza di un drappello di giovani “osservatori”, operatori e critici riuniti in un gruppo di lavoro-seminario. Una “tecnica” ormai molto diffusa ma che caldamente raccomanderei a tutti i festival perché contribuisce molto concretamente alla formazione di una società multiculturale di teatranti – se impostata con criteri motivati e non strumentali - il cui entusiasmo è contagioso per il pubblico e che garantisce quella particolare euforia e cordialità che si definisce di solito “atmosfera”).

- Aprire quel piccolo paese che è il Belgio con le sue due comunità – in fondo antagoniste - quella francofona e quella fiamminga, e favorire l’incontro delle scene locali con quelle mondiali e il rimescolamento dei pubblici.
Se i programmi dei teatri di Bruxelles sembrano aperti – anche a ospitalità internazionali, italiani inclusi - le separazioni fra le istituzioni e a livello produttivo sono invece rigide e una delle funzioni “storiche” del festival è proprio rimescolare le carte, distribuendo il programma in tutte le possibili sale cittadine – quindici per l’esattezza, facenti capo a organizzazioni delle due comunità: questa funzione è riconosciuta e condivisa dai teatri, che costruiscono una risorsa non irrisoria per il festival, mettendo a disposizione le sale – e spesso i materiali e gli staff – gratuitamente. Un festival internazionale deve a mio parere, mettere sempre a fuoco anche precisi obiettivi locali).
- Dedicare particolare cura ai gruppi, attraverso la pratica della coproduzione, i “ritorni”, l’incontro. La continuità di alcune presenze (anche per gli italiani che ho citato sopra) è una delle caratteristiche del Kunsten, ma a monte c’è una scelta che matura nell’incontro e nell’approfondimento delle poetiche di un gruppo il più possibile all’interno del contesto in cui opera.
La co-produzione è la conseguenza di questo metodo e la consapevolezza della funzione che un festival con questi orientamenti può svolgere nei confronti di gruppi non convenzionali: il budget per la produzione è di 1 milione di euro su un budget totale di 1.600.000 euro.

Il programma dell’edizione 2007 presentava all’interno una serie di filoni precisi, non certo casuali, ma assieme – ammette Christophe Slagmuydler - nati in corso d’opera dalle scelte e dalle riflessioni (le linee tematiche rigide e predeterminate – si sa - sono sempre deleterie, l’assenza di ”intuizioni” preliminari impedisce però di dipanare fili conduttori, fondamentali per costruire un progetto).



Rimini Protokoll, Das Kapital ((c) Lieven de Laet - Academie Anderlecht).

Un fil rouge è la ricerca delle tracce del comunismo, Pollesch a Berlino, Hermanis a Riga, Rajkovic e Jelcic a Zagabria, si chiedono fondamentalmente se ci sia (dal catalogo) “un posto oggi, in fase di neoliberismo trionfante, per altre ideologie”, se c’è un’alternativa al modello occidentale soprattutto in previsione di un processo più drastico di unità, ma forse di omologazione europea. Domande simili si era rivolto nel 2005 il festival di Wroclaw (che per inciso annuncia un’altra bella edizione in ottobre). “Gli artisti non esitano a risalire ai testi dei padri fondatori, come i Rimini Protokoll con Das Kapital o La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo di Forsythe” (entrambi tedeschi, da Berlino e Francoforte).

Un secondo filone – collegato - è l’immaginazione del futuro, ed è una “necessità” che si alimenta nella consultazione del passato e nella perlustrazione di una modernità degradata, in particolare nelle installazioni video (una sezione emozionante del festival)



Wooster Group, Didone ((c) Delphine Coterel - Academie Anderlecht).

E anche nella Didone del Wooster Group (dall’opera di Cavalli e Busenello) una fantascienza dal sapore antico (proiezioni dal film italiano Terrore nello spazio di Mario Bava, del 1965) entra in sinergia col barocco: era uno degli spettacoli più attesi, coprodotto con Edimburgo, e corrisponde a un filone di ricerca del Kunsten legato all’opera barocca e al gruppo americano, ma a mio parere anche uno dei più deludenti, forse proprio per la distanza fra le aspettative e la realtà: una combinazione non troppo riuscita e anche un po’ noiosa di tecnologia, opera e cinema nel teatro.
Un ultimo tema ricorrente riguarda il punto di vista dei ragazzi, dei giovanissimi e il loro linguaggio: ancora attraverso il video (gli adolescenti di Tallin mostrati da Anu Pennanen, Helsinki), e nel linguaggio delle parole e dei copri, anche violenti, col giapponese Okada, l’americano Maxwell, il sudafricano Grootboom.



Tokishi Okada, chelfitsch - Five days in March ((c) Rebecca Lee - Academie Anderlecht).

La presenza extraeuropea è uno dei punti interessanti del programma, e di questi tre autori in particolare.
Con Cinque giorni in marzo, l’autore regista, coreografo giapponese Toshiki Okada (Yokyo) colloca nei giorni dell’offensiva americana sull’Iraq una storia senza storia: le vicende minime (scuola, sesso, locali, discoteche) e i dialoghi-monologhi a due, tre personaggi di un gruppo di giovanissimi. Nello spazio minimo, spoglio e obliquo, in stretta prossimità con gli spettatori, il linguaggio di una crudezza teatralmente inaudita, ma vera e verosimile si associa all’ondeggiare quasi rituale dei corpi, alla gestualità tipica dell’imbarazzo quotidiano giovanile, e poco a poco diventa astratto, si trasforma nella danza disarticolata di una generazione disorientata. E così dall’impatto iniziale un po’ Tokyo decadente ci si trova trasportati in una rituale, sconosciuto e inquietante (insomma: da solo lo spettacolo valeva il viaggio).

Vorrei raccomandare Richard Maxwell e il suo gruppo The NYC Players, già presente alla Biennale di Castellucci - e oggi fra i più apprezzati autori e registi americani- ai direttori delle Scuole d’Arte Drammatica che vogliano ripulire gli studenti dallo stanislavskismo di maniera. E anche a chi – come me - è un po’ dipendente da telefilm polizieschi notturni americani (e non), pur cogliendone la fondamentale stupidità (o forse proprio per quella), o se no perché?



The NYC Players, The End of Reality ((c) Lieven De Laet - Academie Anderlecht).

Più che l’iperrealismo che si attribuisce al regista americano, mi sembra che il tono dominante di The End of Reality sia il punto di vista sarcastico su un mondo che si sente (o è?) minacciato. In un ufficio sotterraneo nel cuore di Manhattan sorveglianti e agenti catturano, ammanettano liberano visitatori-malviventi (o forse no), si battono in un esilarante karaté al ralenti e soprattutto si scambiano dialoghi senza senso (che ci sono tuttavia incredibilmente familiari: i dialoghi da telefilm appunto), in una recitazione non recitata. Minacce immaginate, minacce vere, una storia non storia, forse una metafora, banalità ineluttabili, televisione a teatro: il tutto con intelligenza e ironia. Alla Biennale Maxwell non ha entusiasmato, io a Bruxelles sono rimasta entusiasta.

Un realismo un po’convenzionale per una storia ambientata in una bidonville metropolitana per il sudafricano (di colore) Paul Grootboom e il suo numerosissimo gruppo di Pretoria. Protagonista è un giovane scrittore e il linguaggio del racconto si alterna al dialogo in una vicenda di criminalità: ambiente, azioni, linguaggio violento ma anche strutture sociali tradizionali (il gruppo, la famiglia, gli amici) e una certa ingenuità: nel voyeurismo delle scene di violenza sessuale (fra cui uno stupro iniziale), e nell’insistenza di citazioni letterarie classiche. Uno sguardo interessante tuttavia sulla scena sudafricana e l’opportunità di rompere il probabile isolamento di un giovane autore/regista il cui principale limite è forse quello di voler immettere e mostrare troppo del suo mondo e del suo talento (e a cosa serve un festival come questo se non a questo? la ricerca della qualità non può essere assoluta se l’attenzione è dichiaramene all’incontro e al percorso).



Per la regia di Alvis Hermanis, The Ice ((c) (c) Michele Rossignol).

Per concludere sugli spettacoli, vorrei raccomandare caldamente di non perdersi Alvis Hermanis, quarantenne, a mio parere uno dei massimi registi della scena europea contemporanea ancora quasi ignoto in Italia (ma prossimamente a Modena, a metà ottobre, con Sonja). Col suo Nuovo teatro di Riga (Lettonia) porta al Kunsten Il ghiaccio. Una lettura collettiva del libro con l’aiuto dell’immaginazione a Riga. Il libro in questione è un romanzo best seller della contro-cultura russa contemporanea, Ghiaccio appunto, di Vladimir Sorokin. Violenza e depravazione sessuale in una vicenda fantascientifica (ancora una volta): la ricerca perversa di costruire una razza pura che trionfi su una società corrotta, in un’Unione Sovietica fredda e conformista. La ricerca e la scelta di regia spiazzante – e quello che è sorprendente in Hermanis è che ogni spettacolo è completamente diverso dai precedenti - consiste nel presentare il romanzo in una lettura collettiva (“con l’aiuto dell’immaginazione” appunto). I numerosi e bravissimi attori (quelli impegnati con continuità nella compagnia), seduti in circolo (il pubblico a loro volta sui quattro lati), leggono e si limitano a mimare alcune scene. Il racconto tuttavia è mostrato e documentato agli spettatori anche attraverso book, consegnati dagli attori a ciascuno spettatore e contenenti riproduzioni, fotografie e fumetti – spesso pornografici - cui si affidano i passaggi più crudi (fra il malcelato imbarazzo deglispettatori).
Erotismo e voyeurismo anche in questo caso: un altro filo conduttore del festival, di quelli forse, che si scoprono a posteriori ma che collegano in modo sorprendente stili fra loro diversissimi.

(Per ulteriori informazioni su Hermanis rimando alle cronache di Massimo Marino da Nitra su “Hystrio” e al mio reportage da Wroclaw su atetaro)

Ci sarebbe ancora molto da dire, spettacoli e installazioni di cui dare conto, l’assenza degli italiani da commentare (niente di davvero nuovo scoperto per quest’anno dal Kunsten: ma notiamo Ronconi, Celestini e Emma Dante nelle stagioni di altri teatri della città), ma vorrei lasciare una riflessione finale a quello che mi sembra di intuire come marchio di novità del nuovo direttore. Mi aiuta proprio un’intervista a Hermanis quando, a domanda sulla programmazione del suo spazio a Riga risponde: niente che piacerebbe a Frie Leysen, niente di “radicale”. Penso che con questa battuta il regista lettone rivendicasse in realtà la “radicalità” della “sua” ricerca, incentrata sugli attori e sull’evoluzione di una tradizione tutta legata al teatro psicologico e di parola, possibile solo attraverso l’esasperazione di questa tradizone, e la parola. Fra gli spettacoli più emozionanti che ho visto – e di cui ho dato conto - un elemento comune è l’importanza fondamentale attribuita al linguaggio verbale (alla ricerca sul linguaggio), in una connessione strettissima con il gesto, ma pur sempre in una valorizzazione della parola “teatrale”, tendenzialmente estranea alla tecnologia (Didone a parte). Un orientamento che non mi sembra caratterizzasse le edizioni precedenti, e che trova una compensazione nella estrema cura della sezione video e installazioni. Quasi in una ricomposizione e in un dialogo a distanza dei codici. Può essere un caso, o può essere la necessità avvertita di ridimensionare l’utopia della multidisciplinarità.
Quanto a Chrisophe Slagmuydler che ha meno di quarant’anni e cui facciamo come ateatro i migliori auguri per le prossime edizioni. cui si dedicherà a tempo pieno (perché i direttori di festival seri non sono part-time) con l’augurio anche di trovare qualcosa in Italia, tende a sottolineare la continuità, il lavoro d’équipe, la missione del festival. Ma non esclude che quelli che mi è sembrato di cogliere siano primi segni di un impronta più personale.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Il doppio codice dei Motus
X (ICS) racconti crudeli della giovinezza a Santarcangelo
di Annamaria Monteverdi

 
Nell'edizione 2007 a dire il vero un po' sottotono, del festival Santarcangelo dei Teatri, Motus fa ancora una volta centro (e sold out ) con il nuovo spettacolo X Racconti crudeli della giovinezza, che aveva debuttato poche settimane prima in versione provvisoria alla Biennale di Venezia nella sezione danza.



X (ICS) è prima di tutto un progetto aperto che mette in cantiere contemporaneamente uno spettacolo e un film ed è costruito intorno a tre fasi di lavoro organizzate tra l'Italia, la Francia e la Germania: la prima è debuttata alla Biennale di Venezia lo scorso giugno con una definizione della costruzione scenografica, un abbozzo di drammaturgia e una parte del video (costituito da vari cortometraggi) girato nelle periferie della riviera adriatica. A Santarcangelo la compagnia ha mostrato proprio questa prima sezione.
La seconda fase è prevista per il 15 novembre 2007 a Valence presso la Scène National Lux con un allestimento dello spettacolo in versione francese e la creazione di nuovi cortometraggi girati per l'occasione tra Valence e Grenoble. Terza fase: corrisponderà alla presentazione del lavoro ad Halle, nella ex DDR, presso il Festival Theater der Welt nel giugno 2008; alcune aree industriali oggi in disuso e abbandonate dalla popolazione molto significativamente entreranno nel lavoro video.



Il progetto si concluderà con la postproduzione di un'opera cinematografica che manterrà testimonianza delle varie residenze internazionali. Un vero progetto di intermediate theatre, per usare un termine oggi parecchio in voga? In realtà mi piace definire questo spettacolo l'avanguardia di un double coding theatre, uno spettacolo in cui saltano le gerarchie e le preoccupazioni di specificità del mezzo per dare vita a una narrazione espansa, doppia, contemporanea tra cinema e video, graphic e videogames art e teatro con un libero nomadismo di linguaggi già ampiamente sperimentato dal gruppo nelle precedenti prove teatrali (da Twin rooms a Splendid's, da Come un cane senza padrone a L'ospite) contro ogni tentativo di totalizzazione e genere.
E' una rinuncia a un riferimento unico, stabile e stanziale (di stile, di linguaggio); del resto nomade e ribelle agli schemi è la vicenda narrata di due ragazzi, simboli di una generazione inquieta, tra degradazione urbana ed erranza esistenziale con un sottofondo di paesaggio da "bordo stradale": sentimenti a brandelli in una città selvaggia, giovani vite umane ai margini perennemente vaganti e in bilico, forse in frantumi, comunque precarie ma la cui precarietà è vissuta con un sotterraneo senso di euforica libertà nelle pieghe della città tra ipermercati e angoli industriali abbandonati (i famosi "non luoghi della surmodernità" di Marc Augé).
Spiega la compagnia:

Scegliamo una formula ibrida, brevi cortometraggi come cartografie immaginarie di personaggi immersi nelle inquietanti urbanizzazioni periferiche e, sulla scena, corpi, racconti fatti di corpi, messi a nudo e confronto con il mutare della pelle e del desiderio, tra dolore e leggerezza, perché il passaggio di tempo non può e non deve essere necessariamente sfavorevole, ma farsi fonte di nuove risorse.

Il corpo della bravissima attrice-danzatrice Silvia Calderoni che incarna a pieno lo spirito Motus e la sua filosofia postmodern, funziona come cesura, anello vitale di questa doppiezza dello spettacolo: spirito libero, vaga con i suoi pattini a distribuire volantini in uno shopping center mentre si consumano i riti cannibalici del consumismo quotidiano, e là incontra un ragazzo. Stessa inquietudine, stessa solitudine, stesso spaesamento. La storia è narrata, cantata, esposta per quadri visivi tra frenesia, sesso e suicidio. I luoghi periurbani evocano ancora una volta le periferie pasoliniane e i "frammenti disgreganti" e i "grossi pezzi sanguinanti di cruda esperienza" delle vite nei romanzi di De Lillo (le definizioni sono di Fredric Jameson).



Il teatro rincorre il tempo del video: gli attori (Silvia Calderoni, Dany Greggio, Sergio Policicchio, Alexandre Rossi, Nicoletta Fabbri) in una prova intensa e persino commovente, stentano a stargli dietro: ma è il cinema a inseguire la realtà, a offrirgli insomma il copione e la sceneggiatura o viceversa? Il video spia i personaggi nella loro fuga dalla realtà e insegue gli attori stessi nel loro lavoro di scavo psicologico, come già accadeva nell'Ospite. Un enorme schermo amplifica dettagli di una storia che il teatro può solo accennare: le immagini in bianco e nero pixellate sono sguardi evocativi di un turbolento e angosciante paesaggio-stato d'animo, ma sono anche schermate di videogames di altri tempi, mentre i ragazzi indossano improbabili mantelli da supereroi che combattono gli alieni. Come ci ricordano Daniela Nicolò e Enrico Casagrande,

sulla linea del percorso pasoliniano compiuto con Come un cane senza padrone e L'ospite, ci rivolgeremo, complice il mezzo cinematografico, a un paesaggio ancora una volta in radicale trasformazione...Brevi cortometraggi come viaggi tra i giovani e le periferie umane: i nostri attori sono stati filmati a conttto con i ragazzi che gravitano e si incontrano alle panchine dei parchi pubblici, di desolati centri commerciali, o nelle sale prove musicali. L'immagine anonima della panchina è usata da noi come simbolo della zona liminale tra città e campagna, come luogo di incontro e di attesa: cos'è del resto l'adolescenza se non una fremente, snervante attesa dell'età adulta che a volte giunge troppo presto o non arriva mai.

Vale la pena ricordare alcuni dei riferimenti letterari e cinematografici di questo spettacolo definito dagli autori "un viaggio all'interno dello junkspace contemporaneo": non solo gli amati De Lillo, Fassbinder, Gus Van Sant e neanche soltanto Easton Ellis offrono spunti e personaggi dai lucidi deliri e identità paranoiche e autodistruttive ma James Purdy, Douglas Coupland (non a caso lo scrittore della "generazione X") e il consumismo da lui descritto quale simbolo stesso della morte al lavoro, il Ballard de Il regno a venire, la generazione crudele di Nagisa Oshima. Un rinvio quello di Ballard giustificato anche dalla nota attenzione e attrazione da parte dell'autore di fantascienza per geografie anomali, per le periferie delle metropoli come territori psichici («Per questo le periferie mi interessano, perché vedo accadere il futuro. Lì ti devi svegliare al mattino e devi decidere di compiere un atto deviante o antisociale, perverso, foss'anche prendere a calci il cane, per poter affermare la tua libertà»).
Ecco le ragioni della scelta del tema e dei riferimenti dalle parole stesse degli autori:

Abbiamo scelto il sottotitolo dal film degli esordi di Oshima non tanto per citare quel film ribelle e criminale che sconvolse la cinematografia giapponese degli anni Sessanta, ma per l'eloquenza del titolo, il presupposto in esso conchiuso ovvero l'idea di racconto, lo sguardo rivolto all'indietro, all'evocare in svariate forme, momenti frementi, attimi di estasi, rivolta e narcisismo sfrenato vissuti in quel periodo magico e contraddittorio che è la giovinezza che in piena sindrome di Peter Pan (quella X Generation degli anni Novanta cinicamente descritta da Douglas Coupland) cade vittima del tranello consumistico che appiattisce la comunicazione sostituendola con narcisismi autistici, protesi alla continua alterazione della "confezione corpo", del suo "package" da merce di scambio amorosa.

ICS racconti crudeli della giovinezza Ideazione e regia. Enrico Casagrande e Daniel Nicolò.
Con Silvia Calderoni, Nicoletta Fabbri, Dany Greggio, Sergio Policicchio, Alexander Rossi.
In video: Adriano e Luio Donati, il gruppo musicale Foulse Jockers.
Produzione video Motus e Francesco Borghesi (p-bart.om). In collaborazione con Camera stylo. Riprese: Francesco Borghesi, Daniela Nicolò. Stefano Bisulli. Video compositing: Francesco Borghesi. Text Compositing: Daniela Nicolò. Sound Compositing. Enrico Casagrande. Elementi scenografici Erich Turroni.


 


 

Per un'economia politica del corpo
La Biennale Danza 2007: Ismael Ivo chiude il triennio con l'edizione dedicata a Body & Eros
di Fernando Marchiori

 

Forse non è stata la chiusura in bellezza che ci si aspettava da Ismael Ivo per questa quinta edizione della Biennale Danza, la terza sotto la sua direzione: tra le molte prime mondiali si sono visti anche spettacoli mediocri e scontate provocazioni, mentre la scena mediatica veniva occupata dalle polemiche intorno al presunto vilipendio alla religione in uno spettacolo che non meritava tanta attenzione. E tuttavia il coreografo e danzatore brasiliano lascerà il segno nella storia del giovane festival veneziano per la qualità complessiva della sua direzione, per la volontà di pensare e praticare la relazione tra la danza e le altre arti, la riflessione filosofica e scientifica, la politica. Dopo la svolta normalizzatrice nel settore Teatro, che dalle esplorazioni warburghiane di Romeo Castellucci è passato agli ordinati palinsesti goldoniani di Maurizio Scaparro, è stata la Biennale Danza ad aprirsi ai territori più avanzati – e a volte scivolosi – della ricerca. Queste edizioni saranno ricordate anche per la grande umanità dimostrata da Ivo nelle numerose occasioni pubbliche. Non si è mai sottratto al confronto, neppure di fronte agli attacchi pregiudiziali, talvolta volgari, contro le scelte conclusive della sua Biennale dedicata al corpo, ovvero il rapporto tra eros e danza. Se nel 2005 il tema era ciò che muove e trasforma il corpo dall’esterno (Body Attack) e nel 2006 ciò che muove e si muove dall’interno (Under Skin), quest’anno veniva indagata l’origine stessa del movimento, la sua natura pulsante, la sua scaturigine più profonda e irriducibile. Body & Eros, dunque, il corpo nella tensione amorosa, il desiderio che si fa corpo, l’energia sessuale che muove il gesto e crea il movimento, la danza organica di un pensare differente, incarnato e vivo. Perché il mio corpo non ha le mie stesse idee, come scriveva Roland Barthes, ma anche perché mai come oggi il corpo è luogo di sperimentazioni e di resistenza. Percorrere l’idea di Eros come un codice antico del rapporto con il corpo significava dunque riattivarne il linguaggio segreto nell’esplorazione dell’attuale condizione dei nostri corpi, di ciò che stanno diventando, e perfino del nostro corpo sociale. Ecco dunque le declinazioni erotiche del paradigma proposto da Ivo per il suo triennio: il corpo come spazio in cui si riflettono contraddizioni, bisogni, interrogativi del nostro tempo. E la danza, “disciplina dei tropismi amorosi” (Maria Nadotti), come mezzo per tracciare le lettere di un nuovo vocabolario corporeo.

Mercato del corpo



Ismael Ivo.

Accanto a The Erotic Body, un “polittico” di cinque ore no-stop di Marina Abramovic e 13 artisti del suo Independent Performance Group – una serie di azioni sovvertitrici di luoghi comuni su affettività, innamoramento e dintorni, attraverso l’esibizione di oggetti feticci e strumenti autoerotici o lavorando per segmentazioni e ingrandimenti di porzioni corporee – la scelta più forte e intelligentemente provocatoria, perché chiamava in causa lo spettatore e lo costringeva a farsi attore dell’evento, è stata il Mercato del corpo: vendita all’asta di danzatori e danze. Una vera e propria asta battuta da Rosanna Cancellieri nel salone nobile del Palazzo Contarini della Porta di Ferro. In catalogo sette diverse danze interpretate da altrettanti danzatori. Lo spettatore che avesse fatto l’offerta migliore si sarebbe assicurato il pezzo prescelto, eseguito poi esclusivamente per lui o per lei in una camera d’albergo. Già il “corpo frutta” di una seducente fanciulla offerto in banchetto agli spettatori in attesa dell’asta avviava il meccanismo ideato da Ivo: un gioco coreografico e insieme una sfida psicologica per danzatori e compratori, entrambi attori e protagonisti. Poi le fiaccole hanno accompagnato il pubblico nel salone, dove il disinvolto mezzobusto televisivo, con tono da imbonitore, ha proposto “l’incanto dei corpi messi all’incanto”. In pochi minuti, quasi un breviario multietnico della sensualità danzata, sette artisti hanno mostrato la loro “merce”: la danza del ventre di Abeer Will, la sinuosa geisha di Yui Kawaguchi, la danza africana della seduzione (geerewol) di Twana Rhodes, il flamenco di Miguelete, la go-go dance di un angelico Sebastian Corsten e il bolero dello stesso Ivo. Solo la dominatrix Michela Lucenti ha scelto tra il pubblico il destinatario della propria performance. Gli altri hanno atteso le offerte. Grande successo per Corsten e per la Rhodes, oltre che per lo scultoreo Ivo, naturalmente, la cui raffinata danza di muscoli underskin è stata subito “venduta”. Lasciamo al gossip locale le illazioni su quanto accaduto nell’intimità delle camere. Quel che ci sembra rilevante è che in questo caso è stato praticato alla lettera, e con ciò stesso rivelato e cambiato di segno, l’accurato esercizio di controllo che il mercato impone al fenomeno artistico: produzione, esposizione, compravendita, gestione. Il legame che si crea tra spettatore e danzatore ha percorso il discrimine sottile tra venditore e acquirente, tra espositore e voyeur. Si è trattato dunque di una riflessione sulla mercificazione come codice dei rapporti umani, in cui le parti possono confondersi e invertirsi. “Proprio i media – spiega Ivo nel catalogo del Festival – hanno sviluppato la comunicazione nella forma del voyeurismo. A cominciare dall’intrattenimento chiamato reality show, come il Grande Fratello, che spinge a spiare l’intimità che proprio i protagonisti svelano agli spettatori. D’altro canto alcune tradizioni vecchie di secoli pongono il corpo del performer nella sfera dell’arte come mercanzia.”


Censura del Corpo



Se già l’asta si prestava a sospetti e critiche, il Messiah Game di Felix Ruckert si è attirato quasi una crociata. Preceduto da polemiche veementi – quotidiani interventi del Patriarca di Venezia, interrogazioni parlamentari, appelli alla magistratura, richieste di censura preventiva e addirittura di scomunica ufficiale per artisti, organizzatori e spettatori – lo spettacolo è andato in scena al Teatro alle Tese dell’Arsenale senza incidenti né entusiasmi. In entrambe le serate, la risposta del pubblico è stata forte e composta: dentro, una platea gremita e attenta (con il sindaco Cacciari e i vertici della Biennale in prima fila al debutto); fuori, gruppetti di integralisti cattolici in preghiera, qualche leghista e qualche fascistello vanamente (tutti spazzati via, la prima sera, da un violento acquazzone). Prevedibilmente, non si trattava di “uno spettacolino”, come aveva dichiarato il Patriarca senza averlo visto, ma neanche di un’opera memorabile. Interessante il lavoro di dilatazione e disgregazione dell’iconografia evangelica, ma il risultato è apparso troppo lungo, a tratti noioso e pretenzioso. Quanto allo scandalo, alla pornografia, all’offesa alla religione, si è visto davvero “un sadomaso da educande”, come ha dichiarato Cacciari all’uscita. Gli undici danzatori sulla scena nuda ritrovano e reinterpretano nel proprio corpo le forme della tradizione artistica ispirata a episodi neotestamentari: il battesimo, la tentazione, l’ultima cena, la crocifissione, la resurrezione. La complessa trama gestuale così disegnata è frutto di un lavoro di astrazione, che decontestualizza e risemantizza figure e azioni seguendo l’ipotesi di una ambiguità nella rappresentazione cristologica, che spesso esprimerebbe emozioni contrastanti, sintetizzando nell’immagine del Messia sofferente la dialettica Padrone-Servo. A momenti di performatività impulsiva e fortemente strutturata, dove emerge la perizia tecnica del Ruckert allievo di Pina Bausch, si alternano lunghe scene statiche e prive di pathos, altre di imbarazzante ingenuità (la flagellazione “vera” di un ballerino che poi si dimena a terra), altre ancora di banale equivalenza (l’Ultima cena trasformata in un’orgia stilizzata e pudica). Le scene a due, a tre, gli assolo come gli interventi di massa moltiplicano scambi, incroci, improvvisazioni dei danzatori su un canovaccio fatto di poche regole relazionali e di costellazioni di giochi di ruolo, tra i quali i performer scelgono in base a uno sguardo o a un dispiegarsi random di rapporti di forza e di devozione. Ed è qui che lo spettacolo mostra i suoi limiti. Debole è proprio l’interazione fisico-emozionale che dovrebbe governare lo sviluppo dei pezzi intorno al motivo della dominanza e della sottomissione. A connettere l’immaginario gudaico-cristiano e le pratiche sadomasochistiche, come si propone Ruckert, forse non basta un hegelismo coreografico.

Estensione del corpo



Laboratory Dance Project.

Nutrita anche quest’anno la presenza di artisti asiatici, per esempio con il coreano Laboratory Dance Project in Position of body e Boulevard. Nel primo lavoro, l’oppressione femminile nel costume sociale tradizionale coreano viene indagata a partire da gesti eloquenti di esclusione e sottomissione: le danzatrici non possono scegliere (non entrano e non escono mai di scena); una di loro si afferra la gonna, abbassa la testa e nasconde il viso. Peccato che la coreografia di Sung Hoon Kim approdi a una grossolana figurazione dello scontro tra i sessi, su un Bolero di Ravel profilato a luci rosse. Il secondo lavoro è invece tutto maschile, atletico, scattante. Un hip hop con sonorità etniche per inscenare la fisicità di una band giovanile, scrutata da una coreografa, Mi Na Yoo, attenta a imbastire serialità verticali e rotolamenti a terra. Sinuosi e allegri, i ragazzi girano con le mani in tasca, si affrontano, giocano a pallone, lasciando intravedere qualche bella soluzione di squadra.



Kaiji Morijama.

Interessante poi lo spaccato della scena giapponese: da Kaiji Moriyama, con una Velvet Suite su musica originale eseguita dal vivo dal violinista Koichiro Muroya, al gruppo tutto al femminile Batik, che ha presentato uno spettacolo di denuncia della condizione femminile nel paese del Sol Levante – un tema ugualmente centrale nelle pur così differenti società asiatiche.



Batik.

In Shoku (che significa “toccare”) le sette ragazze vestite di rosso saltano urlando con le mani tra le gambe, come in un rito tribale. Poi una si alza il vestito e fruga tra le mutande di pizzo. Con ironia e disperazione insieme, danzano scostumate e rabbiose, scalciano, fanno il verso alle dive rock, a quelle del cinema, alla moda brasiliana. E’ un attacco violento contro gli immaginari d’importazione falsamente liberatori. E’ il principio femminile che rompe il fragile confine tra il “dentro” e il “fuori”. Come Batik, anche Fuyuki Yamakawa viene da quella fucina di talenti che è l’underground di Tokio. Dopo l’incursione dello scorso anno con il suo battito cardiaco amplificato, è tornato a Venezia accompagnato da una “hardcore punk band” in un happening sinestetico intitolato Spontaneous core. Mentre spara la sua musica tagliente, fatta di vibrazioni, ronzii, distorsioni di una chitarra suonata senza mai toccare le corde, alle sue spalle si esibisce una nota spogliarellista, Mash, che posa eloquente, prova abiti robotici, indossa un finto pene. Sullo sfondo scorrono crude immagini di operazioni chirurgiche e tutto lo spazio scenico, vibrante del pulsare cardiaco di Yamakawa, sembra trasformarsi in una estensione del corpo del performer. Accettare, come spettatori, questa invasione di campo vuol dire lasciarsi assorbire in un corpo esteso, dilatato, in un sistema circolatorio di sensazioni e di immagini mentali che ci trascendono. Può essere un’esperienza liberatoria. O insostenibile.

Nei dettagli nascosto, il segreto del tango

Non poteva mancare il tango, con due spettacoli dell’argentino Rodrigo Pardo. In Ognat (una specie di tango speculare, proprio come nel titolo), ai primi due brevi, strepitosi pezzi classici segue una serie di sguardi sul tango come “seduzione costruita”, precipitato formale di sensualità. Un ballerino impegnato in una danza a terra viene ripreso e proiettato sul fondale in presa diretta. Così almeno sembra all’inizio, tanto precisa è la simultaneità dei movimenti. Poi scarti e slittamenti, dissociazioni e dislocazioni delle immagini fanno apprezzare il lavoro di duplicazione dal vivo di una registrazione, lo sforzo di sovrapposizione che lo spettatore non riesce più a stabilire. In un altro pezzo classico, la musica si dilata improvvisamente portando nello stiramento del ralenti anche i movimenti dei danzatori. Un tango alla moviola, con posizioni e volute, di solito sfuggenti, per una volta percepibili in una presenza plastica che seziona ed esalta ogni parte del corpo, perché “anche il piede viene erotizzato nel tango”, come scrive Remi Hess nel catalogo. Sospesa la velocità del sincrono, gli spettatori possono scoprire i fondamenti del movimento, mentre sul fondo si proiettano le immagini di un amplesso. Altro pezzo: due danzatori rotolano in scena, danzano senza musica, scalzi, poi entra anche una donna in rosso, si spingono, si sostengono, si scambiano i ruoli in viluppi e figure che non sono più “tango” ma ne portano ancora i segni nascosti nei dettagli, là dove le forme sempre si conservano più a lungo e si rivelano a chi sa guardare. Pardo elabora il tango, lo disarticola e destruttura per ricomporlo o per scioglierlo in una danza che ne conserva in filigrana la struttura sincopata, la continua interruzione di direzione, la rottura, la sfida. Finalmente oltre i cliché, un tango che non si accontenta di sedurre lo spettatore, di rapirne lo sguardo, ma che guarda alla contemporaneità e se ne lascia trasformare. Una conferma è anche il Tango toilet danzato da Cristina Cortés e dallo stesso Rodrigo Pardo in un noto showroom veneziano, all’interno di un bagno di circa tre metri quadri. In questo spazio ridottissimo la coppia volteggia con ironia e millimetrica precisione, proponendo i passi tradizionali sul bordo della vasca, davanti allo specchio, sopra il lavabo, sul water, perfino alzando i tacchi sulle pareti e sulla vetrina oltre la quale il pubblico assiste divertito, seduto sugli scalini di un ponte, con la musica che esce dalle finestre dell’appartamento al primo piano. Interessante anche il gioco di riflessi voyeuristici tra pubblico e danzatori che alla fine salutano bucando la (trasparente ma reale) quarta parete, i volti degli spettatori (e le loro reazioni) che si specchiano sulla vetrina, gli sguardi interrogativi e curiosi dei passanti.


L’arte della seduzione



Lo spettacolo vincitore del Leone d’oro, The Art of Seduction del gruppo austriaco Liquid loft diretto da Chris Haring, è un altro esempio – giustamente il migliore tra quelli visti a Venezia – di lavoro sull’immaginario collettivo dell’erotismo. Con il musicista Andreas Berger e l’artista visuale Aldo Giannotti, Haring ha costruito dodici scene disponendole (alcune in successione, altre in contemporanea) in uno spazio circolare con gli spettatori seduti a terra, giocoforza sceneggiatori di sequenze differenti a seconda della loro prospettiva. Le tre danzatrici e i due danzatori (Stephanie Cumming, Katherina Meves, Alexander Gottfarb, Anna Maria Novak e Luke Baio) si producono in pose plastiche e in posture studiate nella loro struttura comunicativa, rivelandone la natura artificiosa, la trama convenzionale. Sotto coni di luci a stelo o contro il muro delle Tese alle Vergini – nome quanto mai suggestivo per uno spazio teatrale offerto al corpo e all’eros – verificano la tenuta di espressioni stereotipiche attraverso la ripetizione e la progressiva millimetrica modifica di frasi gestuali e vocali. Prende forma così uno studio, condotto sempre con precisione e ironia, sulla percezione e sul condizionamento. Anche la più inquietante deformazione è funzionale a una divertita analisi del gusto contemporaneo dell’esposizione del corpo. La vamp diventa grottesca, il macho ridicolo. Una risata può deformarsi fino alle contorsioni. Un danzatore-sedia con una coperta di pelo bianco accoglie una danzatrice tra mugugni di piacere e abbracci sempre più espliciti che innescano un divenire-animale danzato a otto arti. Da identiche coperte escono i mezzi busti di ragazze urlanti al microfono, il seno candido, i capelli sciolti, sirene ondeggianti nel mare di antiche formule di richiamo e adescamento. Si susseguono con leggerezza ammiccamenti, sorrisi, vocalizzi, rapidi svestimenti-rivestimenti, combinazioni di indumenti colorati, mentre il materiale sonoro e le stesse voci dei danzatori vengono dilatati e alterati in tempo reale. Prende vita un melodramma di sospiri e piagnistei distorti, dove le moine, i tremolii, gli spasmi diventano ritmo che disarticola le tecniche di seduzione, fino al giocoso e colorato danzare a terra dentro magliette tirate fino alle ginocchia, ruotate da una spalla all’altra, il gomito che esce al posto della testa, il piede che slarga, le braccia che girano e spingono dall’interno. Corpi desideranti e forse ancora prigionieri di ruoli e forme da svelare.


 


 

Le recensioni di ateatro Água di Pina Bausch
Alla Biennale 2007
di Fernando Marchiori

 



Na Young Kim in Água (foto di Jochen Viehoff).

Rischiavano di confondersi nei colori della nostalgia le immagini evocate dalle scarne parole di Pina Bausch nel ritirare il Leone d’oro alla carriera e quelle che scorrevano sullo schermo alle sue spalle – Blaubart, Kontakthof, Viktor, Café Müller... Ma il ritorno del Tanztheater Wuppertal a Venezia, pochi giorni dopo il premio della Biennale Danza alla coreografa tedesca, ha riportato i sempre tantissimi ammiratori sul terreno di una ricerca che da tempo non inclina più al nero, al tragico, ma piuttosto alla leggerezza di un ritrovato “dire di sì” alla vita nelle sue infinite, mutevoli forme. Nato nel 2001 tra Rio, San Paolo e Bahia, e presentato in esclusiva per l’Italia alla Fenice, Água prosegue l’approccio nomade a culture e forme danzate che la Bausch ha iniziato fin da Viktor, creato a Roma nel 1986, per poi spostarsi a Palermo, Madrid, Vienna, Los Angeles, Hong Kong, Lisbona, Budapest. Le tappe più recenti, dopo la breve “residenza” brasiliana, l’hanno portata sempre più a oriente: Turchia, Giappone, Corea, India. Vedere di nuovo uno spettacolo di Pina Bausch nel teatro che la consacrò con la grande personale del 1985, ha il valore aggiunto di un’emozione palpabile che unisce l’artista a un pubblico fedelissimo. Qui la compagnia tedesca debuttò nel 1981 con Kontakthof e al Malibran portò Nelken nel 1983. Due anni dopo, alla Fenice, in strepitosa sequenza, sbarcarono Blaubart, Café Müller, La sagra della primavera, I sette peccati capitali, Sulla montagna si è sentito un grido, 1980, Bandoneon e Kontakthof. A Venezia si vide anche Viktor, nel 1992. Poi la Bausch non volle più tornare, in attesa della ricostruzione della Fenice, dove nel 2002 porterà un altro spettacolo in prima nazionale: Per i bambini di ieri, oggi e domani. Il nuovo pezzo brasiliano (così la Bausch continua a chiamare i suoi lavori) si apre con verdi riprese di palme mosse dal vento, un colore e una freschezza che sarranno dominanti lungo le oltre due ore e mezza di spettacolo. Sugli schermi che chiudono il palco scorrono grandi immagini (girate da Peter Pabst, che come sempre, dopo la morte nel 1980 di Rolf Borzik, firma anche la scenografia) di un Brasile popolare e prorompente, dominato da una natura maestosa e fragile insieme: il Rio e la foresta amazzonica, palmeti, lagune, cascate, pescatori su fragili imbarcazioni che sfidano le onde oceaniche, suonatori di tamburo delle scuole di samba, passaggi di animali (scimmie, fenicotteri, tigri, gabbiani). Su questo sfondo, un affresco che sfugge a logori esotismi quanto a facili ambientalismi, si muovono i danzatori in sequenze che a volte presentano un personaggio idealtipico, altre descrivono un comportamento (singolo, di coppia, di gruppo), altre ancora raccontano una reazione, un sentimento, una paura. Diventano foglie, scimmie, vento. Diventano soprattutto ciò che sono, esseri umani, uomini e donne. Il metodo compositivo è quello ormai “classico” di Pina Bausch, che pone domande ai suoi performer e sulla base delle loro risposte – gestuali, vocali, narrative – costruisce una partitura con soluzioni di continuità analogiche o contrastive. Il montaggio paratattico dei segmenti coreografici esclude subordinazioni didascaliche o nessi funzionali a una narrazione. La giustapposizione di materiali anche molto eterogenei trova inattese corrispondenze espressive nella cornice sonora e in quella delle immagini proiettate, lasciando lo spettatore a sua volta libero di attraversare e associare immagini e figure senza intenzione alcuna di fissare una “storia”. L’attrazione amorosa e le relazioni di coppia sono tuttavia una traccia sempre riconoscibile negli spettacoli della Bausch: un uomo e una donna si corteggiano lanciando segnali luminosi dai loro abiti innervati di lampadine (i costumi sono di Marion Cito); un’altra donna respinge l’innamorato elencando i propri difetti; un’altra invece si offre al primo uomo che passa, il quale però la guarda e se ne va per la sua strada. Un danzatore in piedi su una sedia solleva una danzatrice in un abbraccio che sembra soffocarla e lei dimena le gambe in una fuga impossibile (la scena verrà ripetuta da dieci coppie). I corpi si svelano in movimenti quotidiani, oppure si lanciano in assoli potenti, così densi che vi si sarebbe potuto costruire un intero spettacolo. Ma la poetessa, l’ultima rivoluzionaria della danza, come è stata definita, sa che l’arte è spreco. Questi corpi di prorompente vitalità e seduzione sono costretti in asimmetrie e contrasti che marcano differenze e individualità. Il rifiuto del corpo ideale, che ha sempre caratterizzato la poetica del Tanztheater, si vede qui per esempio nelle diverse stature dei danzatori, nell’accostamento di tecniche assai lontane, nella formazione di coppie spaiate. Così le due danzatrici più basse di statura sono spesso in coppia proprio con i danzatori più alti. In una scena che in altri tempi (e con altra musica) avrebbe forse avuto un effetto inquietante, queste due danzatrici salgono a pieni nudi sulle spalle dei danzatori, come si arrampicassero sul tronco curvo di una palma tropicale, si ergono in piedi e poi si lasciano cadere in braccio al partner, ripetutamente, con abbandono e tenerezza. La musica: un catalogo del sound brasiliano, da Baden Powell a Louz Bonfa, da Gilberto Gil a Caetano Veloso in coppia con David Byrne, da Bebel Gilberto ad Antonio Carlos Jobim, cui si aggiungono canzoni di Susana Barca, Tom Waits, Julien Jacob e tanti altri. In varie occasioni vengono lanciate delle esche al pubblico: una performer vorrebbe raccontare una barzelletta, un’altra chiede ad alcuni spettatori la loro città di provenienza e poi azzarda previsioni del tempo per quel luogo gettando in aria con il piede uno scarpone; un danzatore si fa accendere una sigaretta; altri addirittura offrono il caffè in platea, i vassoi portati sulla testa (in 1980 veniva servito il tè). Più che un tentativo di coinvolgimento sembra forse un modo per ricordare agli spettatori che non solo del Brasile visitato dalla compagnia, qui si sta vedendo il volto, ma anche di quello fissato nell’immaginario turistico-mediatico di tutti noi. Quello che appare è anche un fantasma dell’occidente. Sfilano così i modi di salutarsi delle donne, i modi di camminare, di atteggiarsi, di stare in spiaggia. Ma anche i quadri di una solarità artefatta: tutti prendono il sole su divani bianchi di pelle (i divani, come i microfoni, tornano in varie scene, spostati, composti), poi si alzano sorridenti coprendosi parzialmente con teli da spiaggia raffiguranti corpi nudi che ostentano bicipiti da culturista, labbra siliconate, glutei e seni gonfiati. In un’altra scena, quattro danzatori, abiti succinti e coturni colorati, salgono dalla platea sul palco e lì si passano, alzandola per le braccia, una ragazzina sorridente (una danzatrice così piccola che sembra tale): un accenno alla pedofilia? Si rischiano inutili forzature interpretative. Meglio lasciarsi andare alle emozioni e registrare ancora un cocktail di sapore coloniale, una scena nella giungla con gli schermi che si alzano su una vegetazione notturna di ficus giganti puntellati di lucette, un’altra completamente bianca: schermi, divani e abito lungo di una danzatrice che prova gesti, posture e inviti, coinvolgendo le anche, i gomiti, il collo, i capelli in una danza sulle ipotesi di seduzione. E’ lei la prima a riderne, un po’ brilla. Alla fine, l’elemento naturale così presente nei capolavori del passato (le foglie secche in Blaubart, il prato verde in 1980, la montagna di argilla in Viktor), si scioglie qui letteralmente nella sostanza liquida, mobile, inarrestabile, nell’oro blu delle guerre dei poveri. Le imponenti cascate riprese da un aereo sembrano riversarsi sul palco. Una conduttura fatta con legni cavi accostati dai danzatori porta l’acqua dallo schermo fino al proscenio. La scena è così bella che non ci si stupisce di vedere fuoriuscire acqua vera dai quelle tubature improvvisate. Poi la coreografia idraulica si scompone, tutti bevono da bottiglie di plastica e si bagnano a vicenda spruzzando l’acqua dalla bocca, accennano a passi si danza, scivolate, ondeggiano seduti su tanti tavolini tondi, in una scena festosa e vociante. Certo un richiamo allarmato all’importanza dell’acqua per la sopravvivenza del Pianeta, ma anche uno sguardo di fiduciosa apertura, di saggia comprensione, verso questo incastro di natura e artificio, realtà e immaginario nel quale ci troviamo a vivere.


 


 

Il Watermill Center della Byrd Hoffman Foundation a Long Island: il sogno di Robert Wilson è diventato realtà
Dalla moleskin di viaggi teatrali
di Claudia Provvedini

 

Un migliaio di ettari a Watermill, Long Island, a due ore di pullman da New York: quindici anni fa Robert Wilson ha deciso che qui sarebbe potuto nascere il suo Byrd Hoffman Watermill Foundation Center dove dare residenza ad artisti, costruire spettacoli, collocare la sua strepitosa collezione di statue, vasi, sedie, quadri acquistati o ricevuti in dono da ogni parte del mondo, manufatti millenari o appena nati, anche dalle sue mani. Può dire di aver ormai vinto la sfida.
Al centro della tenuta domina un blocco di cemento quadrato (utilizzato una volta dalla Western Union per ricerche), ai lati si prolungano orientate nord-sud due ali simmetriche di metallo, con tante finestre; dietro c’è un bosco, davanti digradano lungo la scalinata piante varie, ciuffi di erbe altissime che si muovono al vento. “L’architettura è fatta di quattro cose: porte, tempo, spazio e linee, e queste ultime possono essere diritte o curve. Ecco, Water Mill gioca su questi elementi”, spiega il regista-architetto-designer.
Lo scorso 28 luglio si è festeggiato l’avvio definitivo del Centro con un megaparty aperto da Dita von Teese in reggicalze e reggiseno rosa che dondolava su un’altalena alla sommità di un bianco tendone da circo. Aiutato nell’organizzazione da tre giovani tedeschi e tre infaticabili donne, Wilson ha fatto piantare quindici abeti, disboscato tre aree, creato tre diverse pavimentazioni del terreno: aghi di pino, legno e erba triturata, una costellazione di pietre grigie da fiume su cui camminare provando differenti sensazioni (e posture dei piedi).
Tra gli invitati, architetti, scienziati, galleristi, pittoresca umanità mascherata in costumi stravaganti. Costato 350mila dollari, il “benefit” – tra aste di quadri, biglietti venduti per acquistare pupazzi giganteschi creati dai partecipanti al laboratorio, cena per duemila persone – di dollari ne ha fruttati due milioni.
Il blocco centrale in alto è aperto verso il cielo mentre da sotto proviene una “musica” da inferi, da cuore della Terra. “Ormai il Byrd Hoffman è aperto quasi tutto l’anno, tranne i mesi più freddi”, spiega il direttore Carsten Siebert, “e ospita laboratori dando la possibilità ad artisti di varie discipline di mettere a punto le loro creazioni sotto la guida di Bob”.
Lui è felice, col mal di schiena, ma felice: il più amato dagli europei, ma non dai connazionali, ha costruito il suo Centro non in un altro Paese - come Maestri del teatro suoi contemporanei, come il polacco Grotowski in Italia, l’italiano Barba in Danimarca e l’inglese Brook in Francia – ma proprio nel cuore degli Hamptons, i piccoli paradisi di Long Island dove i miliardari americani dell’industria tradizionale e del cinema hanno ville meravigliose nel verde o sull’Oceano. Il Centro ora, grazie anche al Board di amici combattivi e generosi tra i quali l’italiana Giancarla Berti, è guardato con rispetto (se non con amore) nel raggio di alcune miglia, fino a New York. Wilson però continua ad avere però Berlino, Mosca e Parigi tra i partner delle sue creazioni.


 


 

Il dramaturg tra marketing e sovversione
Claudio Meldolesi e Renata Molinari, Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote, Ubulibri, Milano, 2007
di Oliviero Ponte di Pino

 

Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote di Claudio Meldolesi e Renata Molinari (Ubulibri, Milano, 2007, 22,00 €) è l’ulteriore testimonianza di un riacutizzarsi dell’interesse per una figura cardine del teatro, che tuttavia resta per molti aspetti misteriosa, almeno in Italia. Per esempio i due autori del volume avevano preso parte al convegno sul tema indetto a Milano da Teatro Aperto (e testimoniato dal volume Il Dramaturg. Atti del convegno Walkie-Talkie, a cura di Teatro Aperto, Il principe costante, Milano-Pozzuolo del Friuli, 2004).
Già la perdurante curiosità per un ruolo distinto tanto dal regista quanto dall’autore (anche se per molti teatranti l’attività di dramaturg è stata propedeutica proprio a queste funzioni) è un primo sintomo di cui tener conto. Così come lo è la natura problematica di questo volume, con una prima parte (a firma di Meldolesi) che si vorrebbe più storico-teorica; e una seconda (quella di Molinari) centrata invece pragmaticamente sul percorso della “prima dramaturg del teatro italiano”. Anche se poi a ben guardare le prospettive si mescolano: lo storico procede per esperienze e suggestioni (per tentativi ed esperimenti volutamente non sistematici); mentre la dramaturg teorizza (e storicizza) con notevole autorevolezza, per evidenziare il filo rosso del proprio itinerario artistico.
Nel presentare il dramaturg al pubblico e ai teatranti italiani (che ne sanno poco), sarebbe stato molto semplice ridurlo alla sua storia, una vicenda quasi tutta interna alla scena tedesca, dalle anticipazioni settecentesche di Lessing (nella Drammaturgia d’Amburgo) alla rifondazione a opera di Brecht (con l’esperienza cardine nell’Acquisto dell’ottone), per approdare a Heiner Müller e Rainer Werner Fassbinder, fino alla situazione attuale, con la dicotomia tra “drammaturgia d’ufficio”, che lavora sul repertorio, sui copioni e sui programmi di sala (Hausdramaturgie); e “drammaturgia di scena”, a contatto con gli attori (Produktiondramaturgie); e menzionando altre distinzioni ancora più sottili, fino al bizantinismo. Oppure sarebbe stato possibile partire dai puntigliosi mansionari degli organizzatissimi teatri tedeschi per illustrare una figura di cui da noi pare avvertirsi la mancanza, forse soprattutto per la maggiore professionalità e una diversa divisione del lavoro, oltre che per la prospettiva culturale.
In sintesi che cosa fa il dramaturg nella sua terra d’origine?

Ogni odierno dramaturg tedesco fornisce al lavoro di scena e alla direzione nel suo teatro ausili quantitativi, qualitativi e intermedi: da un lato, documentazioni culturali o di uso immediato, informazioni sulle novità dammaturgiche e su giovani autori ingaggiabili; e, dall’altro, riconsiderazioni testuali e stimoli di ogni natura (...) può farsi traduttore quanto consigliere di autori incaricati di comporre testi ad hoc e artefice di stimoli maieutici, anche visivi e musicali, per gli attori. (p. 26)

Per riuscirci, nota ironicamente Hans Hillje, uno dei più interessanti dramaturg tedeschi delle ultime generazioni, chi vuol fare questo mestiere

deve saper “leggere con precisione”; sapere tutto il possibile; sapere “perché”; “fare esperienza, esperienza, esperienza”; trovare “un gruppo o un regista”; non sottomettersi ai modi di produzione; “inventare” ogni volta il teatro necessario “come se non avesse precedenti”. (p. 48)

Ma già nella strutturata realtà tedesca limitarsi a questo non basta. Perché, argomenta Meldolesi, il dramaturg ha una doppia anima: da un lato deve fare il modo che, nella complessa rete di relazioni di cui è fatta la vita teatrale (gli intrecci tra la direzione, l’autore, il regista, gli attori, il pubblico, la città, eccetera), tutto funzioni per il meglio. Al tempo stesso, il dramaturg deve evitare che la vita teatrale si sclerotizzi nell’autoreferenzialità, facendo in modo che la pratica scenica continui a essere percorsa da una dialettica vitale, animata da un bios necessario. In certe situazioni il dramaturg finisce per svolgere le funzioni di commissario politico (come garante della direzione, del partito, del regista, del consiglio d’amministrazione, del sindaco...); in altre può e deve invece creare squilibri, riportare sulla scena le diverse scelte possibili, destrutturando certezze e automatismi. Già nel teatro tedesco si contrappongono così due tipologie di dramaturg, “i manager e gli impegnati più o meno in cerca di sviluppi artistici” (p. 36).
E’ un’ambiguità che emerge anche da una delle più accreditate definizioni, secondo la quale sarebbe il “rappresentante degli spettatori”: da un lato può ridursi a supportare burocraticamene l’ufficio marketing, nella ricerca di spettatori-consumatori (fino magari a “spostare il suo occhio dalla scena al botteghino”, come si lamenta Wanda Monaco, citata a p. 152); dall’altro può garantire l’apertura del teatro alla società e alla città, fino alle sue istanze più marginali – di aprire la scena al reale. Insomma, come ogni intellettuale nei suoi rapporti con il potere, può scegliere di essere un guardiano del senso o un custode del desiderio, e finisce per essere insieme ambiguamente l’uno e l’altro.
In Italia, s’è già detto, la figura del dramaturg non si è mai affermata: l’unico a essere scritturato con questa qualifica da un teatro stabile è stato Renato Gabrielli, al Ctb diretto da Cesare Lievi (un regista che non a caso ha frequentato a lungo la Germania). L’esperienza si è conclusa nell’arco del quadriennio 1997-2001, anche in base alla constatazione che le funzioni svolte dal dramaturg all’interno degli stabili venivano svolte già da altre figure professionali (aiuti e assistenti del regista) o da altre strutture (ufficio studi, ufficio stampa).
Tuttavia non è questa l’esperienza che più interessa Meldolesi. Fedele a uno dei principi che informa tutta la sua carriera di studioso, ovvero il presupposto che “l’irrealizzato nutre la vita teatrale” (p. 29), passa in rassegna alcune esperienze affini e in vario modo riconducibili alla funzione del dramaturg in diverse culture teatrali, con particolare attenzione a Italia e Francia (e puntate in Spagna, Russia, Inghilterra e nell’area scandinava). Per scoprire, per quanto riguarda il nostro paese, addirittura una sorta di “criptostoria” che risale addirittura a Gustavo Modena e Arrigo Boito; la figura venne poi rilanciata da Gerardo Guerrieri, “talento poliedrico” di “filosofo-sceneggiatore-regista... traduttore e critico... [realizzatore di] collane editoriali e mostre memorabili” (p. 110). Fu proprio Guerrieri il primo a usare in Italia la parola per designare i compiti che Luchino Visconti gli aveva affidato, quando spiegava che

[Il “drammaturgo” è tenuto pure a] creare la parola, a farsi tramite, stimolare [i personaggi] perché parlino, incoraggiare a parlare, fornire i mezzi, le vie, le orecchie, creando così una drammaturgia sperimentale. (p. 111)

Al termine della sua analisi, Meldolesi giunge a due conclusioni. La prima, di carattere “storico-italico”, è che ai loro inizi gli stabili italiani si erano aperti alla collaborazione del dramaturg, “pur in incognito”, per poi abbandonarla e rimuoverla senza spiegare le motivazioni (p. 114). Il motivo è implicito in tutto il ragionamento di Meldolesi (che, non va dimenticato, è autore della ricostruzione più lucidamente problematica dello sviluppo della regia nel nostro paese, Fondamenti del teatro italiano).
Il dramaturg ha in generale il compito di “riattivare” – per riprendere la sua efficace espressione, contrapposta polemicamente all’abituale “ridurre” nostrano – i vari nessi e relazioni di cui è fatta la via teatrale, a cominciare dal nesso scrittura-scena. E’ uno “specialista altro, impegnato a prospettare svolte impreviste nei passaggi oscuri di scena e di scrittura” (p. 98) e, come insegna Tonino Guerra, “sa rendersi ‘necessario’ al regista perché riesce a cogliere il senso oggettivo dei ‘rimbalzi che le idee’ adottate conoscono nel film” (p. 103). Pratica una “dialettica disordinatrice” (p. 128) e deve “provocare all’originalità” (p. 149).

Da cercatore asimmetrico al lavoro di scena, il dramaturg dà vita ai suoi impulsi dopo che il bios della stranierità l’ha portato a immaginare aldilà del previsto (...) [la sua poesia è] ausiliaria ma non economica, vivente d’impure correlazioni ma dotata di un’organicità in rapporto con quella dell’attore e, quindi, compiuta solo all’esterno. (p. 125)

Una regia italiana sempre poco disposta a mettersi in discussione, disattenta ai problemi della drammaturgia contemporanea, era evidentemente poco interessata a farsi destabilizzare da un dramaturg. Volendo fare dell’ironia, si potrebbe insinuare che di una burocratica “dramaturgie d’ufficio” si sono preoccupati i consigli d’amministrazione degli stabili, con i loro vincoli e indirizzi politici. Alla riattivante “dramaturgie di scena” ha invece cercato di supplire il regista con la sua soggettività autoriale ed esiti a volte felici (tra tutti, vedi il caso di Aldo Trionfo). Più seriamente, come tentativi d’intreccio tra la nostra regia e la dramaturgie Meldolesi cita la collaborazione tra l’ultimo Strehler, quello del Faust, e Gilberto Tofano (che però non ebbe esplicitata la qualifica di dramaturg); e soprattutto le costanti pratiche di “dramaturgie registica” di Luca Ronconi, a partire dalla collaborazione con Edoardo Sanguineti per l’Orlando furioso nel 1968 fino a oggi.
La seconda conclusione – ma sarebbe più corretto parlare di un’avvertenza di carattere generale – è che, di fronte a un fiume carsico fatto soprattutto di eccezioni, “bisogna allenarsi a individuare la dramaturgie in quanto imprevedibile” (p. 160). Meldolesi ne elenca diverse e affascinanti declinazioni: tra tutte, la collaborazione di Jean-Claude Carrière con Peter Brook per il Mahabharata e l’icona di Tadeusz Kantor nei suoi stessi spettacoli; e ancora Ettore Capriolo per Massimo Castri, e Cesare Garboli ed Elsa Morante per Carlo Cecchi. Se ne potrebbero aggiungere altre, anche nostrane: basti pensare al percorso di Gabriele Vacis con Marco Paolini e Laura Curino quando misero a punto la formula del teatro di narrazione. E ce ne sono ancora, magari apparentemente meno nobili e tuttavia ricche di suggestioni, sulla scia del sodalizio tra Roberto Lerici e Gigi Proietti citato da Meldolesi: il lavoro di Giuseppe Bertolucci per Roberto Benigni e Sabina Guzzanti; il sostegno di Gino e Michele a molti comici degli anni Ottanta e Novanta, da Paolo Rossi ad Aldo, Giovanni e Giacomo; o, in televisione, la fortunata collaborazione di Giampiero Solari (dramaturg-regista di Paolo Rossi e altri) con Fiorello, Panariello o Celentano. Ma a questo punto la distanza da Lessing rischia di diventare eccessiva...
Renata Molinari parte invece dalla propria personale carriera di dramaturg, ricca di collaborazioni con i Magazzini (Artaud), Billi & Marconcini (una imprevedibile Medea in ottave), Luigi Dadina, Massimiliano Speziani (su Agota Krisztof), e soprattutto il Thierry Salmon delle Troiane e di Des Passions (ovvero I demoni di Dostoevskij). Se Meldolesi si preoccupa soprattutto del teatro di regia (e al suo eccesso paralizzante di senso), Renata Molinari (che ha nel proprio curriculum esperienze inaugurali con Grotowski e Barba, per il quale il problema della composizione drammaturgica è da sempre un nodo centrale) parte dunque dalla propria esperienza con il nuovo teatro. Con lucida consapevolezza inserisce il proprio itinerario all’interno dell’evoluzione del nuovo teatro, e per la precisione nel punto di convergenza tra “avanguardia e gruppi”: da una parte le realtà impegnate a lavorare sul segno teatrale e sulle suggestioni del post-moderno, dall’altra quelle – raccolte soprattutto nell’area del Terzo Teatro – che invece sbocciavano dal training, dal lavoro sul corpo e dall’esperienza personale. Semplificando, siamo alla fine degli anni Ottanta, alla confluenza tra un teatro di scrittura scenica e un teatro d’attore. “Nella dialettica fra avanguardia e gruppo si è delineata la spaccatura proprio sulla drammaturgia”: da una parte c’è un attore che enfatizza il vissuto, “mentre non si è sufficientemente oggettivato il processo di lavoro, come padronanza di strumenti e forme compositive” (p. 193); dall’altra lavorano registi che “sanno di cosa hanno bisogno, o almeno sanno cosa manca” (p. 170). Come dramaturg che “innesca cortocircuiti fra i soggetti del teatro” (p. 184), Molinari si inserisce dunque in questo vuoto, in una frattura – che è, ancora una volta, quella tra la regia e l’attore, tra la scrittura e il corpo (oppure, a voler scivolare verso una terminologia pericolosamente evocativa, quella tra il verbo e la carne; o forse meglio ancora tra la lettera di un testo e la costante necessità di interpretarlo per restituirgli la pienezza del senso in ogni determinato momento storico).
Quella di Molinari-dramaturg è dunque in larga parte una attività pedagogica: in primo luogo deve dare all’attore consapevolezza di essere anche autore (“a ogni attore, in determinate fasi del lavoro, si chiede di essere autore”, p. 198); e in secondo luogo deve fornirgli gli attrezzi necessari per svolgere questa ulteriore funzione, per diventare autore “dentro e attraverso” un testo.

Se riappropriazione era la parola d’ordine di questo movimento, tutto ciò ricondotto all’attore significava, per esempio, rivalutare il dato di esperienza personale dentro e attraverso un autore: la memoria individuale si affermava nell’incontro con la storia, la riscoperta del popolare si fondeva con la rivendicazione delle radici. (p. 190)

In questo suo “lavoro di creazione di strumenti per agire” (p. 237), il dramaturg ha dunque un rapporto particolare (e ricco di implicazioni) sia con il testo sia con la rappresentazione.
Thierry Salmon parlava di una “utopia del gruppo” che “sostanzia la nostalgia del testo” (p. 234), Grotowski notava che “il testo ci permette di superare la nostra solitudine” (p. 253). Rispondendo a queste tensioni, quello del dramaturg è

un comporre che è sempre riscrivere, un’autorialità – se c’è – che si definisce nella scrittura seconda (...) di servizio, vista non come atto fondante ma restitutivo: di senso, di esperienza, di vita. (p. 198)

Perché

il dramaturg (...) non racconterà mai in prima persona, ma sempre attraverso il racconto – e la scrittura – di un altro. (p. 220)

In questo emergono le analogie con la figura del traduttore (in parallelo Meldolesi aveva evidenziato la parentela tra attore e traduttore individuata da Guerrieri, sottolineando l’affinità elettiva tra attore e dramaturg; c’èchi invece sottolinea le affinità con l’editor).
Analoga stratificata complessità ha il rapporto con la rappresentazione. Per certi versi il dramaturg è il primo spettatore, quello che deve prevedere e condensare gli sguardi di tutti gli spettatori, svolgendo in questo anche una funzione critica.

Spesso, quando mi viene chiesto “che cosa fai tu, durante le prove?” rispondo: “Racconto agli attori quello che stanno facendo, quello che li vedo fare”. (...) io ri-racconto il testo alla luce di quanto è successo; e poi racconto quello che gli altri mi fanno vedere. Dico: guarda che tu mi stai raccontando questo. Non so che cosa tu mi volessi dire, ma tu mi stai raccontando questo. (p. 175)

E’ uno snodo intricato perché, come sanno bene i registi, non c’è necessariamente corrispondenza tra le intenzioni degli attori e la percezione degli spettatori. La regia (ovvero il montaggio) opera anche su questo, come aveva capito lo stanislavskiano Grotowski riflettendo sul Principe Costante nella storica interpretazione di Cieslak:

In un certo senso questa totalità (il montaggio) è apparsa, non sulla scena, ma nella percezione dello spettatore. Sede del montaggio era la percezione dello spettatore. Quello che lo spettatore captava era il montaggio voluto, mentre quello che gli attori facevano è un’altra storia. Fare il montaggio nella percezione dello spettatore non è compito dello spettatore, ma del regista. (cit. a p. 196)

In questa logica, è dunque il regista ad assumersi la piena responsabilità del montaggio (della rappresentazione o della scrittura scenica che dir si voglia), mentre il dramaturg

crea quello che negli spettacoli non si vede, una rappresentazione interna (...) l’attenzione del dramaturg dovrebbe quasi sempre essere rivolta nella direzione opposta rispetto al movimento della rappresentazione. Una sorta di contrappeso fisico nell’articolarsi delle scene, un contrappeso che non deve generare confusione, ma stabilità (...) rendere visibili i contatti reali fra lavoro d’attore e progetto di regia. (pp. 174-175)

Come si vede, è un lavoro sottile e profondo, che è insieme altamente oggettivo e altamente soggettivo, anche se implica ambiguamente l’annullamento della soggettività autoriale del dramaturg. E’, come annota Meldolesi, un “esserci non essendoci” (p. 126) che scava nel profondo: in questo un altro nesso, quello con la psicoanalisi, è potenzialmente ricco di implicazioni.
Al tempo stesso il dramaturg, culturalmente consapevole dell’orizzonte storico in cui si sta muovendo e della situazione generale della scena, diventa in qualche modo “levatrice della storia” del teatro, nel suo “riattivare” in momenti di stallo o di crisi.
Forse, allora, a voler ritornare alle ragioni di questo nostro interesse per il dramaturg, c’è la lucida consapevolezza di un momento di difficoltà del nostro teatro, su vari fronti. E il tentativo di trovare una leva per rimetterlo in moto, andando al cuore delle relazioni che lo animano.


 


 

Il rivoluzionario mite del teatro italiano da Roland Barthes alla Raffaello Sanzio
Giuseppe Bartolucci, Testi critici 1964-1987 a cura di Valentina Valentini e Giancarlo Mancini, Bulzoni, Roma, 2007
di Oliviero Ponte di Pino

 

Rivoluzionario dall’aria mite, Giuseppe Bartolucci è stato uno dei protagonisti della scena italiana dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, prima che la malattia e la morte gli impedissero di continuare il suo lavoro. Critico militante, Beppe ha sostenuto con preveggenza alcune delle realtà più interessanti del nuovo teatro, dopo averne offerto una possibile base teorica. Aveva la straordinaria capacità di cogliere subito, fin dalle prime acerbe e sgangherate prove di una giovane compagnia, il talento e la determinazione. Quando individuava in un gruppo il germe di una visione poetica e scenica, se ne faceva immediatamente pugnace paladino, impegnandosi tanto sul versante critico quanto su quello organizzativo-promozionale, attraverso riviste e convegni (a cominciare da quello di Ivrea nel ’67, quando firmò con Quadri, Capriolo e Fadini gli “Elementi di discussione per un convegno sul nuovo teatro”); e poi rassegne e festival (tra le altre Nuove Tendenze a Salerno, Opera Prima a Narni, Paesaggio Metropolitano a Roma). E magari lanciando con un occhio al marketing culturale una parola d’ordine d’effetto come “post-avanguardia” e “nuova spettacolarità”, “scrittura scenica” o “ritorno all’opera”, in grado di rendere visibile questa o quella nuova onda.
Valentina Valentini e Giancarlo Mancini hanno raccolto una serie in testi che abbracciano un ampio arco della produzione saggistica di Bartolucci, con il titolo Testi critici 1964-1987 (Bulzoni, Roma, 2007): in queste pagine il suo sguardo analitico incontra, tra gli altri, l’Orlando ronconiano e il primo Carmelo Bene, il Living e Wilson, Leo & Perla, Perlini, Scabia, e infine il Carrozzone e la Raffaello Sanzio degli esordi. Ma sono interessanti soprattutto i testi attraverso i quali imposta l’approccio al nuovo, attraverso un serrato confronto con la tradizione del teatro europeo e italiano.
Al centro della sua impostazione teorica, quella che gli permise di cogliere la novità e l’importanza delle esperienze del nuovo teatro, è il concetto – peraltro discusso – di “scrittura scenica”, messo a punto già negli anni Sessanta (“Mi pare di aver posto io il sigillo sulla scrittura scenica, dopo tante obiezioni di fondo da parte di Ferruccio Rossi Landi, e nonostante le infinite ripulse di grandissima parte del teatro italiano”, p. 325) e destinato a entrare nella testata della sua rivista, “La scrittura scenica-Teatroltre”, ventotto numeri (alcuni doppi) tra il 1971 e il 1983.
Questo grimaldello teorico scenica gli permise di superare una visione del teatro centrata sul testo e/o sulla regia (e sull’attore). Nell’impostazione di Bartolucci, almeno agli inizi, la scrittura scenica si poneva in un rapporto di interazione dialettica con la “scrittura drammaturgica”, e dunque si contrapponeva, oltre che alla concezione tradizionale del teatro, anche all’idea che del teatro potevano avere avanguardie sedicenti destabilizzanti e “sovversive” come il Gruppo 63, ancora legate a una dimensione sostanzialmente letteraria dell’evento teatrale.
Per Bartolucci gli elementi della “scrittura scenica” erano “tanto le parole quanto l’immagine, tanto il testo corporeo quanto il movimento, tanto gli oggetti quanto l’ambientazione; e i materiali erano drammaturgicamente sia in stato di frammentazione che di deformazione, sia di provenienza pittorica sia cinematografica, oltre che musicale e architettonica. L’insieme non procurava una contaminazione di generi, né era una forma di interdiscipliarietà; esso costituiva una modalità tutta italiana e originale rispetto alla tradizione italiana, di rivoluzione rispetto al passato del teatro italiano” (p. 325).
E’ interessante seguire la genesi della formulazione di questo concetto chiave da parte di Bartolucci. Fermi restando i padri fondatori Antoine e Stanislasvkij, condensa un’analisi della storia della drammaturgia italiana nella triade Praga-Marinetti-Pirandello (e s’intravede in filigrana la riflessione sulle didascalia drammaturgica, oggetto di un suo studio).
A permettere lo scarto teorico è però Brecht, che “ha presentito la varietà e la relatività dei sistemi semantici” (p. 51) e “ha deciso che le forme drammatiche avevano una responsabilità politica, (...) che la materialità dello spettacolo non è regolata soltanto da un’estetica o da una psicologia dell’emozione, ma anche e soprattutto da una tecnica della significazione” (p. 52), permettendo dunque di disarticolare e destrutturare il naturalismo e ogni sua pretesa di “naturalezza”. A innescare la riflessione è la lettura di Brecht operata da Roland Barthes (con le sponde di Planchon e Dort). Secondo Barthes, che Bartolucci cita e commenta in dettaglio:

Il postulato di tutta la drammaturgia brechtiana è che, almeno oggi, l’arte drammatica più che esprimere il reale deve significarlo. E’ perciò necessario che ci sia una certa distanza tra il significato e il suo significante: l’arte rivoluzionaria deve ammettere una certa arbitrarietà dei segni, deve dare la sua parte a un certo “formalismo”, nel senso che deve trattare la forma secondo un metodo appropriato, che è il metodo semiologico. (cit., pp. 50-51)

Si può notare di sfuggita la preferenza di Bartolucci per il primo Brecht, quello espressionista, e poi per quello dei drammi didattici, rispetto alle scelte che andavano allora per la maggiore e privilegiavano i testi più maturi e ideologicamente più risolti (o meno problematici).
Ma non è questo il punto. L’importante è che questa piccola rivoluzione copernicana, ovvero la consapevolezza che lo spettacolo teatrale fosse un sistema di segni, ha avuto un effetto dirompente, rispetto a una concezione del teatro come “traduzione” o sottoprodotto di un testo letterario.
Questa “svolta semiotica” ha accompagnato infatti la gestazione di una nuova idea di teatro, e in parallelo di una nuova critica (o meglio di un nuovo lettore, p. 320) in grado di valutare la complessità dell’intreccio di segni presenti nell’evento spettacolare (che poi un evento estetico non possa ridursi a produzione di segni ma metta in gioco altre variabili e zone psicofisiche diverse da una decodificazione semantico-culturale, questo è un altro discorso).
L’accenno al formalismo nella citazione di Barthes rimanda ovviamente alle avanguardie storiche del Novecento, che il realismo socialista aveva condannato proprio con questa accusa. E’ il secondo punto fermo della strumentazione con cui Bartolucci imposta la sua griglia critica: la continuità della giovane e fragile avanguardia italiana con le grandi esperienze del futurismo e della Bauhaus, come fonte di ispirazione e di legittimazione. E questo quando il nuovo teatro era ancora in embrione, poco più di una potenzialità o di una speranza.
Un altro aspetto che val la pena di sottolineare, e che oggi può apparire sorprendente. sono i costanti richiami di Bartolucci all’etica. Di fronte a una degenerazione del sistema teatrale già allora avvertibile (o almeno prevedibile) anche nel teatro pubblico, il rilancio di una moralità del teatro appariva l’elemento qualificante di qualunque tentativo di rinnovamento delle nostre scene (e siamo ancora negli anni Sessanta, quando la lottizzazione era solo agli albori...).
Anche se, alla fine degli anni Ottanta, il bilancio non è del positivo: se “la scrittura scenica uscì da Ivrea formalmente e tecnicamente in pieno trionfo, sbancando e terrorizzando il vecchio teatro italiano (...) la sua grande prova di forza fu la sua stessa débacle”. Perché nel corso degli anni Settanta, considerato il percorso dei vari Perlini, Vasilicò, Nanni, Marini,

questi gruppi si sono visti tradire dai propri stessi spettacoli per riduttività interna; la loro capacità di andare a fondo sulla propria espressività infatti è diminuita o si è celata via via per calcoli approssimativi, per calo di genialità, per mancanza di cinismo, per povertà di opposizione (...); d’altro lato le istituzioni, i critici, gli organizzatori, i politici, i produttori, assai vigili dell’andamento produttivo e artistico del teatro e dintorni, avevano nel frattempo preso respiro, nel considerarsi salvati dal Sessantotto e a riabilitare quel tanto di tradizione che non dico l’arte ma almeno il sistema gli concedeva di nuovo e regalava a mani aperte. (p. 325)

Questo alla metà dei dorati anni Ottanta, quando alla prima onda del nuovo teatro ne era già subentrata un’altra dotata come si vedrà di maggiore respiro: Carrozzone, Gaia Scienza, Falso Movimento, Santagata e Morganti, i nuovissimi – allora – Raffaello e Valdoca. Per riequilibrare i piatti della bilancia Bartolucci lanciava allora la sua ultima parola d’ordine, chiedendo di privilegiare l’opera “come mobilità e come nobilità della scrittura scenica” rispetto alla performatività e alla progettualità aperta che avevano contrassegnato le fasi precedenti.
Da allora di opere – buoni e ottimi spettacoli, che hanno avuto gran successo di critica e pubblico anche all’estero – il nuovo teatro italiano ne ha prodotte più d’una, anche se quella débacle e quella successiva, alla metà degli anni Ottanta, ancora continuano a pesare.
Anche per questo si sente con forza la mancanza di una figura atipica come quella di Beppe, anche negli slanci visionari e nelle fughe in avanti, in quello sguardo che era fatto prima di tutto di sensibilità al nuovo, di apertura alla forza vitale, di curiosità per l’aspetto perturbante delle esperienze estetiche. Ma era anche, proprio nel suo utopismo realistico, attento agli equilibri politici della scena e alle loro conseguenze etiche ed economiche.

Per concludere, un piccolo aneddoto che dà conto dell’apertura mentale e della curiosità di Bartolucci. Per presentare un numero monografico di “teatroltre” dedicato alla giovane critica (e forse nel 1982 ero giovane anch’io, anche se forse un vero critico non lo sono mai stato), con Paolo Landi organizzò una presentazione a Firenze, all’Affratellamento. A condurre la serata arrivò un bizzarro personaggio con un buffo cappellino sormontato da una piccola elica, che straparlava con forte accento romagnolo di piadine e pedalò. Nessuno di noi “giovani critici” aveva la più pallida idea di chi fosse. Qualche tempo dopo lo rivedemmo in tv, accanto a Renzo Arbore, in una trasmissione destinata a fare epoca, Quelli della notte. Quel tipo buffo che non conoscevamo - ma Beppe sì - era Maurizio Ferrini.

Sul concetto di scrittura scenica e sulle relative problematiche vedi anche, in ateatro 62, la recensione di Oliviero Ponte di Pino a Lorenzo Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Bulzoni, Roma, 2003.


 


 

La cultura globale tra buone intenzioni e contraddizioni
La convenzione UNESCO sulla Protezione e la Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali
di Mimma Gallina

 

E' entrata in vigore il 18 marzo 2007 la “Convenzione sulla Protezione e la Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali”, approvata dalla Conferenza Generale dell'UNESCO il 20 ottobre 2005, dopo la firma dei primi 30 Stati su 148 che si erano espressi favorevolmente (fra cui l'Italia, che ha ratificato il documento il 31 gennaio). Contrari Stati Uniti e Israele.

“La Convenzione nasce con lo scopo di rafforzare il dialogo tra le culture e il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali per l'individuo. Essa riconosce agli Stati membri la facoltà sovrana di elaborare politiche pubbliche a favore della protezione e della promozione della diversità delle espressioni culturali, nell'ottica di creare le condizioni per consentire alle diverse culture di prosperare e interagire liberamente in un mutuo beneficio". (www.unesco.it; il sito riporta la convenzione integrale in traduzione italiana)

Il documento è significativo per articolazione e spessore etico-teorico - e anche solo per questo vale la pena di soffermarsi a rifletterci. Allo stesso tempo costituisce il punto di mediazione delicato del confronto a livello mondiale di due visioni contrapposte rispetto alle attività culturali: le concezioni che privilegiano il valore non commerciale delle culture e la necessità di preservare pluralità e differenze; e dall’altro lato l’industria culturale e la sua capacità (e facoltà) di diffondere i prodotti in quanto merci, in coerenza con i principi di liberalizzazione acquisiti a livello mondiale.
La distinzione è tutt’altro che teorica. La Convenzione, apparentemente innocua, si muove su un terreno minato. Non è difficile ipotizzare che la vittoria a grande maggioranza delle logiche patrocinate in particolare dall’Europa (tanto dai singoli Paesi che dall’Unione) e dal Canada, a fianco dei paesi in via di sviluppo, dovrà fare i conti con l’applicazione concreta, con l’interpretazione dei trattati internazionali commerciali e di accordi bilaterali, con le stesse pressioni dell’industria culturale (che si sono naturalmente già verificate).
A questa contraddizione potremmo aggiungerne una più sottile ma forse non minore. La cultura si collega senza dubbio all'identità (degli individui, dei popoli), ma allo stesso tempo aspira/richiede/vive di aperture e confronti. Esiste il rischio che la sacrosanta "protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali" alimenti una visione prevalentemente "folklorica" e sostanzialmente conservatrice e isolazionista delle culture? Soprattutto presso i paesi in via di sviluppo, ma anche nelle periferie - e nelle Padanie - del mondo? br> Il documento introduce raccomandazioni (il principio di equilibrio) e antidoti in proposito (a partire da quello economico, con l'istituzione di un fondo), ma resta legittimo il timore che – come spesso negli atti dell’ONU - non si mettano in atto gli strumenti corretti per raggiungere finalità nobili (o che i fatti finiscano per ribaltare i fini).

Un riassunto ragionato della Convenzione Unesco

Un’articolata premessa indica nella diversità culturale una caratteristica innata e un patrimonio comune dell’umanità, che amplia le possibilità di scelta, costituisce una spinta allo sviluppo, è garanzia della realizzazione dei diritti umani, prospera in un contesto di tolleranza e giustizia sociale e favorisce la pace, lo sviluppo, l’eliminazione della povertà. Esprimendosi attraverso forme diverse nel tempo e nello spazio, le diversità culturali, incluse le diversità linguistiche, sono costitutive della pluralità delle identità, trovano fondamento nei saperi tradizionali (fonte di ricchezza materiale e immateriale) e nei contenuti, come anche nella creatività e nel rinnovamento. Valorizzano inoltre il ruolo delle donne nella società e delle minoranze. Tutto ciò va promosso e protetto dalla minaccia di estinzione e alterazione.
In particolare si ribadisce che “la libertà di pensiero, di espressione e d’informazione, e con queste il pluralismo dei mezzi di comunicazione, consentono il prosperare delle espressioni culturali all’interno della società” ed è la diversità delle espressioni culturali che consente agli individui e ai popoli di esprimere e condividere con gli altri idee e valori. La conferenza Unesco è inoltre “convinta che le attività, i beni e i servizi culturali abbiano una duplice natura, economica e culturale in quanto portatori di identità, di valori e di senso e non debbano pertanto essere trattati come dotati esclusivamente di valore commerciale” e constata “che i processi legati alla globalizzazione, agevolati dalla rapida evoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, se da una parte creano condizioni del tutto nuove per una maggiore interazione fra le culture, dall’altra rappresentano una sfida alla diversità culturale, in particolare per quanto riguarda i rischi di squilibrio fra paesi ricchi e paesi poveri.”
Gli obiettivi che la Convenzione si pone sono l’attuazione concreta delle premesse: proteggere, creare condizioni, promuovere, incoraggiare il dialogo, collegare cultura e sviluppo, rafforzare le cooperazione e la solidarietà internazionale. In particolare, “riaffermare il diritto sovrano degli Stati di conservare, adottare e attuare le politiche e le misure che ritengono opportune per la protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali sul loro territorio”. Chi contesta(va) questo diritto? Nella fase iniziale della discussione della Convenzione emerge con forza la posizione USA, secondo cui essendo i beni e le attività culturali merci destinate alla circolazione commerciale internazionale, l’Unesco non avrebbe l’autorità per stabilire regole vincolanti globali al riguardo, che competerebbero a organismi internazionale come l’OCM (Organizzazione Mondiale del Commercio). La convenzione segna un punto importante contro questa visione:

“Analogamente a quanto ottenuto con la convenzioni sulle biodiversità (che consente agli stati di porre delle barriere e dei limiti allo sfruttamento di certe materie prime ambientali), disporre di una Convenzione che protegga le diversità culturali consentirà agli Stati nazionali (e alle istanze sovra-nazionali come l’UE) di porre limiti e regole che altrimenti sarebbero considerati come ‘protezionistiche’”. (Bruno Zambardino La convenzione Unesco: la protezione e promozione della diversità culturale, in "Economia della Cultura", 1/2006, Il Mulino)

Le linee direttrici attraverso cui la Convenzione intende operare elencano alcuni principi guida: rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sovranità, pari dignità, solidarietà e cooperazione, complementarietà degli aspetti economici e culturali, sviluppo sostenibile, accesso, infine “principio di cultura e equilibrio”: “Quando gli stati adottano misure volte a favorire la diversità delle espressioni culturali, dovrebbero fare in modo di promuovere in modo adeguato, l’apertura ad altre culture” (quel "dovrebbero" significa ovviamente fare i conti con le sovranità nazionali, le condizioni economiche, gli accordi bilaterali eccetera).
Le indicazioni precise e gli auspici si intrecciano nell’elencazione dei diritti e dei doveri delle parti, che riaffermano le finalità, le prerogative degli Stati, individuano e suggeriscono alcuni strumenti operativi destinati a promuovere (nel quadro di uno sviluppo sostenibile) e a proteggere le espressioni culturali, in particolare nei paesi in via di sviluppo, tendono a favorire la partecipazione del pubblico e della società civile. La Convenzione istituisce infine un “fondo internazionale per la diversità culturale” gestito da un comitato intergovernativo, che interverrà secondo le finalità dell’accordo presumibilmente nelle situazioni più a rischio (approvata nel marzo 2007, l’applicazione della Convenzione è proiettata nel futuro e non è ancora possibile dare conto delle linee e dell'efficacia di questo fondo).
Merita particolare attenzione l'articolo 20:

“1. Le parti si impegnano ad adempiere in buona fede agli obblighi sanciti dalla presente convenzione e da tutti gli altri trattati cui partecipano. Così, senza subordinare la presente convenzione agli altri trattati, le parti: a) incoraggiano il sostegno reciproco tra la presente convenzione e gli altri trattati cui partecipano; b) quando interpretano e applicano gli altri trattati cui partecipano o quando sottoscrivono altri impegni internazionali tengono conto delle pertinenti disposizioni della presente convenzione.
2. Nulla nella presente convenzione può essere interpretato come modifica dei diritti e dei doveri delle parti nel quadro dei trattati cui partecipano.”


I numerosi commenti al dibattito triennale sulla convenzione riferiscono delle iniziali resistenze, poi della sostanziale adesione alla convenzione da parte di paesi leader - attuali o potenziali - nella produzione e diffusione di prodotto audiovisivi (quindi interessati alla relativa liberalizzazione) come il Giappone, l’India e la Cina.
E all’India si deve il comma 2 dell’articolo sopra riportato. Dall’avvio della discussione (fine 2003) alla firma dei primi trenta paesi e all'entrata in vigore della convenzione (marzo 2007), sono stati siglati innumerevoli accordi bilaterali, con gli USA in particolare, che vincolano molti paesi, prevalentemente in via di sviluppo, ad affidare all’esterno servizi audiovisivi e informazione.
La strada per la tutela della diversità e per l’emancipazione dell’informazione e della produzione di contenuti audiovisivi sembra ancora molto impervia. Se questa convenzione poi costituirà uno strumento di dialogo fra le culture, di valorizzazione e allo stesso tempo di innovazione delle aree regionali più isolate, e tutto questo malgrado l’industria culturale... è un aspetto da tenere sotto osservazione.


 


 

Scade il 18 settembre il bando del Premio Tuttoteatro.com "Dante Cappelletti"
Al vincitore un premio di produzione di 6000 euro
di Ufficio Stampa

 

Scade il 18 settembre 2007 il bando di concorso per la partecipazione alla quarta edizione del Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche "Dante Cappelletti", istituito dall'Associazione culturale Tuttoteatro.com nel 2004, con la direzione di Mariateresa Surianello.
Il Premio, sostenuto dall’ETI - Ente Teatrale Italiano, dal Comune di Roma - Assessorato alle Politiche Culturali, realizzato in collaborazione con Provincia di Roma - Assessorato alle Politiche Culturali, Comune di Piancastagnaio e Armunia, dedicato a Dante Cappelletti, studioso, critico teatrale e docente universitario, e al ricordo delle memorabili lezioni di vita e di scienza che ha saputo trasmettere alle nuove generazioni, è stato vinto fino ad oggi da A.V. di Narramondo (2004), ‘Ccelera! di Maurizio Camilli (2005), Primo clown, secondo clown, Amleto di Michelangelo Dalisi in scena con Salvatore Caruso e Francesco Villano (2006).
Il Concorso con un premio di produzione di 6000 euro si pone l'intento di promuovere, diffondere, valorizzare e sostenere lo spettacolo dal vivo e le arti sceniche nella loro complessità, nonché la ricerca e la sperimentazione di diversi linguaggi, senza limitazioni di genere e forma, attraverso nuove produzioni artistiche.
La giuria della quarta edizione, presieduta da Vincenzo Maria Vita, Assessore alle Politiche Culturali della Provincia di Roma, e composta da Roberto Canziani, Gianfranco Capitta, Massimo Marino, Renato Nicolini, Laura Novelli, Aggeo Savioli e Mariateresa Surianello, selezionerà progetti di spettacoli presentati da singoli artisti o da gruppi senza distinzione tra categorie di artisti (attori, cantanti, danzatori, musicisti, artisti visivi), né tra discipline (danza, musica, parola, arti visive).
I progetti selezionati saranno mostrati alla giuria in novembre a Castello Pasquini di Castiglioncello e ne giungeranno in finale un massimo di sette al Teatro India di Roma, l’8 e il 9 dicembre 2007.

Informazioni 331.4878355
Per scaricare il testo del bando consultare il sito http://www.tuttoteatro.com.


 


 

Pina Bausch, Platel, Cunningham, il butoh, Meredith Monk: il documentario in festival a Milano
Midoc 07 dal 12 al 30 settembre
di Ufficio stampa

 
MILANO DOC FESTIVAL-MIDOC 07
DOCUFILM D’ARTE, ARCHITETTURA, MUSICA, TEATRO, DANZA, SPORT E IMPRESA

MILANO, 12 -30 SETTEMBRE 2007


Il Midoc 2007 si svolgerà a Milano dal 12 al 30 settembre al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia "Leonardo da Vinci".

Il Midoc è la principale rassegna internazionale della produzione di docufilm a tema culturale e di cinematografia d’impresa.

Il Midoc si articola in diverse sezioni:

Il concorso, suddiviso in:
# Concorso internazionale Midoc _Arte, categorie: Arte e Artisti, Architettura, Cinema e Teatro.
# Concorso internazionale di Midoc_Musica, categorie: Musica e Musicisti, Folk Pop & Jazz, Tutto sul ballo

I documentari presentati sono circa 200, provengono da tutto il mondo e verranno proiettati nel Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo Da Vinci” senza interruzione dalle ore 18 alle 24 e con ingresso libero al pubblico.
Al concorso si affiancano le sezioni Spirito del tempo e Un mondo di musica alle quali verranno assegnati premi speciali.

Le rassegne:
# la prima è dedicata a Michael Blackwood, uno dei più importanti documentaristi statunitensi. Fondata nel 1966, la Michael Blackwood Production è specializzata nei documentari d'arte (architettura, danza, coreografia, musica) che offre allo spettatore una vasta documentazione in continua evoluzione delle arti del nostro tempo.
# La seconda è intitolata "Dal Futurismo al futuro" e collega, attraverso un’ideale linea estetica, i primi film d’avanguardia futuristi e non che raccontavano l’avvento della macchina industriale e della velocità nella società moderna, alla produzione del documentario d’impresa che sta divenendo sempre più uno strumento di comunicazione e insieme forma d'arte a sé stante.
# La terza intitolata “Arte in corpo”, circa venticinque video comprendono opere di videodanza e documentari in cui convivono creatività, quotidianità, passione: molti coreografi contemporanei hanno rielaborato i loro movimenti per la videocamera digitale in modo del tutto indipendente, generando uno dei fenomeni più interessanti nella storia della danza contemporanea, la videodanza. Da segnalare la presenza di opere originali realizzate da grandi personalità quali, Wim Vandekeyibus con Blush e Jiri Kylian con Birth-Day.
# La quarta è dedicata alla produzione documentaristica indiana, realizzata in collaborazione con l'Osian's-Cinefan, Festival of Asian & Arab Cinema di New Delhi, diretto da Aruna Vasudev.

Le mostre
# Le vacanze intelligenti: arte e artisti nelle foto della Biennale di Venezia della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, a cura di Antonella Greco e Vittorio Sgarbi. Foto e immagini inedite e straordinarie, solo parzialmente esposte nella mostra organizzata nel 2006 alla Fondazione Guggenheim, che riguardano lo svolgersi delle Biennali di Venezia dal 1948 al 1986.
# La posa infinita: di Antonello Matarazzo: installazione di "foto-video", che ha per protagonisti 3 ritratti di vita nell'Italia del sud agli inizi del '900. I ritratti, pur conservando la propria valenza di vecchie fotografie, si animano impercettibilmente, facendo percepire la dilatazione del tempo che precede lo scatto fotografico.
# Brahåmtic di Patrik Mimran: la mostra si divide in tre parti: il VIDEO, ispirato a un viaggio in India, un susseguirsi frenetico di suoni e immagini; 16 FOTOGRAFIE di grande formato legate alle tematiche del video e una serie di BILLBOARD, enormi striscioni (continuazione del Billboard Project, iniziato nel 2001 a New York) contenenti perentorie affermazioni sul mondo dell’arte.

Nel corso del Festival si susseguono numerosi eventi speciali, tra cui una mini-maratona dedicata a Luchino Visconti e una serata dedicata a David LaChapelle. Agli eventi parteciperanno registi, interpreti e produttori.
Inoltre verranno presentati alcuni documentari che, anche se di più recente produzione, sono già dei veri e propri docu-cult: A l’Ouest des Rails (film cinese di 10 ore), film inediti su Strehler, un grande ritratto di sir Francis Bacon, per passare alla musica da Keith Jarrett ai Beatles.

L’Associazione Milano Doc Festival, presieduta da Rubino Rubini, con la Direzione Scientifica di Claudio Strinati e la collaborazione di Carlo Fuscagni, coinvolge, a partire da questa edizione, il Centro Sperimentale di Cinematografia – Sede Lombardia, presieduto da Francesco Alberoni e diretto da Bartolomeo Corsini.

Al festival collaborano l'Archivio del Cinema d'Impresa di Ivrea, la RAI e l'Istituto Luce. La rassegna si svolge sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica italiana, con il patrocinio della Regione Lombardia e con il sostegno del Comune di Milano, Assessorato al Tempo Libero e Assessorato alla Cultura.


L’ARCHIVIO
Per ogni edizione del Festival le copie dei filmati pervenuti andranno a costituire due archivi che in breve tempo si proporranno come la più importante raccolta audiovisiva su questi temi esistente in Italia.


Info: www.milanodocfestival.it


 


 

Il nuovo progetto di Luca Ronconi a settembre a Ferrara
Una doppia Odissea dal 4 al 9 settembre
di Ufficio Stampa

 

dal 4 al 9 settembre
ODISSEA. DOPPIO RITORNO
progetto per Ferrara, città del Rinascimento
ITACA di Botho Strauss

L'ANTRO DELLE NINFE a cura di Emanuele Trevi

Regia di Luca Ronconi
progetto scenico Marco Rossi
costumi Silvia Aymonino
luci Nevio Cavina
movimenti Maria Consagra

produzione
Centro Teatrale Santa Cristina - Teatro Comunale di Ferrara

con (in ordine alfabetico) Riccardo Bini, Riccardo Bocci, Francesca Ciocchetti, Francesco Colella, Pierluigi Corallo, Pasquale Di Filippo, Massimo Di Michele, Raffaele Esposito, Mele Ferrarini, Valerio Vittorio Garaffa, Cristina Gardumi, Alessandro Genovesi, Elena Ghiaurov, Cristian Giammarini, Marco Grossi, Tatiana Lepore, Giovanni Ludeno, Michele Maccagno, Vinicio Marchioni, Stefano Moretti, Cristiano Nocera, Irene Petris, Graziano Piazza, Mirko Rizzotto, Giorgia Salari, Raffaele Sinkovic, Umberto Terruso, Nicolò Todeschini, Camilla Zorzi

PRIMA ASSOLUTA
Un percorso teatrale sull'ambigua e affascinante figura di Ulisse, personaggio mitico della classicità, paradigma di temi centrali nella nostra cultura: il viaggio come avventura della conoscenza, il confronto con il potere e la politica, !'ambiguità della vita e dei rapporti fra gli uomini.
Questi molteplici punti di vista saranno sviluppati e messi a confronto nei due spettacoli che Luca Ronconi ha immaginato ne gli spazi del magnifico Teatro Comunale di Ferrara: la platea e il palcoscenico. In platea sarà sviluppato Itaca di Botho Strass, un autore che ama confrontarsi in modo provocatorio con i miti del passato.
In palcoscenico L'antro delle ninfe ricostruirà la vicenda di Ulisse in un percorso a ritroso con i versi dell' Odissea interpolati da frammenti di altre opere a cura di Emanuele Trevi.
Nel progetto saranno impegnati circa 30 attori: professionisti della nuova generazione che, con la loro partecipazione ci permettono di sperimentare una formula produttiva unica, per agilità e incisività, nel panorama teatrale italiano.
Luca Ronconi
 



Appuntamento al prossimo numero.
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