L'emergenza e l'accesso, la democrazia e il teatrino del forum L'editorial di ateatro 110 di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and1 Milano: la Triennale sfratta il CRT dal Teatro dell'Arte Una riflessione di Mimma Gallina http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and8 Festivalia da Hystrio", 2007 di Oliviero Ponte di Pino http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and10 Teatro per tutti: ma per chi? Appunti per una storia del concetto di “accesso” a teatro Da "Teatri della diversità", numero 42 (in distribuzione da Feltrinelli) di Mimma Gallina http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and12 La solitudine di un re deposto secondo Roberto Corradino In Conferenza la riscrittura drammaturgica del Riccardo II di Shakespeare di Andrea Balzola http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and18 Mass media e media personalizzati Un’intervista al Big Art Group di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and23 Giorgio Barberio Corsetti racconta le sue regie: Portopalo. Nomi, su tombe senza corpi e La pietra del paragone L’uso drammaturgico del video in scena tra documento e miraggio scenografico di Andrea Balzola http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and26 Il libro del “teatro politttttttico”delle Albe di Ravenna Monade e coro. Conversazioni con Marco Martinelli a cura di Francesca Montanino. Editoria & Spettacolo di Andrea Balzola http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and30 Alessandro Garzella mette in scena Una visita e L’acqua si diverte a uccidere Continua il viaggio nell'opera di Beniamino Joppolo di Andrea Lanini http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and32 Lipsynch: il teatro della voce di Robert Lepage Il debutto a Montreal del nuovo spettacolo: materiali e interviste di Anna Maria Monteverdi e Christiane Charette http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and41 I miei concerti tra Bernini e la Socìetas Raffello Sanzio Intervista a Lorenzo “Jovanotti” Cherubini di Francesca Pasquinucci http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and43 Totonomine Catania: dopo Baudo, Buttafuoco Il nuovo presidente dello Stabile di Redazione news http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and70 Scelte al Teatro Quirino di Roma le terne dei finalisti del Premio ETI-Gli Olimpici del Teatro 2007 I Premi assegnati al Teatro Olimpico di Vicenza il 14 settembre di Ufficio stampaETI http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and77 La scomparsa di Luciano Damiani Scenografo di Strehler di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and78 I vincitori del Premio Riccione Teatro 2007 Vent'anni dopo tocca di nuovo a Ugo Chiti. Il Tondelli a Borrelli di Premio Riccione http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and85 Premio Patroni Griffi: non ha vinto nessuno Il comunicato della giuria di Associazione Patroni Griffi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and87 Maurizio Schmidt neo-direttore della "Paolo Grassi" Nominato dalla Fondazione Scuole Civiche di Milano di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and88 In Italia la nuova performance di Marcel.lì Antunez Roca Hipermembrana a Torino per Malafestival di Ufficio stampa http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and93 Babilonia Teatri vince il Premio Scenario 2007 La premiazione a Santarcangelo di Premio Scenaro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro110.htm#110and94
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L'emergenza e l'accesso, la democrazia e il teatrino del forum L'editorial di ateatro 110 di Redazione ateatro |
Con qualche ritardo, mettiamo online questo 109-110, fin troppo ricco (come al solito) e pensando al futuro (come al solito).
Perché nel frattempo stiamo iniziando a pensare alla quarta edizione delle Buone Pratiche, da tenere come al solito tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre. Abbiamo già in mente il tema - che è da sempre uno dei temi forti di ateatro: quello dell’emergenza, in un significato duplice e intrecciato. Perché “emergenza” rimanda in primo luogo a “ciò che emerge”, ovvero – per noi – all’accesso dei giovani (registi, attori, autori, scenografi, operatori, critici, studiosi, e in primo luogo spettatori) e di nuove realtà (gruppi compagnie, forme organizzative) all’interno del nostro sistema teatrale. Naturalmente “emergenza” è anche una “situazione particolarmente critica, difficile”: i due temi sono secondo noi profondamente intrecciati, perché la malattia principale di cui soffre il nostro teatro (e in generale il sistema Italia) è l’eccessiva rigidità, una scarsa apertura ai giovani, la mancanza di ricambio...
Cercheremo in primo luogo di capire quali sono le Buone Pratiche su questo versante (che comprende in primo luogo bandi e concorsi vari, le vetrine e le rassegne, ma anche le diverse forme di pedagogia e formazione – e magari gli stage e i provini). Ma sarà per noi interessante verificare come e quanto le nuove proposte di legge sul teatro si facciano carico di questo problema (e come e a chi eventualmente lo deleghino).
Un secondo versante su cui stiamo continuando a lavorare, tra mille problemi, è la ridefinizione e il rilancio di ateatro sia come sito sia come gruppo di persone. La degenerazione del forum – che nasce da una sensazione di ingiustizia e da un malinteso sentimento di libertà, che sfocia invece in sfoghi, insulti e calunnie che sono invece solo sintomi patologici, o peggio deliberate azioni di sabotaggio – ci sta inducendo a una riflessione. Non è ovviamente solo un problema tecnico, che potremmo risolvere con un filtro antispam o con un form di registrazione. Non è nemmeno solo e tanto un problema giuridico (perché i responsabili del sito rischiano la querela per colpa di qualche frustrato vigliacco) e men che meno di censura (perché quello che è intollerabile sono gli insulti e le accuse senza prove, ovvero le calunnie, chi parla di censura a proposito del forum lo fa in totale malafede).
Il problema del forum è il rapporto della rete con la realtà e con la democrazia, e in definitiva con il rispetto dell’altro, ed è un problema per certi aspetti “teatrale” che trascende il nostro piccolo sito.
Il web e la sua etica (o meglio a sua etichetta) consentono da sempre l’uso di pseudonimi, ovvero l’uso di una maschera. A volte la maschera, lo sappiamo bene, consente di dire verità scomode, che altrimenti non potrebbero essere dette (e noi teatranti pensiamo subito al Fool shakespeariano). A volte (e in Italia accade spesso) la maschera serve per mandare avvisi mafiosi e spargere calunnie (e infatti la magistratura NON prende giustamente in considerazione le denunce anonime).
Nel forum una piccola ma rumorosa minoranza di spammer ha preso di mira diverse persone, soprattutto giovani drammaturghi pressoché sconosciuti (l’invidia, l’ignoranza e la miseria dell’ambiente sono sconfinate).
Tutto questo ha portato una serie di conseguenza spiacevoli, e rischia di screditare il forum. Così ci siamo presi una pausa di riflessione e stiamo pensando che fare. Anche perché riteniamo umilinte perdere tempo a cancellare dal forum messaggi idioti scritti da idioti.
Come sempre, sia su questo versante sia per quanto riguarda BP4, suggerimenti e aiuti sono assai graditi.
Ma intanto beccatevi il nuovo numero. E buona lettura!!!
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Milano: la Triennale sfratta il CRT dal Teatro dell'Arte Una riflessione di Mimma Gallina |
Il CRT di Milano ha tenuto lunedì 9 luglio la conferenza stampa di presentazione del cartellone 2007/08 in una circostanza particolarmente delicata: come si sentiva dire da mesi, la Triennale ha chiesto di rientrare in possesso del teatro dell’Arte - che è parte del complesso in cui ha sede - alla scadenza della convenzione con cui il Comune ne concedeva l’uso al centro diretto da Sisto Dalla Palma.
Vale la pena di ricordare che la sala di viale Alemagna, una delle più belle di Milano, e sicuramente la meglio attrezzata fra quelle orientate alla ricerca, è gestita dal CRT dal 1985, seppure non con continuità: lavori di ristrutturazione incomprensibilmente lunghi, hanno costretto a peregrinazioni in diversi spazi cittadini per quasi dieci anni (spazi che si sono affiancati al Salone di via Dini, da sempre punto fermo).
In sintesi: il principale Stabile di innovazione milanese, anche Centro di promozione danza, è sfrattato dalla sua sede principale, senza la quale rischia oltretutto di perdere in termini formali e sostanziali i riconoscimenti ministeriali (e comunali).
Ma non intende proprio andarsene, e per restare non sceglie certo (o forse ha già dovuto abbandonare) le armi della diplomazia – argomentate critiche e molta ironia per l’assessore Sgarbi, qualche parola gentile solo per Antonio Calbi, perlomeno presente - e mette in atto una doppia strategia: punta in alto, con un appello al Presidente della Repubblica e alzando i contenuti dello scontro, e organizza la resistenza, contando almeno sull’appoggio dell’opposizione. Lunedì mattina il tono prevalente non era di lamentela, ma di riflessione, di preoccupazione per le sorti del teatro, di critica per l’evoluzione locale e nazionale della politica culturale.
In un’atmosfera di solidarietà da parte dei numerosi operatori presenti e sistemati sul palco, il direttore artistico Sisto Dalla Palma, ha tenuto un discorso introduttivo intenso e lucido, rivendicando la storia e il rigore del CRT non come richiamo nostalgico a fasti passati, ma come chiave di lettura e guida nel presente. A evocare il percorso, la platea vuota: non in segno di smantellamento, ma in ricordo delle memorabili Troiane di Thierry Salmon, illuminata solo da un riflettore puntato su un non meno evocativo e commovente banco de La classe morta di Kantor.
Secondo Sisto Dalla Palma, l’attività e la politica culturale milanese si è caratterizzata negli ultimi anni per una bulimica superficialità, indirizzata alla commercializzazione – apparentemente giustificata dall’identificazione con la moda e co il design - all’evento, alla prevaricazione di fatto delle differenze, delle alterità, della sobrietà, del rigore intimo del teatro. E’in nome della specificità del teatro che sembra essere impossibile un accordo con la Triennale: la multidisciplinarità (che pure anche per il CRT è stata una tentazione) nasconde troppo spesso il frammento, il vuoto e –proprio nelle linee della Triennale - la mercificazione implicita nei fini e dei modi con cui si carica di enfasi l’”oggetto” (e i suoi profeti: gli stilisti, i designer). E’questa “linea” che rende la cultura serva di interessi economici, dei “poteri forti” e asseconda la deriva di una città sempre più distratta.
In questo mare magnum di occasioni e eventi, il teatro è diventato sempre più subalterno (e non dovrebbero esistere culture subalterne), le organizzazioni riconosciute, i teatri convenzionati, sono stati arrostiti sulle “griglie” dei parametri comunali, tutti occupancy e fidelity, un processo che ha aperto la strada, o ha consentito di tollerare lo sbilanciamento verso scelte vergognose come Mito e gli Arcimbolti, un insieme di orientamenti che costeranno alla città in tre anni venti volte più di quanto spenda per tutte le convenzioni. E in questo trionfo del “pensiero unico” a soffrire saranno –sono- soprattutto le periferie, su cui si dovrebbe concentrare lo sforzo delle amministrazioni e di chi opera nella cultura. E alla sfida delle periferie – da dove in realtà non è mai partito con l’attività di via Dini - tornerà il CRT, e a maggior ragione se non dovesse vincere questa battaglia. Ma se dovesse perderla, a perdere non sarà certo solo lui.
Un discorso denso, ricco di temi su cui riflettere, troppi forse per porre in modo sensato le molte possibili domande rimaste sospese.
Dopo la presentazione della stagione e dei progetti speciali (fra cui una relativamente provocatoria risposta all’idea lanciata dall’assessore Sgarbi sul festival “DIO”, nel senso di dramma italiano odierno), è rimasto spazio per un saluto di Emma Dante, che deve al CRT il sostegno produttivo che ha favorito la sua recente e meritata affermazione internazionale, e che ha uno spazio particolare nel cartellone del prossimo anno, col repertorio e le nuove produzioni. Fra le presenze più significative i ritorni di Abbondanza/Bertoni, Cesar Brie, le Belle Bandiere, Short Formats e l’ospitalità al Mercadante di Napoli col testo del giovane premio Riccione, Mimmo Borrelli.
Presenti e chiamati in causa hanno espresso la loro solidarietà Nando Dalla Chiesa e Piefrancesco Majorino, che si è chiesto tuttavia in modo molto pertinente – e auspicando il dialogo - perché la città si trovi costretta a scegliere fra CRT e Triennale.
Penso che questo sia un momento per la solidarietà (e non per la critica, dei programmi o delle gestioni passate). Però le situazioni evolvono: nell’arco di tre decenni al CRT si sono affiancati altri centri, altre sedi che si dedicano alle stesse aree e a linee di ricerca analoghe, o molto affini (anche se raramente si sono dimostrato in grado, come il Centro e il suo direttore, di teorizzarli e di collocarli nella storia e nell’evoluzione dei linguaggi teatrali: anche il patrimonio teorico non va disperso). In ogni caso, il “sistema” dell’”innovazione” in città va ridisegnato, l’”offerta” rischia di sovrapporsi, di essere eccessiva, di non offrire chiavi di lettura, percorsi interni.
E le scosse aiutano a ricomporre gli assetti e ridisegnare i paesaggi. In questo quadro si poteva ingenuamente pensare che l’entrata in campo della Triennale non significasse uno sfratto, che potesse essere gestita in modo da favorire una riflessione sull’interrelazione fra arti visive e performing arts, con specifici spazi e modi di gestione per un progetto comune, e senza nulla togliere all’identità di ciascuno e agli spazi del CRT.
Il tutto e subito di Rampello per la Triennale può rientrare? O corrisponde a una linea concordata col Comune?
E l’attacco alla mercificazione e all’eventizzazione di Sisto Dalla Palma - che pure condivido - non rischia di essere un po’ khomeinista? C’è stato uno scambio nel merito dei contenuti tra i due enti?
La chiusura al dialogo - da tutte le parti - rischia non aiuta neppure il rigore.
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Festivalia da Hystrio", 2007 di Oliviero Ponte di Pino |
Tom Bendsten, Argument #4 1999
L’Italia è tutta un festival. Ogni settimana la casella di posta di ateatro è bombardata da mail su mail con i programmi delle rassegne teatrali che allietano le città, i paesi e i borghi del Belpaese e chefiniscono nella pagina dei festival di ateatro. Nessuno sa quanti siano esattamente i festival made in Italy, ma siamo certamente nell’ordine delle migliaia. Né sappiamo quanto costino (anche se questo non vuol dir nulla, visto che è difficile stimare la spesa pubblica anche in altri settori più strategici), ma certamente almeno diverse decine di milioni di euro.
In realtà le manifestazioni che hanno una certa risonanza – vista anche la progressiva riduzione degli spazi destinati all’informazione teatrale – sono peraltro pochissimi e ormai da anni in crisi cronica: basti pensare al Festival dei Due Mondi a Spoleto o la Biennale veneziana, con la sua formula ondivaga. Ma le difficoltà dei capostipiti, piegati dall’impossibilità di imbastire contenitori omnicomprensivi o costose vetrine di attrazioni internazionali, sembrano solo aver liberato la fantasia dei più piccoli (e giovani): dunque rassegne monografiche o schieramenti di tendenza, omaggi a grandi uomini, generi o capolavori del passato e del presente, contaminazioni con altre discipline, media, perversioni, religioni... Con la possibilità, sempre più ambita, di uscire dai teatri (soprattutto d’estate) e tracimare in altri spazi, metropolitani o eccentrici: sferisteri e catacombe, carceri e conventi, mense e capannoni, stalle e stazioni...
Questo fervore testimonia certamente di una creatività sbrigliata e di una fervida capacità organizzativa e forse addirittura di una grande sete di cultura – o almeno di una sete inestinguibile di trasformare la propria cultura (o pseudo-cultura) in spettacolo ed esibizione. Testimonia un tessuto sociale ricco e articolato, e un potere politico attento a coltivarlo (magari strizzando l’occhio alle ricadute sul turismo). I festival fanno pare del paesaggio tipico italiano, come la piazza e lo struscio, le sagre e l’esodo d’agosto: non a caso hanno ispirato scrittori come Arbasino, Flaiano e Cordelli, che peraltro sono anche critici teatrali e dunque sanno di cosa parlano.
Di più. Quella dei piccoli festival è una forma leggera, flessibile, inventiva, che permette a realtà agili e innovative di aggirare i vincoli di un sistema teatrale bloccato e bolso. Offre spazi di sperimentazione e ricerca, anche nel rapporto con il pubblico. Naturalmente questa allegra sarabanda finisce per essere piuttosto dispersiva, sia sul versante delle risorse sia su quello dell’attenzione.
Che resta di tutto questo fervore, passata la stagione? Per cominciare, l’eventizzazione sottesa alla forma dei festival rischia di togliere fascino e attrattiva alle “normali” stagioni teatrali e alla loro dimensione “politica”, alla possibilità di interagire sul tessuto civile e di incidere davvero nel dibattito pubblico.
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Teatro per tutti: ma per chi? Appunti per una storia del concetto di “accesso” a teatro Da "Teatri della diversità", numero 42 (in distribuzione da Feltrinelli) di Mimma Gallina |
Il problema dell’”accesso” è un aspetto fondamentale delle politiche teatrali.
Che potenzialmente “tutti” possano accedere agli spettacoli è una pregiudiziale e assieme un obiettivo del teatro e dello stesso finanziamento pubblico - “un teatro d’arte per tutti” - ma il concetto è il realtà molto più complesso di quanto possa sembrare. Si tende invece a darlo per scontato, sottovalutarlo e eluderlo in quasi tutti i documenti legislativi (inclusi i più recenti), mentre è a maggior ragione importante metterlo a fuoco se è vero che gli equilibri e squilibri territoriali (quindi anche un potenziale diritto di accesso garantito a livello nazionale) costituiscono il vero nodo di una riforma in senso federale.
Il progetto di legge presentato dal coordinamento delle Regioni il 16/6/2004 aveva affrontato l’argomento più concretamente di quanto non faccia la recente “bozza Montecchi”, individuando criteri per la ripartizione del FUS e cercando un equilibrio fra il fattore territoriale socio-demografico (il parametro abitanti), quello storico (non arretrare rispetto ai livelli raggiunti) e la necessità di intervenire sugli squilibri nella direzione di una “perequazione”.
Può darsi che sia un’esigenza poco avvertita quella di fornire di basi teoriche le nostre politiche per lo spettacolo, ma forse la riflessione potrebbe renderle meno fragili, più convinte. Del resto la questione dell’accesso ha storicamente implicazioni che vanno al di là del dato socio-politico, è decisamente “trasversale”: tocca la questione del repertorio e la discussione plurisecolare sul teatro popolare (“quale” teatro per tutti?), coinvolge tutti gli aspetti più rilevanti dell’organizzazione, il problema degli spazi, quello del teatro amatoriale e della partecipazione etc. etc.
Gli appunti frammentari che seguono offrono qualche spunto di riflessione per un’analisi del problema.
Dal teatro educatore alla carta del servizio pubblico
Nella sua Lettre sur les spectacles, del 1758, Rousseau condanna senza appello il teatro del proprio tempo, auspicando la rinascita di spettacoli “che un popolo libero possa offrire a se stesso”. Le “feste pubbliche” saranno un cavallo di battaglia della rivoluzione francese, che però farà proprie anche le indicazioni di altri illuministi, meno radicali, che vedono il teatro – in mano al popolo - come una possibile forza della ragione, un potente strumento educatore. Il 1789, si sa, ha lasciato le sue tracce e oltre due secoli di distanza non è un caso che sia la Francia, con La carta delle missioni di Servizio Pubblico, elaborata dal Ministero della Cultura francese Catherine Trautmann nel 1998, a teorizzare la necessità di individuare precise “missioni” e rilanciare la democratizzazione della cultura, la responsabilità sociale e territoriale. La carta del servizio pubblico obbliga tra l'altro a un'ampia diffusione degli spettacoli così che tocchino vaste fasce di popolazione, a sensibilizzare le diverse fasce generazionali, a "partecipare allo sforzo nazionale di riconciliazione sociale verso le popolazioni escluse per ragioni culturali, economiche o fisiche".
“Per tutti” dove?: il teatro all’italiana, “bruciarne la tavole, bruciarne l’idea”
Per la verità anche qualche grande del nostro Risorgimento si era posto problemi analoghi. Gustavo Modena, già nel 1836, condanna lo spirito speculativo e l’architettura tradizionale dello spazio all’italiana, come una delle condizioni che irrigidisce la divisione in classi sociali e determina l’esclusione da quello che chiama “Il teatro bottega”. Per correggerlo bisogna bruciarlo: “bruciar le tavole, bruciarne il morale, bruciarne l'idea”. Ma da noi la rivoluzione non c’era e non ci sarebbe stata.
La maggioranza dei nostri spazi sono tuttora “all’italiana”. La questione degli spazi è centrale nel dibattito e nelle pratiche a favore dell’accesso.
Una risposta che attraversa con esperienze affini il secolo scorso e diversi paesi europei è quella del “teatro mobile”, per esempio un tendone: in Italia e per restare al secondo dopoguerra, possiamo ricordare i teatri tenda di Gassman negli anni sessanta, e il Teatro Quartiere del Piccolo nei primi anni settanta (fra gli altri). Si tratta, certo, di una risposta che precede gli interventi politicamente strutturati del “decentramento” e può sembrare un po’velleitaria e populista (spesso sono i grandi attori a subire il fascino dello chapiteau): ma non si può negare che si tratti di uno spazio democratico per eccellenza, che unisce in un volume unico attori e spettatori, che non discrimina, non intimidisce, e porta la montagna a Maometto laddove Maometto non intenda andare alla montagna (l’esperienza di spazi alternativi – anche nel settore del teatro sperimentale e almeno fra l’epoca delle “cantine” romane e i centri di ricerca - sembra invece più legata a scelte “di fortuna” che a orientamenti estetici o alla ricerca del pubblico).
Servizio sociale e decentramento…
Il “decentramento teatrale”, almeno nell’esperienza italiana cresciuta a partire dagli anni Settanta, risponde a una fase più avanzata di maturazione organizzativa e politica ma agli stessi obiettivi: il risultato della politica di “reclutamento” degli spettatori lanciata da Paolo Grassi e dal Piccolo nel ‘47 non aveva dato risultati convincenti e diffusi. L’esclusione dal teatro restava un dato di fatto. Si deve alla politica di decentramento, condotta fianco a fianco da operatori e amministratori locali, la crescita inizialmente vertiginosa, poi il consolidamento dell’attività teatrale.
...a che punto siamo?
Ma resta il fatto che la sperequazione nord/sud, centro/periferia, città/provincia è ancora pesantissima. Qualche dato (arrotondato): i Comuni capoluogo con il 30% degli abitanti c.ca assorbono quasi il 60% dell’offerta di spettacoli e il 66% della domanda (cioè del totale del pubblico). Le 6 città con oltre 500.000 abitanti dove risiede il 12% della popolazione assorbono oltre il 30% dell’offerta. Infine i comuni fino a 50.000 abitati con il 64% dei residenti si aggiudicano il 38% degli spettatori. Dati altrettanto allarmanti riguardano la distribuzione delle sale, le sperequazioni nord-centro e sud e non disponiamo di dati elaborati sui piccoli e piccolissimi comuni, in molti casi del tutto esclusi dall’attività di spettacolo. Il percorso verso il decentramento, espressamente orientato ad un’ottica democratica del teatro e finalizzato all’accesso è insomma, solo all’inizio.
“Per tutti” ai tempi della crisi del welfare
Paolo Grassi auspicava nel 1946, che il teatro diventasse “…una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio, alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco, e che per questo preziosissimo pubblico servizio nato per la collettività, la collettività attuasse quei provvedimenti atti a strappare il teatro all’attuale disagio economico e al presente monopolio di un pubblico ristretto…”. Sono notoriamente i presupposti su cui nasce nel ‘47 il Piccolo Teatro (e molti teatri in Europa, anche decenni prima). Sono validi ancora? E ancora in questi termini? E’davvero convinto – ad esempio e fra gli altri - lo Stato italiano che il teatro sia un servizio pubblico? Io non ne sono certa: se non sbaglio non sta scritto da nessuna parte (i richiami alla costituzione, all’identità culturale, alla libertà di espressione etc.mi sembra rischino di essere un po’astratti e, a sessant’anni dalle parole di Grassi, sappiamo che in concreto quell’auspicio non si è realizzato).
Il pubblico fra democrazia e marketing: tutti chi?
Il problema del “monopolio di un pubblico ristretto” lo abbiamo tuttora molto presente (nonostante le statistiche contradditore): anche se forse si è affinata negli ultimi anni più una consapevolezza dell’utilità del “marketing” che una sensibilità asociali. La sostanza potrebbe non essere diversa (ma non ne sono sicura). Ci è chiaro comunque che almeno un 80% della popolazione italiana non va a teatro. Il punto è: non va o ne è esclusa? E perché – nel caso - lo è? Il teatro come “diritto potenziale” è garantito? Sedi e spazi, “barriere psicologiche”, informazione, prezzi.
Ma chi sono questi tutti, questi esclusi che si dovrebbero conquistare al teatro? E’ più facile dire chi “erano”. Romain Rolland, il principale teorico del teatro popolare francese, voleva un teatro “che riunisse e non escludesse, che fondesse le diverse componenti sociali e i diversi pensieri in un’unica collettività, un popolo teatrale pronto ad esercitare l’intelligenza e un teatro che lo aiutasse a giudicare le cose, gli uomini e se stesso” (per una volta citiamo lui e non Grassi per dargli la primogenitura, ma dice nella sostanza le stesse cose, per quanto da intellettuale ottimista ed entusiasta del 1901 o 1902).
Appare decisamente sbilanciata in senso sociale la lettura che della stessa parola d’ordine del Piccolo “un teatro d’arte per tutti”, faranno i protagonisti del “decentramento” negli anni a cavallo fra i Sessanta e i Settanta. Gli esclusi sono – nella loro analisi - ceti sociali e aree territoriali ben precise: le classi operaie e polari in genere, le periferie, l’estrema provincia, il sud. Non sarà un “tutti” generico che andranno a cercare gli animatori delle cooperative, con lo spirito dell’intellettuale organico di Gramsci (ma sognando i cento fiori di Mao). Ma oggi? Le analisi di classe sono tramontate, dicendo “tutti” pensiamo ai giovani, al massimo alle periferie, ma il problema resta: la “casalinga di Voghera” ci fa sorridere, ma la aspettiamo quasi sempre in vano.
Tutti e ciascuno: assistere, fare, partecipare
Ma l’attivismo sociale non è stato e non è la sola strada. L’allargamento della partecipazione al teatro non passa solo dal “reclutamento” o dal raggiungimento del pubblico, passa dalle forme popolari di partecipazione che costituiscono un fil rouge lungo tutta la storia del teatro, dalle confraternite medioevali (se non vogliamo risalire fino ai cori greci), alla tradizione amatoriale soprattutto anglosassone, alle esperienze dilettantistiche, alle forme organizzative-associative di spettatori (forti nell’esperienza soprattutto tedesca ma anche francese del Novecento). La funzione del teatro amatoriale è tutta da meditare, anche in Italia, ed è spesso snobbata e sottovalutata. Alla sua forma tradizionale (compagnie di provincia, di solito convenzionali sul piano del linguaggio scenico, legate al repertorio dialettale, miste sul piano sociale e generazionale), radicata soprattutto in alcune regioni italiane (in Veneto ad esempio), si sono affiancate a partire dagli anni Settanta modalità diverse di operare, l’animazione prima, l’attività dei gruppi di base, i laboratori: una pratica che è cresciuta e si è diffusa fino a costituire un tessuto semiprofessionale ricchissimo e impossibile da censire.
Alla scoperta della differenza
Ma se ancora lo spettatore “normale” a teatro non c’è (c’è al 20%), gli anni Novanta sono segnati soprattutto dalla scoperta della differenza (la dimensione sociale si allarga a tutte le fasce del disagio) e dalla rinascita del teatro civile. Non so se le due cose sono collegate: tendo a pensarlo, mi sembra che il teatro civile corrisponda a un humus fatto di attenzione agli esclusi, testimonianza, memoria. Certo, il teatro civile non è il solo teatro possibile, ma una delle possibili risposte alla domanda di Brecht: “il teatro può rappresentare il mondo contemporaneo”? (e alla condizione della sua risposta: sì, se si ritiene che il mondo debba essere cambiato.)
In quest’ottica, non è più una questione di 20% (anche se la percentuale deve crescere!), ma di senso, di scelta, di diritti. Il “diritto” alla cultura – in un panorama che negli ultimi anni si è ricomposto, o scomposto, disegnando una mappa complessa in cui è difficile orientarsi - trova il suo banco di prova più significativo nelle aree del disagio. Intendo nelle attività che si svolgono all’interno, o sono dedicate ai temi caldi delle società contemporanee:
- diverse abilità, disagio, svantaggio:
- le differenze: generi e generazioni;
- l’interculturalità
- la questione delle aree metropolitane;
- le cosiddette “aree disagiate”;
- l’ambiente.
Politiche culturali in una dimensione mondiale
Ma il diritto alla cultura può essere oggi pensato in una dimensione locale? O nazionale? Certo si (il “prossimo” – diceva don Milani - sono POCHE persone e i diritti per essere tangibili devono riguardare precise comunità, singoli individui), ma allo stesso tempo deve essere rapportato a una dimensione globale: diversità, memoria, solidarietà, interculturalità, sono valori fondanti della società contemporanea, senza i quali mi sembra impossibile oggi FARE cultura (anche solo pensare, guardare il mondo).
Anche la riflessione sull’accesso deve guardare oggi molto vicino e molto lontano.
5 giugno 2007
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La solitudine di un re deposto secondo Roberto Corradino In Conferenza la riscrittura drammaturgica del Riccardo II di Shakespeare di Andrea Balzola |
Dopo il grande successo del capostipite Paolini, da tempo si avvicendano sulle scene italiane molti narratori, più o meno arrabbiati, più o meno impegnati, più o meno originali, con personalità assai diverse ma tutti accomunati da un registro retorico (nel senso dell’arte retorica) e drammatico simile, che in alcuni casi finisce per destare un certo torpore. Una ricerca e una sfida completamente diversa, oggi piuttosto rara e isolata, è quella del giovane attore-autore pugliese Roberto Corradino, che, con un dichiarato omaggio al conterraneo maestro Carmelo Bene, affronta i grandi classici con un’ambiziosa riscrittura e una performance attoriale a tutto campo, che modula voce e corpo.
Con una formazione molto variegata, trasversale tra voce, movimento, danza e drammaturgia, che va dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico ai laboratori di Santagata, Scimone, Manfredini, Raffaello Sanzio, Living, Del Bono e Martinelli, Corradino riceve il sostegno del Teatro Kismet O.per.A di Bari per le sue prime produzioni (con il nome di compagnia “Reggimento Carri”), è finalista con Piaccainocchio al Premio Generazione Scenario 2003. Nel 2004 mette in scena La commedia del sangue dal romanzo Di questa vita menzognera di Giuseppe Montesano e Perché ora affondo nel mio petto dalla tragedia Pentesilea di von Kleist. Il suo ultimo lavoro Conferenza (un piccolo dominio non ancora perduto) è uno studio in tre frammenti per una riscrittura della tragedia storica Riccardo II di Shakespeare.
In particolare, Conferenza si ispira alla prima scena del quarto atto, in cui il re Riccardo II , ultimo della dinastia dei Plantageneti, è costretto a confessare 33 capi d’accusa e ad abdicare in favore di Bolingbroke (il futuro Enrico IV) davanti al Parlamento dei Lord. Il re, personaggio autoritario ma più interessato alle arti e alla filosofia che alla guerra e per questo detestato dall’aristocrazia guerriera inglese, non ha possibilità di difendersi (morirà in carcere a soli 33 anni) e allora divaga, tenta vanamente di ritardare il più possibile la confessione coatta che i suoi avversari hanno preparato per lui. Nel testo di Shakespeare sono poche battute, anche se straordinariamente dense di senso, nella sua versione Corradino con notevole finezza e forza espressiva estrae e attualizza (con esplicite citazioni da Lacan o una trasfigurante descrizione dell’Urlo di Munch) il sottotesto shakespeariano della solitudine esistenziale, dell’horror vacui, della premonizione e quindi del dialogo con la morte (“mentre la vita muore, la morte è immortale”) e con i morti (“i morti parlano”).
Come scrive lo stesso Corradino, è una “lunga soggettiva mentale della caduta in differita di un re scespiriano, un eroino fallito che intrattiene da morto parlante gli spettatori, avendo ancora tanto da dire.” Si potrebbe pensare a un ritorno al testo puro per la pregnanza che assume, ma quel testo è una “decorazione del vuoto” che vive nella limpida modulazione dei registri vocali e nella ricerca minuziosa di un’essenzialità iconica del gesto e della figura, vibra proprio in virtù di una prova attoriale concentratissima, in certi momenti quasi ipnotica, che sa anche smarginare nell’improvvisazione, simulando l’uscita dell’attore dal personaggio e così tirando ingannevolmente il pubblico dentro il metateatro. L’impresa è ambiziosa, come sempre quando si tenta di riscrivere e attualizzare i classici, azzerando la rappresentazione in una solitaria performance attoriale, ma Corradino riesce a mescolare la rielaborazione del monologo colto shakespeariano, poetico e filosofico, con l’ironia maliziosa del saltimbanco e le immagini quotidiane, immediatamente riconoscibili, che agganciano l’aquilone dell’astrazione al filo rosso delle esperienze e delle situazione concrete, ordinarie. Così il punto d’approdo del monologo sull’horror vacui è la descrizione del vuoto che nasconde una comune cassettiera, dove “la profondità del cassetto non può che essere presentita dalla forma del cassetto”, è la forma che ci suggerisce la non forma, per affacciarsi al vuoto l’arte, parola e immagine, ci offre la sua finestra.
Nel lavoro di riscrittura e messa in scena dei frammenti del Riccardo II, Corradino asciuga certe esasperazioni drammatiche e alcune ridondanze testuali che ancora si rintracciavano nella Pentesilea, per approdare a un fine equilibrio tra senso dell’humour e senso del tragico, a una sintesi tra drammaturgia e interpretazione di grande densità e intensità, per un progetto teatrale che promette molto e che aspettiamo con vivo interesse.
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Mass media e media personalizzati Un’intervista al Big Art Group di Anna Maria Monteverdi |
Dopo il successo di Flicker e House of No More a INTEATRO FESTIVAL
edizione 2007 il Big Art Group di Caden Manson e Jemma Nelson ha presentato il nuovo spettacolo The People.
Si tratta di una produzione del Festival realizzata dopo 65 giorni di residenza del gruppo
newyorchese a Polverigi.
Ancora un real time film (o un living cinema) questa volta ispirato all'Orestiade. Il paese è diventato per alcuni giorni il set di un reality in un mix di realtà e finzione, azione live e proiezione, telegiornale, film, improvvisazione e azione teatrale.
Hanno partecipato al lavoro teatrale, insieme agli attori del Big Art Group, due musicisti post-punk newyorkesi, l’ex LunaChicks Theo Kogan, e Sean Pierce della band Theo and the Skyscrapers.
Pubblichiamo per l'occasione una breve intervista inedita a Caden Manson e Jemma Nelson
realizzata in occasione del tour di House of No More.
A.M.M. Puoi raccontare quale è la tua formazione, come è nato il gruppo e quando avete cominciato a usare il video in scena?
CADEN MANSON Quando ho fondato il Big Art Group, nel 1999, l’ho fatto perché volevo creare un linguaggio contemporaneo per la performance, per il palcoscenico, che incorporasse l’uso dell’immagine in movimento, che mostrasse come si crea l’immagine, come ci presentiamo attraverso le immagini e come le immagini di riflesso, mostrano noi a noi stessi. Ho una formazione teatrale generale, ho un bachelor in teatro e ho studiato Performance Art. Non ho esperienza nell’ambito di film, video o multimediale.
Uso il teatro perché penso sia una forma d’arte incrinata, rotta, che non funziona più e questo mi piace. Uso il video perché voglio usare il linguaggio che tutti usano. Tutti noi “parliamo per immagini”. Le immagini non hanno bisogno di essere tradotte in nessuna altra lingua. Sono solo immagini. Le immagini sono pervasive, sono dappertutto, per questo voglio usarle nel mio lavoro.
A.M.M. Che differenza c’è tra performance live e performance mediatizzata e perché state lavorando su questo confine?
CADEN MANSON C’è un grosso gap tra performance dal vivo e performance con immagine proiettata, ed è proprio in questo gap, in questo spazio che il pubblico deve collocarsi: la platea deve riempire il tessuto connettivo che le separa. Spesso lo fanno in maniera non seria, si prendono in giro da soli, fanno in modo di crederci assumendo un ruolo. L’atto di vedere uno dei nostri spettacoli implica anche il fatto che il pubblico cominci a capire quali ruoli stanno facendo credere a loro stessi di interpretare e questo dura fino alla fine dello spettacolo.
Non credo ci siamo domandati abbastanza perché siamo rappresentati attraverso le immagini, perché ci viene chiesto di assomigliare a qualcuno alla TV o in una rivista; questo è abbastanza ovvio quando si pensa alla pubblicità. E’ un’immagine diversa, strana, è fatta per vendere e penso che questo processo avvenga anche nel giornalismo televisivo, le immagini che vedi nei telegiornali sono realizzate per vendere, per venderti la notizia. Sono informazioni per vendere informazioni.
Penso che questo sia molto importante e non se ne parla mai abbastanza, non educhiamo noi stessi sufficientemente a essere attenti quando guardiamo. Guardare per noi è un istinto e non ci poniamo mai delle domande.
A.M.M. La vostra è una critica alla società mass mediatica?
CADEN MANSON Il problema dei mass media è che la maggior parte di noi crede che mass media significhi “la moltitudine laggiù”, mentre invece mass media siamo noi stessi. Tu sei la massa, tu sei la persona. E tu prendi ciò che vuoi dai media.
JEMMA NELSON Nella trilogia parliamo non solo di mass media ma di media personalizzati nella misura in cui stiamo tutti convergendo a usare immagini in modo individuale con altri individui, nella misura in cui filtriamo le immagini in modo personale, nel modo in cui usiamo le immagini prendendole dal cinema o dalla cultura pop o dalla cultura letteraria. Cambiamo noi stessi per adattarci a queste immagini e cambiamo queste immagini per adattarle a noi stessi. Quindi mass media può essere un media molto individuale e se ne può avere un uso molto personalizzato e individuale, siamo tutti molto bravi a farlo. Ci muoviamo tutti all’interno di questo mondo ed è di questo che parla la trilogia.
A.M.M Parliamo di House of no More, dove usate una tipica tecnologia del cinema e della televisione...
CADEN MANSON Usiamo effettivamente la tecnologia green screen che è una tecnologia che si vede spesso al cinema e che si vede in televisione durante il Meteo, nei telegiornali. E’ una tecnologia molto vecchia, noi la usiamo perché i nostri personaggi stanno creando i loro mondi; e noi vogliamo renderlo chiaro, palese, palpabile proprio nella descrizione di questi mondi, di come sono realizzati artificialmente. Questi mondi infatti non sono proprio lì fisicamente, è una specie di trucco. La tecnologia che usiamo è fatta da tre vecchi Panasonic 20, mixer analogici che permettono il chromakee, poi c’è una grande quantità di cavi e interruttori di uso comune e un sistema di video wall... Tutto molto basico.
JEMMA NELSON Diciamo che l’idea di usare una consumer technology che ognuno può avere in casa e che può usare, è parte dell’estetica del gruppo.
CADEN MANSON Il cervello della tecnologia sono i tre mixer, le tre persone che sul palco azionano il mixer attraverso il computer e fanno tutto in scena ben visibili.
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Giorgio Barberio Corsetti racconta le sue regie: Portopalo. Nomi, su tombe senza corpi e La pietra del paragone L’uso drammaturgico del video in scena tra documento e miraggio scenografico di Andrea Balzola |
Le ultime due regie di Giorgio Barberio Corsetti sono opposte per toni e contenuti: il primo lavoro, Portopalo. Nomi, su tombe senza corpi, presentato a dicembre al RomaEuropa Festival, è una suite musicale, poetica e visiva dedicata alla tragedia di Porto Palo, nelle cui acque il 26 dicembre del 1996 s’inabissò una carretta del mare provocando la morte di 286 profughi provenienti da Oriente; il secondo è invece una regia lirica molto particolare che rimette in scena il fortunato debutto rossiniano La pietra del paragone (scritto a vent’anni), in collaborazione con il geniale videomaker francese Pierrick Sorin, coproduzione Teatro Regio di Parma e Théâtre du Châtelet di Parigi. Nel primo caso è una tragedia che rievoca un episodio di cronaca, nel secondo caso è un divertissement di teatro musicale, ma un denominatore comune c’è e si trova sia nella dominante musicale sia nell’uso drammaturgico del video in scena, di cui Corsetti è uno dei principali pionieri italiani e che continua, con differenti collaboratori videomakers, a rinnovarsi, integrandosi in modo sempre originale ed espressivamente forte nel suo linguaggio teatrale. Abbiamo chiesto a Giorgio di raccontarci la genealogia di queste due messinscene.
G.B.C. Porto Palo nasce a dieci anni esatti dal naufragio e dopo un’ennesima estate di sbarchi clandestini e di tragedie dell’immigrazione. L’idea originale era quella di uno spettacolo musicale, sulla base di una proposta fattami da Guido Barbieri e Oscar Pizzo, che mi hanno presentato anche i materiali video esistenti sulla tragedia: un documentario di Artè, uno della televisione egiziana, e le riprese effettuate dal robot sottomarino grazie alle quali il giornalista Giovanni Maria Bellu (autore di un bellissimo libro sulla vicenda, I fantasmi di Porto Palo, edito da Mondadori) ha scoperto il relitto della nave. Facendo luce su quest’episodio paradossale di una nave che scompare e che nessuno vuole più ritrovare, completamente rimossa sia dalla popolazione di Porto Palo, che aveva paura di danni alla pesca e al turismo, sia dai politici sui quali pesava l’incapacità o la mala fede nel gestire il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Tra le tante storie simili che purtroppo si potrebbero raccontare, questa mi è sembrata particolarmente emblematica dei turbamenti che oggi attraversano il pianeta, dello scontro tra Nord e Sud, tra Oriente e Occidente, delle distorsioni dell’economia globale per cui le merci viaggiano e si scambiano facilmente, mentre le persone spinte dal bisogno rischiano la vita per approdare altrove.
Lo sfruttamento spietato della legittima aspirazione a una vita migliore che è sempre stato motivo di rinnovamento delle civiltà, la trasformazione di una specie di grande lago pacifico qual è il Mediterraneo in un cimitero marino per migliaia di sventurati. Si trattava inoltre di una storia conosciuta dal grande pubblico e quindi ancora presente nella memoria collettiva.
Quindi avete fatto un importante lavoro preliminare di ricostruzione dei fatti, delle testimonianze e dei personaggi, per arrivare a costruire lo spettacolo...
G.B.C. Sì, il progetto iniziale era di raccontare le storie di alcune vittime e di alcuni sopravvissuti al naufragio, poi abbiamo deciso di intraprendere noi stessi un viaggio alla ricerca di nuovi materiali e di testimonianze dirette. Così, nel processo di costruzione del lavoro, si sono intrecciati il nostro viaggio nelle terre originarie dei profughi (il Punjab indiano, il Pakistan, la comunità Tamil dello SriLanka) e la dimensione di angoscia delle loro famiglie, che convivevano con l’attesa di notizie sul destino dei loro cari e il grande vuoto da essi lasciato. Volevamo andare dall’”altra parte”, a vedere quale traccia era rimasta di questa tragedia e diventava simbolica anche la differenza tra il nostro viaggio a ritroso, di poche ore in aereo, e il viaggio di quattro mesi per mare di quei profughi stipati nelle stive delle imbarcazioni della morte. E’ emersa così, poco alla volta, la storia di quel viaggio maledetto, attraverso l’attesa delle famiglie, la memoria e la testimonianza dei pochi sopravvissuti. Per me il teatro, nella sua essenza, deve far parlare l’essere, deve essere testimonianza della condizione umana contemporanea, della sua dignità o indegnità, in relazione agli altri uomini. Allora tutti i personaggi coinvolti sono protagonisti e testimoni della vicenda, anche il giornalista, che è coinvolto umanamente fino al punto di farsi paladino solitario di una ricerca apparentemente disperata, grazie all’aiuto del pescatore Salvatore che trova in mare e consegna dei documenti delle vittime, indizio determinante per la localizzazione del relitto, mettendosi contro la sua stessa comunità che cerca la rimozione dell’evento. Tutto questo intreccio di destini, di presenze e di assenze emblematiche costituiscono il tessuto della messinscena. C’è stato anche un importante risvolto sul piano concreto, infatti grazie al loro coinvolgimento nello spettacolo, molti superstiti hanno potuto raggiungere l’Italia e testimoniare ai due processi che si stanno svolgendo sulla vicenda.
Tu hai presentato questo lavoro come un requiem, come una suite musicale, poetica e visiva dove s’intrecciano materiali e linguaggi diversi...
G.B.C. Riccardo Nova ha realizzato le musiche, lui si è appassionato molto al progetto e inoltre conosce molto bene la musica indiana, la sua idea musicale si è poi materializzata in scena con l’esecuzione dal vivo dei musicisti italiani Basile, Dillon e Pizzo, del percussionista indiano Manjunath B.C., di Faheem Mazhar e Thevamanohari Janathas, un cantante pakistano e una cantante della comunità Tamil di Palermo, che aveva vissuto in prima persona, con la sua gente, l’attesa e il lutto collettivo per la tragedia. Si può dire che tutto il lavoro è il risultato di una elaborazione collettiva, il tentativo di integrare tutti gli elementi espressivi e informativi in un’unica direzione, attraverso un processo di costante e attenta limatura. Il risultato non mi piace chiamarlo “spettacolo”, mi sembra quasi offensivo nei confronti di chi lo ha vissuto e in un momento in cui i media tendono a spettacolarizzare tutto, anche la morte e la sofferenza. La definizione migliore mi sembra “Requiem per musica, immagini e testimonianze”.
Quale ruolo hanno le immagini video in questo contesto?
G.B.C. Le immagini video sono a cura di Paolo Pisanelli. C’è una proiezione multipla, su un unico grande schermo e su altri due schermi gemelli, collegati fra loro da un’unica immagine che li attraversa, passando dall’uno all’altro come da una stanza all’altra, oppure disgiunti tramite proiezioni simultanee ma differenti. Volevo un’immagine che non fosse solo documento ma che diventasse più mentale, più astratta e simbolica, un’immagine che si espandesse nello spazio creando un ambiente, questo fa parte della mia idea di un uso drammaturgico e non semplicemente scenografico o illustrativo del video in scena.
Invece con la regia dell’opera comica La pietra di paragone di Rossini, che debuttò con grande successo nel 1812 alla Scala ma che oggi è di rara esecuzione, cambia totalmente il clima e la strategia registica...
G.B.C. Quest’opera è divertimento puro, quindi esattamente l’opposto di Porto Palo. In questo caso è stato determinante la collaborazione con il grande videomaker francese Pierrick Sorin, dotato di uno straordinario senso dell’umorismo e di una grande sensibilità per le immagini. Il denaro è “la pietra di paragone” sul quale si concentra l’opera rossiniana, il Conte protagonista finge il fallimento economico per smontare le apparenze che lo circondano, per verificare la sincerità dei comportamenti delle sue aspiranti spose e dei suoi cortigiani. Noi abbiamo interpretato questo gioco di mascheramento e di svelamento usando l’ormai classica tecnica televisiva del blue screen. Abbiamo trasformato la scena in un set completamente vuoto, tutto blu, dove agiscono i cantanti dal vivo, simultaneamente, su sei schermi posti sopra i cantanti, si vedono loro stessi ma duplicati all’interno degli ambienti artificiali della villa dove si svolge la vicenda.
Questi ambienti sono dei modellini scenografici visibili in scena, ripresi in diretta dalle telecamere e incrociati con le riprese, sempre in diretta, dei cantanti. Si crea così una distorsione percettiva e comica perché gli attori gesticolano e si muovono in modo insensato sul palco vuoto e soltanto sulle immagini degli schermi le loro azioni acquistano un senso e trovano un ambiente in cui collocarsi, ma è solo un mondo illusorio, appunto di apparenze, come quello generato da un mondo regolato dal denaro. Metafora quanto mai attuale.
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Il libro del “teatro politttttttico”delle Albe di Ravenna Monade e coro. Conversazioni con Marco Martinelli a cura di Francesca Montanino. Editoria & Spettacolo di Andrea Balzola |
Il libro Monade e Coro. Conversazioni con Marco Martinelli, a cura di Francesca Montanino, è una preziosa opportunità per conoscere e approfondire il lavoro più che ventennale di innovazione teatrale del gruppo delle Albe di Ravenna. Il volume è stato pubblicato dalla casa editrice romana Editoria & Spettacolo diretta da Maximilian La Monica, uno dei pochi editori italiani che ha scommesso sul teatro italiano contemporaneo, pubblicando soprattutto testi di autori, attori e registi, un mondo più prolifico e più interessante di quanto non rispecchi l’offerta ma anche la domanda del mercato librario italiano.
Martinelli, fondatore con Ermanna Montanari, del Teatro delle Albe di Ravenna, e direttore artistico del Teatro Rasi e del Teatro Alighieri di Ravenna, racconta in questo libro le origini e la genealogia del suo percorso artistico, dal primo incontro con il mondo del teatro nel 1977 al manifesto per un “teatro politttttttico” del 1987 dove si prospettava un incrocio tra impegno politico e carattere sacro della pratica teatrale, dalla creazione di una compagnia “afro-romagnola” (le “Albe bianche” e le “Albe nere”) con dei Griots senegalesi, alla svolta del 1991, quando il Comune di Ravenna affida con rara lungimiranza alla Compagnia delle Albe i due teatri della città Rasi e Alighieri, all’interno dei quali nasce anche la “non scuola” un progetto di formazione teatrale anticanonico per le scuole, fino al successo internazionale del 1998 con lo spettacolo I Polacchi, una tragedia patafisica sul tema della morte. Una parte di particolare interesse è quella in cui il libro affronta il tema della drammaturgia, prima per voce dello stesso Martinelli e poi in appendice, in un bel saggio di Gerardo Guccini, il quale sottolinea la particolarità autorale di Martinelli che oltre ad essere “autore di compagnia” pubblica anche i propri testi “come parte non deperibile” dell’esperienza scenica.
Nella maggioranza dei casi, la stagione della “scrittura scenica”, in cui il testo perdeva il suo primato, si frantumava e si marginalizzava a vantaggio dei linguaggi del corpo, della voce e di tutto l’apparato scenico, aveva segnato una netta cesura tra chi (il teatro cosiddetto di “tradizione”) partiva da un testo, e chi ( il teatro di “ricerca”) a un testo ci arrivava. In questa cesura non solo tendeva a scomparire l’idea che fosse possibile una ricerca drammaturgica ancora legata alla parola, ma la figura stessa del drammaturgo si estingueva (in certi casi tuttora è avversata come una pianta infestante) per essere completamente assorbita da quella del regista o da una creatività corale. Martinelli, che pure è stato insieme alle Albe uno dei protagonisti del teatro italiano di ricerca degli anni Ottanta e Novanta, ha un’idea diversa che personalmente condivido e che trovo assai più feconda: è quella di “una drammaturgia impura”, in cui l’idea e la pratica drammaturgica viene conservata non come scrittura a tavolino, ma mediante un continuo feed-back con gli attori come accadeva nella grande tradizione degli “autori di compagnia” (Shakespeare, Molière, Pirandello, Eduardo…), dove gli attori “non funzionavano da semplici esecutori, erano al contrario muse ispiratrici per l’autore” e collaboravano alla definizione delle battute. Pratica questa, come dice giustamente Martinelli, “che non vuol dire “diminuire” il ruolo del drammaturgo, bensì rafforzarlo, esaltarlo all’interno di una dinamica collettiva”.
Quest’idea della drammaturgia presuppone anche l’incompiutezza dello spettacolo, nel senso migliore del termine, cioè la possibilità di mantenere lo spettacolo sempre vivo e aperto alle trasformazioni che il divenire del tempo e della compagnia suggerisce, impedendo anche che “la forma diventi formula”. In questa prospettiva la drammaturgia si colloca nel segno di Hermes, dio della trasformazione, che non solo è divinità intermedia tra umano e divino, tra vivi e morti, traduttore, interprete e latore di messaggi, ma è anche protettore dei viaggiatori, dei maghi, dei ladri e soprattutto degli artisti che tutte queste categorie riassumono. Già perché la magia dell’arte, quella che Adorno definiva “la capacità di liberare la menzogna dal suo legame con la verità” è frutto del viaggio mentale e fisico (continuo è lo spostamento delle Albe in Africa o nelle trincee italiche come Scampia, pur nelle loro salde radici residenziali), della capacità di interpretare la complessità dell’uomo e del mondo, la capacità di dialogare con i morti e di giocare con la morte, e anche della capacità di “rubare” alla realtà e all’arte ovunque ci sia linfa sorgiva, invenzione e ardimento. E sorgente non è solo una metafora astratta, perché indica un rapporto della terra con l’elemento che la fa vivere, che per il teatro è il rapporto con il territorio, con le sue radici e la sua lingua (di qui l’interesse di Martinelli per il dialetto, in quanto risorsa di musicalità per l’attore e in quanto memoria vivente del territorio), ma anche con l’umanità che in esso cresce.
Mi ha molto colpito, quando sono andato a vedere gli spettacoli al Teatro Rasi di Ravenna, la straordinaria partecipazione, per quantità e qualità, del pubblico giovanile, in genere assente dai teatri se non per precetto scolastico, che qui affluisce spontaneamente e con entusiasmo. Sembrava di essere veramente in Europa. Questa è la risposta a chi da noi decreta la morte del teatro per mancanza di pubblico: il pubblico va creato, proprio come l’opera d’arte. Finché ci saranno cartelloni di (autori) morti a tenere le stagioni degli Stabili o direttori artistici scelti per meriti politici o per medaglia alla carriera, finché vincerà la logica degli abbonati cronici invece che del pubblico motivato, il teatro languirà e farà - come scriveva Baudelaire - dei lampadari la parte più interessante dello spettacolo.
Lavorare sulla valorizzazione del territorio, sulla formazione culturale delle nuove generazioni è fare veramente “politica”, in senso gramsciano, attraverso l’arte, nel senso di un servizio per la polis, che agisce sul piano simbolico ma anche su quello materiale, genera interfacce tra istituzioni e produzione artistica, risponde a vocazioni e crea lavoro, fa circolare pensiero e libera la mente dall’omologazione mediatica. C’è poi la capacità di creare una Rete tra gli artisti che agiscono sul territorio, come le Albe fanno con le altre compagnie (Fanny & Alexander soprattutto, ma anche le altre molteplici realtà teatrali romagnole), anziché trincerarsi dentro l’orticello di casa sparando veleno sui colleghi , com’è vezzo consumato del teatrante tipico. Per fare questo ci vuole realismo, ma di quel realismo che nasce da una matrice visionaria e “passionaria”, sentimento che Martinelli condivide simbioticamente con la sua compagna di sempre Ermanna Montanari, attrice di grande intelligenza e intensità espressiva, e con i suoi compagni di strada. Mondo poetico che trapela da tutti gli spettacoli e anche dalla sceneggiatura cinematografica pubblicata alla fine del libro, “Lezione di Storia”, incrocio tra velleità rivoluzionarie anarchiche e “stregoneria popolare” che mescola in modo visionario l’utopia di una “trasformazione orizzontale” (politica) del mondo con quella di una “trasformazione verticale” (metafisica) del mondo.
In appendice un intervento di Eugenio Barba e uno di Goffredo Fofi, insieme ad alcune immagini degli spettacoli e a una completa teatrografia e bibliografia.
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Alessandro Garzella mette in scena Una visita e L’acqua si diverte a uccidere Continua il viaggio nell'opera di Beniamino Joppolo di Andrea Lanini |
Il progetto di trilogia che Alessandro Garzella, Antonio Alveario e La Città del Teatro di Cascina dedicano a Beniamino Joppolo non è un tanto un percorso di ricerca compiuto attraverso la sua produzione drammaturgica, quanto un ritratto della sua opera tout court. Un incontro con la sua identità di autore sradicato, complesso, sfaccettato, contraddittorio, come altri siciliani oscillante tra slanci a vocazione mitteleuropea e consolatorie vie di fuga nel ventre della terra d’origine. Un incontro anche geografico, visto che il “viaggio nell’immaginario e nell’opera” di questo “autore divergente” è iniziato proprio in Sicilia, l’anno scorso, al Teatro Regina Margherita di Racamulto, dove i due registi hanno presentato l’atto unico Una visita, spettacolo coprodotto da La Città del Teatro e Fondazione Regina Margherita.
Al Teatro Rossini di Pontasserchio è andata recentemente in scena la seconda parte del progetto, Un grido d’allarme, la nuova regia di Alessandro Garzella che a Una visita ha affiancato L’acqua si diverte a uccidere, atto unico tratto dal primo tempo di Le acque grazie all’elaborazione drammaturgica di Anna Barsotti.
Cercare di restituire attraverso la scena un’immagine a trecentosessanta gradi di Joppolo è probabilmente il modo più onesto e attendibile di raccontare le tante sfumature del suo lavoro di poeta, romanziere, drammaturgo, pittore, teorico. Ogni versante del suo lavoro, così restio a classificazioni ed etichette, nasce già teatrale, aperto alle contaminazioni, vitale perché in fuga costante dal già visto, dalle convenzioni, dall’abitudine all’omologazione, abituato a creare disordine, rottura, incongruenza, inquietudine: la produzione teatrale custodisce quello sguardo visionario, espressionista, da indomita avanguardia, che caratterizza la sua pittura informale, esattamente come questa custodisce, nelle sue ambientazioni astratte, una concezione vitalistica dello spazio e della materia che allude alla scena e che con essa idealmente (e naturalmente) si amalgama.
La biografia di Beniamino Joppolo ha trasformato la sua opera in un coacervo inquieto in cui si incontrano la sicilianità di Pirandello e il realismo magico di Bontempelli, l’espressionismo di Kaiser e Toller e lo spazialismo di Fontana, il surrealismo e l’esistenzialismo francese e l’“assurdo” di Beckett, Adamov e Ionesco ; in cui le memorie ataviche dei Nebrodi si intrecciano con Firenze, Milano, Parigi. Il risultato di tanta ricchezza è un ventaglio praticamente infinito di sfumature, di possibilità espressive, di significati, di simbologie.
Alessandro Garzella e Antonio Alveario scelgono di amplificare le venature “noir” di quell’opera, vogliono che il grido di allarme sia udibile con chiarezza, e così è: entrambi gli atti unici poggiano su un lacerante connubio di opposizioni e attriti che fanno del presente una facile preda della memoria, fagocitano il senso delle parole e lo slancio vitale dei gesti. Non c’è alcuna possibile allegria nella sala da pranzo che accoglie i due strani ospiti di “Una visita”, non c’è alcuna speranza di futuro nel reliquario di cellophane e fotografie in bianco e nero di L’acqua si diverte a uccidere, in cui un uomo e una donna (i bravissimi Serena Barone e Giacomo Civiletti), in un tempo infinito, dilatato, beffardamente circolare come quello dell’attesa beckettiana, celebrano un rito che è il loro stesso sacrificio, accompagnati da un vuoto ontologico scandito dalla partitura ritmica di gocce che cadono con suono tagliente di metronomo. Il fil rouge che lega i due atti è lo scarto tra ciò che è stato e ciò che avrebbe dovuto essere, e l’equilibrio tra passato e presente è deciso da una scenografia che annulla il secondo sul ricordo del primo: tutto appare cristallizzato, polveroso, vecchio di secoli. Le scene e i costumi di Rosanna Monti, le luci di Giuliano De Martini e Fabio Giommarelli e l’ideazione sonora di Virginio Liberti enfatizzano la natura oscura delle cose, rendendo forti le ombre. È ciò che proviene dal buio a condurre il gioco, a sciogliere gli ossimori: l’euforia della veste a lutto schiaccia il grigiore dei colori, i sussurri provenienti dai tubi, dai sassi, da dietro le persiane spengono le battute recitate con vigore dal proscenio, i fraseggi sottovoce di un pianoforte romantico attutiscono i poderosi accordi distorti. Se in “Una visita” gli unici davvero vivi sono i due ospiti-spiriti che parlano a nome della “collettività dei morti”, rendendo straniante la vicinanza con i padroni di casa (Roberto Bugio, Antonietta Carbonetti, Isabella Ragonese), fantasmi di carne anche loro, in qualche modo, in attesa di senso, in L’acqua si diverte a uccidere gli unici volti capaci di brillare di luce propria sono quelli racchiusi nelle tante fotografie sparpagliate sulle tavole del palcoscenico, immagini-simbolo attraverso cui il presente percepisce la propria inettitudine alla vita. I personaggi di Joppolo vivono il dramma pirandelliano del naufragio della coscienza, della percezione alterata dell’Io, ma senza la consolazione di un approdo spiazzante, di una superiore logica capace di squarciare i cieli di carta: rimangono come a mezz’aria, in bilico, traditi da uno slancio metafisico incapace di mettere ordine, di regalare senso, di fornire risposte.
La regia di Alessandro Garzella, soprattutto nell’Acqua si diverte a uccidere, fa in modo che la speranza resti mortificata, in modo che tutto lo stridore di cui ogni visionarietà è capace risuoni in modo diretto e potente. È questa la peggiore beffa di cui il Beniamino Joppolo di Alessandro Garzella è capace: qualsiasi ottimistico indizio – la rassicurante ambientazione borghese, la solare sicilianità (che Serena Barone e Giacomo Civetti lasciano abilmente filtrare nell’elegante italiano dei testi), la presenza di efficaci aperture al comico – finisce per dileguarsi in una luce accecante che si origina dal buio e che al buio finisce immancabilmente per tornare. Attraverso le modulazioni provenienti dal corpo elastico dell’opera di Joppolo, il grido di Alessandro Garzella si affianca alla riflessione su quell’“omologazione di repertori e desideri che la scena oggi esprime”, la stessa che “ha privato il teatro contemporaneo di parte delle proprie radici”. Anche in questo grido di allarme il passato vince sul futuro: l’obiettivo non è avvisare del pericolo, ma fare la conta dei danni.
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Lipsynch: il teatro della voce di Robert Lepage Il debutto a Montreal del nuovo spettacolo: materiali e interviste di Anna Maria Monteverdi e Christiane Charette |
Nuovo debutto per Robert Lepage, reduce da Salonicco dove ha ricevuto il prestigioso PREMIO EUROPA (ex aequo con il tedesco Peter Zadek che però non è intervenuto alla cerimonia rinunciando così, al premio e a 60.000 euro).
Sul sito di Radio-Canada una clip audiovisiva che racconta con una breve intervista a Lepage, questo passaggio molto acclamato in Grecia dove ha tra l’altro, interpretato in una scenografia sommaria, alcuni brani dei suoi spettacoli.
La nuova produzione dal titolo Lipsynch, come di consueto debutterà ma in una forma non completa, a Montréal la prima settimana di giugno al Festival Trans-Amérique. Nuovo nome per il pluridecennale Festival dei Teatri delle Americhe ma stessa direzione artistica, stessa formula di spettacoli internazionali co-prodotti e un’ampia vetrina del teatro francese e franco canadese, con l’aggiunta di incontri e tavole rotonde. Cambia solo la cadenza: il Festival sarà d’ora in poi, annuale.
Lo spettacolo di Lepage ha avuto una prima fase laboratoriale e la prima uscita pubblica quest’inverno a Newcastle (al Northern stage).
Theatre sans frontiéres diretto da Sarah Kemp e John Cobb a Newcastle lo ha ospitato per un periodo piuttosto lungo: era una situazione adatta per una residenza coproduttiva poco esposta al grande pubblico e lontana dai riflettori delle grandi città. Ogni nuovo lavoro di Lepage suscita infatti grande attenzione da parte del pubblico, della critica, dei media:
Quando tempo fa feci uno spettacolo a Montréal avevo a disposizione otto settimane di prove e passai quattro di queste a parlare con la stampa. Qui a Newcastle posso andare avanti con il mio lavoro. Non posso farlo a Londra. Fare arte nelle grandi città è talvolta frustrante e difficile. Ecco perché gli artisti vanno in luoghi più piccoli Pensa a Pina Bausch, la cui base è a Wuppertal. Non Francoforte o Amburgo. Wuppertal!
Il nuovo spettacolo Lipsinch prevede un grande dispiego di mezzi tecnologici, una drammaturgia scritta a più voci (in cui ritroviamo Marie Gignac, coautrice anche della Trilogie des dragons) con nove interpreti-cantanti provenienti da diverse parti del mondo. Lo spettacolo ha una durata complessiva (attuale) di cinque ore e trenta minuti suddiviso in diversi quadri narrativi che si misurano soprattutto con una dimensione sonora più che visiva, ed è recitato in francese, tedesco, spagnolo e inglese. La dimensione improvvisativa nella prima fase processuale dello spettacolo, è stata fondamentale: su stessa ammissione di Lepage lo spettacolo si poggia sul lavoro creativo degli attori:
Noi recitiamo. Si crea qualcosa, si portano idee e lavoriamo con queste e improvvisiamo e poi vediamo quello che succede. Dopo un certo periodo di tempo è lo spettacolo a rivelarsi a noi.
Levando ogni enfasi sul ruolo direttivo del regista Lepage afferma tranquillamente che:
Spesso, specie alla fine del processo creativo di uno spettacolo, mi considero meno un regista e più uno che dirige il traffico. Il mio lavoro consiste nel portare idee e pezzi dello spettacolo nelle situazioni dove funziona meglio. Oppure talvolta il mio compito è solo dire: “No”.
Lipsynch è una riflessione sulla natura della voce, che è “il DNA dell’anima”. Pare che la versione finale vedrà la luce solo nel settembre 2008 al Barbican di Londra, dilatandosi fino a nove ore e raccontando storie che vanno dal 1945 al 2012. Lepage mentre continua il tour mondiale dello storico spettacolo La Trilogie des Dragons, che lo aveva consacrato a livello internazionale, sembra così ricongiungersi alla modalità di scrittura collettiva e di narrazione “epica” - con attenzione al multilinguismo - con cui aveva debuttato giovanissimo all’epoca della sua partecipazione al lavoro di Théatre Répere.
Come nelle Sept branches de la riviére Ota, anche in questo nuovo spettacolo sono trattate vite e destini che a distanza di anni, inaspettatamente, si intrecciano. Nella scheda dello spettacolo si legge che “Lipsynch è come un enorme meccano che porta il teatro al punto più alto delle sue possibilità narrative, una sorta di cubo di Rubik che moltiplica le sue facce e lascia aperte nuove possibilità”.
IL TEATRO E’ UN VIAGGIO
Dall’intervista a Radio Canada di Christiane Charette traduciamo in sintesi alcuni passaggi significativi (per gentile concessione di Radio Canada e dell’autrice).
Robert Lepage, lei è reduce dall’Inghilterra da Newscastle dove ha esordito con lo spettacolo Lipsynch: ma perché proprio l’Inghilterra?
Perché è una collaborazione importante dal punto di vista economico ma anche per altre ragioni. Siamo stati ospitati da un piccolo teatro, Théatre Sans Frontiéres con sede nel Nord-Est dell’Inghilterra che ha le nostre stesse idee; eravamo un po’ nascosti dalla capitale e questo è stato un bene. In fase progettuale non volevo distrazioni, volevo tempi lunghi e ho scelto un posto piccolo, nascosto. Certo, ci sono distrazioni anche lì ma non come nella capitale.
Gli inglesi la adorano, ha un rapporto privilegiato con l’Inghilterra anche se è conosciuto in tutto il mondo...
In Inghilterra ci sono soldi, risorse, idee. Poi i quebecchesi sono molto inglesi!
Come?
L’inglese è prima di tutto un modo di pensare.
Ci sono attori eccezionali in Inghilterra.
Si, e sono capaci di passare con facilità dal teatro al cinema.
I critici inglesi sono cattivi? Lei è mai stato “cucinato”?
Sono stato in realtà, molto viziato, ho vinto molti premi; non me la sono mai presa per le critiche, magari posso non essere d’accordo su certe cose, ma accetto le critiche. I Sette rami del fiume Ota alla prima di Edinburgo fu stroncato mostruosamente e poi l’anno dopo è stato votato come lo spettacolo più influente.... Le stesse persone che ti stroncano poi ti osannano. Ci sono registi che fanno uno spettacolo ogni cinque anni, io ne faccio 10-12 l’anno. I primi, se li stronchi sono rovinati ma io ho una produzione così ampia che se anche ho una stroncatura non mi cambia granché! Certo, può succedere che uno spettacolo riesca o non riesca, puoi accettare le critiche. Non me la prendo ma in generale mi considero trattato bene dalla critica inglese.
Spesso Lei va in scena quando lo spettacolo non è finito.
Uno spettacolo non finisce, ho bisogno di mostrarlo anche non finito. La premiére per me non è mai il debutto, io cerco un dialogo col pubblico. Per molti autori antichi succedeva così, come per Shakespeare: c’era bisogno della risposta del pubblico per vedere se lo spettacolo funzionava. Non mi interessa veramente la perfezione, mi interessa quanto uno spettatore può dare allo spettacolo.
In Lipsynch che è recitato in inglese, tedesco spagnolo francese c’è un grande apporto degli attori, delle loro improvvisazioni, ancora non sappiamo cosa verrà fuori. Io in questo spettacolo non recito, mi considero un allenatore più che un regista. Non tutti riescono a lavorare con me perché io mi aspetto la risposta dagli attori, lascio loro molto spazio, molta libertà. Ci sono persone però, che hanno bisogno di una direzione. Io comincio ma non conosco la direzione di uno spettacolo. Veramente, non so dove si va a finire. La vita ti deve portare, non puoi sapere dove andrai, così è nel teatro.
Lipsynch dura cinque ore e mezzo. Perché è così lungo?
Avevamo promesso 4 ore e mezzo poi cinque... Non è lungo perché quando sei lì non sembra affatto lungo. Quando sei a teatro il tempo si dilata, succede la stessa cosa di fronte a una cosa bella. Se lo spettacolo è bello, cioè quando è ispirato, la gente è disposta a stare due ore in più. Personalmente mi prendo tutto il tempo che ci vuole per raccontare, per spiegare quello che succede e perché succede, i collegamenti tra le storie.... In TV tutto deve essere ridottissimo. L’intervallo poi ha una funzione sociale importante tanto quanto lo spettacolo. Gli spettatori mangiano, bevono, è una maratona per tutti, spettatori e attori. Alla fine quando sarà finito, sarà di nove ore, dalle 14 alle 23 di sera con intervalli variabili di lunghezza. In fondo è un viaggio, uno si fa imbarcare. Le persone più lo vedono più gli piace e vorrebbero che durasse di più perché lo considerano un viaggio, un viaggio fatto insieme appunto.
Di cosa tratta Lipsynch?
Lipsynch E' uno spettacolo sulla voce. Come teatro siamo associati di più all’immagine, abbiamo come una “firma visuale”. Questo spettacolo invece è più improntato sulla voce che è diversa dal linguaggio, non è la stessa cosa. Spesso si confonde voce con parola e linguaggio ma sono tre temi differenti. La voce è associata alla madre, la lingua è un codice e la parola è l’individuo.
E’ un po’ intellettuale come spiegazione!
Questa differenza è una scoperta che ho fatto studiando la voce: la voce è ciò che ti sconvolge, è quella che vai a scoprire per avere spiegazioni sul mondo. La voce è importante, quando il bimbo è in grembo sente la voce della madre. E la parola appartiene all’individuo ed è quello che lo rispecchia. Il linguaggio è un codice di comunicazione, all’interno del quale rientra il teatro, la danza, il movimento, la musica: è sempre un linguaggio. La parola è l’azione dell’esprimersi. La voce è più interiore, è legata ai sensi, alla filosofia dell’esistenza.
Nello spettacolo metto in scena dei personaggi che entrano in conflitto con la voce o con la parola o con il linguaggio. Ci sono come degli inciampi, delle rotture legate a queste tre cose. Per esempio, c’è una giovane che ha un tumore nella zona del cervello legata alla parola e diventa afasica. Si può esprimere però con la voce, non ha la parola ma ha la voce.
Cosa pensa lei della sua voce?
La sto scoprendo sempre di più. Io non mi sono mai ascoltato veramente. Mi hanno fatto moltissimi complimenti per la mia voce recentemente: non pensavo di avere questo potere evocativo. La radio poi, provoca più immagine nella testa delle persone che la Tv, evoca sensazioni.
Sarebbe stato sprecato in radio!
Negli anni Ottanta ero in piena crisi e avevo pensato di fare radio, avevo dimenticato perché facevo quello che facevo. Però mi piace davvero la radio. Accetto più facilmente interviste alla radio che in TV. Alla radio c’è una libertà maggiore.
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I miei concerti tra Bernini e la Socìetas Raffello Sanzio Intervista a Lorenzo “Jovanotti” Cherubini di Francesca Pasquinucci |
Nel maggio 2007, grazie all’interesse e all’aiuto del musicista toscano Andrea Tofanelli , trombettista di Jovanotti nel Tour dell’Albero, sono riuscita a contattare telefonicamente l’artista e a porgli alcune domande sulla sua idea di show design e sugli intrecci possibili con il teatro. Questa intervista inedita, è parte della tesi di laurea al CMT di Pisa (relatrice: Anna Maria Monteverdi).
Arrivati al 2007 sono sempre di più gli artisti- cantanti che nei concerti live lasciano un ampio spazio alla parte visiva-teatrale; come interpreti questo atteggiamento di confronto con altri linguaggi dello spettacolo e ambiti propri della multimedialità? La vedi come una nuova importante spinta di ricerca artistica o solo un modalità per offrire qualcosa di sempre più originale e spettacolare al pubblico che va a vedere i concerti?
Jovanotti Penso che sia una questione di abitudine e di opportunità, prima di tutto. Siamo abituati all’immagine, la pretendiamo, in un certo senso, nella nostra epoca; e poi oggi la diffusione dei mezzi a costi inferiori rispetto al passato e la possibilità di gestire i contenuti con tecnologie leggere rende tutto più accessibile. Credo che oggi un artista che sceglie di non avere “visual” nel suo show fa una scelta comunque legata alla presenza dei “visual”, il suo non averli è comunque un modo per comunicare attraverso le immagini. In genere l’uso di immagini a me pare molto poco interessante, il più delle volte è didascalico e anzi finisce per togliere potere alla musica invece di darglielo. Questo avviene perché si pensa prima al contenitore che al contenuto, ma la cosa che conta è prima di tutto il contenuto.
Com’è cambiata l’idea di allestimento secondo te in questi anni?
È cambiato tutto. Oggi i concerti sono una grande industria e il pubblico si è allargato molto, non solo i giovani vanno ai concerti ma anzi quelli che possono fare pagare biglietti più salati sono gli artisti che hanno un pubblico adulto che può permettersi di spendere. E’ cambiato tutto rispetto a qualche anno fa: ai concerti si sente meglio, c’è più professionalità. Comunque sono sempre pochissimi quelli che riescono a fare qualcosa di interessante, io ai concerti in genere mi avvilisco molto, vedo molta energia spesa malissimo e senza rispetto per il pubblico.
Quali sono stati gli elementi teatrali più importanti e d’impatto nei tuoi tour, dal L’Albero a Buon Sangue?
Io non sono praticamente mai andato a teatro. Il teatro l’ho idealizzato dentro di me, so che se lo frequentassi rimarrei deluso, lo voglio avere come una specie di sogno. Non mi piace l’idea di uno che fa finta di essere un altro, l’idea della recitazione a teatro, delle scenografie, delle luci, non mi piace. Per me non ci devono essere scenografie nemmeno luci, niente che non sia pura potenza ed energia, sommata o sottratta allo zero. Mi interessa l’onda che si crea. In genere parto da una visione, da una cosa che mi emoziona e cerco di costruirci intorno tutta una tournée. Mi piace l’idea della festa, del sacro, del mistero. Il massimo è Lorenzo Bernini che organizzava feste a Roma, a Piazza Navona in epoca barocca e tutto era effimero, durava solo una notte. Mi piace il carnevale di Rio, mi piace la Societas Raffaello Sanzio.
Nel tour dell’Albero volevo una piazza in un dì di festa. Nel tour di Capo Horn volevo una scatola bianca. Nel tour del Quinto Mondo volevo solo la musica e i corpi della band.
Nel tour di Buon Sangue volevo una presenza fisica tecnologia e calda, una specie di macchina dei sogni sul palco e io a metà strada tra il sogno e la realtà.
Io mi pongo sempre come un usciere, uno che sta tra la musica e la realtà, un passaggio, una porta.
In generale quindi, attribuisci un valore “teatrale” all’allestimento dei concerti rock?
Per me il teatro, nella mia testa, è una porta verso il sacro, quindi direi proprio di sì.
In uno scorcio di intervista dentro al dvd di Buon Sangue riferendoti alla costruzione dello show parli di inquietudine: perché?
Perché sì, perché l’inquietudine è in tutto e il pianeta è inquieto e io lo sono, e anche il pubblico lo è, lo è la musica, lo è la natura.
Chi si occupa della progettazione degli spazi? C’è una rapporto di collaborazione con questi professionisti dello show design?
Siamo una squadra che lavora insieme dal 1994. Io faccio un po’ il regista e poi ci sono Sergio Pappalettera e Giancarlo Sforza, e Giorgio Ioan che produce tecnicamente i materiali.
Come organizzi il materiale video per farlo interagire in scena con la musica in diretta?
Oggi lo rubo qua è là, dai dvd, dalla tv, da internet e poi lo manipoliamo. Oppure lo giro io stesso, o Sergio con una telecamerina; ora ne ho una piccolissima che mi piace molto.
Chi sono i tuoi riferimenti per gli allestimenti?
Gli U2 sono i più grandi di tutti. Mark Fisher è un genio. Però la mia ispirazione viene da tante fonti, riviste, film, tv, libri, mostre, viaggi, dischi, internet, incontri. La mia principale ispirazione è la realtà, le cose che vedo in giro.
Se tu dovessi creare uno show in collaborazione con un altro artista, non musicista, chi vorresti al tuo fianco?
Bernini? Castellucci? Corsetti? Ghezzi? Spielberg? Terry Gilliam? Peter Brook?
Sempre nel dvd dici “essere sempre visivi all’immaginazione” riferendoti all’uso del gilec; è questa la forza della tecnologia? Potremmo pensarla anche come la nuova psichedelia?
Assolutamente sì. La tecnologia può farci sognare, assolutamente sì. E siamo solo all’inizio, credo.
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Totonomine Catania: dopo Baudo, Buttafuoco Il nuovo presidente dello Stabile di Redazione news |
Pietrangelo Buttafuoco, 44 anni, giornalista e scrittore, e' il nuovo presidente del Teatro Stabile di Catania. A nominarlo e' stato il consiglio di amministrazione dell'ente, che ha votato all'unanimita'. Succede a Pippo Baudo che e' stato per sette anni alla guida del teatro. Buttafuoco, 44 anni, laureato in filosofia e' inviato speciale di "Panorama" ed e' stata uno delle firme storiche del quotidiano "Il Foglio". Attualmente conduce il settimanale "Giarabub" su La7. E' anche autore dei libri "Fogli consanguinei" e "Le uova del drago", premio Campiello 2006.
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Scelte al Teatro Quirino di Roma le terne dei finalisti del Premio ETI-Gli Olimpici del Teatro 2007 I Premi assegnati al Teatro Olimpico di Vicenza il 14 settembre di Ufficio stampaETI |
Roma, 19 giugno 2007 Ieri sera al Teatro Quirino di Roma sono state discusse e votate le terne dei finalisti (nominations) della quinta edizione del Premio ETI - Gli Olimpici del Teatro, riconoscimento annuale del teatro italiano, organizzato da Ente Teatrale Italiano e Teatro Stabile del Veneto.
Alla presenza di attori e registi (tra cui ricordiamo Roberto Herlitzka, Laura Marinoni, Geppy Gleijeses, Luigi Lo Cascio, Maria Rosaria Omaggio, Paola Gassman, Luigi De Filippo, Debora Caprioglio e molti altri) gli addetti ai lavori e un pubblico di appassionati hanno assistito alle discussioni della giuria, applaudendo o criticando le scelte.
La giuria, presieduta da Gianni Letta, a cui spettava il compito di indicare le nomination per le quattordici categorie del premio, era composta da: Fausto Russo Alesi, Giulio Baffi, Andrea Bisicchia, Masolino D'Amico, Giuseppe Ferrazza, Maria Rosaria Gianni, Enrico Groppali, Giancarlo Leone, Cesare Lievi, Magda Poli, Sergio Sciacca, Roberto Toni, Nicola Viesti. Segretario generale del Premio è Maurizio Giammusso.
Nel corso della serata, la discussione è stata particolarmente animata e non priva di contrasti, seguiti con passione quasi calcistica dal pubblico e dagli artisti intervenuti in sala.
Le terne designate dalla giuria testimoniano l’eterogeneità della nostra scena, il mescolarsi di generi e generazioni, di leggerezza ed impegno. A contendersi la palma come miglior spettacolo della stagione appena conclusa saranno IL RE MUORE diretto da Pietro Carriglio, LE SMANIE DELLA VILLEGGIATURA con la regia corale di Vetrano-Randisi-Bucci-Sgrosso, LE VOCI DI DENTRO firmate da Franco Rosi.
Il miglior interprete sarà scelto tra FRANCO BRANCIAROLI, LUCA DE FILIPPO e PAOLO POLI, mentre tra le donne la terna per la migliore attrice è composta da LAURA MARINONI, OTTAVIA PICCOLO e PAOLA QUATTRINI.
Nelle votazioni, molti spettacoli ed artisti hanno ricevuto segnalazioni in diverse categorie: Il Re muore entra in terna come miglior spettacolo e per la regia di Pietro Carriglio, mentre Pierluigi Pizzi è candidato nella doppia veste di regista e costumista per Una delle ultime sere di Carnovale; Chantecler, diretto da Armando Pugliese (tra i finalisti per la miglior regia di Questi fantasmi), oltre che come miglior commedia musicale, conquista le candidature per i costumi e le musiche; Le voci di dentro, nella terna del miglior spettacolo, concorre inoltre per l’interpretazione di Luca De Filippo e per le scenografie di Enrico Job; Ottavia Piccolo dà forza con la sua candidatura a migliore attrice a quella di Stefano Massini in lizza come autore di novità italiana per Processo a Dio; mentre Misura per misura, in finale per le scenografie di Carmelo Giammello, si è rivelato il banco di prova per due giovani talenti della scena, Lorenzo Lavia (nella terna degli attori non protagonisti) e Francesco Bonomo (in concorso tra gli emergenti), così come Eracle ha visto emergere due non protagonisti, Giovanna Di Rauso ed Ugo Pagliai.
La parola adesso passa ai 400 artisti e professionisti del Teatro che compongono la giuria popolare, chiamati a scegliere e votare i vincitori delle 14 categorie del Premio, che saranno premiati il 14 settembre prossimo al Teatro Olimpico di Vicenza, in una serata trasmessa come sempre da Rai Uno.
Le terne dei finalisti per ciascuna categoria
(in ordine alfabetico)
Migliore spettacolo di prosa
IL RE MUORE regia di Pietro Carriglio
LE SMANIE PER LA VILLEGGIATURA regia di Vetrano-Randisi-Bucci-Sgrosso
LE VOCI DI DENTRO regia di Francesco Rosi
Miglior musical o commedia musicale
CHANTECLER regia di Armando Pugliese
MASANIELLO regia di Tato Russo
TUTTI INSIEME APPASSIONATAMENTE regia di Saverio Marconi
Migliore spettacolo d'innovazione
LA BUONA MADRE regia di Stefano Pagin
MACBETH regia di Elena Bucci con la collaborazione di Marco Sgrosso
ROMA ORE 11 regia di Mandracchia-Reale-Toffolatti-Torres
Miglior attore protagonista
FRANCO BRANCIAROLI per Finale di partita
LUCA DE FILIPPO per Le voci di dentro
PAOLO POLI per Sei brillanti
Miglior attrice protagonista
LAURA MARINONI per Le lacrime amare di Petra Von Kant
OTTAVIA PICCOLO per Processo a Dio
PAOLA QUATTRINI per Un Tram che si chiama desiderio
Miglior interprete maschile/femminile di monologo o "one man show"
ANNA GALIENA per Quale droga fa per me?
SAVERIO LA RUINA per Dissonorata
MARIA PAIATO per Un cuore semplice
Miglior attore non protagonista
LORENZO LAVIA per Misura per misura
UGO PAGLIAI per Eracle
MASSIMO VERDASTRO per Gli Uccelli
Miglior attrice non protagonista
ANNA BONAIUTO per Inventato di sana pianta
GIOVANNA DI RAUSO per Eracle
PATRIZIA ZAPPA MULAS per Les Bonnes
Miglior attore/attrice emergente
FRANCESCO BONOMO per Misura per misura
FEDERICA FRACASSI per Le muse orfane
SUSANNA PROIETTI per La Presidentessa
Miglior regista
PIETRO CARRIGLIO per Il re muore
PIERLUIGI PIZZI per Una delle ultime sere di Carnovale
ARMANDO PUGLIESE per Questi fantasmi
Migliore scenografo
CARMELO GIAMMELLO per Misura per misura
ENRICO JOB per Le voci di dentro
CARLO SALA per La bottega del caffé
Miglior costumista
PIERLUIGI PIZZI per Una delle ultime sere di Carnovale
SILVIA POLIDORI per Chantecler
ANDREA VIOTTI per Le nozze di Figaro
Miglior autore di musiche
MATTEO D’AMICO per Il povero Piero
ENZO GRAGNANIELLO per Chantecler
GERMANO MAZZOCCHETTI per Gastone
Miglior autore di novità italiana
EDOARDO ERBA per Margarita e il gallo
STEFANO MASSINI per Processo a Dio
SPIRO SCIMONE per La busta
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La scomparsa di Luciano Damiani Scenografo di Strehler di Redazione ateatro |
Lo scenografo e costumista Luciano Damiani, uno dei maestri della scenografia teatrale italiana del dopoguerra, è morto oggi all'età di 84 anni. È deceduto in un ospedale romano, dove era stato recentemente ricoverato. Lo si è appreso a Milano, dove Damiani è stato uno dei più stretti collaboratori di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro.
Nato a Bologna il 14 luglio 1923, Luciano Damiani si era diplomato nel 1949 all'Accademia di Belle Arti della sua città, dove aveva frequentato Giorgio Morandi, e il suo nome l'avrebbe legato in particolare alla storia del Piccolo e alla lunga, storica e grande collaborazione con Giorgio Strehler.
Progettò e realizzò le sue prime scenografie per il Centro Universitario Teatrale di Bologna, recitando contemporaneamente nel teatro universitario e lavorando in pubblicità. Nel 1949-50 è scenografo al Teatro La Soffitta e al Teatro Comunale di Bologna, dove realizza le scene per L'Imperatore Jones di E. O'Neill che rendono subito noto il suo nome.
Nel 1951 inizia la sua collaborazione col Piccolo e con la scenografia de Il cammino sulle acque di Orio Vergani, per la regia di Strehler. Nel 1955 inaugura la Piccola Scala di Milano con Il matrimonio segreto di Cimarosa sempre in coppia con Strehler, e intraprende una collaborazione con il Teatro La Fenice di Venezia. Successivamente frequenta i più importanti teatri europei e lavora al fianco di affermati registi e celebri direttori d'orchestra.
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I vincitori del Premio Riccione Teatro 2007 Vent'anni dopo tocca di nuovo a Ugo Chiti. Il Tondelli a Borrelli di Premio Riccione |
Sono stati attribuiti a Riccione sabato 30 giugno da Franco Quadri (presidente di giuria), nel corso di una serata condotta da Gioele Dix, i premi della quarantanovesima edizione di Riccione Teatro, il più antico riconoscimento per la scrittura teatrale italiana contemporanea, che nella lunga storia (festeggia quest’anno i sessant’anni di vita) ha scoperto artisti quali Ascanio Celestini, Fausto Paravidino, Davide Enia. Tra il numero record di copioni pervenuti alla segreteria del Premio (quasi 500) la giuria ha assegnato il Premio Riccione (e 7500 euro) a Ugo Chiti per Le conversazioni di Anna K, testo ispirato a Le metamorfosi di Kafka.
Chiti, toscano, aveva già vinto il Premio Riccione esattamente vent’anni fa con Nero cardinale, fortunata pièce che anche di recente ha solcato i palcoscenici con l’interpretazione di Alessandro Benvenuti. Nel 1989 ha vinto il Premio IDI per La provincia di Jimmy. Dal 1990 ha iniziato a lavorare come sceneggiatore per il cinema (collaborando tra gli altri con Nuti, Veronesi Benvenuti). Nel 2003 ha vinto il David di Donatello per la sceneggiatura de L'imbalsamatore di Matteo Garrone.
Il Premio Riccione - Premio TondelliMimmo Borrelli con ‘A sciaveca. Borrelli, classe ’79, è attore, cantante e autore teatrale, con esperienze che spaziano dal teatro classico al teatro leggero e di figura. Nel 2005, a 26 anni, aveva vinto il Premio Riccione con ‘Nzularchia.
Premio Speciale della Giuria "Bignami/Quondamatteo" (ideatori del Premio) ex aequo a Roberto Cavosi con Antonio e Cleopatra alle corse e Sergio Pierattini con Un mondo perfetto. Cavosi è nato a Merano nel 1959; diplomato all’Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, come attore viene diretto da Ronconi, Squarzina, Trionfo, Fabbri e Risi. I suoi lavori vengono messi in scena tra gli altri da Patrick Rossi Gastaldi, Ennio Coltorti, Antonio Calenda, Piero Maccarinelli, Antonio Sixty, Sergio Fantoni. Cavosi, che è anche autore radiofonico e televisivo, ha vinto il Premio Idi nel 1993, e nel 2001 il Premio Riccione con Bellissima Maria.
Sergio Pierattini, giornalista, attore e autore teatrale è nato a Sondrio nel 1958; anch’egli diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica e anch’egli attore (Mazzacurati, Chiti, Monicelli, Francesca Archibugi)., ha ricevuto nel 2006 il Flaiano per Il raggio bianco.
Il Premio Marisa Fabbri (destinato a indicare un’opera particolarmente impegnata nella ricerca di un linguaggio aperto e poetico) è stato assegnato a Dacia Maraini - Notarbartolo, un uomo giusto. La Maraini, scrittrice, poetessa e critica conosciutissima, ha fondato nel ’73 il Teatro della Maddalena, gestito e diretto da donne. Numerosissimi i premi vinti sia per l'opera letteraria che per quella drammatica, tra cui anche il Premio Riccione.
Il premio di produzione di 30.000 euro per concorso alle spese di allestimento sarà assegnato al progetto indicato dall’autore vincitore.
Le segnalazioni della giuria sono state attribuite a Mimmo Sorrentino (Ave Maria per una gatta morta) ed Enzo Moscato (Del falso biondo-ariano di frau Edda Morsicano)
Sorrentino, drammaturgo e regista, fa scaturire la sua pratica teatrale da un metodo proprio delle scienze sociali: l'”osservazione partecipata”. Nella sua ricerca, iniziata alla fine degli anni 80, ha coinvolto attori, studenti, disabili, tossicodipendenti in recupero, alcolisti, anziani, extracomunitari, abitanti delle periferie del nord Italia. I suoi lavori sono stati presentati in teatri, università e centri di ricerca.
Moscato, napoletano, 60 anni, è attore, autore e regista teatrale; ha scritto e interpretato spettacoli di grande invenzione stilistica e scenica. Tra i riconoscimenti ricevuti il Premio Riccione Ater 1985 con Pièce Noir, il Premio Ubu 1988 e 1994, il Biglietto d'Oro Agis 1991, il Premio Franco Carmelo Greco nel 2004. Ha tradotto in italiano per la scena testi come Arancia Meccanica, Ubu re, Tartufo. Ha al suo attivo anche due cd come chansonnier. Ha lavorato e lavora anche per il cinema.
Infine, il Premio Aldo Trionfo è andato a EGUMTEATRO. La compagnia (nata a Milano nel '94 e trasferitasi in toscana nel '98) organizza seminari per attori professionisti, realizza spettacoli con gruppi dialettali, con gli allievi delle scuole elementari e con gli ex lungo-degenti dei servizi psichiatrici, oltre a dare vita a Quaderni di Teatro con interviste inedite ad importanti registi europei. Nel 1998 ha vinto il premio “G. Bertolucci” per le giovani compagnie. Dal 2002 cura la direzione artistica di Amiata Festival – festival di arti popolari che si svolge in agosto nei Comuni dell’Amiata senese. Nel 2005 ha vinto il premio “Lo straniero” per la sezione teatro. Il premio Aldo Trionfo è riservato a quei teatranti (artisti della scena o della pagina, singoli o gruppi, studiosi o tecnici) che si siano distinti nel conciliare gli opposti, coniugando la tradizione con la ricerca.
La giuria del Premio è composta da Franco Quadri (presidente), Roberto Andò, Anna Bonaiuto, Sergio Colomba, Luca Doninelli, Edoardo Erba, Maria Grazia Gregori, Renata Molinari, Renato Palazzi, Ottavia Piccolo, Giorgio Pressburger, Luca Ronconi, Renzo Tian.
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Premio Patroni Griffi: non ha vinto nessuno Il comunicato della giuria di Associazione Patroni Griffi |
L’Associazione Patroni Griffi comunica che la giuria della prima edizione dell’omonimo premio per la nuova drammaturgia italiana si è riunita al Teatro Eliseo e ha esaminato i copioni finalisti. Erano presenti, sotto la presidenza di Aldo Patroni Griffi Terlizzi, i giurati: Franca Valeri, Vincenzo Monaci, Gianni Letta, Antonio Calbi, Masolino d’Amico, Maurizio Giammusso, Cristina Pezzoli, Mariano Rigillo e Saverio Barbati Segretario generale dell’Associazione Patroni Griffi.
Dopo attento esame e una lunga consultazione, la giuria ha deciso all’unanimità di non assegnare per quest’anno il premio, in vista di alcune modifiche del bando di concorso che si sono rese necessarie. Pur essendoci infatti alcuni testi interessanti, nessuno è parso tanto più originale degli altri da meritare il premio e il previsto allestimento dell’opera a cura del Teatro Eliseo. Dal dibattito fra i giurati è infatti emersa l’opportunità di modificare il bando per favorire la partecipazione, non solo di “nuovi autori”, come richiesto quest’anno, ma più semplicemente di “nuovi testi” di grande valore e mai rappresentati.
Il nuovo bando per il concorso 2007-08 sarà presto reso noto e pubblicato sul sito dell’Associazione. Lo scopo della nuova edizione del concorso sarà quello di incoraggiare maggiormente la partecipazione al premio anche di drammaturghi già sperimentati, realizzando così meglio le finalità dell’Associazione Patroni Griffi. Nato l’anno scorso – su iniziativa del figlio Aldo Patroni Griffi – per tenere vivo il ricordo del grande scrittore, drammaturgo e regista napoletano, il sodalizio ha fra i suoi fondatori illustri personalità legate alla vita e all’arte di Patroni Griffi: il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, il regista Francesco Rosi, gli scrittori Antonio Ghirelli e Raffaele La Capria, Enrico Lucherini, l’amministratore dell’Eliseo Vincenzo Monaci, l’ex Presidente Nazionale dell’Ordine dei giornalisti Saverio Barbati.
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Maurizio Schmidt neo-direttore della "Paolo Grassi" Nominato dalla Fondazione Scuole Civiche di Milano di Redazione ateatro |
Sarà il regista e drammaturgo Maurizio Schmidt a succedere a Massimo Navone alla direzione della Scuola d'Arte Drammatica "Paolo Grassi" di Milano.
Maurizio Schmidt è nato a Gozzano (NO) il 14/2/1955. Laureato in Scienze Politiche con una tesi di laurea sulla comunicazione militare, si è diplomato in arte drammatica presso la Scuola del Piccolo Teatro (1978) e ha fatto lunghi periodi di specializzazione sulla pedagogia teatrale a New York (Actors'Studio), a Berlino Est (Berliner Ensemble) e Berlino Ovest (Schaubuehne).
E' stato aiuto regista di A. R. Shammah, Franco Parenti, Giorgio Gaber, Peter Stein. E' da 18 anni insegnante di recitazione presso la "Paolo Grassi" di Milano in cui ha spesso ricoperto l'incarico di coordinatore del corso attori. Collabora con varie altre scuole tra cui l'Università La Sapienza di Roma.
Come autore teatrale ha vinto il "Premio Candoni Arta Terme 85" e il "Prix Suisse Zurich 88" con Cristoforo Colombo - Elogio a chi in America ci va sbagliando strada di cui ha curato la regia teatrale ed è stato protagonista presso la RSI.
Ha scritto e diretto varie opere tra cui Più grigio che verde, spettacolo sul servizio militare (1978), Garbage Boat (1988), opera jazz sul problema dei rifiuti urbani, finalista Premio Stregatto 1989, Sotto il letto (1994), musical per bambini sul tema della paura, La leggenda della nascita della democrazia (1995), Arlecchino militare (memoria di una commedia perduta dei comici dell'arte), evento itinerante al Castello di Udine, alla Pieve del Vescovo di Corciano (PG), alla Rocca Minore di Assisi (1995), presso Villa Fidelia di Spello (2004) e nei teatri 2005/2006, La nuova leggenda di Ognuno (sacra rappresentazione sui sagrati delle cattedrali per il Giubileo del 2000). Ha tradotto in italiano vari testi drammatici inglesi e francesi.
Come attore ha al suo attivo 30 spettacoli teatrali e 10 film. Come regista ha al suo attivo 40 regie teatrali. Nel 1990 ha fondato "Farneto Teatro" ed ha ideato il progetto teatrale 'Teatro fuori dal teatro".
A Maurizio i migliori auguri di buon lavoro da tutta la redazione di ateatro!
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In Italia la nuova performance di Marcel.lì Antunez Roca Hipermembrana a Torino per Malafestival di Ufficio stampa |
Hipermembrana a Torino è una performance multimediale risultato di un laboratorio produttivo condotto da Marcel.lì Antunez Roca con la sua equipe catalana presso il Virtual Reality & Multi Media Park e presso le Ex Officine Grandi Riparazioni di Torino dal 2 al 13 luglio 2007 ed è anteprima al Malafestival 2007.
Per realizzare Hipermembrana sono stati selezionati a Torino studenti del MultiDams e di Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione coadiuvati da professionisti italiani e spagnoli (35 persone coinvolte). Un team di performers, uno di produzione audiovisiva/multimediale e uno di documentazione hanno, infatti, lavorato in maniera intensiva, interattiva e allo stesso tempo specialistica per due settimane.
Il risultato è una performance dai toni forti, dissacranti, dionisiaci che mette in contrasto il mondo del pensiero razionale controllato dalla macchina con quello emotivo, organico, animale in un’atmosfera che trae ispirazione dall’Inferno di Dante e dal mito del Minotauro.
Hipermembrana è multimediale, in quanto si articola in linguaggi espressivi diversi; meccatronica, perchè basata su un sistema integrato di protesi elettromeccaniche e unità di calcolo; polisemica, che non consiste, cioè, in una narrazione univoca e lineare, ma in una sovrapposizione simultanea di eventi reali e simulati, e infine interattiva, in quanto consente ad attori e pubblico, attraverso l’utilizzo di interfacce, di intervenire nel processo narrativo modificando il comportamento scenico in uno spazio performativo sensibile. Ciò che risulta dal lavoro del progetto Membrana è un piccolo esperimento verso una forma di produzione innovativa, complessa e aperta, a cavallo tra robotica, teatro e videogame.
Hipermembrana a Torino fa parte di un più ampio progetto transnazionale sperimentale e multidisciplinare in esclusiva a Torino dal titolo Membrana ideato da Marcel.lì a Barcellona. Membrana è stato rielaborato in conformità con le necessità del territorio da Servi di Scena opus rt in collaborazione con MultiDAMS e CIRMA (Università degli Studi di Torino) e Corso di Laurea in Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione (Politecnico di Torino).
Approfondimenti: www.opusrt.it e www.marceliantunez.com
14/15 LUGLIO 2007
CAVALLERIZZA MANEGGIO REALE (Via Verdi, 9 Torino)
PERFORMANCE MULTIMEDIALE “HIPERMEBRANA A TORINO”
Di e con Marcel.lì Antunez Roca + equipe italo-spagnola
ANTEPRIMA MALAFESTIVAL – ARS IN MALA CAUSA VI° EDIZIONE 2007
CREDITS
PERFORMANCE “HIPERMEMBRANA A TORINO”
Malafestival - Enti sostenitori: Regione Piemonte, Città di Torino, Compagnia di San Paolo che ha selezionato l’iniziativa nell’ambito dell’edizione 2007 del bando Arti Sceniche in Compagnia, Fondazione CRT
PROGETTO MEMBRANA A TORINO
Organizzazione: Servi di Scena opus rt in collaborazione con MULTIDAMS e CIRMA (Università degli Studi di Torino); Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione (Politecnico di Torino); Virtual Reality & Multi Media Park, Laboratorio MM Guido Quazza.
Con il sostegno di: Regione Piemonte, Città di Torino, Istituto Ramon Llull, INAEM Ministerio de Cultura
Consulenza scientifica: Tatiana Mazali; Antonio Pizzo
PROGETTO MEMBRANA TAPPE PRECEDENTI
Ideazione: Marcel.lì Antunez Roca - Produzione: Panspermia SL in collaborazione con Generalitat de Catalunya, Departament de Cultura i Mitjans de Comunicació, ICIC -Institut Català de les Indústries Culturals-, ICUB, Institut de Cultura de Barcelona, INAEM, Ministerio de Cultura.
In coproduzione con: Mercat de les Flors, Festival Temporada Alta
Regia, drammaturgia, animazioni: Marcel•lí Antúnez Roca - Musica: Pau Guillamet (Guillamino)
Programmazione: Matteo Sisti Sette – Direttore della fotografia: Diego Dusuel - Capo Tecnico: Oriol Ibáñez - Assistente di produzione: Lucia Egaña Rojas - Hardware: Héctor López - Interfacce e Modelli: Ruth Aleu i Álvaro Sosa
Performers Barcellona: Nicolás Baixas Calafell, Lucía Egaña Rojas
Performers Torino: Carolina Gallai, Ettore Scarpa, Alessandro Tessitore
Partecipanti selezionati per il laboratorio/performance:
Francesca Saraullo, Federica Pellegrino, Serena Casale, Vanessa Michielon, Antonio Cristian Iosco, Silvia Haag, Olivier Bertholin, Sebastiano D’Aprile, Flavio Nilo Quercia, Domenico Graziano, Lucio Gagliardi, Luca Restagno, Luca Schiatti, Alessandro D’Arias, Alberto Buzio, Xian Zhang, Davide D’Andrea, Chiara Cordero, Federica Pecoraro, Elena Pellizza, Alessandro Carlaccini, Valentina Tibaldi
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Babilonia Teatri vince il Premio Scenario 2007 La premiazione a Santarcangelo di Premio Scenaro |
Segnalazioni speciali (in ordine di presentazione alla finale) a:
PATHOSFORMEL per LA TIMIDEZZA DELLE OSSA,
TEATRIALCHEMICI per DESIDERANZA
GJERGIJ TUSHAI E ANDREA BOVAIA per ILIR
Mercoledì 11 luglio 2007 al Supercinema di Santarcangelo, a conclusione della Finale del Premio Scenario 2007, che ha avuto luogo nei giorni 9 e 10 luglio nell’ambito di Santarcangelo International Festival of the Arts, si è svolta la Premiazione dei vincitori del Premio Scenario 2007, riconoscimento rivolto a giovani generazioni di artisti con progetti inediti di spettacolo, promosso dall’Associazione Scenario, con il sostegno, per la Finale, di Santarcangelo International Festival of the Arts.
La Giuria del Premio Scenario 2007 ha valutato i 12 progetti finalisti della undicesima edizione del Premio, decidendo di proclamare un vincitore e di esprimere tre segnalazioni speciali che vanno a formare nel loro insieme la Generazione Scenario 2007.
Non di meno, la Giuria ha manifestato un sicuro apprezzamento per la qualità generale delle proposte, che si sono distinte per generosità del lavoro, profondità dei contenuti, sensibilità e maturità artistica, frequente originalità della scrittura e delle soluzioni sceniche.
I dodici progetti finalisti sono il risultato di una selezione di 268 progetti dei quali 147 provenienti dal Nord, 58 dal Centro e 63 dal Sud: un disequilibrio che corrisponde alle contraddizioni del panorama teatrale nazionale e che la selezione finale del Premio ha ridisegnato secondo proporzioni significativamente diverse. Quattro progetti sono stati infatti rispettivamente e ugualmente presentati dal Nord, dal Centro e dal Sud dell’Italia, contraddicendo con eloquente evidenza i dati quantitativi di partenza.
Ai dodici progetti finalisti la Giuria ha ricordato e confermato l’importanza della loro presenza in finale: un risultato che si deve ritenere tale in sé e che è stato evidentemente riconosciuto dall’ampia partecipazione degli spettatori, fra i quali non è mancata la presenza qualificata di operatori, critici, artisti. A maggior ragione è stata riconosciuta l’importanza dell’inserimento a pieno titolo all’interno del Festival di Santarcangelo, che ha ospitato la finale nella sua programmazione, come proposta condivisa dal progetto artistico.
Anche l’undicesima edizione del Premio Scenario ha potuto esistere sostanzialmente grazie all'impegno dei soci dell'Associazione Scenario, ossia delle 33 imprese teatrali (compagnie e stabili di innovazione) che raccolgono biennalmente le proposte dei giovani artisti e ne sostengono l'elaborazione e la presentazione attraverso le fasi successive.
Quest’anno il Premio Scenario compie vent’anni e già presentando la finale l’Associazione che lo promuove ha voluto rivolgere un invito forte al mondo teatrale, che la Giuria ha voluto ribadire. “Scenario non è che un tassello, che però si innerva nel panorama nazionale del teatro e ne restituisce una ricchezza non trascurabile”. Una ricchezza che va raccolta, perché sono le giovani generazioni a rappresentare il pensiero del presente e a trasformarlo in visioni e linguaggi originali. La finale del Premio ne ha dato conferma ed è stato auspicio anche della Giuria che essa rappresenti un passaggio di testimone, e che come tale venga raccolto, a sostegno degli artisti vincitori e di quelli non vincitori. Tutti loro hanno reso possibile le intense giornate della Finale del Premio Scenario 2007, con la ricchezza e la varietà delle proposte che hanno presentato e delle riflessioni che hanno stimolato e continueranno a stimolare.
La Giuria ha proclamato progetto vincitore della undicesima edizione del Premio Scenario:
MADE IN ITALY di Babilonia Teatri (Verona)
Il Nord Est italiano ritratto come fabbrica di pregiudizi, volgarità e ipocrisia; straordinario produttore di luoghi comuni sciorinati come litanie, e di modelli famigliari ispirati al presepe ma pervasi da idoli mediatici, intolleranza, fanatismo. Il made in Italy è un prodotto dozzinale e tragicamente umoristico, raccontato in uno spettacolo apprezzabile per compiutezza, in cui la comicità non è ottenuta dal meccanismo televisivo della barzelletta, ma dalla durata dell’elenco e dalle impercettibili ma fortissime variazioni, grazie a una sensibilità per le virtù e le potenzialità della parola che si fa maestria del contrappunto musicale. Strutture verbali semplici ma efficacissime fanno sbottare il riso e la percezione del non senso, in un lavoro che coniuga sapientemente stilizzazione interpretativa e parossismo gestuale. Con un ritratto spietato delle “sacrosante” manifestazioni del tifo calcistico e delle telecronache enfatiche e patriottarde, normalmente rese impercettibili dalla generale assuefazione. Un lavoro dove si infrangono con sagacia e leggerezza tabù e divieti, per rilanciare anche il teatro oltre gli schemi e i conformismi.
Le Segnalazioni Speciali del Premio Scenario 2007 sono andate ai seguenti progetti (in ordine di presentazione alla Finale):
LA TIMIDEZZA DELLE OSSA di pathosformel (Venezia)
per le molte potenzialità di un’invenzione che cela la scena teatrale e la lascia al lavoro immaginativo dello spettatore. Un medium espressivo elastico e inviolabile che separa e assorbe l’azione rivelandone (anche metaforicamente) l’ossatura, per raccontare di una lotta per l’esistenza che coniuga il corporeo e l’incorporeo e svela la scena come luogo ancestrale del conflitto fra percezione e illusione, in un crescendo di tensione sapientemente orchestrato su una campionatura di suoni quotidiani dalle risonanze primordiali.
DESIDERANZA di Teatrialchemici (Palermo)
per la forza poetica e l’energia implacabile con cui i due attori rappresentano un dramma famigliare orribile e attraente, consumato nella chiusura e nella solitudine, fra fantasmi insepolti e angherie quotidiane, in un sud che mescola religione e superstizione, amore e violenza, esterni assolati e interni vischiosi, dove la malattia è destino e la libertà è un sogno da lanciare nel vuoto, in un crescendo distruttivo di dolore e abbandono magistralmente scritto e magistralmente interpretato sulla scena.
ILIR. GLI ALBANESI SI OCCUPANO DEI POMODORI di Gjergji Tushaj e Andrea Bovaia (Parma)
per l’intensità di un racconto a due voci che fa a meno del teatro e della sua convenzionalità a volte ipertrofica esaltando l’efficacia della presenza, in un gioco di rispecchiamenti fatto di sguardi e silenzi, immobilità e accensioni, complicità e sfida, dove i giovani attori dimostrano di padroneggiare tempi e ritmi teatrali attraverso una scrittura di scena che prescinde dalle consuetudini per approfondire la potenza del dettaglio e le geometrie dello spazio vuoto.
La Giuria
Roberta Torre, presidente
regista
Ermanno Cavazzoni
scrittore
Stefano Cipiciani
direttore Fontemaggiore, presidente Associazione Scenario
Gaetano Colella
attore e regista, vincitore 10ª edizione Premio Scenario
Maria Paiato
attrice
Paolo Ruffini
studioso di teatro, condirettore Festival di Santarcangelo dei Teatri
Cristina Valenti
docente Dams, Università di Bologna, direttore artistico Associazione Scenario
www.associazionescenario.it
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