(48) 13.01.03

L'editoriale
Modalità provvisoria
di Redazione ateatro

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Una lettera a Antonio Moresco su Artaud, Hitler, la Socíetas Raffaello Sanzio (& altro)
in occasione della pubblicazione de L’invasione
di Oliviero Ponte di Pino

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Correlati neurologici del Verfremdungseffekt brechtiano
Perché l'"effetto di straniamento" tornerà di moda
di Oliviero Ponte di Pino

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Junk Modernity
Una intervista con Strupper della Mutoid Waste Company
di Stefania Parmeggiani

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E’ nata AHA: ACTIVISM-HACKING-ARTIVISM
Mailing list sull'attivismo artistico
di Tatiana Bazzichelli

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NEWS # Fiorenzuola Teatro 2003
Atto I
di Anna Maria Monteverdi

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Un teatro da salvare
Un mail da Riva del Garda
di Paolo Rosà


 

L'editoriale
Modalità provvisoria
di Redazione ateatro

A causa di un momentaneo black-out psicofisico e tecnologico, questo numero di ateatro esce (utilizzando materiali già a disposizione della redazione) con leggero ritardo e in modalità provvisoria.
Cercheremo di riprendere al più presto la normale programmazione. Nel frattempo, i frequentatori del sito sono invitati a mantenere vivi i forum con informazioni e notizie.


 


Una lettera a Antonio Moresco su Artaud, Hitler, la Socíetas Raffaello Sanzio (& altro)
in occasione della pubblicazione de L’invasione
di Oliviero Ponte di Pino

In questo testo ho cercato di riordinare quello che ho detto il 17 dicembre al Teatro dell’Elfo, in occasione della presentazione della raccolta di saggi di Antonio Moresco L’invasione, di recente pubblicata da Bompiani.

"[Arthur Adamov] parlava del fascino di Artaud che, lo scrisse anche, gli è morto tra le braccia. E nonostante questo non ha mai potuto capire se e fino a che punto la follia di Artaud fosse della stessa natura di quella di Amleto. Non tanto nel senso che la follia di Artaud fosse una ‘finzione’ messa in atto per raggiungere uno scopo, ma piuttosto nel senso che, come nel caso di Amleto, si trattasse di una follia per difendersi."
Andrea Camilleri, L’ombrello di Noè. Memorie e conversazioni sul teatro, p. 243.



Caro Antonio,
volevo provare a mettere ordine nelle idee un po’ confuse che avevo cercato di esprimere, in maniera forse brusca, l’altra sera al Teatro dell’Elfo. L’invasione mi ha senza dubbio coinvolto e provocato, ci sono alcune posizioni sulla letteratura italiana dove sono d’accordo con te, su altre ho idee un po’ diverse. Ma nella lettura mi sono ovviamente concentrato sull’ampia parte del libro dedicata al teatro - circa un quarto del totale - che mi ha spinto a farmi e a farti un paio di domande.
Prima però - credo che possa aiutarci a capire quello che scrivo - devo dichiarare una affinità generazionale e biografica, per così dire, anche se anagraficamente ci separano dieci anni. Io non ho mai militato in un gruppo politico (forse era già tardi), ma ci siamo formati tutti e due in un momento in cui la politica aveva un ruolo centrale - un certo tipo di politica, quella che pensava e sperava utopicamente di poter cambiare il mondo da cima a fondo. Di certo questo "spirito del tempo" ha segnato e cambiato le vite di molti di noi. Quella stagione è finita - per me alla fine degli anni Settanta, più o meno in coincidenza con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Dopo varie esperienze e seguendo strade diverse, ci siamo dedicati - diciamo così - alla cultura e alle arti, alla letteratura e al teatro. (Anche qui, facendo cose diverse, ma per molti aspetti - credo - all’interno di un sentire comune, di quelli che provocano le liti più feroci.)
Condivido anche le tue frequentazioni teatrali - quelle che citi nell’Invasione: per cominciare la Socíetas Raffaello Sanzio, alla quale dedichi molte pagine e una lucida presa di distanza; Renzo Martinelli e Federica Fracassi di Teatro Aperto, che hanno portato sulle scene due tuoi testi, La Santa e I canti del caos, in messinscene dove, secondo me, avevano grande potenza scenica due figure che non articolavano verbo, Federica che "respirava" Teresa e Monica incinta che materializzava la tensione degli "esordi"; e Werner Waas, che aveva presentato alla Maratona di Milano un primo abbozzo del tuo Firmamento.
Ho condiviso anche la tua passione per Artaud, con il quale ingaggi un autentico (ed emozionante) corpo a corpo, commentando frase dopo frase il suo manifesto del teatro della crudeltà.
Insomma, abbiamo tirato diversi fili in comune. Proprio per questo cerco di tenere nella massima considerazione quello che scrivi - e se mi capita di trovare una parola su cui non sono d’accordo - come quell’"artificialmente" riferito proprio ad Artaud, che leggo verso la fine di pagina 181 - mi sembra giusto dirtelo.
Prima di arrivare a quella parola, devo tuttavia cercare di capire meglio il contesto in cui è inserita, non per passione filologica - ma per spiegare prima di tutto a me stesso perché non mi ci sono ritrovato, in quell’avverbio.
Le pagine che dedichi al teatro possono essere lette come una difesa del teatro di parola, contrapposto alle esperienze delle avanguardie post-moderne, ai loro anatemi contro il linguaggio (la Parola) a favore del gesto, dell’immagine, dell’inarticolato, dell’urlo (qualcuno l’aveva chiamato proprio così: il Teatro dell’Urlo). E’ una posizione che ha nobili antecedenti. In Italia basti pensare a Pier Paolo Pasolini (che tu citi) e a Giovanni Testori, che non a caso sono tra i massimi autori di teatro italiani del secondo Novecento. (Di recente Giovanni Raboni sul "Corriere" aveva sottolineato la qualità e vitalità della scrittura drammaturgica dei "non drammaturghi", ovvero narratori e soprattutto poeti.)
In questo Artaud rappresenta certo un punto di svolta nella storia dello spettacolo del Novecento: di fronte a un teatro considerato al massimo "illustrazione", ovvero l’"arredamento" di un capolavoro letterario preesistente, il teatro ha dovuto e voluto affermare la sua autonomia di arte. Il grido di battaglia del Teatro della Crudeltà è stato raccolto e rilanciato da una schiera di artisti - con qualche decennio di ritardo, a partire da Grotowski, dal Living, da Brook negli anni Sessanta. Fino appunto a quella Socíetas Raffaello Sanzio che rappresenta il bersaglio dialettico contro cui ti scagli (con tutto il rispetto e l’affetto nati da stima e amicizia), perché rifiuta "la Parola", e perché si ispira - in maniera esplicita, letterale - proprio ad Antonin Artaud e alle sue teorie.
Dunque Artaud, intorno al quale ruota tutto il filo del discorso.

A quanto ne so (sto lavorando a memoria), il primo testo importante pubblicato di Antonin Artaud sono le lettere a Jacques Rivière, allora direttore della "Nouvelle Revue Française", alla quale il giovane poeta aveva inviato alcuni dei suoi testi. Rivière gli aveva risposto con grande gentilezza: caro giovane scrittore, le sue liriche sono interessanti, però c’è qualcosa che non va, qualcosa che non mi convince. Forse era una lettera di circostanza, una di quelle lettere di gentile rifiuto che gli editori a volte inviano agli scrittori in casi del genere (siamo entrambi esperti in materia...). Forse Artaud non capì. In ogni caso rispose a Rivière che sì, era vero, in quelle poesie c’era un problema, e lui ne era assolutamente consapevole: perché c’era come uno scollamento tra il suo pensiero e la sua espressione verbale - una frattura insanabile. Forse - verrebbe da pensare - era il germe della sua follia. Forse c’era addirittura una consonanza con le riflessioni che in quel periodo conduceva Ludwig Wittgenstein - quello che pochi anni prima, prigioniero di guerra a Cassino, aveva concluso il suo Tractatus con una senza insieme banale e misterica: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere" - e su questa sorta di stallo Witggenstein stava continuando a interrogarsi ossessivamente, intessendo meditazioni e giochi filosofici sul rapporto tra realtà e sensazione, tra pensiero e linguaggio.
Artaud e Rivière continuarono a scriversi per qualche tempo, finché Rivière non propose di pubblicare la loro corrispondenza, che a quel punto gli pareva molto più importante e interessante di quegli abbozzi poetici.
Per tutta la vita, fino all’ultimo, Artaud ha lottato contro l’inadeguatezza del linguaggio: i suoi balbettamenti, le glossolalie intorno a cui ruotano i suoi ultimi testi sono un tentativo - folle, disperato, velleitario - di trovare una "lingua del pensiero".
Questo è uno dei due corni del mio dilemma.

Poi, nel tuo saggio su Artaud, fai un’altra mossa decisa. Prendi qualche frase di Artaud e qualche frase di Mein Kampf, e trovi una serie di innegabili affinità e parallelismi. Allora tiri il pugno, un bel diretto alla bocca dello stomaco di Artaud e del lettore.

"Accidenti, com’è andato più avanti di te sul tuo stesso terreno! Ti ha preso in contropiede, ti ha fatto le scarpe! Non c’è qui dentro tutto l’uso terroristico pubblicitario della pompa che annichilisce e soggioga e demolisce le precedenti strutture mentali e di pensiero, le dinamiche di potere pubblicitario che dominano in mille modi e forme questa epoca? E che si basano tutte su un punto di partenza che non è mai esplicitamente dichiarato, o che viene mascherato sotto la demagogia della ‘comunicazione’, e cioè che l’uomo è profondamente influenzabile, e che, come nelle tecniche militari e di guerra, bisogna prima disintegrare e accecare le sue difese per poterlo poi soggiogare...
No, non ti preoccupare, non ti sto dicendo che sei come Hitler, ti sto solo dicendo che, su questa strada, c’è stato, c’è e ci sarà sempre chi è andato e andrà infinitamente, radicalmente e con spaventosa coerenza e possesso di mezzi più avanti di te".


Il tema non mi è nuovo. Questa estate, a Volterra, credo che Martin Wuttke abbia fatto uno spettacolo proprio sul parallelismo Artaud-Hitler. Più in generale, il rapporto tra le avanguardie artistiche e i regimi totalitari resta un nodo irrisolto e non abbastanza studiato. C’è stata la vergognosa (e tu dirai inevitabile, avanguardia per avanguardia) adesione dei futuristi al fascismo. C’è stata più in generale la pretesa dei regimi hitleriano e stalinista di risolvere a modo loro il rapporto arte-vita, che è senza dubbio uno dei temi chiave delle avanguardie, con le sue parole d’ordine in apparenza speculari, in realtà diversissime: far entrare la vita, la realtà nell’arte/far entrare l’arte nella vita, nella realtà. Da un certo punto di vista Hitler e Stalin hanno portato alle più estreme conseguenze questa aspirazione, come massimi artefici di quelle "opere d’arte totali" che avrebbero dovuto essere il Terzo Reich e l’Unione Sovietica, destinate a modellare e redimere, anche dal punto di vista estetico, sia il mondo sia le vite dei popoli che li abitavano - previo azzeramento fisico delle avanguardie artistiche, naturalmente. (Sul tema era illuminante il provocatorio saggio del critico dell’arte russo Boris Groys, Lo stalinismo e l’opera d’arte totale.)
Dunque la tua provocazione sull’equivalenza Artaud-Hitler affonda in un punto assai sensibile. Se non che, poco dopo, affondi un altro pugno, un gancio sinistro da ko. Perché Artaud si affretta subito a dire che lui è solo un artista, che quella è solo cartapesta, che

"sia l’alchimia sia il teatro sono infatti arti, per così dire, virtuali, tali cioè da non contenere in se stesse né il loro obiettivo, né la loro realtà".

E tu, di rimando:

"Accidenti, che emozione! La montagna dell’‘originario’ e del ‘sacro’ ha partorito il topolino del ‘virtuale’!"

Un uno-due che manderebbe al tappeto chiunque. Anche se, viene da rispondere (e glielo concedi anche tu), Artaud non ha partorito né i Lager né il Gulag. Artaud - a differenza di Hitler e soci - non voleva "soggiogare" proprio nessuno. Voleva sì "annichilire e demolire le precedenti strutture di pensiero", come provano a fare molte opere d’arte, in genere quelle che non si limitano a cantare la bellezza inevitabile del presente e che non vogliono parlare solo a se stesse. Ma per aprire inediti spazi di libertà e altre possibili strutture di pensiero, meno vincolate alla logica del principio di realtà - di quella "ideologia della realtà" che oggi ci sta schiacciando: non siamo certo nel migliore dei mondi possibili, ma nel mondo reso necessario dalle leggi del mercato, e dunque dobbiamo accettarlo.
Con questo il problema non viene certo risolto, anzi, ma la mia seconda domanda - il secondo corno del dilemma - può iniziare ad avere contorni meno indefiniti.

Il tuo rifiuto del teatro ha ottime ragioni (basterebbe il fatto che sei stato iniziato alle scene da uno spettacolo - puro teatro di Parola - con Giulio Bosetti...). E il rifiuto della parola a teatro è certo ottuso - infatti gli estremismi del "teatro immagine" anni Settanta che bandiva completamente il testo, a sottolineare la propria vocazione anti-letteraria, sono stati abbandonati abbastanza presto. Del resto, malgrado tutte le dichiarazioni del gruppo, è difficile non leggere gli spettacoli della Socíetas Raffaello Sanzio come testi - anzi, sia la loro memorabile Orestea sia la terza parte (sebbene muta) del loro testamentario Genesi, oltre che un testo (uno spettacolo-testo che si può leggere e anche scrivere come un testo, e Romeo Castellucci l’ha fatto) sono addirittura un puntuale e meticoloso commento a un testo preesistente.
Ecco, tu hai questa fede nella parola. Nella parola con la minuscola, o meglio ancora nelle parole. Sei evidentemente convinto - e la tua pratica di scrittura lo dimostra, anche nei suoi eccessi - che tutto possa essere ricondotto alla parola. Attacchi Artaud:

"Prima separi artificialmente la parola dal resto per poi ricostruire o inventarti un’unità ‘sacra’, totalizzante e sintetica".

Io non so se in Artaud questa separazione fosse davvero "artificiale" o se non fosse invece un fatto drammatico, il nucleo di una follia autentica. Peraltro, poco dopo questo "artificialmente", per dargli una forza incontestabile, alla fine del tuo corpo a corpo con Artaud ne tracci un ritratto feroce e divertente, per ridicolizzare quella sua "pazzia così consapevole di sé, così ‘estetica’, così ‘francese’".
Ecco, questa è la mia prima domanda. Sei davvero sicuro che quella follia fosse una maschera? La frattura che ha ossessionato la vita di Artaud non può esistere, è solo la patologia di un folle assai coreografico?

La seconda domanda è un po’ più vaga, forse, ma riguarda le conseguenze della pratica artistica. Artaud non sta facendo politica, sta facendo qualcosa di diverso e lo dice con chiarezza:

"Abbiamo bisogno di un’azione vera, ma senza conseguenze pratiche."

Così Artaud rischia, ma si salva: non diventerà né Hitler né Stalin. Però al tempo stesso si de-responsabilizza - anche se non può garantire rispetto agli usi impropri delle sue tecniche. Anche noi, in qualche modo, ci siamo de-responsabilizzati: non facciamo politica, scriviamo...
Però sappiamo anche che ogni nostra azione ha un peso, un valore e un effetto politici, è inevitabile. Allora, la mia seconda domanda. Dobbiamo davvero tenere separate arte e vita? E’ la soluzione classica, anti-avanguardistica, evita le trappole della politica e della propaganda - ma solo in apparenza. E’ un rifugio precario, e quando i tempi diventano difficili è poco più di un alibi.

Ecco, sono queste le due domande che hanno iniziato a girarmi per la testa dopo aver letto Invasioni.
Ti ho invidiato, perché hai una fede più forte della mia nel potere salvifico delle parole, nella loro autosufficienza. O almeno questa è l’impressione che mi dai. Mentre io - in fondo - non so da dove nascano davvero le parole, né che potere abbiano né dove possano sfociare. Più ci penso, meno lo so. E continuo a tremare, a interrogarmi.
Santa Maria Maggiore, 24-25 dicembre 2002


 


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di Oliviero Ponte di Pino

"Bisogna supporre che la facoltà di produrre somiglianze - per esempio nelle danze, la cui più antica funzione è appunto questa -, e quindi anche quella di riconoscerle, si è trasformata nel corso della storia."
Walter Benjamin, Sulla facoltà mimetica



I teatranti lo sanno da sempre: la comprensione e la comunicazione non passano solo attraverso i sensi (in teatro principalmente la vista e l’udito) e il cervello (la mente), ovvero attraverso una serie di segni e la loro decodificazione, ma anche attraverso il corpo.
Alcuni recenti studi nel campo delle neuroscienze e delle scienze cognitive, resi possibili da nuove tecniche, sembrano confermare questa tesi: i processi cognitivi sono profondamente radicati tanto nell’ambiente che ci circonda quanto nel nostro corpo. In particolare, i sistemi di cellule cerebrali che mettono in moto un determinato muscolo non vengono attivati solo quando produciamo quel determinato gesto, ma anche quando immaginiamo di compierlo, quando vediamo un altro essere umano che lo compie, quando impariamo attraverso l’imitazione. E si attivano persino quando cerchiamo di comprendere le espressioni del volto di un altro essere umano (e di interpretare le sue emozioni) o di capire le sue parole (quando si attivano i neuroni che usiamo per mettere in moto i muscoli necessari ad articolare quei fonemi).
Non è una impostazione del tutto nuova, quella che lega intimamente la percezione al movimento e al gesto. Nel 1952 Roger Sperry aveva scritto:

"La percezione è in sostanza la preparazione implicita di una reazione. La sua funzione è di preparare l’organismo all’azione adattativa. Il problema di quello che accade nel cervello durante la percezione può essere affrontato con una efficacia molto maggiore dopo che questo principio è stato riconosciuto."

Negli ultimi anni varie ricerche sono partite proprio da questo principio, e stanno portando a una serie di scoperte di notevole significato, ma ancora frammentarie. Se verranno confermate e ricondotte in uno scenario coerente, avranno importanti ricadute in diversi settori: dalla medicina alla pedagogia, dalla psicologia all’estetica - a cominciare dalle arti del corpo, la danza e il teatro. Diventa dunque interessante iniziare a valutare le possibili implicazioni di queste ipotesi sulle teorie della scena.

A partire dagli studi ottocenteschi di Broca e Wernicke, sappiamo che le diverse aree del cervello - e in particolare della corteccia cerebrale - svolgono funzioni precise. Ci sono aree dedicate alla visione, al linguaggio, alla musica, alla matematica (naturalmente non è così semplice: nello svolgimento di alcune funzioni complesse come quelle appena menzionate vengono attivate contemporaneamente diverse aree del cervello; e a volte la divisione dei compiti è assai sorprendente: se dobbiamo fare un calcolo preciso come "745 diviso 15" oppure se facciamo un calcolo "a occhio", per esempio "l’8 è più vicino al 2 o al 10?", vengono attivate aree differenti).
Per comprendere quali siano le aree preposte a un determinata funzione, fino a qualche tempo fa esisteva una sola possibilità: si prendevano in esame pazienti che avevano subito lesioni in determinate aree del cervello (soprattutto feriti in guerra o in incidenti) e se ne studiavano le anomalie del comportamento e della percezione; in alternativa, si effettuavano esami autoptici su pazienti che avevano manifestato disturbi neurologici per vedere le zone del loro cervello eventualmente danneggiate da lesioni, tumori, trombi eccetera.
Negli ultimi decenni, attraverso varie tecniche sempre più raffinate, è diventato possibile osservare in dettaglio istante per istante l’attività cerebrale di individui sani e dunque monitorare le aree del cervello che vengono attivate nello svolgimento di un determinato compito (quelle che vengono maggiormente irrorate dai vasi sanguigni). Grazie alla PET (tomografia a emissione di positroni) e alla fMRI (risonanza magnetica funzionale), ma anche studiando la risposta di resistenza cutanea, la variazione dei potenziali elettrici e dei campi magnetici relativi misurati sul cuoio capelluto e la variazione dei potenziali elettrici misurati direttamente sulla superficie del cervello nel corso di interventi chirurgici, è diventato possibile identificare le aree interessate allo svolgimento di precisi compiti: a questa mappatura si stanno dedicando in questi anni numerosi ricercatori (anche in Italia, in particolare nelle Università di Parma e Ferrara). (Per una mappa del cervello online vedi The Brain Atlas.)
Tra gli esperimenti effettuati in questa direzione, alcuni cercano di capire quello che accade quando vediamo un essere umano svolgere un determinato compito (per esempio giocare a tennis oppure danzare), oppure quando lo imitiamo (si tratta evidentemente di studi che riguardano da vicino la sfera dell’apprendimento). Altre ricerche si concentrano sulla comprensione del linguaggio, altri ancora sull’interpretazione delle emozioni attraverso le espressioni del viso.
E’ forse prematuro trarre conclusioni di carattere generale, ma sembra emergere un elemento comune: nello svolgimento di questi compiti, nel nostro cervello vengono attivate le aree sensomotorie. E’ come se nel nostro cervello entrassero in azione i neuroni che mettono in moto quei gesti, quelle espressioni, quegli atteggiamenti - senza però effettuarli, e senza che ce ne accorgiamo. In altri termini, ricostruiamo inconsapevolmente una nostra rappresentazione "interna", "corporea" dei comportamenti che osserviamo.
Per i ricercatori, questa scoperta ha varie implicazioni. In primo luogo, assegna un ruolo assai significativo all’imitazione - tanto da fare ipotizzare che il comportamento imitativo sia geneticamente programmato; peraltro già Aristotele, all’inizio della Poetica, scriveva: "l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali) (...) "tutti traggono piacere dalle imitazioni". In secondo luogo, queste mappe potrebbero essere alla base del fenomeno di simpatia o empatia, o risonanza emotiva, che scatta tra due esseri umani; e (ipotesi numero tre) questa simpatia può costituire la base neurologica (dunque biologica) dell’altruismo.
Se tutto questo fosse vero, non sarebbe assurdo ipotizzare che lo stesso meccanismo sottenda il doppio cardine dell’estetica teatrale aristotelica, quello della mimesi e della catarsi, basato sull’empatia dello spettatore nei confronti del personaggio:

"Tragedia è dunque imitazione (mimesis) di un’azione seria e compiuta, (...) di persone che agiscono (...), la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione (katharsis) di siffatte emozioni."

In questo scenario, la comunicazione dell’attore e del danzatore non passa dunque solo attraverso una serie di segni verbali o gestuali (da decifrare come le lettere e le parole di questa pagina in base a un dizionario mentale di segni), ma crea anche profondi fenomeni di risonanza corporea che sono determinanti nella compresione.
Alcuni recenti studi di grande interesse - come quello di Jean Decety e Thierry Chaminade, Neural correlates for feeling simpathy - ruotano intorno al problema dell’empatia e delle basi neurologiche dell’altruismo - e usano nella sperimentazione tecniche che possono essere definite "teatrali".
Per valutare le reazioni di simpatia-empatia nei confronti di un altro essere umano, l’équipe del professor Decety ha scritto 24 storie, 12 "neutre" e 12 "tristi" (tratte dalla vita quotidiana o da cronache giornalistiche); ha scritturato un gruppo di attori e ha chiesto loro di narrare queste storie in diverse maniere, ovvero con diverse espressioni (MEE, motor expression of emotion, espressione motoria delle emozioni): espressione triste, espressione neutra, espressione felice. Insomma, un attore poteva narrare una storia triste con espressione triste (TT), neutra (TN) o allegra (TA); e una storia neutra con espressione triste (NT), neutra (NN) e allegra (NA). Allo spettatore-cavia, che assisteva a queste interpretazioni (registrate e presentate attraverso un video), è stato chiesto di definire l’emozione trasmessa dall’attore-narratore e di valutare la simpatia che provavano nei suoi confronti (una delle ipotesi dei ricercatori è che una discrepanza tra contenuto ed espressione avrebbe suscitato scarsa simpatia, perché un tale comportamento viola norme socialmente accettate), mentre venivano misurati i livelli di attività nella varie aree della loro corteccia cerebrale.
I risultati hanno confermato le ipotesi dei ricercatori, ma hanno anche portato a qualche interessante sorpresa.
Per quanto riguarda il contenuto delle storie, quelle tristi, comunque vengano narrate, attivano le aree che sappiamo coinvolte nella gestione delle emozioni, ma anche quelle che permettono di costruire una rappresentazione inconscia del comportamento osservato (una "rappresentazione condivisa" in cui l’io prende il punto di vista dell’altro).
L’espressione motoria delle emozioni (MEE), indipendentemente dal contenuto delle storie, attiva il flusso sanguigno in alcune aree del cervello. L’espressione allegra non attiva le aree legate alle emozioni o alla simulazione, ma solo quelle visive. Nei casi in cui il contenuto e l’espressione coincidono (TT) e scatta una più forte simpatia, vengono attivate sia le aree delle emozioni sia quelle motorie. Invece di fronte a una forte discrepanza tra contenuto ed espressione (in particolare TA, una storia triste narrata con espressione allegra, per esempio un’attrice che narra sorridendo la morte della madre), la reazione è completamente diversa: la simpatia non scatta, non si attivano le aree della "rappresentazione condivisa" ma quelle che solitamente entrano in azione quando dobbiamo gestire conflitti sia sociali sia sensomotori. Inoltre questa combinazione ha anche accresciuto la conduttività elettrica cutanea, una condizione solitamente associata alla eccitazione emotiva (in situazione di maggiore empatia, la conduttività cutanea è decisamente minore).
Il fatto che la stessa storia, narrata con espressione triste o con espressione allegra, produca effetti neurologici così diversi è sorprendente e significativo.
In TT viene riprodotta una situazione "normale", "naturale": insomma, un testo ben recitato da un attore che si "immedesima" nel personaggio. In TA invece ci troviamo di fronte a una situazione "insolita", "innaturale", "socialmente non appropriata", ovvero un copione mal recitato da un interprete che non riesce ad annullare la distanza tra sé e il personaggio e che anzi la accresce. Ma per chiunque abbia familiarità con le teorie estetiche del teatro, TA rappresenta un classico esempio di Verfremdungseffekt (effetto di straniamento), soprattutto se contrapposto ad altre situazioni (TT) caratterizzate da simpatia ed empatia - che al contrario potrebbero esemplificare situazioni più vicine a una impostazione aristotelica.

"Non è difficile rendersi conto che rinunziare all’immedesimazione rappresenterebbe, per il teatro, una decisione d’immensa portata - sarebbe forse il più grande di tutti gli esperimenti immaginabili.
La gente va a teatro per venire trascinata, ammaliata, impressionata, per elevarsi, inorridire, commuoversi, appassionarsi, liberarsi, distrarsi, redimersi, scuotersi, strapparsi al proprio tempo - per farsi riempire di illusioni. Tutto ciò è talmente sottinteso che i concetti di liberazione, rapimento, elevazione ecc. sono parte costitutiva della definizione stessa di arte. Se l’arte non fa tutto questo, non è arte.
La questione dunque era questa, dunque: il godimento artistico, in generale, è possibile senza immedesimazione, o comunque, è possibile procurarlo muovendo da una base diversa?
E che cosa avrebbe potuto fornirci questa nuova base?"
(Bertolt Brecht, 1959)


Per sfuggire alle strettoie aristoteliche (e stanislavskiane), Brecht costruì una teoria estetica alternativa, quella del teatro epico, centrata sul Verfremdungseffekt. Così caratterizzava lo straniamento nell’ammonimento rivolto dagli attori al pubblico all’inizio de L’eccezione e la regola:

"Sotto il quotidiano scoprite l’inspiegabile
Dietro la regola consacrata decifrate l’assurdo.
Diffidate del minimo gesto, pur semplice in apparenza.
Non accettate supinamente la consuetudine tramandata,
cercatene la necessità.
Vi preghiamo, non dite ‘è naturale’
di fronte agli avvenimenti di ogni giorno.
In un’epoca in cui regna l’anarchia,
in cui corre il sangue, in cui il disordine è un ordine
e l’arbitrarietà prende forza di legge, e l’umanità si disumanizza...
Non dite mai: ‘è naturale’, affinché nulla passi per immutabile."

Lo straniamento presuppone dunque un coinvolgimento non emotivo bensì cognitivo da parte dello spettatore.

"Che cos’è lo straniamento?
Straniare una vicenda o il carattere di un personaggio significa in primo luogo togliere semplicemente al personaggio o alla vicenda qualsiasi elemento sottinteso, noto, lampante, e farne oggetto di stupore e curiosità. (...) Straniare significa dunque storicizzare, significa rappresentare fatti e personaggi come storici e perciò stesso effimeri."
(Brecht, 1959)


Almeno a giudicare all’esperimento di Decety e Chaminade, è particolarmente significativo il fatto che nel caso di una interpretazione "straniata" vengano attivate aree che gestiscono i conflitti - evidenziando dunque un tipo di ricezione completamente diverso rispetto a una recitazione immedesimata, stanislavskiana. Chi avrebbe potuto immaginare che l’estetica brechtiana fosse così "biologicamente" politica?
Peraltro la questione della ricezione non è di secondaria importanza nel nostro rapporto con la rappresentazione, e in generale con le arti e i mass media. Al termine della sua storia della retorica, Roland Barthes (che dello straniamento è stato studioso e agit-prop in Francia, ai tempi in cui lavorava a "Théâtre Populaire", un’esperienza certamente fondante nella sua parabola di studioso dei segni), scriveva:

"C’è una sorta d’accordo ostinato tra Aristotele (da cui è uscita la retorica) e la cultura detta di massa, come se l’aristotelismo, morto fin dal Rinascimento come filosofia e come logica, morto come estetica dal romanticismo, sopravvisse (sic) allo stato degradato, diffuso, inarticolato, nella pratica culturale delle società occidentali - pratica fondata, attraverso la democrazia, sì d’una ideologia del ‘maggior numero’, della norma maggioritaria, dell’opinione corrente: tutto indica che una sorta di vulgata aristotelica definisce ancora un tipo di Occidente trans-storico, una civiltà (la nostra) che è quella degli endoxa: come evitare questa evidenza che Aristotele (poetico, logico, retorico) fornisce a tutto il linguaggio, narrativo, discorsivo, argomentativo, che viene veicolato dalle ‘comunicazioni di massa’, una griglia analitica completa (a partire dalla nozione di ‘verisimile’) e che questo rappresenta quell’omogeneità ottimale d’un metalinguaggio e d’un linguaggio-oggetto che può definire una scienza applicata? In regime democratico, l’aristotelismo sarebbe allora la migliore delle sociologie culturali."

Milano, 1° gennaio 2003


Bibliografia

Adolphs, R., Damasio, H., Tranel, D., Cooper, G., Damasio, A.R. (2000), A Role for Somatosensory Cortices in the Visual Recognition of Emotion as Revealed by Three Dimensional Lesion Mapping, "The Journal of Neurosciences", 20 (7), 2683-2690.

Aristotele (1987), Poetica, introduzione e note di Diego Lanza, Rizzoli, Milano.

Aziz-Zadeh, L., Maeda F., Zaidel, E., Mazziotta, J., Iacoboni, M. (2002), Lateralization in motor facilitation during action observation: a TMS study, "Exp Bran Res", 144, 127-131.

Barthes R. (1972), La retorica antica, Bompiani, Milano, 109-110.

Barthes, R. (2002), Sul teatro, a cura di Marco Consolini, postfazione di Gianfranco Marrone, Meltemi, Roma.

Benjamin, W. (1969), Sulla facoltà mimetica, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Angelo Solmi, Einaudi, Torino, 71-74.

Brecht, B. (1959), Il teatro sperimentale, in Scritti teatrali, vol. I, Einaudi, Torino, 1975, 155-169.

Damasio, A. (1995), L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano.

Damasio, A. R. (2000), Emozione e coscienza, Adelphi, Milano.

Decety, J., Perani, D., Jeannerod, M., Bettinardi, V., Tadary, B., Woods, B., Mazziotta, J. C. (1994), Mapping motor representations with PET, "Nature", 371, 600-602.

Decety, J. (2002), Le sens des autres, "Le Monde", 1 novembre.

Decety, J., & Chaminade, T. (2003), Neural correlates of feeling sympathy, < href="http://www.elsevier.com/locate/neuropsychologia" target="_blank">"Neuropsychologia", 41, 127-138.

Gallese, V., Craighero, L., Fadiga, L. e Fogassi, L. (1999) Perception Through Action. Psyche 5.

Hagendoorn, Ivan (2002) Dance, Perception, Aesthetic Experience and the Brain.

Jameson, F. (1998), Brecht and Method, Verso, London.

Jeannerod, M. (1994), The representing brain: Neural correlates of motor intention and imagery. Behavioral and Brain Sciences 17, 187-245.

Sperry, R. W. (1952), Neurology and the mind-brain problem, "American Scientist", 40, 291-312.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Junk Modernity
Una intervista con Strupper della Mutoid Waste Company
di Stefania Parmeggiani

Sono una tribù di creativi riciclatori, esempi viventi della "junk modernity", provocatori urbani auto-confinati lungo un fiume largo come uno sputo, fangoso e melmoso, sono meccanici artisti e artisti meccanici, teatranti, performers, musicisti, figli dell’ondata industriale, filosofi della spazzatura mutante.
Sono la Mutoid Waste Company, un gruppo in continua espansione o contrazione numerica, che del riciclaggio ha fatto una fede e della mutazione del mondo circostante, una pratica di vita. Percorrono l’Europa su improbabili macchine mutanti, hanno il loro quartier generale a Santarcangelo, fra carovan, case di lamiera, rottami e pezzi meccanici.
E tra un camion a forma di teschio, una moto-ape e il fiume gorgogliante, sotto una veranda di lamiera e sopra un divano di pneumatici, ci accoglie Strupper per riferirci sul gospel della mutazione e sulla Macchina del Temp(i)o, installazione realizzata per la Fiera dell’artigianato metropolitano di Torino.



Come si è formata la M.W.C.?
"I nostri fondatori, Joe Rush e Robin Cook, vengono dalla scena del punk londinese. Hanno incominciato a fare teatro di strada e sculture utilizzando materiale di recupero. Io li incontrai nel 1984, quando nacque la M.W.C. Da allora le persone sono cambiate: ogni tanto arriva qualcuno, si ferma con noi per una manciata di anni e poi riparte perché la sua carriera artistica o la sua vita lo conducono altrove. Ad esempio Robin è a Londra e Joe in Australia, io a Santarcangelo".



Cosa facevate all’inizio?
"Non avevamo un posto dove vivere e quindi occupammo luoghi abbandonati, spazi che riempivamo della nostra presenza e dei nostri rottami. Modificavamo tutto ciò che la società buttava, inebriandoci di questa capacità: ridavamo vita a ciò che era morto, dimostravamo che non c’era un unico modello esistenziale. Giravamo l’Inghilterra su uno scuolabus bruciato, con una maschera di fibre di vetro a forma di teschio sul cruscotto. Poi le cose sono diventate più complicate: ci sgombravano dall’oggi al domani e non riuscivamo a portar via i nostri rottami e le nostre sculture. Per questo diventammo nomadi in tutta l’Europa e sempre per questo, negli anni ’90, ci fermammo a Santarcangelo. Non siamo diventati stanziali: il campo mutoidi è solo un quartier generale in cui accumulare rottami in attesa di una nuova vita, in cui fare tappa prima di ripartire".



Cos’è cambiato?
"I rottami sono sempre la nostra fonte di sostentamento: li vendiamo per mangiare, li usiamo per vivere e viverci, per fare riparazioni o sculture animate. Come allora la filosofia della M.W.C. è mutare e essere mutati. Ma con gli anni le nostre sculture sono diventate sempre più complesse e le animazioni più movimentate, utilizziamo molta più tecnologia e abbiamo fondato la Zombi Beat, un gruppo di percussioni (ricavate da rottami) che accompagnano ogni accadimento con un tappeto sonoro di rumori, che ogni volta improvvisiamo in base all’ambiente o alla reazione del pubblico".



Chi acquista le vostre opere?
"Discoteche, pub, compagnie cinematografiche, artisti, industrie, videoclip. Negli anni abbiamo fatto di tutto: sculture animate per concerti (Vasco Rossi), materiale scenico per film (Ligabue, Da Zero a Dieci e Wim Wenders, So near yet so far) animazione per sfilate di moda (Daniel Poole), per discoteche (Cocoricò di Riccione, Matis di Bologna, Cyborg di Roma…), per feste, show, fiere e festival".



La Mutoid Waste Company è a Torino, fino al 23 febbraio, per la celebrazione del centenario dell'Esposizione Internazionale d'Arte Decorativa Moderna del 1902. Occupa l’ex maneggio della Cavallerizza Reale, nell’ultima sezione del centenario, "Artigianato metropolitano", con una installazione che sintetizza e oltrepassa le precedenti linee creative, La macchina del Temp(i)o. Cosa aspetta il visitatore, una volta varcata la porta del tempio?
"Entra in una dimensione che è sintesi del tempo, scandita da quattro ingranaggi meccanici, quattro orologi messi a nudo, ognuno dotato di un ritmo proprio. Tra un meccanismo e l’altro il pubblico scivola, sviscera e svela le forme. Solo allora, dopo che l’occhio si è abituato a denti metallici e rotelle arrugginite, riconosce nei macchinari una pressa centenaria, una clessidra, una vecchia sega. A quel punto si è già compiuto il viaggio dentro il tempo, a ritroso fino all’utilizzo primario di quei rottami, quando scandivano una vita di lavoro, prima di essere abbandonati e dimenticati".

Questa volta, a differenza delle precedenti, non presentate l’oggetto nella sua nuova immediatezza, ma svelate anche la rinascita, il momento religiosamente delicato in cui l’oggetto esce dall’oblio del tempo per recuperare un ruolo nel mondo, quell’attimo infinitesimale in cui la cosa morta si libra dall’alito del suo creatore…
"Grazie a delle telecamere che hanno filmato il periodo dell’installazione, proiettiamo la genesi dei quattro ingranaggi su due monitor. Mettiamo a nudo la mutazione e anche gli spazi di proiezione sono spogliati dalle paratie laterali: i fili elettrici, il tubo catodico, tutto si mostra attorcigliato come viscere".

La rinascita, il miracolo di una nuova vita è certificato doppiamente: dalle immagini del processo di creazione e da quelle, alternate, dello sguardo degli spettatori.
"Chi assiste è ripreso da piccole telecamere: il suo tempo, diventa quindi il tempo dei rottami, il suo presente è catturato e ingabbiato dalla macchina che lo proietta nel passato e a suo piacimento lo riporta nel presente. La dimensione del futuro, al contrario, è vissuta dallo spettatore nel più tradizionale dei modi, grazie alla musica che lo accompagna durante il viaggio. Il giorno dell’inaugurazione la Zombie Beat ha creato un tappeto di rumori, partendo dal ritmo di ogni singolo orologio: ha acceso l’ingranaggio e si è sintonizzato su quella base per definire una strofa e aggiungere – come in un grande concerto – le successive strofe, ognuna dettata dal ritmo dell’ingranaggio. Una scala di percussioni, sintonizzate in un crescendo emotivo, preludio di ciò che accadrà, interrotto da qualche incursione meccanica: il suono amplificato degli ingranaggi dei quattro orologi".

Questa volta è assente il fuoco. La sua forza distruttrice era incompatibile con la vitalità della Macchina del Temp(i)o?
"Non abbiamo incendiato nulla solo perché non abbiamo avuto il tempo per realizzare una performance del genere, rispettando la sicurezza dei visitatori. In ogni caso per noi il fuoco rappresenta la forza vitale, non quella distruttrice: è ciò che purifica i rottami del passato, li fonda e li piega a nuova vita, è simbolo di quello scenario urbano, che dall’84 non solo insceniamo, ma viviamo".

La Mutoid Waste Company nacque a Londra nel 1984 per iniziativa di Joe Rush e Robin Cook, che fondarono una compagnia teatrale alternativa, le cui esibizioni consistevano in spettacoli animati da giochi di fuoco, musica rumorista e installazioni nate dall'arte del riciclaggio. La compagnia praticava e pratica tuttora una sorta di opera d’arte totale, vivendo fra camper modificati e autobus riciclati in un ambiente che ricorda film di culto come Mad Max e Waterworld.
Dopo pochi mesi dalla fondazione entrò nella comunità Strupper, punk inglese che guidò la migrazione della M.W.C. in Italia fino a Santarcangelo di Romagna, dove approdarono nel 1990. L'occasione era data dal Festival , dove la compagnia presentò una lunga parata d'insoliti automezzi: Fiat 500 trasformate in carrarmati, un camion degli anni '50 mutato in dinosauro... La compagnia s'innamorò del paese e il paese della compagnia, tant'è che da allora occupano un’ex cava lungo il fiume Marecchia. Qui vivono e lavorano, mutando e lasciandosi mutare. Qui creano le loro opere riciclate come l'ultima installazione - Il temp(i)o metalmeccanico - realizzata per la mostra dell'Artigianato Metropolitano, esposizione inter nazionale di arti applicate nei palazzi di Torino fino al 23 febbraio 2003.
L'installazione della M.W.C. occupa la Cavallerizza Reale, in via Verdi 9.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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E’ nata AHA: ACTIVISM-HACKING-ARTIVISM
Mailing list sull'attivismo artistico
di Tatiana Bazzichelli

Allo scadere del 2002, è nata la Mailing list AHA: Activism-Hacking Artivism, conferenza elettronica non moderata ad accesso pubblico sull'attivismo artistico.

La mailing list, nata sul sito di Isole nella Rete, e’ la prosecuzione collettiva del progetto AHA, che ha esordito con una mostra presso il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell'Università di Roma (vedi http://www.luxflux.net/museolab/mostre/aha.htm) e si e’ sviluppato poi attraverso diverse proiezioni video con il nome AHA v.2 (http://www.strano.net/bazzichelli), materiali oggi disponibili per il download nel sito http://www.ngvision.org.

Con il termine attivismo artistico si intende ogni forma di espressione creativa di origine individuale o collettiva non vincolata dalle logiche di profitto, no-copyright, orientata a stimolare la reale sperimentazione sui linguaggi espressivi al di fuori di ogni censura e appartenenza gerarchica, per una libera riflessione sull'uso delle nuove tecnologie.
AHA e' un territorio di incontro e di dialogo aperto, che va oltre ogni forma di sterile perpetuarsi di nomi e di appartenenze, caratteristiche che oggi connotano largamente il cosiddetto "sistema dell'arte". Uno spazio di confronto e di scambio di conoscenze, una piattaforma comune in cui segnalare, proporre e far crescere collettivamente progetti sulla sperimentazione e l'uso artistico delle nuove tecnologie.
Un luogo di scambio collettivo sulle forme di attivismo che propongono un uso libero dell'arte e della tecnologia, uno spazio di riflessione e di informazione sull'ACTIVISM (attivismo sociale), HACKING (attivismo tecnologico), ARTIVISM (attivismo artistico), tre forme d'arte interconnesse, considerando il termine "arte", come una forma di apertura, come la capacita’ di intervenire personalmente nella produzione di informazione, espressione e comunicazione, partecipando in prima persona nella costruzione dell'immaginario collettivo.
AHA è una lista per chi vuole costruire, progettare, comunicare e soprattutto fare con le proprie mani, "incollando" collettivamente il proprio collage espressivo.
Il materiale informativo che circola nella mailing-list a opera delle/dei partecipanti e' da considerarsi di pubblico dominio ovvero No Copyright.
AHA invita tutti a partecipare liberamente, contribuendo a scuotere e ri-combinare i nostri simboli culturali, per un'arte che non sia piu' una definizione ma una forma di attivismo.
Per spedire i propri interventi inviare messaggi a: aha@ecn.org Per leggere l’archivio della lista andare su https://www.ecn.org/wws/arc/aha, per iscriversi cliccare sul pulsante "Iscrizione".


 


NEWS # Fiorenzuola Teatro 2003
Atto I
di Anna Maria Monteverdi

In questi tempi di difficile visibilità per il teatro di ricerca italiano e di chiusura da parte delle istituzioni (vecchie) nei confronti delle (nuove) proposte drammaturgiche e sceniche, ci piace segnalare la programmazione teatrale del piccolo centro di Fiorenzuola, in provincia di Piacenza, sulla Via Emilia, diretto dalla giovanissima e molto attiva Paola Pedrazzini -affiancata dall'assessore alla cultura Laura Torricella che ha accolto con entusiasmo e coraggio questo articolato progetto teatrale: un piccolo modello da trapiantare in province ben più ricche e storicamente più "esposte" alla cultura del teatro. Il cartellone risponde ad un intrigante percorso tematico che prevede un'incursione nel nuovo teatro italiano - tra gli altri Fausto Paravidino, l'Accademia degli Artefatti, Sud Costa occidentale - con importanti momenti di approfondimento.; come sottolinea il direttore artistico, gli appuntamenti si suddividono in "teatro al femminile", "teatro dell’impegno civile" e "monografie" dedicate a singoli personaggi (Pasolini, Eleonora Duse o Van Gogh); un percorso "stilistico" che offre approcci con il "teatro di ricerca", con il "teatro d’attore" e con i nuovi "narratori" (Ascanio Celestini, Giuliana Musso), a cui si aggiunge una parentesi sulla commedia dell’arte oggi; infine un percorso più specificamente culturale offre la possibilità di un’indagine intorno alle varie forme della scrittura teatrale contemporanea (l’"autodrammaturgia" dell’attore, la contaminazione artistica, l’eredità della tradizione orale)".
Quali che siano i segreti che hanno reso possibile questa "germinazione" nel cuore della provincia emiliana, che propone da gennaio ad aprile questo interessante (e generoso) calendario teatrale in forma di letture, mise en espace e allestimenti più complessi, (ben lontano da logiche di "scambi" e di allineamento al main stream teatrale e teatral-televisivo) l'attenzione è rivolta al fatto che evidentemente gli operatori teatrali non sono stati sordi e hanno risposto con i fatti (oltre che con l'entusiasmo) alle molte richieste dei gruppi teatrali a Castiglioncello. Non a caso è proprio alle giornate del convegno Nuovo teatro-Vecchie istituzioni che Paola Pedrazzini si ispira deliberatamente per la presentazione in stampa del suo calendario.
La stagione viene ospitata in parte nell'accogliente Ridotto del Teatro Verdi in parte in altri spazi, in attesa del 2004 quando verrà riaperto, completamente ristrutturato, il Teatro Municipale. La stagione è stata inaugurata con un incontro con lo studioso-drammaturgo Paolo Puppa che ha spiegato le motivazioni della sua recente drammaturgia ispirata ai miti femminili che, come già in precedenti testi (Il Minotauro) testimoniano condizioni di crisi esistenziali ed emarginazioni contemporanee: Giovanna D'Arco e Giuditta (interpretate a Fiorenzuola con grande profondità da Catertina Vertova), le eroine immolate per la patria (che oggi vestono come ci racconta l'autore, i panni delle donne-kamikaze) diventano simbolo e sintomo di una "domanda d'amore insoddisfatta". Nella serata di venerdì 14 marzo ore 21,30 Paolo Puppa presenterà MITI TEATRALI FEMMINILI VISTI DA UN UOMO D’OGGI.
Tra i prossimi appuntamenti l'EVENTO SPECIALE dedicato alla Commedia dell'arte con ROBERTO ALONGE - Università di Torino (La tradizione teatrale del ‘500 basata sulla drammaturgia); ROBERTO TESSARI Università di Torino (La tradizione teatrale del ‘500 basata sulla centralità dell’attore; LUIGI ALLEGRI Università di Parma, (La commedia dell’arte nel ‘900, tra Ferruccio Soleri e Dario Fo); MARIO MATTIA GIORGETTI Direttore di "Sipario" (Intervista a FERRUCCIO SOLERI: la Commedia dell’Arte e la sua concreta realtà scenica nell’esperienza dell’ultimo grande Arlecchino). In occasione della giornata di studi sulla commedia dell’Arte, ripresa da Rai International, la città di Fiorenzuola consegnerà a Ferruccio Soleri oltre 1200 volte interprete in tutto il mondo de l’ "Arlecchino servitore di due padroni" di Strehler- la targa di "Ambasciatore della cultura italiana all’estero".

Chiudiamo con una frase di Paola Pedrazzini a presentazione del proprio lavoro di programmazione teatrale, da cui trapela quella passione per il teatro nella quale senz'altro ci riconosciamo, perché ci piace sperare che queste scommesse (la sua come quella di molti altri operatori e organizzatori di cui daremo notizia e sempre maggior spazio) siano sempre vincenti. Perché lo siano, credo dipenda soltanto da noi:
"Un lavoro appassionato di ricerca degli artisti, degli spettacoli più significativi del panorama teatrale e di costruzione di percorsi artistici, culturali, umani, ma soprattutto la realizzazione di un’idea e il sogno ,che a volte la progettualità da sola possa ritagliarsi una nicchia nell’ establishment teatrale ufficiale facendo saltare la catena di montaggio artistica delle scelte 'di cassetta' e 'di potere'".



Teatro degli Artefatti, Die die my darling

Prossimi appuntamenti: Venerdì 24 gennaio 2003 - ore 21.30 BUENOS AIRES NON FINISCE MAI Di Vito Biolchini e Elio Turno Arthemalle tratto dal romanzo "Le irregolari" di Massimo Carlotto Con OTTAVIA PICCOLO Regia Silvano Piccardi La Contemporanea 83 Venerdì 31 gennaio 2003 - ore 21.30 JOHAN PADAN A LA DESCOVERTA DE LE AMERICHE Di Dario Fo Con Mario Pirovano Regia DARIO FO Giovedì 6 febbraio 2003 - ore 21.30 NATURA MORTA IN UN FOSSO Di FAUSTO PARAVIDINO Regia Serena Sinigaglia Con FAUSTO RUSSO ALESI A.T.I.R. (Per il calendario completo: vedi forum) PER INFORMAZIONI: TEL. 0523 98 93 23 www.lacittadifiorenzuola.it


 


Un teatro da salvare
Un mail da Riva del Garda
di Paolo Rosà

Abbiamo ricevuto questo mail. Lo rilanciamo perché ci sembra interessante e anche perché crediamo che in Italia ci siano molte situazioni analoghe: spazi interessanti che potrebbero essere destinati all'attività teatrale e in genere culturale.
Uno dei grandi problemi del teatro italiano - del nuovo teatro - è la difficoltà a far vedere e circolare gli spettacoli: una riflessione su questo tema avrebbe certamente notevole interesse anche nell'ambito del dibattito aperto sul tema Nuovo Teatro Vecchie Istituzioni.


Molte città pagherebbero per avere un teatro di fine ‘800 come quello che si vede nelle foto (tratte dalla pubblicazione La Riva Bella di Stefano Salvi). Ebbene Riva del Garda (Trento) lo possiede ma non fa nulla per tenerlo in vita e a breve potrà essere trasformato in un centro commerciale - le autorizzazioni ci sono già....
 

 
Il cinema-teatro Perini di Riva del Garda ai tempi d'oro. Poi la chiusura ed ora la prospettiva di trasformarlo in un bel centro commerciale nel cuore della città. E' già tutto deciso? Non si può fare più nulla?
 

 
La foto è di un paio di mesi fa: come si può notare il cinema-teatro è integro. Una "spolveratina e la città potrebbe tornare ad avere il suo teatro, ma per fare ciò bisogna volerlo davvero e mettere mano al portafogli.
 

 
L’entrata desolatamente chiusa da decenni.

Che ne pensate?
Se lo ritenete opportuno passate parola, divulgate il più possibile questa e-mail, scriveteci e chissà che non si possa salvare l’unico teatro esistente ma chiuso di Riva del Garda.
Sul sito www.moveo.infoanche la rassegna stampa.

Grazie!


 


Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
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