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Il volo del calabrone
Questo testo è stato pubblicato sul numero 4 di "ARTo".
In calce è aperto uno spazio di discussione.
Laneddoto è noto: secondo i massimi esperti di aerodinamica, il volo del calabrone, dato il suo peso, la sua forma e le caratteristiche fisiche dellaria, è impossibile. Eppure il calabrone vola. | |
1 Renato
Palazzi, Londa anomala del nuovo teatro, in
"Il Sole-24 Ore", 18 aprile 1999; il dibattito
suscitato dallarticolo è stato ospitato sul sito
del quotidiano, in un apposito forum. 2 Paolo Ruffini e Cristina Ventrucci, Mappa degli ultimi teatri, in "il Patalogo 19", pp. 201-227. 3 I cataloghi delle tre edizioni di Teatri 90 (più quello dellappendice palermitana delledizione 1999), offrono unampia varietà di materiali, prodotti sia dai gruppi sia da vari osservatori. 4 Senza dimenticare il fondamentale lavoro svolto da Opera Prima a Rovigo e dai Teatri Invisibili a San Benedetto del Tronto. |
Qualche tempo fa, sul "Sole-24 Ore" un osservatore attento e partecipe come Renato Palazzi ha offerto unampia e complessa riflessione sui gruppi più giovani, quelli che sono stati via via etichettati come "invisibili" (anche se in questo caso letichetta generazionale è impropria); "ultimi", dalla Mappa dei teatri ultimi curata da Paolo Ruffini e Cristina Ventrucci sul Patalogo 19; "Teatri 90", a partire dalletichetta della rassegna milanese organizzata da Antonio Calbi che li ha imposti allattenzione; "terza ondata", definizione attribuita a Renata Molinari, per distinguere questa leva dalle precedenti: quella delle cantine romane (Bene, De Berardinis, Ricci, Nanni, Vasilicò, Perlini) e quella affermatasi tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta (Carrozzone, Gaia Scienza, Falso Movimento, i romagnoli Valdoca, Raffaello Sanzio, Ravenna Teatro, solo per citarne alcuni). |
I caratteri unificanti della "nuova onda" vengono spesso identificati in negativo: nelle parole di Palazzi, queste giovani compagnie "non sembrano avere né la volontà né la consapevolezza di sperimentare"; la loro non è formazione ma episodica auto-formazione; in mancanza di adeguati strumenti culturali e tecnici eludono tanto il problema del testo quanto quello dellinterpretazione; il loro è un teatro di intuizioni e frammenti, procede più per studi che di opere compiute, sopravvivendo in uno stato di costante provvisorietà, ed evitando di assumersi responsabilità precise. | |
Un dato è tuttavia indiscutibile: la presenza di una serie di realtà che conducono percorsi fortemente caratterizzati nellambito del teatro; alcune di esse hanno prodotto lavori indubbiamente interessanti e caratterizzati dallelaborazione di una poetica autonoma. È anche vero che nel loro percorso alcuni di questi gruppi hanno prodotto lavori per varie ragioni deludenti (perché troppo ambiziosi, perché paiono ridurre le novità a cliché e formula ). Ma da questo dato è necessario diagnosticare uno stallo, la fine di unesperienza? Oppure si tratta di una crisi di crescita? Chiunque pratichi la ricerca con serietà prende dei rischi e attraversa momenti di difficoltà nel condurre il proprio progetto. Per tornare a un passato non troppo lontano, basti pensare alla caduta dattenzione critica nei confronti di due realtà come Societas Raffaello Sanzio (dopo il successo dei primi spettacoli, fino a Gilgamesh) e Pippo Delbono (dopo il fortunato esordio del Tempo degli assassini), due realtà che oggi godono di un meritatissimo successo (ma gli esempi potrebbero essere più numerosi). | |
È dunque ovvio e quasi naturale che chi opera sul versante della ricerca possa a volte imboccare vicoli ciechi o compiere errori di presunzione generati dalleccesso dattenzione o dalla mancanza di strumenti tecnici adeguati; o, al contrario, che cerchi conforto e consolidamento nella ripetizione di formule di (relativo) successo. È vero che molte compagnie che vengono attualmente ospitate il cartelloni prestigiosi hanno combattuto a lungo in semiclandestinità, riuscendo a far riconoscere il valore della propria esperienza a una critica troppo pigra solo dopo una lunga serie di alti e bassi. | |
Gli inevitabili "bassi" rappresentano fasi delicate anche per chi sostiene queste realtà, dal punto di vista sia produttivo sia teorico: quando unopera non del tutto riuscita va in qualche modo protetta rispetto al progetto generale e allidea di teatro che lo sottende. È proprio nella capacità di seguire con attenzione critica un processo di lavoro, nei suoi alti e bassi dal punto di vista dei prodotti, senza immotivati entusiasmi e disamoramenti, che si misura la qualità dellattenzione di uno spettatore partecipe. | |
5 Ruffini-Ventrucci,
cit. 6 Il nemico, semmai, è un altro: i meccanismi di omologazione imposti dai mass media. |
Ma quanta "ricerca e sperimentazione" cè nel lavoro dei gruppi dellultima onda? Dal punto di vista del linguaggio teatrale (al di là delle volontà o consapevolezze soggettive), un dato è certo. Le esperienze della generazione precedente, di cui questi gruppi sono i "naturali prosecutori" (Ruffini-Ventrucci), sono state in qualche modo digerite e assimilate: la grammatica dello spazio, della drammaturgia, dellattore, la sintassi della costruzione dello spettacolo e la contaminazione dei linguaggi (nella constante ricerca della conciliazione impossibile tra coerenza assoluta e libertà totale), costituiscono ormai un dato acquisito e irrinunciabile. Insomma, la poetica dellavanguardia e il suo metodo di lavoro sono diventate in qualche modo il terreno comune. Non esiste più una "cittadella della tradizione" da assediare e conquistare, se non a livello di strutture di potere ormai obsolete: da un punto di vista culturale e artistico, la battaglia è vinta. |
7 Vedi le
annotazioni di Pier Giorgio Nosari, Il "nuovo
teatro" e la svolta pluralista, in "Prove
di drammaturgia", 1/99. 8 Su un versante specifico di questa ricerca, vedi per esempio le annotazioni sul rapporto con la musica di Renata Molinari in "Artò", n. 2. 9 Ruffini-Ventrucci, cit |
Proprio in seguito a questo successo (e lannotazione trascende lambito strettamente teatrale), tuttavia, la nozione stessa di avanguardia, in cui affondano le radici tutti i nuovi linguaggi dellarte, con lavvento del post-modernismo si trova svuotata di senso. Contemporaneamente, la prospettiva è slittata da una progettualità modernista (la possibilità di costruire un mondo secondo uno schema razionale) a una prospettiva post-modernista dove la possibilità di costruire un mondo non è negata, ma anzi moltiplicata in una infinità di mondi possibili e di intrecci tra questi mondi, e insomma proiettata in una dimensione ironica. Non è dunque nella fondazione del nuovo linguaggio teatrale che va cercata se esiste la volontà di ricerca dei nuovi gruppi. Piuttosto, forse, nella volontà e capacità di creare un proprio specifico linguaggio teatrale. Di conseguenza la caratteristica che può accomunare questi gruppi, se ne esiste una, è unaltra "non caratteristica": leclettismo, la preoccupazione "di scompaginare tra le proprie letture". |
10 Era questo il punto debole del progetto dei Teatri Invisibili: un movimento artistico-politico costituito in sostanza su un dato negativo come lesclusione dai circuiti delle sovvenzioni ufficiali (a meno di non avere una fortissima coesione ideologica) è inevitabilmente destinato a perdere prima o poi gli elementi più forti e motivati. Di qui, a volte, il sospetto forse ingiustificato che il movimento potesse essere usato come leva da alcuni dei partecipanti. | Se qualche denominatore comune si può trovare, allora, è forse più in un dato sociologico che estetico: lelemento generazionale; con la consapevolezza che, dopo la fine delle avanguardie, ciascuno ha il diritto e il dovere di cominciare da zero. In queste condizioni, al di là delleffetto dattenzione creato da rassegne e da etichette deffetto, pare inevitabile anzi, indispensabile che queste nuove realtà inizino ad avanzare in ordine sparso, cercando ciascuna un proprio equilibrio tra marginalità e ufficializzazione, tra origini "movimentiste" e integrazione nei meccanismi del teatro sovvenzionato. |
Ma quali sono oggi le possibilità di crescita di alcuni (almeno) di questi gruppi, al di fuori dell"area protetta" delle rassegne specializzate e della stentata economia dellautofinanziamento? Il nodo è duplice, estetico ed economico. Sul primo versante, cè chi dà per scontata lassimilazione del nuovo linguaggio da parte non solo degli artisti e dei critici, ma anche del sistema teatrale e del pubblico (o forse di un suo settore sufficientemente ampio); la conseguenza rischia però di comportare un azzeramento del "valore aggiunto" delle nuove realtà: "categorie come vecchio e nuovo, gruppo e ricerca perdono per forza di cose la loro carica ideologica e vengono condotte a una prassi abituale". Non si tratterebbe dunque di una resa, ma di una vittoria: rubando la metafora alla storia della scienza, si è imposto un nuovo paradigma che sta irrimediabilmente scalzando il vecchio. Il problema risiederebbe ormai unicamente in una più equa distribuzione di risorse da parte di un sistema equivoco e sclerotizzato, e nellaffidare ruoli di maggior responsabilità a esponenti del "nuovo" in modo da spostare gli attuali equilibri di potere. | |
Se così fosse, sarebbe logico ipotizzare due direzioni di sviluppo: da un lato il superamento della ricerca su valori puramente formali, a favore di una maggior importanza degli aspetti tecnici (cioè di esecuzione e interpretazione allinterno di una forma data) e contenutistici; e la ricerca di un rapporto più organico con un pubblico più numeroso, attraverso unesplorazione della varie forme della comunicazione teatrale. | |
In realtà, per ora non sembra che questa sia una tendenza generalizzata, forse perché la rottura della convenzione (da cui sono partite le avanguardie dinizio secolo) ha portato a due conseguenze a lungo termine. In primo luogo ogni realtà poetica autonoma tende a creare la propria convenzione. Dal momento che non esiste più un unico linguaggio con un fondamento "naturale", dal momento che la tradizione si è dissolta, tutti i linguaggi sono legittimi, purché coerenti. Il rischio implicito è immediatamente intuibile: quello della chiusura e dellimplosione nei "dialetti teatrali" (come è accaduto negli scorsi decenni a molte realtà). | |
In ogni caso ogni nuovo linguaggio nasce, anche nella sua vocazione di avanguardia, rivolgendosi a un pubblico délite, o meglio a sezioni specifiche del pubblico (della collettività o della polis). Dopo di che, può cercare di allargare il proprio orizzonte, ricollegandosi a questo o a quellaspetto della tradizione, per cercare una collocazione più centrale, in varie maniere. È un processo che parte necessariamente dallindividuazione di un possibile centro, di una collettività a cui fare riferimento. | |
11
Semplificando, è una prospettiva che presuppone una
soggettività forte, un forte senso dellidentità,
che ha sua volta consente la possibilità di
rappresentare il reale; e tuttavia questa soggettività
non può che trovare il proprio fondamento ultimo nel
trascendente (cfr. George Steiner, Vere presenze,
Garzanti, 1992). 12 Inutile avvertire del rischio che queste avanguardie "consapevoli" si trasformino più o meno rapidamente in avanguardia di consumi e di mode, di comportamenti che da autenticamente trasgressivi diventano ben presto "di tendenza": sollecitando dunque unattenzione in ultima analisi sociologica. |
Oggi, riducendo la questione alle alternative più radicali, i centri dattrazione più forti sembrano due, in direzioni divergenti. Da un lato il recupero della tradizione (con tutti i suoi impliciti presupposti umanistici, e addirittura le sue aspirazioni alla trascendenza); tuttavia il contesto appare irrimediabilmente mutato rispetto al passato: perché oggi nei fatti questa tradizione è minoritaria e marginale rispetto ai grandi flussi di comunicazione e alle ricette ideologiche dominanti (in questa prospettiva il teatro resta un fatto di élite culturale, una scelta). Al polo opposto, la vocazione può essere unadesione al reale così come si configura oggi: frammentazione antiumanistica del soggetto e conseguente perdita di senso, impossibilità di una rappresentazione unitaria della realtà ma a un livello di consapevolezza diverso da quello dei mass media, e dunque anche in questo caso rivolgendosi, di fatto, a unélite "consapevole". |
13 Quando Palazzi invoca sul quotidiano della Confindustria il "traumatico contatto con il "mercato"" che i gruppi eviterebbero, oltre a sottacere il "peccato originale", lélitarismo che innesca ogni attività di ricerca, sembra dimenticare che nel teatro italiano (almeno dai tempi del fascismo, e poi nella Repubblica che ha ereditato il suo meccanismo di sovvenzioni) non è mai esistito un vero mercato, ma sempre un mercato pesantemente truccato e distorto (anche sul versante della distribuzione); e distorto e manipolato anche da coloro che di recente hanno invocato le "leggi del mercato" anche in ambito teatrale. Peraltro è irrealistico sostenere che il mercato, oggi, possa sostenere unattività di ricerca teatrale come quella che si è svolta in questi decenni in Italia (fermi restando sprechi, abusi e clientelismi). Quella che serve davvero, in Italia, è piuttosto la riflessione sul teatro pubblico, oggi. | Peraltro nella realtà queste due tensioni che lacerano il soggetto e la sua identità (questo dilemma tragico, dovremmo dire, se non ci trovassimo già nel regno della rappresentazione) tendono spesso a convivere, con risultati esteticamente interessanti. |
Dallazzeramento che caratterizza questa fase, nasce un altro problema che per tutti gli osservatori esterni appare basilare, mentre i "nuovi" lo giudicano in genere irrilevante: quello della formazione e più in generale della trasmissibilità delle esperienze e dei saperi acquisiti in sostanza quello della pedagogia. | |
14 Sul problema della formazione teatrale, cfr. le varie inchieste che allargomento ha dedicato, con uninsistenza che non è casuale, il Patalogo: Maria Grazia Gregori sul Patalogo due, Roberto Agostini sul Patalogo tre, Georges Banu sul Patalogo nove, Renata Molinari e Oliviero Ponte di Pino sul Patalogo dieci, Franco Quadri sul Patalogo quattordici, ancora Molinari e Ponte di Pino nellinchiesta che compare sul Patalogo quindici. | Anche qui, si affaccia un paradosso. La tradizione antica e quella moderna (quella legata al progetto), che per definizione dovrebbero perpetuarsi senza problemi, di fatto non esistono più (come dimostra la cronica crisi delle scuole di teatro "ufficiali"). Per definizione, inoltre, la "tradizione del nuovo" (nel senso di pedagogia) non dovrebbe esistere: è impossibile da definire e non può cristallizzarsi in istituzione. Ma nella pratica, funziona. Sono percorsi di autoformazione, dettati dalla necessità e dal caso; si è rivelata efficace per i gruppi della seconda generazione, e non si capisce perché non dovrebbe funzionare per quelli della terza. |
Questa situazione così intricata pone chiunque si accosti a questi processi in una posizione difficile. Da un lato e anche queste sono caricature cè la tentazione di farsi profeta del nuovo, diventando agit prop a livello di intervento organizzativo e culturale, enfatizzando e glorificando tutto quello che accade di vagamente trasgressivo e nuovo, con abili operazioni di marketing. Dallaltro emerge una tendenza autoritariamente pedagogica: regalare giudizi con matita rossa e blu (negli spettacoli dei nuovi e dei nuovissimi, generazione dopo generazione, non è difficile trovare uninfinità di difetti, vista limmaturità e lacerbità di chiunque pratichi il nuovo); e di conseguenza imporre punti di riferimento e occasioni di formazione, in modo da arrivare al più presto a prodotti accettabili anche dal grande pubblico e da uno sguardo critico affilato (trascurando oltretutto un dato di fatto ovvio: che in questa situazione anche la funzione del critico, e il suo statuto, si trovano messi in discussione). Nei due casi lintervento su realtà fragili e in fase di crescita, alla faticosa ricerca della loro identità, rischia di essere devastante, anche se animato dalle miglior intenzioni. E tuttavia resta prezioso e necessario, nella sua duplice funzione: quella di creare attenzione nel pubblico, quella di offrire uno specchio attento, insieme partecipe e distaccato, a questi percorsi. |
copyright Oliviero Ponte di Pino 2000.
Teatro della Polvere Una tardiva riflessione sotto forma di risposte. |
1) Sulla
ricerca di una propria specificità del linguaggio
teatrale. La tematica del soggetto nella scena contemporanea italiana, nella quale ci poniamo di fatto e di diritto, è in sostanza quella della rappresentazione dell'uomo, ma anche quella di una presa di posizione rispetto al presente. Che ogni spettacolo si fondi, più o meno consapevolemente, su una operazione di questo tipo, è più facilmente intuibile che dimostrabile. Venuti meno i punti assoluti di riferimento ognuno può adottare specifici e propri canoni artistici ed estetici, e spaziare liberamente nel mondo eclettico delle forme. Ma se questa è certo la vittoria di nuovi linguaggi, non necessariamente implica una nuova visione dell'uomo, né tantomeno del presente. La scelta radicale del punto di vista estetico, vero imprescindibile canone dei nostri giorni, può essere ribaltata e osservata in quello che essa contiene e veicola, ovvero come presa di posizione rispetto a ciò che non è di per sé estetico. Che questo altro sia trascendente, è in un certo senso vero, ma rispetto all'estetico, non al presente, in cui invece deve sapersi immergere fino al collo. In maniera un po' ideologizzante, la questione si potrebbe anche porre nei termini dell'alternativa tra la resa a e la lotta contro un modello dominante. Senza dimenticare la possibilità di fuga. Allora si può vedere il soggetto sgretolato in figurina poliedrica, portatrice di una sofferenza allegramente esibita o auto - inflitta, vagheggiato come visione intangibile e inafferrabile, beatamente appiattito in un'immagine remota. Oppure si può assistere alla fuga nella completa autoreferenzialità dell'Io, pronome abusato e maltrattato, che dimentica l'altro, per primo il pubblico, ma anche se stesso perché privo del reale e tangibile riconoscimento dato dal "rispecchiamento". Più rari, in fine, i tentativi di lotta, di rifiuto, che mirano a incarnare l'idealità nel presente, a scardinare una logica senza eluderla, o che tutt'al più si limitano a denunciarla, ma mai se ne faranno portavoce, e sempre cercheranno di combatterla. E' questo il teatro che pur compiendosi nell'assoluto rigore e libertà di un linguaggio specifico, sa non divenire mai dialetto, perchè conserva, nella sua compiutezza, una tensione verso l'alterità da sé, verso il non estetico, lo spurio, l'umano, il nuovo. Almeno nei presupposti. Che sono a nostro modo di vedere essenzialmente politici, in senso alto e obsoleto del termine. Ovvero tali per cui il soggetto è sempre considerato al contempo come individualità e collettività, inserito in un contesto che se pur subisce, gli è dato tuttavia modificare; senza perdere di vista il senso, spesso perverso e grottesco, dei rapporti umani e della loro intrinseca fallibilità. Nei nostri spettacoli degli scorsi anni, questa tematica si ripete, con esiti differenti a livello formale e contenutistico, ma con una forte linea comune dettata dall'attenzione ad alcuni elementi della scena: 1) lo spazio scenico, architettura fondante di ogni azione, non orpello scenografico bensì habitat in cui si definiscono le regole di un micro-mondo e si stabiliscono le relazioni. 2) le relazioni degli attori, fra loro, sulla scena, degli attori e del pubblico, degli attori con lo spazio sono temi d'indagine che stimolano il gruppo ad un lavoro che si cimenta sulla creazione di specifici linguaggi che riescano a filtrare il presente senza diventare autistici, ripiegati su sè stessi; è sull'efficacia del dire, sulla necessità del gesto, sulla capacità di elaborare un autentico montaggio delle meraviglie che gli sguardi si incrociano e i neuroni in mezzo alle orecchie si rincorrono. 3)la memoria della tradizione ci spinge non come orfani bensì come consapevoli autarchici a schierarci dalla parte di chi nel teatro vede il centro della polis. E' anche attraverso di esso che prende forma il termine civiltà. 4)la visione è la capacità di catturare lo sguardo. L'organizzazione degli sguardi di chi fa e di chi fruisce è un mezzo utilissimo nel linguaggio teatrale, ammesso che incarni un significato necessario alla scena. Siamo contro la pestilenza delle immagini. Lavoriamo ambendo alla costruzione di qualcosa di icastico, primigenio, puro. Certo, questi presupposti teorici, non garantiscono di per sé la buona riuscita di uno spettacolo o di un'operazione artistica. Ma vanno a creare le regole di un gioco, il senso di un linguaggio che più di tutte le sgrammaticature e imperfezioni teme e rifugge l'autoreferenzialità. 2) Sulla condizione dell'attore: come è, come deve essere l'attore di un gruppo sperimentale, oggi, nel bagnasciuga della terza onda, nelle retrovie degli ultimi, nelle sabbie mobili della postmoderna pluralità di linguaggi privati senza riferimenti assoluti? Mi pongo queste domande, soprattutto in riferimento a me stessa, senza dimenticare di guardarmi attorno. .L'attore dei gruppi di ricerca è il più colpito dall'accusa di dilettantismo o scarsa capacità tecnica. Ma questa accusa, se in certi casi può non essere infondata, spesso non tiene conto della grave contraddizione in termini che esso vive. Tra le varie tipologie di attori che ancora oggi convivono a cavallo tra cinema e teatro, quella dell'attore di ricerca, è forse quella più appagata intellettualmente, quella che è riuscita a sfuggire all'ancestrale accusa di essere mercenario e vacuo. Solo a lui è dato godere di un coinvolgimento integrale nei progetti, spesso di essere partecipe di tutte le fasi della realizzazione di uno spettacolo, dall'ideazione alla promozione, laddove tutto diventa fattore esponenziale di una necessità artistica e intellettuale, frutto di una scelta condivisa di forme e linguaggi. L'attore entra così a far parte di un mondo, complesso e vitale come un organismo. Un mondo che richiede responsabilità sempre maggiori, richiede entrate, strategie, riflessioni continue e spesso anche dolorose... Ma cosa diventa l'attore adesso che ha raggiunto il centro nevralgico della creazione artistica? Esso non è più un attore. Non è più mobile, mercenario, pronto al migliore offerente, ruffiano esibizionista. Un'attrice quale sono io arriva persino ad ammettere di non essere più in scena se comprende o arriva a pensare che questa sia la necessità dello spettacolo. Diventa pedagogo, ricercatore, addetto alle pubbliche relazioni, e solo se è bravo, ma molto bravo riesce a farsi un linguaggio proprio, a darsi una cifra stilistica inconfondibile che lo caratterizza come attore di quel gruppo teatrale. Ma allora, data questa ipotesi, l'attore non può più vendersi, uscire dal famigliare alveolo, perché ha perso il suo principale requisito: la capacità di adattamento. E peggio ancora, se tutti i nuovi gruppi emergenti sono caratterizzati dalla ricerca di un proprio specifico linguaggio, e così spesso portati a negare più che a riconoscere, diventa ancor più impossibile creare un circuito di attori, uno scambio, un mercato, per quanto mal pagato, di professionalità. Ecco allora che il nostro attore rischia di perdere se stesso, se non è in grado di distinguere, di proteggere, di far convivere quelle che sono infondo le sue due anime separate, perennemente in contraddizione tra loro . Più che sulla formazione rifletterei su questo, sul divario sempre più grande tra le competenze richieste dal teatro di ricerca e quelle che valgono in tutti gli altri campi, sulla possibilità (che esiste e che molti praticano) di passare con leggerezza e facilità da un mondo all'altro. 3) Sulle "possibilità di crescita di alcuni (almeno) di questi gruppi:" E' questa la domanda che arroventa le nostre estati, periodo di rendiconti di forzato riposo, dopo inverni vissuti pericolosamente, alla realizzazione di progetti utopistici e azzardati. Ogni anno le risposte sono sempre numericamente inferiori all'anno precedente, i crocevia più rigorosamente perpendicolari, l'altezza sempre più vertiginosa. Ogni anno(ma sarebbe più corretto dire stagione, se non suonasse così antico) si ricomincia da zero. Non è di questo che ci lamentiamo. Questo è il patto, il contratto implicito, per vivere una vita che è, non lo dimentichiamo, sostanzialmente privilegiata. La domanda che ci poniamo è: siamo in grado di leggere la realtà? Abbiamo effettivamente le redini del nostro destino nelle nostre mani, o ci sono invece circostanze oggettive, che rendono vano aprioristicamente ogni tentativo di crescita, proprio perché ne minano le condizioni di possibilità? La risposta non cambierebbe probabilmente nemmeno se lo vedessimo scritto nero su bianco, sotto forma di oracolo incontrovertibile. E questo perché l' artista non si appaga sapendo leggere la realtà, ma aspira costantemente (anche se tutti hanno già ampiamente dimostrato il contrario) a cambiarla. Ma il problema rimane: lo slancio ideale, il rischio del possibile ma non ancora dato, deve quotidianamente fare i conti con il reale, chiedersi quale strada sia ancora aperta e quale abbia già dato tutti i suoi, se pur magri, frutti. Ed è qui il vero problema. Non tanto cioè, se si possieda o meno la "volontà" di creare un proprio specifico linguaggio teatrale", ma se ci sia, di là, qualcuno che abbia voglia di leggerlo, codificarlo, spiegarlo a te stesso, questo linguaggio. E non già come purtroppo accade, che ti aspetti al varco di un verdetto superiore, con l'ansia di classificarti tra chi c'è, e chi non c'è. Ciò che leggiamo attorno a noi non è desiderio di individuare e comprendere una specificità, ma di catalogare e omologare tutto ciò che si dà ed è ormai passata di moda l'antica buona creanza di tentare di distinguere gusto e valore, così come obiettivo e risultato. Ma, ammettiamo pure, in mancanza di prove oggettive di qualsivoglia malafede o disattenzione, che i risultati ottenuti, siano stati proporzionati agli obiettivi artistici raggiunti. Quante possibilità abbiamo ancora? Riusciremo a comunicare la direzione in continua evoluzione del nostro percorso di crescita? O qualche timbro ci è già stato inflitto senza che ce ne siamo accorti? Ci proveremo questo è certo. Ma la fiducia è dono dell'acrobata. |
per ulteriori contributi, olivieropdp@libero.it
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