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NUOVO TEATRO |
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"il manifesto", marzo 1998.
MILANO. La seconda edizione di "Teatri 90", la ricognizione dei nuovi gruppi teatrali organizzata da Antonio Calbi (e ospitata da Teatro Franco Parenti, Triennale, Crt, Brera e Leoncavallo), ha offerto – al di là delle ovvie divergenze poetiche e differenze qualitative – un’interessante osservatorio sulla "terza onda" della nuova scena italiana, dopo quella romana degli anni Sessanta e quella dei gruppi degli anni Settanta.
È vero, si riprendono molto spesso – più o meno consapevolmente – gli stilemi o il linguaggio scenico messo a punto negli scorsi decenni, si ripercorrono analoghe tonalità emotive, con qualche effetto – per gli spettatori meno giovani – di già visto, dove le lezioni più seguite sono la violenza analitica del Carrozzone, gli spiazzamenti mentali della Raffaello, la sostanza poetica della Valdoca. Ma la cornice è cambiata.
A colpire, in primo luogo, è l’enfasi sul processo della comunicazione, sul rapporto con lo spettatore, su cui l’onda precedente aveva posto minor enfasi, in base a un tacito presupposto sulla forza del loro lavoro e la "naturalezza" del processo comunicativo. La casistica – tra le due edizioni di "Teatri 90" – è clamorosa: le 147 cuffie attraverso le quali seguire la Sinfonia majakovskiana "cantata" dal vivo da Clandestino più Fanny e Alexander; i 17 spettatori nel teatrino anatomico di Ponti in core; i 15 spettatori di Coefficiente di fragilità dei Masque, dove il Grande vetro di Duchamp esplode in un affascinante labirinto spaziale e mentale (con cabina da guardoni per una vertiginosa lezione di storia dell’arte); i 7 spettatori per Natura morta degli Artefatti, un altro labirinto con tre stanze-personaggi ispirate al mito e alla letteratura; un solo spettatore alla volta per il peep show di Luigi De Angelis e per l’Edipo del Lemming.
Ma anche in lavori che in apparenza usano un impianto tradizionale (frontale e con un pubblico statico), si tratta sempre di costruire macchine, armadi, teche di plexiglass, che orientino e costringano – quasi con violenza – l’attenzione dello spettatore, che evitino le trappole della passività del pubblico televisivo. Più che gli sconfinamenti fuori dalla rigida cornice teatrale e le trasgressioni liberatorie della performance, più che gli spazi ravvicinati e protetti, la vicinanza quasi intima, cari al filone Grotowski-Barba, questi lavori ricordano piuttosto la "regia dello sguardo" di certi esperimenti di Ronconi al Laboratorio di Prato, ma radicalizzati e trasformati in pratica diffusa. Solo che qui non si tratta di rimodulare la grammatica dello spettacolo della tradizione colta, quanto di risvegliare e costringere la reattività di un nuovo pubblico narcotizzato da mass media. La riflessione sulla natura del teatro riparte da zero – forse dalla pura necessità di comunicare e di esserci, per mostrare la propria ferita – con la consapevolezza di rivolgersi a frange, a piccoli gruppi, a singoli.
La comunicazione non viene mai data per scontata, non può essere "naturale". Non si presuppone più una automatica sintonia con la sensibilità dello spettatore. Lo scandalo, la provocazione, la curiosità morbosa, diventano un ingrediente indispensabile per agganciare, sorprendere, turbare. Ma all’interno di un meccanismo di regole, di spazi, di flussi semiotici rigidissimo, dove non c’è spazio per la distrazione o la fantasticheria dell’osservatore. La percezione viene risvegliata e poi l’attenzione meticolosamente incanalata da un meccanismo a orologeria. Le condizioni della comunicazione – come insegna McLuhan – diventano l’oggetto stesso della comunicazione.
A questa perdita di ingenuità nel rapporto con lo spettatore corrisponde un altro ribaltamento. Per chi scopriva il teatro sull’onda del Living e di Grotowski, il corpo era un terreno di liberazione, e il training un percorso alla scoperta di sé che avrebbe portato all’espressione di un’interiorità, di una natura profonda e forse più autentica. Il lavoro su di sé (schematizzando) procedeva in due fasi: scardinando repressioni sociali e condizionamenti culturali, si liberava una grande quantità di energia psichica; il lavoro di improvvisazione e montaggio portava a darle una forma. Ora l’illusione di una "naturalità" del corpo non viene neppure presa in considerazione. Il corpo è già costretto e determinato. Quella che si esibisce è l’immagine di un corpo sospeso e ferito (l’immagine più semplice ed emblematica è quella dell’autotortura che si infligge Antonella Piroli nella performance Testa a piedi, e che poi si dispiega in compiacimenti quasi autobiografici, imprigionata in un armadio, nella Punta dei capelli). Un corpo costretto e determinato da lacci e catene, in simbiosi con macchine e protesi – come i ricorrenti cazzi finti, duro come quello dei Motus o floscio come quello dei Kinkalerì – che lo trasformano in feticcio.
In consonanza con la moda del momento (forse non è un caso se tra gli sponsor di "Teatri 90" ci siano Benetton Ferrè e Krizia), il desiderio è imploso nei lacci del sadomaso, con la sua trasgressione puntigliosamente programmata e angosciosa: l’incidenza statistica è davvero impressionante. Da questo punto di vista, anche nel suo equilibrio irrisolto tra oggettività clinica e seduzioni espressive, narrazione e superficie, O.M. (ovvero l’Orlando furioso riletto in versione pop dai Motus) assume il valore di uno spettacolo-manifesto generazionale: il gioco barocco del desiderio e della fantasia si stilizza – tra discoteca e sfilata, bordello e vetrina – in una serie d’immagini che riprendono Sade e Masoch, Bellmer e Rops, e si sovrappongono alla passione del corpo delle recenti performance. La cecità imposta allo spettatore dell’Edipo radicalizza e ribalta finalmente l’ossessione.
Quello che in apparenza è un teatro del corpo – e spesso della contiguità tra l’attore e lo spettatore – si rivela ossessionato dall’occhio, dallo sguardo. In On nomme Marcelle Terzadecade affronta (con molte ingenuità) il Bataille dell’Histoire de l’oeil. Un enigmatico occhio è al centro di Natura morta. Ancora di più, questo sguardo non viene diretto solo verso il corpo ferito dell’attore: quella che lo spettatore si vede spesso gettata addosso è la propria immagine riflessa: in uno specchio, in un filmato proiettato con spiazzante ritardo… Resta, alla fine, il dubbio: l’immagine che vedo, alla fine di questi percorsi, è quella di un io frammentato nei diversi punti di vista, contaminato dagli oggetti e dalle macchine? Oppure quella di un io ricostituito e rifondato (ma come? su quali basi?), e che però rischia di non poter guardare altro che se stesso? O è ancora e soltanto un’illusione, perché è diventato impossibile affondare nella soggettività, e siamo confinati alla pelle e alle sue cicatrici, ai tatuaggi?
Alla fine però, tra tante ossessioni barocche (le macchine) e romanticamente autodistruttive, lo spettacolo che sorprende, coinvolge e diverte di più, è ovviamente quello apparentemente più lontano ed eccentrico: il divertente Skankrèr dell’Impasto, dove nel dialetto di una bassa padana tra Mantova e Reggio si racconta della vocazione artistica d’un giovane ballerino e dei suoi trucibaldi genitori, una mamma "bagassa" e bigotta, e un padre "kankarèr" (cioè che tira accidenti e maledice), in un teatrodanza fatto di grande rigore tecnico e altrettanta leggerezza interiore.
© Oliviero Ponte di Pino 1998, 1999
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