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NUOVO TEATRO |
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"il manifesto", marzo 1997In questi anni Novanta, nella distrazione un po’ colpevole dei teatri (compresi molti di quelli che dovrebbero occuparsi della ricerca) e degli osservatori, sta emergendo una nuova generazione teatrale. Ne ha dato un intenso spaccato la rassegna "Teatri 90" (organizzata da Antonio Calbi al Teatro Franco Parenti di Milano in collaborazione con l’Eti), dove in una frenetica dieci giorni è stato possibile vedere un nutrito pacchetto di spettacoli e performance.
Protagoniste di questa nuova onda sono realtà teatrali nate e cresciute lontano dai normali circuiti teatrali, e spesso anche dai teatri: è più facile vedere i loro spettacoli in luoghi di aggregazione e di flusso come centri sociali e discoteche, è più facile che lavorino in capannoni in disuso e cascine isolate. Hanno trovato forme inedite di organizzazione e coordinamento, all’insegna di un esasperato egualitarismo, come l’associazione Teatri Invisibili, che vuole raccogliere aldilà dell’anagrafe tutti i "non ufficialmente finanziati"; e le rassegne di Rovigo, a cura del Teatro del Lemming, e San Benedetto del Tronto.
A un primo sguardo, gli spettacoli selezionati per la rassegna milanese possono ricordare quelli dell’ondata precedente del nuovo teatro italiano, quella emersa a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta e che ha prodotto i Tiezzi, i Barberio Corsetti, i Martone, la Societas Raffaello Sanzio eccetera... I punti di contatto sono numerosi. Sono prodotti da gruppi giovani o giovanissimi. Utilizzano un linguaggio teatrale che, secondo i canoni di tutte le avanguardie teatrali, pone sullo stesso piano tutti gli elementi che concorrono all’evento teatrale (quindi non solo la parola, a volte bandita, ma anche il corpo, la musica e il suono, lo spazio scenico...). Amano le contaminazioni tra il teatro e le altre arti, e in generale altri aspetti della realtà. Si confrontano con le punte più avanzate del presente, dall’estetica cyber alla filosofia di Deleuze. A un primo sguardo, possono dare un’impressione di déja vu, al di là delle singole declinazioni di una sintassi e di una poetica che ciascuna realtà sembra aver definito con grande precisione ed energia.
Tuttavia - e già questo induce un sospetto - non c’è continuità storica tra le due esperienze, separate dal buco nero degli anni Ottanta. Più che un passaggio di consegne e saperi, a formare questa nuova leva è stata una sorta di autopedagogia, spesso esplicitamente rivendicata. A colpire è inoltre la precisione e spesso la iperdeterminazione della forma della comunicazione. A definire il rapporto con il pubblico possono essere vere e proprie macchine sceniche di sorprendente e affascinante complessità. I giovanissimi ravennati di Fanny e Alexander presentano il loro Ponti in core in un teatrino anatomico da 24 posti, che isolano ciascuno spettatore in uno scranno solitario. La Nuovo Complesso Camerata usa le tecniche dello spettacolo itinerante (di filiazione grotowskiana) e la cornice delle opere di Verdi per raccontare l’Emilia ai tempi del fascismo e della resistenza, tra il romanzo poetico di Attilio Bertolucci e il populismo cinematografico di Novecento, tra i campi e le cascine intorno all’abbazia di Chiaravalle. Masque Teatro piazza frontalmente al pubblico una gigantesca e terribile macchina celibe, che produce feti e si fonde con i corpi degli attori. A offrire solide chiavi di letture possono essere i codici di genere. In Dati del romano Teatro degli Artefatti, geometrica rivisitazione di una serie di topoi beckettiani, trasformati però in una coreografia muta che deve molto alle arti marziali e immersi in un bianco abbagliante, il punto di riferimento più immediatamente decodificabile è la fantascienza. Il cyber alla Ballard (La fiera delle atrocità) è il punto di riferimento di ... dei Motus, dove un attore si esibisce in una sequenza infinita di crash tests, in una struttura di plexiglass che fronteggia la platea, in un esercizio masochistico che rivelerà pian piano la propria natura esibizionistica, tra strizzate d’occhio alla moda e alla pornografia. L’idealista magico del Teatrino Clandestino, in una struttura analogamente frontale (una gabbia da teatro di fiera immersa illuminata debolmente da poche candele) ricostruisce con sconvolgente accuratezza una esibizione ottocentesca sulla recente e fascinosa scoperta dell’elettricità, a metà tra la lezione di storia della scienza e lo show di un imbonitore. Ma anche un teatro esplicitamente fondato su testi poetici (dove però le parole hanno la stessa densità semantica di tutti gli altri "segni" dello spettacolo) costituisce in qualche modo un genere: vi fanno esplicito riferimento il Teatro del Lemming e i catanesi ...
Questa attenzione alla forma della comunicazione, questa capacità di condensare in opera il lavoro teatrale allontana queste esperienze dai possibili predecessori, per i quali la comunicazione sembrava assicurata dalla novità di un linguaggio spettacolare dalla forza dirompente e spesso provocatoria, e che ancora doveva trovare una sua sintassi.
Ma a questo è legata un’altra differenza, ancora più profonda, tra queste due onde teatrali. La consapevolezza della propria efficacia nasceva, alla fine degli anni Settanta, da una fiducia nella rappresentazione, da una capacità di rappresentare che avevano due radici. In primo luogo, a muoverli era la consapevolezza che, nella società dello spettacolo, tutto è - e deve diventare - rappresentazione, spettacolo; questo legittimava e rendeva necessarie tutte le possibili contaminazioni, a cominciare da quelle tra l’arte e la realtà (con tutte le implicazioni di questa utopia). In secondo luogo, ricollegandosi alle avanguardie storiche, quei gruppi sentivano di essere la punta avanzata di un’evoluzione dell’arte e della comunicazione; si sentivano - ed erano - in qualche modo al centro. Certo, un centro (e un punto di vista) contrapposto a quello della tradizione, un punto di vista che tendeva a disseminarsi in altri ambiti e nello scenario della metropoli, ma per diffondere questa consapevolezza dell’infinita rappresentabilità del reale.
Ora questa fiducia nella rappresentazione - che pare il postulato di ogni agire teatrale - appare in qualche modo incrinata, forse irrecuperabile. Questi gruppi sono nati e cresciuti nei margini, negli interstizi. In un orizzonte post-ideologico, le avanguardie non hanno più senso. L’infinita rappresentabilità del reale può portare solo a una vertiginosa moltiplicazione di simulacri. Il principio stesso della rappresentazione, per tutti questi motivi, ha perso di consistenza (è questo forse uno dei motivi d’imbarazzo degli spettatori teatralmente più avvertiti, al di là del fascino e della forza di questi spettacoli). E quando il principio della rappresentazione perde forza, diventa inevitabile precisare al massimo la forma della comunicazione.
A incrinarsi è anche, inevitabilmente, la rappresentazione dell’Io. E dunque diventa necessario ridisegnare il ruolo dell’attore, il suo senso. In questi spettacoli ci sono molti corpi esibiti, messi a nudo, sospinti quasi verso lo spettatore (come nel Peep Show di Luigi De Angelis, dove un singolo spettatore è esposto alla visione scandalosa di un uomo nudo ma con paramenti cardinalizi, la flebo infilata in un braccio, un catino con una siringa nell’altra, finché il voyeurismo non si ribalta in disagio e imbarazzo). Spesso (e questo è già un indizio) sono corpi di morti. Come quelli di Cipresso e Dorotea, protagonisti di quella manieristica favola funebre che è Ponti in core, oggetto di una crudele autopsia. Come il cranio mummificato che compare nel finale dell’Idealista magico. Spesso sono corpi-macchina e ibridi cyber, in cui l’identità personale si annulla e si disperde.
Ritorna uno dei caposaldi della poetica del secolo, il proclama profetico di Rimbaud: "Io è un altro". L’Io viene negato, il corpo viene oggettivato: non sono personaggi, non è una soggettività che vitalisticamente esplode sulla scena. Sono immagini e figure, icone di macchine desideranti, ingranaggi di meccanismi teatrali, funzioni di un’equazione. La consapevolezza dello scarto tra il corpo e l’immagine, tra l’io e la sua figura, esplode in tutta la sua forza poetica e comica in .... , intensa esercitazione dei giovanissimi catanesi ???? , che non a caso utilizza i testi di due poeti della frattura e della vertigine dell’Io come Caproni e Pessoa.
Ai due poli di questa opzione anti-umanistica, due radicali interrogativi. Nei Cinque sassi del Teatro del Lemming (nella cui storia poetica ha un ruolo determinante la morte improvvisa di uno dei fondatori), è l’interrogazione sulla dissoluzione dell’io utilizzando le armi della poesia. L’impossibilità di dire liricamente l’Io porta a una moltiplicazione e disseminazione delle sue immagini, rivisitando alcune figure canoniche: una folla, un angelo (danzato da Thierry Parmentier), una fanciualla-anima vestita di bianco... Il più radicale interrogativo sulla rappresentabilità del mondo arriva invece dal Teatrino Clandestino. Nello spettacolo precedente, Mondo (Mondo) attraverso Pascoli si interrogava la possibilità della poesia (e della parola) di dire il mondo e il pensiero. Questa volta è la forza di verità della scienza a essere messa in discussione: gli scienziati che compaiono in scena non saranno mai in grado di descrivere o spiegare la realtà, sono insieme idealisti e maghi. E naturalmente, malgrado la maniacale ambientazione d’epoca i tre attori del Clandestino, collegati da catene e fili alle "macchine dell’elettricità", facendosi attraversare da flussi di elettroni, sono vicinissimi all’estetica cyber dei Motus e dei Masque. Mentre l’angoscia e la fascinazione per una verità impossibile sono analoghi a quelli che sottendono gli X-Files.
Dilemma: cercare di conquistare il centro della scena, e risolvere in qualche modo l’equazione sulla rappresentabilità del reale. La generazione precedente, a metà degli anni Ottanta, con l’opzione del teatro d’arte e di poesia ha scelto decisamente questa opzione, e non casualmente ha messo profonde radici nel luogo della rappresentazione (e tuttavia, come nel caso della Societas Raffaello Sanzio, costeggiando con consapevolezza sempre maggiore il rovesciamento e sovvertimento dei suoi meccanismi tradizionali).
L’altra possibilità che si apre davanti a questa generazione va nella stessa direzione: continuare a scavare sui motivi e sulle modalità della sua irrappresentabilità.
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