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Conversazione con Moni Ovadia
 
 
 
 
 
 
 
 

Tu nasci sostanzialmente come musicista.

Sì, ancora meno di un musicista, se vuoi. Io nasco come folk-singer. Questo è uno dei miei grandi limiti. E’ interessante dirlo, perché è propri sui miei limiti che ho basato molte cose. Dunque, nasco come folk-singer, da ragazzo. Ho avuto la fortuna - o la sfortuna - di incocciare nel mondo della ricerca etnomusicologica e della canzone di quelle che si chiamavano "le culture altre", nella linea Bosio-Canzoniere-Leydi. Fin dai tempi della scuola avevamo un gruppo musicale. Poi ho lavorato con Leydi, un’esperienza che mi ha molto segnato, è stata molto importante.

Che cosa intendi per scuola? Era una scuola di musica o di teatro?

No, assolutamente, ho cominciato a lavorare con Roberto Leydi quando sono entrato nel gruppo della Scuola Popolare di Musica.

Dunque quando parlavi di scuola ti riferivi al liceo?

Sì, il liceo. Ho fatto la scuola ebraica a Milano, era una scuola con grandi stimoli, soprattutto prima degli anni Settanta, quando l’ho frequentata io, negli anni Cinquanta-Sessanta. Lì ho raccolto molti stimoli e sensazioni, cui poi si è aggiunta anche la grande temperie della stagione della protesta. Per quanto riguarda la formazione musicale, come tanti ragazzi ho preso in mano uno strumento e ho studiato chitarra classica. E mi sono formato con un mio professore, che è tuttora un mio ottimo amico, Loris Rosencolz, che ha una grande discoteca con moltissimi dischi Folk Request e Ash Records, Armonia Mundi, tutte le raccolte dell’Unesco. Fu uno shock, quei dischi ebbero su di me un impatto enorme. Inoltre, anche se questo l’ho capito più tardi, le mie capacità vocali si adattavano bene a questo tipo di musicalità. Dopo di che è arrivata l’esperienza con Leydi sul repertorio popolare e musicale dell’alta Italia. Ma io avevo questo assillo delle mie origini variegate, quella radice cosmopolita che mi ha portato a mettere in piedi il primo gruppo con un signore che adesso dirige "Mondo Economico", Enrico Sassoni. Il gruppo aveva un bruttissimo nome, ma tipico dell’epoca: si chiamava Gruppo Folk Internazionale e suonava un repertorio tradizionale, non solo italiano ma di varie nazioni.

Il nome sarà stato bruttissimo, ma il Gruppo Folk Internazionale ha fatto epoca.

Forse, a suo modo, perché si muoveva nell’ambito internazionale. Con il Gruppo Folk Internazionale già cominciavano a comparire le prime tracce del mondo ebraico: c’era sempre una canzone yiddish che punteggiava i concerti. Naturalmente, oltre ad aver fondato il gruppo insieme a Enrico, io sono sempre stato - lo dico nel bene e nel male - un po’ l’ideologo, cioè quello che lo orientava politicamente. La nostra ricerca non doveva essere solo musicale, e di qualità, ma doveva anche avere una valenza etico-politica: è un aspetto che credo non mi abbia mai lasciato e non mi lascerà mai. Per cui orientavo il repertorio, dirigevo il gruppo, ero quello che, con un brutto termine inglese, potremmo definire teamleader, oltre che cantante. Successivamente l’attività del Gruppo Folk Internazionale ha coinciso per un momento con quella della cooperativa musicale L’Orchestra, in cui c’erano gli Stormy Six, musicisti di jazz come Guido Mazzotto, Elia Rusconi, gruppi anche più rudi come gli Yu Kung di Paolo Perazzini eccetera. E’ stata una stagione di grande divertimento e di grande tensione, nel tentativo di costruire un’etichetta indipendente anche dal punto di vista economico, un’agenzia di spettacoli che fosse al tempo stesso produttrice di cultura, perché facevamo anche pubblicazioni musicali, intervenivamo in seminari sulla musica eccetera. Con L’Orchestra ho vissuto la grande stagione degli anni Settanta, che è durata per noi fino all’81-82, con attività anche all’estero. Per quanto riguarda il Gruppo Folk Internazionale, guidai una trasformazione alla ricerca di una specie di song, di Lied, di una nuova canzone che non era quella dei cantautori ma aveva una dimensione in più, cioè la relazione tra musica e testo era molto più articolata e complessa. E’ per questo che l’ho definita "liederistica", o più vicina al song di Brecht-Eisler, guardando anche a esperienze straordinarie, come quella di Frank Zappa, un grande maestro della libertà dai generi, passando anche per una relazione di conoscenza, per noi molto affascinante con realtà europee come il Willem Breukner Collektiv o con Misha Mengelberg, alla ricerca appunto di una realtà musicale fuori dai generi. Volevo muovermi fuori dal rock, che consideravo in qualche modo tirannico, perché si imponeva come necessario, ineludibile. Il nostro gruppo per esempio non aveva né il basso elettrico né la batteria, era una formazione con archi, oboe, fagotto, alla ricerca di una canzone europea, in particolare Mittel- e Est-europea. Un ruolo molto importante l’ha giocato Alfredo Lacosegliaz, questo straordinario musicista e compositore triestino che lavora ancora con me. Naturalmente dentro questo gruppo sono passate persone che ne hanno segnato la vicenda, come Maurizio Daolio, un violinista che è ancora adesso con me, Giampietro Marazza, il fisarmonicista, Mariolone Arcari e tanti altri. Ero mosso da un assillo, che divenne evidente quando il Gruppo Folk Internazionale cambiò nome e si trasformò - il nome è rivelatore - in Ensemble Havadjà: la sigla era già più ponderosa, si riferiva più strettamente a me, e riconosceva il fatto che io ero il perno intorno a cui tutto questo ruotava. Quella dell’Ensemble Havadià fu la stagione di queste musiche composte alla ricerca di una forma di canzone, una "canzone suite", una canzone più larga, che guardava da un lato alla musica classica e dall’altro alle esperienze tradizionali e popolari. Fu in quell’epoca che nacque per me la spinta verso in teatro: a un certo punto avvertii fortissima l’esigenza di dare a questi concerti una forma di spettacolo. In una misura che non mi era ancora chiara, avvertivo il richiamo di quella forma di teatralità che nasce dal canto, dal suono, che è viva anche nel mondo tradizionale, nel mondo rituale, e che comunque si muove al livello della ritualità.

C’è dunque un passaggio dalla musica al rito, e a quel punto avverti l’esigenza di una sua dimensione più esplicitamente teatrale.

Ma soprattutto sentivo (e la sento molto forte ancora oggi) l’esigenza di stabilire qualcosa che precede la musica come aggregato strutturato di un evento. Nella vocalità, che è il punto di partenza per quello che faccio in teatro, e anche nell’uso delle diverse lingue come tavolozza sonora, c’è una "cultura del suono": è una cultura che precede la musica come la intendiamo noi, che ormai abbiamo alle spalle una storia musicale di millenni, e che soprattutto sentiamo il peso enorme del classicismo, del romanticismo, e poi della grande stagione della musica moderna... Dunque cerco di ritrovare quella musica primaria che è percepibile, udibile, fruibile a livelli che trascendono le nostre abituali coordinate spazio-temporali. Per farlo, però, non mi bastava il concerto, per me era una forma limitante. Per ritrovare questo elemento primario, avevo bisogno di una forma complessiva di rappresentazione.

Qui mi sembra anche di percepire il fantasma dell’opera d’arte totale...

Qualcuno - bontà sua - ne ha parlato a proposito di alcune delle cose che ho tentato di fare. Quando feci, per esempio, una delle mie follie... Dal Gruppo Folk Internazionale me sono andato via io, perché era diventato molto faticoso lavorare. Avevo quattro soldi che mi aveva lasciato mio padre e me li sono mangiati tutti per fare spettacoli. Uno era intitolato Specchi, fece tre repliche, era una specie di immensa zuppiera musicale in cui il canto gregoriano era accostato alla canzone easy listening. Era una specie di spettacolo sul caos musicale, cioè il caos come risultato finale. Avevo dodici musicisti, una danzatrice del ventre, una ballerina. Lo spettacolo era molto ambizioso, per alcuni versi goffo, e suscitò dei grandi contrasti, c’erano i detrattori e i sostenitori; comunque per me fu un’esperienza di passaggio molto importante. Il risultato migliore di questa stagione di concerti teatrali credo di averlo ottenuto con uno spettacolo (da cui è stato tratto un disco) che si chiamava Il nonno di Johnny. Non aveva nulla a che vedere con il Far West: il titolo nasceva dal fatto che una delle canzoni riguardava il nonno di Johnny Gable, un attore del Teatro dell’Elfo. Il cognome Gable naturalmente gli viene dal padre, ma la mamma di Johnny era un’ebrea russa che si chiamava Moskoviz, e la storia del nonno di Johnny mi aveva colpito e sconvolto: era una tipica storia di ghetto, con una madre in uno shtetl polacco che non volendo mandare il figlio a morire per lo zar gli metteva l’atropina tutte le volte che lui andava a farle visita; purtroppo l’atropina non era molto perfezionata e il ragazzo rimase cieco, o almeno vedeva solo ombre. Questa storia mi era sembrata straordinaria, mi ricordava quel disegno di Chagall che s’intitola proprio La guerra, in cui si vede un vecchio con gli occhi neri, pesti, e dietro di lui un gruppo di soldati. Su questa canzone ne avevo costruite altre sette o otto, di carattere appunto liederistico, ognuna di loro era una piccola suite. Noi recitavamo in smoking, in una struttura nera con riflettori alogeni, molto semplice. Non c’erano più le presentazioni dei pezzi, c’era una drammaturgia della sequenza musicale, e c’erano dei nastri con una voce fuori campo che legava un brano all’altro. Erano i primi tentativi da parte di uno che il teatro non l’aveva mai fatto. Tuttavia lo spettacolo ebbe un enorme successo, soprattutto nel Nord Europa, in Belgio, Olanda e Germania, nel circuito dei festival delle municipalità della sinistra democratica europea: era la grande stagione che è finita con il terrorismo, con il riflusso. E dunque io mi considero un po’ una vittima del terrorismo, dall’altra parte.

Come tutti quelli a cui il terrorismo ha tolto agibilità politica e culturale.

A noi hanno veramente troncato le gambe. Tentai con un altro spettacolo, e fu un fallimento finanziario, mi mangiai anche le mutande. Tentai ancora, con un buffo spettacolo con due cantanti in una gabbia di vetro e un musicista che faceva tutta l’orchestra da solo. Si chiamava L’amore... anzi L’amour, io non ero in scena, era una carrellata di canzoni d’amore, alcune vecchie altre scritte apposta, legate anche questa volta da nastri, da contrasti. Un montaggio di attrazioni sonore, insomma.

Mi sembra di capire che uno dei fili conduttori della tua attività sia quello della messinscena della musica: non la musica presa in sé, come veicolo di emozioni eccetera, ma la musica incorniciata e messa in rapporto e in contrasto con altre forme spettacolari.

Questa esigenza è sempre stata molto forte, e L’amore... anzi L’amour si muoveva proprio in questa direzione. Anche quello spettacolo ebbe successo, piacque molto, ma l’avevo prodotto con le ultime lire. Poi basta. Cioè, mi sono detto: "Questa strada è devastante, non ce la faccio più. Dovrei vendere l’unica cosa che ho" (e che possiedo ancora oggi: una casa alla Barona)... E’ iniziato un periodo di crisi terribile, anche perché ormai avevo trentasei-trentasette anni. Ma a quel punto è successa una cosa bizzarra, che ha cambiato le mie prospettive di vita. Ero sempre stato fortemente attratto dal teatro, tante volte avevo accarezzato l’idea di fare l’attore o il regista, ma non avevo avuto il coraggio di iscrivermi a nessuna scuola: pensavo che frequentarne una fosse molto importante, anche se poi entrando dentro il teatro ho cambiato idea. All’epoca non avevo ancora letto quello che dice Peter Brook: "Quando qualcuno mi chiede un consiglio su come si fa a fare il regista, gli rispondo: ‘Si convince una compagnia che si è dei registi’ ". Insomma, ero molto timido, malgrado i successi che avevo avuto nel mio ambito. Oltretutto quelli che mi avevano chiesto di recitare con loro erano gli attori italiani di Kantor, era la truppe del grande maestro. Avevo visto La classe morta nel ’79, quando venne la prima volta a Milano, ed è lo spettacolo più sconvolgente che io abbia mai visto.

Vedendo quello che hai fatto in seguito, si capisce che quello spettacolo ti ha molto colpito...

Ma io lo dichiaro: sono un suo allievo, Kantor per me è stato il maestro. Quello che esprimeva, lo faceva in maniera straordinaria, con una sensibilità anche musicale. Nella Classe morta, quel valzer, l’intuizione di quel valzer di Karacinski è un buon quaranta per cento dello spettacolo, è il suo cuore, mi ha sconvolto. Ero seduto al tavolino di un bar con Nano Storti, Luigi Arpini e Marzia Loriga, quando questi attori kantoriani mi chiesero: "Perché non mettiamo in piedi una compagnia? Sai, stiamo cercando un attore". Mi ricordo che misi mano al mio taccuino degli indirizzi: "Mah, ho tanti amici attori, molto bravi e anche simpatici". E loro: "No, no, è te che vogliamo". E io: "Ma io non sono un attore". E loro: "Ma sai, noi veniamo da un tipo di teatro particolare. Sai che Kantor fa sempre recitare l’amministratore della compagnia?". Allora io, che avevo questo desiderio infantile di essere un attore, risposi quasi scherzando: "Ma perché no?", e affrontai l’avventura. Cominciai a buttarmi per terra, a fare le cose che fanno gli attori. Mi sono messo quegli strani vestiti che usano per provare, senza capire, perché per me era un mondo diverso: io venivo da questa banda di musicisti politici, una banda di sbandati, ma in realtà è sempre la stessa banda che va avanti. Anche gli attori erano una tribù di questo tipo, ma è come se musicisti e attori fossero i rom e i sinti, cioè due tribù diverse. Però tutto questo mi piacque molto. Potevo fare delle cose magnifiche, ero molto contento, e sopportai anche condizioni durissime, perché gli altri attori andavano a fare le tournée con Kantor e nel frattempo io aspettavo: facevo lavori, mezzi lavori, quello che trovavo. Montammo uno spettacolo che fu rappresentato alla Sala Fontana per una settimana, Parata senza coccodrillo. La cosa per me importante, al di là dello spettacolo, fu che suscitai - questo me lo raccontò uno degli attori - una grande curiosità negli addetti ai lavori: qualcuno non voleva credere che io non fossi mai stato salito un palcoscenico come attore. In verità avevano ragione, avevo fatto l’entertainer politico per anni, quindi parlavo e tenevo banco davanti a un pubblico. Il palcoscenico mi è casa, non ho mai avuto paure. La paura mi prendeva piuttosto quando dovevo suonare, e infatti ho abbandonato, mi sono tagliato perfino le unghie del chitarrista classico, non tocco più una chitarra, perché o uno strumento o lo suoni per delle ore ogni giorno, oppure è meglio lasciare.

Gli attori con cui hai lavorato ti hanno trasmesso delle tecniche, o dei metodi di lavoro?

Era soprattutto un clima generale, ero come un ragazzino che entra alla Civica Scuola d’Arte Drammatica, e comincia a dire: "Ah, ma allora nel teatro si può fare questo, e si può fare anche quest’altro...". E’ incredibile: malgrado avessi visto tantissimi spettacoli teatrali, rispetto ai meccanismi interni della scena mantenevo una ingenuità veramente da neofita. Poi seguii ripetutamente i miei amici quando recitavano con Kantor: Wielopole Wielopole l’ho visto otto volte, poi ho conosciuto Kantor, che all’epoca, prima che lavorassi con lui, mi chiamava "le monsieur de Milan", perché stavo attraversando un periodo di curioso dandismo, e arrivavo con un panama e i vestiti di lino.

Tutto vestito di bianco, molto chiaro.

Sì, e così Kantor credeva che fossi uno strano collezionista d’arte. Era molto gentile con me, e anche molto preoccupato per i miei viaggi di ritorno. In quel periodo lo seguii, e più lo vedevo più rimanevo affascinato.

Ma assistevi anche alle prove?

A volte.

Perciò non hai visto solo gli spettacoli, hai visto anche come lavorava Kantor durante le prove...

Ho visto l’energia di quest’uomo di settanta e rotti anni, che correva dietro agli attori e faceva le loro parti in un modo straordinario, e poi mi affascinavano la coralità, la musicalità, la straordinaria gestualità.

Diciamo che per la tua formazione teatrale il lavoro con il Gruppo Alkaest è stato il liceo e quello con Kantor l’università.

Poi questo contatto con i kantoriani mi ha portato al CRT, che allora era unico, non era diviso in due, e portava in giro gli spettacoli di Kantor. Quando hanno saputo che ero quello del famoso spettacolo Specchio, erano molto curiosi, avevano sentito parlare di me. Così cominciò una serie di collaborazioni, per esempio feci delle musiche per Bolec Polivka, poi collaborai a eventi come il primo "Son et lumière" a Sant’Eustorgio, un concerto di campane con la musica di Piero Milesi. Con molta generosità, Milesi dice che io l’ho inventato come musicista d’ambiente: lui mi moccolava dietro, si lamentava: "Mi tiri sempre in mezzo a fare queste cose!", mugugnava, ma siccome siamo molto amici - eravamo insieme nel Gruppo Folk Internazionale dove suonava il violoncello - ha fatto il lavoro. E poi ne è stato molto felice perché lì, lui era naturalmente dotato e secondo me è un grande musicista (approfitto per dirlo, ma solo un paese infame come questo ha un musicista di quest’area, e non gli dà il peso che si merita: lo trovo veramente ingiusto; Piero non lavora con me quindi lo dico proprio col cuore). Nel frattempo ho fatto anche il produttore discografico, all’Ariston, per alcuni anni: lì ho prodotto centinaia di dischi, e curato alcune collane. Per sopravvivere ho perfino lavorato con i dentisti, mi sono occupato di impianto di protesi endossea, ma questa è una curiosità. Poi c’è stato un episodio per me fondamentale: nel 1986 il Pier Lombardo ha organizzato il primo Festival di Cultura Ebraica e ha proposto a Mara Cantoni di fare qualcosa. Mara è venuta da me e mi ha chiesto "Perché non facciamo qualcosa insieme?". Così abbiamo messo insieme quest’idea di fare uno spettacolo con i musicisti in scena, in costume, senza separare la musica dalla parola, e prendendo come tema non l’ebraismo ma l’ebraitudine. Infatti si chiamava, con una parola orribile, Breve viaggio nella ebraitudine, cioè quello stato interiore in cui ci si sente ebrei ma che non appartiene solo agli ebrei, ma anche a non ebrei, spostati, mezzi ebrei, quarti ebrei, che sentono quella specie di déracinement, di sradicamento, che si sentono perseguitati. Mara ha fatto il lavoro drammaturgico: quando lavoriamo insieme, lei di solito costruisce questa specie di copione fatto di cinquanta autori diversi che vanno dagli antisemiti ai filosemiti, da Marx ai rabbini, a Shakespeare, e alla fine viene fuori una cosa omogenea. Il risultato calza molto, in maniera molto forte, a quello che sono io. Non lo dico solo io. All’epoca ero in analisi - ho fatto un’analisi vera, otto anni di analisi freudiana, e credo di avere fatto una vera esperienza conoscitiva; il mio analista venne a vedere lo spettacolo e alla fine commentò: "Be’, insomma, lo spettacolo è bello. Ma di fatica ne hai fatta poca, perché è talmente una tua proiezione... Sì, una proiezione creativa, certo, ma tua". E’ vero, perché ero tutto lì, dalla depressione allo sproloquio, al birignao di questi ebrei dell’est che io amo così pazzamente... Sono gli ultimi che parlano in questo modo: proprio per questo per me è il linguaggio dell’esilio, del movimento, dello spaesamento. Nello spettacolo avevo questi monologhi e i momenti d’intimità, poi la canzone esplodeva con i musicisti tutto intorno. In effetto i musicisti non erano una presenza drammaturgica, come in Dybbuk: eseguivano dei semplici spostamenti, si allontanavano e si avvicinavano.

Erano più una presenza scenografica che drammaturgica.

Diciamo più scenografico-coreografica che non drammaturgica. Ma in precedenza, già in Specchi, in questa specie di zuppiera sonora, i musicisti erano in costume, facevano brevi dichiarazioni e altre piccole cose: è sempre stato il mio assillo, creare un’orchestra di teatro. Dalla sabbia e dal tempo ebbe un grande successo, di critica e di pubblico, anche se qualche critico mancò all’appuntamento, perché il Salone Pier Lombardo lo replicò solo per tre giorni. L’anno dopo lo ripresero per altri tre giorni: Andrée Ruth Shammah e Franco Parenti erano rimasti sconvolti, in particolare Franco fu di una generosità straordinaria, rimase venti minuti in camerino a magnificare lo spettacolo. Ma non era uno spettacolo loro, quindi loro avevano i loro bene o male avevano la loro programmazione, i loro spettacoli. Vagolai per altri quattro anni, alla ricerca della possibilità di fare qualcosa, poi Parenti e la Shammah mi richiamarono e feci una stagione con loro, con delle cose per me abbastanza strane per me; soprattutto Atamante in un Timone d’Atene. Poi ho fatto l’Inquisitore nel Processo di Kafka, e lì mi sono trovato già più a mio agio: lo feci, così, un po’ ebraizzante in modo anche un po’ ostentato.

E’ lì che hai cominciato a fare l’attore di prosa, nel senso più tradizionale del termine...

Sì, anche se non ho mai capito perché volessero me per fare queste cose. Quando mi hanno fatto fare Atamante, era un po’ come se si aspettassero che avrei tirato fuori il coniglio dal cappello - e infatti non ero a mio agio. Quando controllo tutto il meccanismo, sono così come mi si vede sulla scena, ma non posso fare la stessa cosa se uno mi dice: "Adesso ti facciamo fare questo o quest’altro", anche il ruolo più meraviglioso. Io ho bisogno di qualcos’altro. Non a caso non interpreto mai testi altrui, ma me li preparo ad arte. Devo essere libero, e infatti credo di avere dato le mie migliori prove d’attore con registi che avevano le idee molto chiare...

Cioè con registi che ti prendevano per quello che eri e ti facevano interpretare più o meno il personaggio Moni Ovadia.

O che avevano su di me delle idee precise. Per esempio, ho fatto un’esperienza molto fortunata con Giorgio Marini, che vedeva in me delle cose di cui era sicuro: non chiedeva a me, era lui che mi portava. Non diceva: "Adesso io piglio Moni Ovadia, lo metto lì e quello fa i miracoli". Non credo proprio di essere attore di prosa, in quel senso. Un’altra prova nella quale mi venne riconosciuto molto fu nei Demoni con Thierry Salmon, ma perché Thierry è un regista vero. In questo paese molti si dichiarano, ma in realtà è un mestiere incredibilmente indefinibile ma altrettanto scientifico, o ci sei o non ci sei. Io spero di essere chiamato da registi che facciano i registi, che non si facciano intimidire da quello che sono. Ho bisogno di qualcuno che mi dica: "Adesso ti dirigo, non importa se sei Moni Ovadia, tu puoi essere il più grande genio in quello che fai, però come attore ti dirigo io". E ti garantisco che sono molto disciplinato. Quando ho lavorato con Thierry, è stato molto faticoso. Bestemmiavo tutte le sere perché ci massacrava con il training, ci sono voluti quattro mesi per fare uno studio, sono mezzo morto perché avevo quarantacinque anni e non avevo nessuna preparazione fisica per quel tipo di lavoro. L’avrei ammazzato, certe volte. Però non ho mai avuto obiezioni sulla qualità e sugli obiettivi artistici. E lui sapeva esattamente quello che voleva anche quando mi ha dato un personaggio che non vellicava la mia vanità. Ero Stepan Trofimovic, che nei Demoni, scrive Dostoevskij, ha cinquantasette anni, che equivale a settantacinque di oggi. E invece ho scoperto che la dimensione senile mi è familiare. Alla fine di tutte queste esperienza come attore, sono a una performance per il Festival dell’Attore di Parma, con Daniele Abbado, che l’aveva promossa, e Giovanna Bozzolo. Avevamo deciso di lavorare su Ritsos, il grande poeta greco. Per me la poesia neoellenica è una delle cose più sconvolgenti della cultura di questo secolo; se c’è un sommo poeta sul quale difficilmente si possono esprimere contestazioni, è Costantino Kavafis. Ma con Ritsos è proprio una questione personale, anche lui è un grande, e parla un linguaggio che veramente mi sconvolge, anche perché lo studio in greco, la sua lingua.

Perché ti colpisce più di altri?

Ritsos ha avuto un pazzesco impegno politico, ha visto e sofferto l’inenarrabile, credo che abbia passato quindici-vent’anni fra prigioni e campi di concentramento. Era un uomo titanico, anche a sentire chi l’ha conosciuto di persona come Crocetti, che me ne parla: non si faceva fare l’anestesia dal dentista perché trovava che fosse irrilevante, dunque era abituato al dolore, è stato uno dei cinquecento che hanno resistito e si sono rifiutati di l’abiura del marxismo dopo la disfatta di maggio, che ha distrutto la sinistra greca. Quello che mi colpisce è che quest’uomo, malgrado tutte queste esperienze terribili, malgrado le dolorose esperienze familiari, conservi la sua indulgenza verso l’uomo, una pietas poetica verso il terribile del vivere umano, e ricavi sentimenti altissimi senza risentimento. Poi ha un’altra caratteristica che mi appartiene molto: Ritsos fonda la stanchezza come categoria del pensiero, non più come situazione esistenziale ma facendone una categoria filosofica. Non ho nulla di titanico, non ho subito le terribili esperienze di Ritsos, e anche se la mia vita è stata piena di problemi, erano di altra natura, forse più immaginari rispetto a quelli vissuti dalla generazione dei miei genitori o dei fratelli maggiori. Ma la dimensione della stanchezza è una condizione nella quale io ritrovo a guardare me stesso. In Ritsos c’è poi questa maniera di respirare attraverso le parole: la sua è un’opera di una vastità terrribile, sembra grande come l’Enciclopedia Treccani... Così ho aperto un altro territorio per i miei interessi di ricerca. E quando parlo di ricerca, mi riferisco sempre a una ricerca da saltimbanco. Spesso mi fanno passare per quello che non sono, e questo non mi lusinga neanche più: io non sono uno specialista, sono semplicemente un signore che sta su un palcoscenico, naturalmente ho una preparazione intellettuale, ho una laurea, ho letto, ho studiato, avrei potuto scegliere una carriera accademica, volendo, ma ho deliberatamente scelto di non farlo. Mi sono riservato un margine di libertà: posso permettermi qualcosa che accademicamente sarebbe impossibile. Ho fatto questa scelta, nel bene e nel male. E un aspetto di questa ricerca è il lavoro sul mistilinguismo. Io vengo da sette origini, mio nonno era di Smirne, mio padre è nato in Bulgaria, io sono nato in Bulgaria, mia madre è nata in Iugoslavia, mio nonno è stato prima funzionario delle ferrovie imperiali austro-ungariche e poi, da buon ebreo, anche di quelle imperiali ottomane. Ho questa storia di autroslavo da un lato e di levantino dall’altra. Le lingue sono il mio vagabondaggio, ora che non si può più viaggiare perché ci sono i turisti e allora è meglio vagabondare sulla propria poltrona, come dice Enzensberger. Credo anche in un’altra cosa, che è anche questa molto arbitraria: credo che quello che in linguistica si chiama "locutore non autoctono" sia privilegiato, a causa di uno stupore, che si rinnova continuamente, rispetto alla lingua che lui possiede.

Questo ricorda un po’ il tuo atteggiamento di musicista nei confronti del teatro.

Esatto. Io mantengo uno stupore, mentre chi parla abitualmente solo la propria lingua no. Per esempio chi ha fatto regolarmente teatro spesso si fa fregare dalla grammatica, perché dice: "Il teatro si fa così", l’ho sentito dire tante volte. Io invece appartengo alla categoria di chi pensa che a teatro si fa quello che funziona e poi si giudica l’evento per quello che è. Ho letto programmi di sala infarciti di teoresi e poi ho visto delle cagate mostruose. La teoresi non fa teatro. Può essere una specie di "succhiotto concettuale" per darsi un’allure intellettuale. Ma secondo me il teatro si fa con un insieme di sublime e cialtrone.

Tornando a Ritsos...

Con molto azzardo ho fatto questo spettacolo bilingue, cantando in greco, ispirandomi così un po’ al melisma bizantino, ma sempre in maniera libera, rivivendolo... In Italia non si vedono cose di questo genere, credo di essere una delle rarissime componenti cosmopolite dello scenario italiano. La cosa ha avuto un certo successo: la cosa mi ha sorpreso e mi ha permesso di portare lo spettacolo anche a Milano. La performance milanese è stata particolarmente fortunata, perché l’Elfo aveva sistemato una tribuna per il pubblico, e io invece ho messo il pubblico in fondo in fondo sul palcoscenico e ho recitato da solo lì sulla tribuna, con il microfono, con tutti i suoni, i canti e con la musica di Piero. Questa distanza ha dato alla performance ancora più valore. Questa esperienza ha convinto Franco Laera, che avevo conosciuto ai tempi del CRT, a produrre un mio spettacolo, e così è nato Golem ed è iniziata una nuova fase della mia ricerca, nel campo della teatralità ebraica, dell’uso dello yiddish e di un mistilinguismo ancora più enfatizzato e assunto come cifra stilistica, come cifra espressiva e anche ideologica. Uso questo termine, "ideologia", proprio perché mi rifaccio a lingue che hanno una vicenda, che portano un dolore dentro di sé, e anche a lingue europee, mentre il mio cosmopolitismo non ha mai mirato a inserire l’inglese, come invece fanno i canzonettari che vogliono il successo: quella è l’assunzione di una lingua imperiale, non è mistilinguismo. Golem, di cui alcuni critici hanno scritto mirabilie, era stato prodotto con il Teatro Petruzzelli di Bari, che l’anno dopo è bruciato. La stagione successiva arrivò a Milano, al Filodrammatici: il teatro era piccolo, e ogni sera venivano mandate via tre-quattrocento persone. E’ stato allora che allora è un po’ esploso il caso Moni Ovadia: da outsider ero riuscito a diventare uno di cui si cominciava a parlare, molti addetti ai lavori hanno visto lo spettacolo a Milano (dove era un po’ pasticciato) e a Roma (dove avevo avuto modo di migliorarlo). Poi siamo stati a Berlino, a Cracovia, negli Stati Uniti, suscitando una curiosità molto forte. Golem era uno spettacolo pieno di imprecisioni e di errori, ma che dichiarava ancora quella voglia di Gesamtkunstwerk, di opera d’arte totale, con il coro, il trio in buca, sei musicisti in scena, contaminare il colto con l’extracolto tradizionale, metterli in torsione per ricavare fibre espressive, cioè mettere anche in torsione l’ebraismo chassidico e l’ebraismo, diciamo, della gnosi negativa alla Kafka; quindi a Kafka corrispondeva il Lied mahleriano e al chassidismo la musica classica. Mi piacerebbe molto riprendere questo spettacolo, rimettendoci le mani. Mi ha dato molto, anche se mi ha costretto a mille tormenti, perché dovevo fare i salti mortali, ogni due secondi si rischiava la disoccupazione... Pian piano però, accanto a Golem, cominciavo a costruire una piccola struttura, con il cascame da cui era nato anche Dalla sabbia e dal tempo. Avevo iniziato a fare un Cabaret yiddish come performance alla Buchmesse, una libreria di Milano che poi ha chiuso. Me l’aveva commissionato il proprietario e avevo messo insieme un tre quarti d’ora in cui leggevo brani di libri, raccontavo due storielle e cantavo una canzone. La cosa aveva riscosso un grande successo e ho cominciato a codificarla pian pano, finché ne è venuto fuori uno spettacolo. Ho convinto Laera a prenderlo e Cabaret yiddish ha avuto un successo al di là delle mie più rosee aspettative. Poi Laera mi ha chiesto di dargli un assetto teatrale, perché se volevamo portarlo in giro in posti più importanti la struttura gli sembrava troppo povera. Così è nato Oylem Goylem: due milioni di costumi e mezza giornata di prova, perché i musicisti già conoscevano il lavoro, è bastato fargli vedere quando alzarsi e sedersi, le facce e le posizioni; e poi facendolo ogni sera si aggiungevano piccole cose. Quando è arrivato a Milano, nel novembre del ’93, è successo il finimondo: ero completamente frastornato da telefonate, richieste di conferenze, incontri, centinaia di lettere... E’ stato allora che ho scoperto questa dimensione, che in fondo avevo praticato da sempre, quella del affabulatore, come Dario Fo ha detto pomposamente.

In che senso dici che l’avevi sempre avuta?

Perché quanto presentavo i concerti del Gruppo Folk Internazionale già raccontavo: c’era sempre un aneddoto, una piccola associazione, la notizia del giorno. La presentazione era sempre un’occasione critica e politica, e spesso anche un’occasione di ilarità: il concerto era presentato in un modo umoristico che mi era molto familiare. Via via ha assunto una forma veramente inaspettata, sono stati gli altri che mi hanno permesso di capire: è stato lo stupore della gente più disparata, l’entusiasmo fuori limite di ebrei e non ebrei, di atei e di religiosi, perché lo spettacolo è stato accolto veramente da un entusiasmo incondizionato. Lì finalmente io ho liberato l’aspetto della fabulazione, la messinscena della musica in un certo contesto, la gestualità. Nel mondo ebraico il più grande teatro è la sinagoga, tutto quello che ho imparato l’ho imparato in questa piccola sinagoga che forse è stato l’ultimo shtetl europeo, l’ultima piccola sinagoga dell’est... Adesso i vecchi per la maggior parte sono morti...

Era la sinagoga che frequentavi quando eri bambino?

No, è stato quindici-diciotto anni fa, quando sono entrato nella sinagoga di Porta Romana e ho visto quello che si legge nei libri di Singer... Certo, gli ebrei milanesi erano un po’ più civilizzati, meno costretti. Però erano loro, con la stessa gestualità, i canti, i riti, l’umorismo dirompente...

Che cosa ti aveva attirato lì? Perché non eri un ebreo osservante...

Sono finito lì casualmente. Perché ci sono delle feste come il giorno di Kippur, il giorno del digiuno, che ogni ebreo sente a prescindere dal suo rapporto con l’ebraismo. Io andavo sempre un po’ pigramente al tempio di via Guastalla, perché avevo l’occasione di incontrare i compagni di scuola e i vecchi amici, e perché faceva piacere ai miei genitori, quando erano ancora in vita. Un giorno è arrivatp Rudy Luttwak, un ebreo ungherese, il fratello di Edward, e mi ha detto "Ma cosa fai qui? Vieni con me, ti porto in un bel posto". E io: "Ascolta Rudy, sono stanco, non ne ho voglia...", ma lui ha talmente insistito che ci sono andato. Sono entrato in questo posto e di colpo ho visto Chagall, Singer, eccetera. Certo, trent’anni dopo, con lo yiddish frammisto all’italiano, ma con la continua presa per il culo fra di loro, le liti sulle preghiere, un racconto di Schlemiel che si svolgeva proprio lì, davanti ai miei occhi. Non ho più smesso di frequentare quella sinagoga. Il rabbino, quello che imito: ebbene, io sono solo una pallida imitazione, lui è davvero la strana sintesi di un santo e di un marpione come pochi. Però a suo modo è uno di quei santi che danno tutto per quello in cui credono. Ha sedici figli, è sempre pronto alla risata, fa delle cose che ti lasciano di sasso... Mi prende sempre in giro: quando entro in sinagoga, mi dice che la Torah parla di me, parla di matrimonio perché io non sono sposato, non sono ovviamente l’uomo adatto al matrimonio. Allora una volta ho protestato, gli ho detto che non era giusto che io ogni sabato dovessi essere tormentato da questo rabbino e dalle sue performance. Così, un po’ retoricamente e scherzosamente, ho chiesto: "Ma io vengo qui per la santità del sabato o per le battute del rabbino?". E lui si è fatto serio ma non si è offeso, e mi ha detto nel suo modo straordinario: "Ciccio, tu vieni qui per la vita, per nient’altro. Questo è lo scopo per cui vieni". E’ un mondo che guardo ancora con un misto di ammirazione e di stupore, e che non capisco del tutto. Però mi ha insegnato tante cose, mi ha abbattuto una serie di pregiudizi, quella sinagoga, con questa gente che ha la capacità di ridere e di scherzare, in mezzo a liturgie rigorosissime. Lì ho cominciato a capire dove dovevo muovere la mia ricerca teatrale. E nel canto sinagogale ho trovato alcune verità vocali che andavo cercando da tempo e che ho applicato poi anche altrove.

Dopo Oylem Goylem, che è stato un’esperienza incredibile anche per me, ho fatto varie cose: per esempio, il Teatro Due mi ha fatto fare una cosa curiosa con una regista franco-cinese, una visita notturna rubata - fintamente rubata - alla fondazione Magnani-Rocca. Ho vissuto per un mese e mezzo di fronte a un Goya straordinario, il ritratto della famiglia di Don Luis De, ed è stata una delle esperienze più emozionanti della mia vita. Poi ho fatto lo studio sull’Apocalisse con Daniele Abbado a Ferrara, e una cosa molto bella fatta con Roberto Andò, Diario ironico dall’esilio, che abbiamo fatto a quattro mani con la regia di Roberto.

E finalmente sono arrivato al Dybbuk, che era nella mia testa da tempo. Ancora prima di coinvolgere Mara Cantoni, sapevo già di questo binomio Dibbuk-Olocausto, Theather Orchestra era già in Golem il cuore pulsante della serata. Ho voluto parlare dell’Olocausto attraverso uno spettacolo ricco, dove i carnefici ci sono solo in forma di numeri. Anche questo parte da un mio pensiero sull’Olocausto: per quanto riguarda gli ebrei e gli zingari, l’Olocausto è una vicenda delle vittime, i carnefici sono talmente bassi che non meritano neanche una menzione. Dybbuk è uno spettacolo-rito, è una affermazione di centralità del libro. E’ il grande mistero ebraico. Questo legame con il libro è secondo me la ragione dell’odio e dello sterminio, perché il libro chiama a una totale anti-idolatria. Se dovessi fare la sintesi più radicale dell’ebraismo, direi che è l’anti-idolatria. E questo è inaccettabile finché le forme idolatriche hanno qualche forza. Ogni volta che le forme idolatriche ritroveranno forza, gli ebrei verranno odiati a flussi diversi, in modo diverso ma comunque odiati. Dunque volevo testimoniare questo, anche con l’orchestrina del campo, che era il personaggio attraverso cui tutto questo si sviluppa. Così ho trovato in Dybbuk la coralità del suono e del grido. L’italiano è diventato essenziale, tracciato in poche linee, solo perché portasse lo spettatore; ma lo spettacolo è lo yiddish, la lingua della gran parte di questa gente, una lingua che porterà dentro di sé in eterno questo dolore, questo grido, questo urlo, quello che porta anche integralmente Katznelson. Il suo è un poema unico. E allora ho voluto contaminare questi due segni: il Dybbuk, l’anima che ritorna, e questa cultura che ritornerà supplicando ad assillarci perché noi ritroviamo il testimone della vita stroncata. Stilisticamente Dybbuk è uno spettacolo a cui miravo da molto tempo, e non a caso ho aggregato Mara, una delle persone con le quali riesco a confrontarmi e di cui ho sempre bisogno. In qualche modo Oylem Goylem era un punto di arrivo e un punto di partenza. Dybbuk è... non lo so... In questo periodo sto riflettendo su come andate avanti, e comincia a diventare sempre più doloroso il limite dentro il quale io mi trovo.

In che senso parli di limite?

Un uomo ha una risorsa di creatività limitata, non posso fare cento spettacoli, io ho molta paura di cadere nella ripetitività, vorrei mantenere vigile il mio spirito critico rispetto a me stesso.

E rispetto ai temi che tratti, probabilmente.

Anche rispetto ai temi che tratto. Vorrei anche sapere che posso e devo sbagliare, perché questo è inevitabile. Adesso mi trovo a fare cose con altri in cui cerco, tasto ancora delle forme di linguaggio. A volte mantengo ancora una sorta di impulsività, cerco di fare cose con un margine di irresponsabilità...

Se scompare questo margine si finisce inevitabilmente per ripetersi.

Ti autocelebri. Io tra l’altro non ho mai avuto rapporto con le forme istituzionali del teatro, sono sempre stato e resto un outsider. E spero veramente che cessi questo meccanismo perverso della produzione a tutti i costi. Non vedo perché non dovrei comunque lavorare per tre anni con uno spettacolo come Dybbuk, perché dovrei ogni volta avere l’assillo di produrre un nuovo spettacolo, con il rischio di fare delle cose mediocri giusto per dire che non le si è fatte. Nel frattempo magari posso l’attore: Monicelli mi ha voluto nel cinema, bontà sua, spero di averlo servito bene o perlomeno quel tanto che gli serve...

A questo proposito, mi incuriosiva sapere come hai vissuto il passaggio da musicista ad attore dal punto di vista della voce.

Mi definisco tuttora "un folksinger che fa teatro". Sono molto lontano dal mondo prosodico che caratterizza l’attore. Rimango sempre stupefatto di fronte ai grandi attori. In questi giorni, per esempio, ho la grande ventura di vedere al lavoro Franca Nuti. Per me è un mistero: io uso la voce, ma il modo in cui lei distilla le parole rimane per me un grande mistero, nel quale io non sono ancora riuscito a entrare. Roberto Herlitzka, Massimo De Francovich: quando li sento mi chiedo: " Ma come fa?".

Da un punto di vista tecnico?

Non solo. Mi chiedo come fanno a far diventare emozione, commozione qualcosa come la prosodia. Secondo me è difficilissimo. Il recitone degli attori quando non sono superbravi è insopportabile. Il confine fra il cacofonico e il sublime è piccolo. Ho amato follemente Carmelo Bene proprio perché ha rotto la prosodia. Non credo che avrei fatto teatro se non avessi visto gli spettacoli di Carmelo Bene, oltre a quelli di Kantor... Sono due fascinazioni diverse, sono tra quei pochissimi punti della mia vita che hanno cambiato il mio modo di pensare: il famoso Ubu Roi di Peter Brook, Apocalypsis cum figuris, forse Einstein on the Beach di Wilson, e Pina Bausch. Io sono fortemente ebreo, ma quando ho visto la Bausch ho visto la Madonna: se la Madonna esiste, è lei.

Il mondo degli attori di prosa mi stupisce e mi affascina, mi piacerebbe entrarci almeno una volta, guidato da qualcuno che sapesse farmelo fare. Però io appartengo a un’altra forma di teatro: come altri, cerco di ripristinare il teatro musicale. Credo che il teatro sia sempre stato canto e musica, credo che la tragedia greca fosse questo, noi che abbiamo ancora conosciuto il mondo popolare lo capiamo. Alla Vucciria, a Palermo, la gente non parla: anche per comunicare, canta. La prosodia è il risultato di una progressiva sottrazione al linguaggio: ha eliminato dal modo di esprimersi gli aspetti sporchi, violenti, però straordinariamente poetici... E’ il risultato di una morale che diventa moralismo: "Non si grida, non si fa questo, non si fa quest’altro", e pian piano si arriva al teatro borghese... Nel teatro shakespeariano la si sente ancora, questa forza del linguaggio, anche se spesso diventa manieristico; ma gli attori inglesi Shakespeare non lo recitano, lo cantano.

Quindi la prosa dell’attore è una lingua castrata, dal tuo punto di vista.

Credo di sì, e per questo mi stupiscono i grandi attori, che trovo magnifici.

Ma perché ti sembrano magnifici? Perché ritrovano il canto o perché all’interno della prosodia...

In qualche modo ritrovano il canto. Riescono a distillare i moti dell’anima dentro strutture così rigide. E’ molto più facile quello che faccio io, che mi lascio portare dalle emozioni sonore e risalgo all’origine del linguaggio. Sono alla ricerca di una forma di teatro musicale che non è il melodramma, e neanche l’opera contemporanea, ma di una forma dove il canto, il grido, la litania, la liturgia, la monodia trovino uno spazio espressivo. Dybbuk è un po’ questo: si passa dal canto alla parola gridata, alla parola che rompe il corsetto semantico...

Il teatro stanislavskiano ha prodotti risultati clamorosi, ma credo che quella sia solo una delle tante forme di teatro, mentre per decenni e decenni ha dominato il teatro, come se fosse l’unica forma possibile. Questo ha fatto danni spaventosi. Anche se poi, dentro la chiave prosodica del teatro di parola borghese e poi anche del teatro di sperimentazione che si affida alla parola, i grandi ci sono. Per esempio, di fronte al lavoro di Ronconi ti chiedi: "Ma come ha fatto?". Mentre là dove il lavoro non è sorretto da un livello di pensiero così alto...

Forse quello che fa un regista come Ronconi consiste nel prendere quella che definisci "prosodia" per portarla a un punto di rottura dove le violenze, le tensioni di cui parlavi prima riescono a riesplodere.

Siamo alla rottura di una convenzione recitativa.

Possiamo a questo punto fare un passo indietro, verso la ritualità e la liturgia. Verso i canti di sinagoga come ispirazione del tuo lavoro...

E’ una voce che sfrutta le qualità naturali della voce, non quelle dell’artificio. Esistono alcuni modi fondamentali di cantare. Uno è la cultura belcantistica, che nasce a un certo punto della storia dell’umanità e produce risultati di un virtuosismo e di una espressività straordinari. Poi c’è il modo di cantare della musica leggera, che nasce dal belcantismo ma diventa più quotidiano: vedi i cantanti come Eddie Cantor nel cinema americano, con la voce da tenore o da soprani leggeri.

E’ un po’ la storia della canzonetta italiana da Festival di Sanremo.

Ma la musica leggera cambia quando incontra quel grande fenomeno che è la musica nera. La vocalità di Zucchero Fornaciari, o prima quella di Lucio Battisti, che secondo me è il grande genio innovatore della canzone italiana, quella di Dalla, eccetera, viene dai rocker, che a loro volta vengono dal blues nero. La voce nera è una voce etnica, di naturalità. Questo è l’altro grande mainstream che io sento.

E tuttavia la voce nera ha una naturalità diversa dalla voce "naturale" di un bianco.

Nella musica etnica è presente uno spettro variegatissimo di espressività vocali, ma c’è un elemento comune: tutte le forme di musica etnica non nascono da un’esigenza estetica, ma diventano estetiche a partire da un’esigenza espressiva. Quando le contadine bulgare cantano, non si peritano di rendere edulcorato, bello, aggraziato il loro canto. Cantano proprio il loro sentimento della vita, delle cose.

Cantano per sé...

Per sé e per la comunità a cui appartengono. E’ questo canto che mi ispira. Naturalmente ho dentro di me alcune matrici precise: sono nato il Bulgaria, ho sentito i miei parenti cantare le canzoni bulgare; sono un ebreo sefardita di parte e quindi mi appartiene la cultura greco-levantina. E tuttavia la mia voce si esprime in maniera naturale. Infatti canto le canzoni yiddish in maniera molto anomala, chi viene da quel mondo le canta in maniera diversa. E questo, mi diceva un amico che è nato in Polonia, "ti rende affascinante, perché rischieresti il quadretto chagalliano". Molti le cantano con leziosità, io le canto sempre con molta violenza, con molta energia. Anche rispetto alla melopea sinagogale, io non canto come i grandi cantori sinagogali, che in fondo volevano essere dei Caruso, erano ispirati dal bel canto.

E come sono andato a recuperare un’espressività più arcaica? Il canto sinagogale viene da Oriente. Questa è una delle ragioni dell’odio antiebraico: gli ebrei sono sempre stati un pezzo di Oriente nell’Occidente, anche se poi, con la riforma dell’ortodossia tedesca, hanno cercato di attenuare questa diversità. Dunque l’ebreo ha questo elemento che viene dal deserto, dall’Oriente; e anche il canto sinagogale ce l’ha, in maniera molto forte. Quando ho ascoltato i grandi cantori sono quasi impazzito dal piacere, perché vedevo questa torsione da Occidente verso Oriente con estrema chiarezza: sentivi il belcantismo che però faceva questi melomi orientali arabeggianti. Di lì sono andato a ritroso e mi sono detto: "Ma perché non provo a cantare?". Ero bloccato, perché non ho una voce impostata, non posso fare il cantore. Allora ho provato pian piano con la tecnica naturale del canto popolare per terze imparato da Leidy e dalla Mantovani.

Del resto il canto delle contadine, certi canti dell’alta Italia non sono molto dissimili dai canti delle contadine russe, per esempio. Giovanna Daffini cantava con la vocalità lacerante, acutissima, tipica del mondo popolare: è la vocalità femminile che libera se stessa nelle proprie asperità, non solo nelle leziosità.

Tutto questo mi ha nutrito e ora cerco di reinterpretarlo. Di recente mi hanno convinto obtorto collo a fare dei seminari sulla voce. Ero molto restio, perché insegnare è una responsabilità pesante. Però poi ho capito che qualcosa potevo dare e ricevere, e magari uscire dai limiti imposti dalla cultura che ci viene ammannita.

In uno di questi seminari mi è accaduto un fenomeno molto curioso. Generalmente lavoro su un suono o due, non di più, perché cerco la vocalità interiore, l’apertura dei risuonatori: cose che uno non sa e che può scoprire solo come le ho scoperte io, facendole. C’era un attore che emetteva un suono belante, brutto, sgradevole. Siccome credo che alle cose si arrivi volendo bene alle persone con cui si lavora, non gli ho fatto alcuna critica. Gli ho semplicemente detto: " Ti ho chiesto di muoverti su un suono, di emettere un suono: perché picchi costantemente contro quel muro? Guarda, io non ti avevo detto l’altezza della nota, non ti ho detto se la voce deve essere di gola, o di testa, puoi fare come vuoi...". E gliel’ho buttata lì: "Ma tu sai che anche gli uomini possono cantare in falsetto?", e ho accennato due cosine in falsetto, spiegandogli: "Abbiamo delle vocine che si possono spostare dietro la testa". Ha cominciato a fare qualche tentativo, e poi ha preso un falsetto. E’ successo il finimondo. Era uno che in falsetto faceva delle cose miracolose, non solo di una qualità eccelsa, ma di una potenza fuori misura, non avevo mai sentito una cosa del genere. E adesso mi dice: "Non so cosa farne, perché questa cosa mi ha cambiato la vita". A trentatré anni ha scoperto di avere questa cosa. Nessuno gli aveva mai neanche accennato a una possibilità del genere.

Muovendomi da un lato empiricamente, dall’altro attraverso la mozione del sentimento e dell’anima, cerco di scoprire la voce, di passare dalla voce a una gestualità che faccia parte di questa voce. La voce è la prima istanza con la quale noi ci esprimiamo. Di recente ho fatto una riflessione curiosa. Ho lavorato due mesi in casa di due amici che avevano appena avuto una bambina e ho sentito l’evoluzione sonora dei suoi vagiti. Be’, tutti fotografano i loro bambini, ma nessuno li registra. Mentre crescono, i bambini esprimono se stessi attraverso i suoni, ed è una modificazione continua, di ora in ora, di sonno in sonno, di veglia in veglia. Credo che la voce sia una delle istanze primarie e che tu possa partire dal suono, dalla vocalità per trovare anche espressività e gesti. E di lì costruire una teatralità che non parta dal senso logico-formale ma da un senso più interiore. Ciascuno con le sue forme.

Naturalmente non credo che questo sia un must. Peter Brook, che adoro per il suo straordinario umorismo e la sua intelligenza, dice: "Ci sono mille modi per fare teatro. Però bisogna credere al proprio come se fosse l’unico possibile". Io accolgo con molta semplicità questa indicazione che trovo straordinaria. Vedo artisti straordinari che lavorano con un criterio totalmente diverso dal mio e ne riconosco la grandezza. Il mio punto di partenza è questo. Ecco.

Che funzione ha il multilinguismo nel tuo lavoro?

Mi trovo con certe lingue e non con altre. Per esempio, in Italia abbiamo dei dialetti straordinari, mentre non abbiamo una lingua felice per il teatro perché l’italiano è una lingua in cui l’accento tonico cade quasi sempre in quella posizione, una lingua che non ha finali consonanti e ha una gamma di suoni poco estesa: ci mancano le gutturali, le aspirate, certe le nasali, le sibilanti sono solo la s e z, mentre il greco e l’inglese hanno la theta, il "th". E’ per questo che la poesia non è traducibile: perché il suono è inscindibile dal senso. Una lingua che cerca di usare la musicalità che appartiene a un’altra è goffa: se canto in greco il canto melismatico, la lingua porta questa sonorità dentro di sé, se cerco di cantarlo in italiano diventa buffo, come probabilmente accadrebbe se cercassi di cantare l’opera lirica in greco. Ogni lingua ha una sua musicalità. Per le mie radici, sono affine a certe musicalità balcaniche, ispaniche e levantine: al greco dunque, e anche all’arabo; ho studiato l’ebraico, l’ho sentito parlare quand’ero in fasce. Tutta questa musicalità linguistica mi serve a sostenere la mia vocalità, l’insieme di suono della parola e suono della voce crea una gamma di possibilità infinite, una tavolozza con cui dipingo il teatro che faccio.

Il multilingusimo serve dunque in primo luogo ad ampliare la tavolozza.

E a renderla coerente, cioè a restituire alla parola il suo significato pieno, che è sonoro-logico-formale-semantico-storico. L’aspetto sonoro è stato mortificato soprattutto con le lingue meno diffuse. L’unica lingua per cui abbiamo un rispetto sonoro è l’inglese. C’è chi viene a vedere Dybbuk e mi chiede: "Perché non mi fai capire i testi?", e io rispondo: "Ma perché tu ascolti delle canzoni inglesi di cui capisci a malapena un quarto delle parole?". E’ l’ossequio alla lingua imperiale. Ma io come posso esprimere il dolore di quella gente se non con la loro lingua? Con la lingua che è stata uccisa insieme a loro! Allora usare lo yiddish significa restituire una dignità complessiva alla lingua: il significato, la cosiddetta comprensione è solo una piccola parte della parola.

Lo yiddish è, per l’appunto, una lingua particolare: utilizzandola, si tratta di dare (o ridare) voce a un popolo che non c’è più, a un popolo di morti.

Lo yiddish è una lingua molto curiosa. E’ lingua di esuli, per definizione: muta a seconda dei paesi, in Lituania era diverso che in Polonia. Riflette una condizione così incredibilmente ebraica, quella di chi è ebreo nella testa. Ha mantenuto la struttura germanica, ma è stata modificata nei paesi in cui gli ebrei sono stati espulsi e perseguitati. E’ una lingua ubiqua: è al tempo stesso una lingua germanica ed è l’antitesi della lingua germanica. Vive ancora, lo yiddish, in piccoli ambiti...

In una delle preghiere principali ebraiche si dice: "Benedetto sei tu, Signore, che resusciti i morti". Ma che cosa vuol dire resuscitare i morti? Senza fermarmi alla visione letterale dei morti che si rialzano e camminano, io sostengo che significhi affermare la vita al di là del puro dato biologico. Attraverso il suono, la cultura, la memoria, tu resusciti quei morti: continuano in te e nelle generazioni a venire, e allora il progetto di libertà, il progetto spirituale continua. Se abbandoni diventi complice, ancorché apparentemente indiretto e involontario, di quello che è stato fatto.

Credo che l’umanità abbia due o tre cammini paralleli. Uno di questo è il grande cammino verso l’ethos. Un cammino minoritario, vessato, percosso, umiliato: ma ci sono degli uomini - uomini, non santi - che sono passati lungo questo cammino. Finché teniamo in piedi questa ipotesi, vale la pena che l’umanità sopravviva; se questa ipotesi cade, allora è meglio che tutta questa roba sprofondi nel cesso, perché non vale la pena. L’uomo fa talmente schifo, senza quello che lo rende sublime: l’ethos, la poesia, il canto, la pietas, la capacità di nutrire rispetto per un animale e per le sue sofferenze...

Questo cammino cerco di farlo all’interno della cultura che conosco e che pratico, utilizzando lo yiddish, proprio perché è una lingua di esuli. E quella di esule è la mia condizione: io mi sento così italiano, così milanese, così ebreo, che non so mai dove sto. Sono sempre qui e da un’altra parte, è una ubiquità mentale. A Mara Cantoni che gli chiedeva "Ma adesso dove abiti?", Andreas Andermann, che è un impresario, ha risposto: "Vengo da Tokyo e vado a San Francisco". Io sto spesso a Milano ma la mia testa è sempre altrove, alla ricerca di questo vagabondaggio. Lo yiddish corrisponde al fatto che io sono un sopravvissuto, come tutti gli ebrei europei. Usarla è una vittoria, nel senso più alto del termine, per quanto sangue sia costato. E’ la vittoria, non perché sconfiggi un nemico ma perché affermi la vita. E poi con lo yiddish, lingua di movimento, attraverso le lingue, mi muovo, e il mio canto si muove insieme a me. E’ un canto in cammino, un insieme di spirituale e fisico-esistenziale che vanno insieme.

Che rapporto c’è tra il controllo razionale e la tua espressività vocale?

E’ una condizione di malessere costante. Ogni volta che salgo sul palco soffro, perché gli anni passano e la mia voce non mi sostiene come prima. Però tutto quello che ho trovato l’ho trovato nel malessere. Ogni volta che non mi usciva la voce da una parte, scoprivo che avevo dei risuonatori da un’altra parte. Nelle mie lezioni invito tutti a questo travaglio, che può essere solo personale, che non può essere tramandato, perché ogni individuo vale per se stesso. Dico spesso che mi considero ancora un comunista perché non sono disposto a farmi sfruttare e non mi interessa sfruttare il prossimo; c’è chi mi dice: "Questo fa di te un perfetto liberale". Ognuno la prenda come vuole, però io credo, anche nel teatro, che ciascuno debba trovare il proprio cammino, perché solo con una società di individui in cui ognuno è un universo ricco possiamo avere una società di uomini uguali. Più gli uomini sono diversi più avremo una società di uomini uguali. Per creare una società equa, secondo me, il problema non è abolire gli sfruttatori, ma abolire la gente disposta a farsi sfruttare.

In che modo ti ascolti mentre canti?

Faccio molta fatica a descriverlo, ma è proprio come se quando comincio a cantare o a gridare, io cominciassi a combattere contro me stesso. C’è una parte di me che resiste e l’altra che spinge, è una specie di torsione dialettica violenta, spesso ai limiti della disperazione, che porta al movimento.

Ma qual è la parte che resiste e quella che spinge?

Io, come tutti, appartengo a quella generazione che ha dentro di se il predatore, e il predatore chiede sangue. A quarantanove anni posso concedermi la possibilità di essere riconosciuto e di riconoscere me stesso. Ci sono forze che mi tirano verso l’interno. C’è la forza della stanchezza, quella forza nientificante, anche nel modo di cantare. Questa è una delle cose che credo che abbia commosso chi mi sente cantare, perché è sempre un travaglio, una gestazione che si verifica ogni sera contro qualcosa che non vuole. Anche la presenza in scena è dolorosa, faticosa, e il piacere è immenso.

Ma che cos’è che vuole e che cos’è che non vuole dentro di te?

La cosa apparentemente è banale, ma sono le due pulsioni che si affrontano. Ho una componente molto forte di tanatofilia: qualcosa che, per la storia dei miei genitori, per le mie radici, per quello da cui vengo, mi dice continuamente: " Molla!" . C’è una straordinaria storiella ebraica che entrerà nel prossimo spettacolo. Un tizio sta per suicidarsi buttandosi da un ponte. Arriva un rabbino che lo prende e comincia a dirgli: "Ma che cosa fai? Ma perché?". "Non ne posso più, non posso sopportare questa vita, lasciami stare. Non la posso sopportare, mi capisci?". "Va bene", risponde il rabbino, "io posso anche capire. Però se tu ti butti, devo buttarmi anch’io dietro a te per salvarti, e io non so nuotare. Cerca di capire! Io ho cinque figli, ho una comunità di cui occuparmi. Non farlo! Vuoi avere sulla coscienza una cosa del genere? Allora, fai così, fai una mitzva [il precetto della buona fede]: tornatene a casa tua e lì, nel confort e nella tranquillità della tua casa, impiccati". Ecco, questa storiella mi piace molto: c’è un’istanza di vita che riconosce l’istanza di morte, è una lotta continua. Questo mio amico rabbino dice sempre "lotta continua". Curioso, è l’unico a cui senti dirlo, oggi: "Tu devi combattere!".

Tra tutti i libri della Bibbia, quello che amo di più è il libro di Giobbe: l’uomo è riuscito male, c’è qualcosa che non funziona, la grande sfida è di farcela da zoppi. Cioè noi siamo bestialmente zoppi e pretendiamo di far le Olimpiadi dello Spirito... Il canto è proprio la torsione di questi due elementi. Io dico sempre che nel mondo ebraico il canto è il modo di provocare il divino. Con quei canti così pazzeschi il cantore dice: "Vieni giù perché qua ne abbiamo pieni i coglioni, o perlomeno facci capire, fatti vivo!". Perché nell’ebraismo - ed è per questo che il canto sinagogale mi interessa - la chiamata di correità di Dio è prevista. Esiste una storiella chassidica che in cui si racconta che tre rabbini processarono Dio. E come fecero? Come si fa a processare Dio? Ma, dice la storiella, Dio è dovunque: per cui i tre rabbini chiusero la porta della stanza. E dopo tre giorni e tre notti il verdetto fu: "Colpevole". Perché Dio non protegge l’orfano e la vedova, perché l’uomo è troppo debole per resistere al male. Il canto ebraico secondo me rappresenta molto bene questa continua familiarità con Dio, ma anche questa continua denuncia di Dio: è l’insieme delle due cose. Scopo finale è la vita. Che la vita continui. Ma io sento che la vita continua a prezzo di uno sforzo enorme, a prezzo di un livello di consapevolezza micidiale, quello che i buddisti chiamano "illuminazione". Ci sono quelli che ripetono sempre: "Ma che problema c’è?". Io trovo che ogni gesto, ogni decisione sia problematica, Sono arrivato a fare Dybbuk completamente afono, molti mi hanno consigliato: "Risparmiati" , ma non posso, e le corde vocali mi partono tutte le sere. E vivo un grande travaglio: quando non potrò più cantare, cosa faro? Allora mi conforto pensando a Joe Cocker, che è la dimostrazione di come si canta senza voce. E’ ormai totalmente afono, e lo considero il più grande cantante...

  copyright Oliviero Ponte di Pino 1995, 2000
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