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III - Il
Patalogo 5/6: le
stagioni 1981/1982 e 1982/1983
L’autore drammatico è la figura che
occupa, trasversalmente alle varie sezioni, il posto di maggior rilievo
all’interno del Patalogo 5/6. Il volume comprende due stagioni teatrali,
e le tematiche affrontate si riferiscono, eccezionalmente, ai due anni,
considerati come blocco unitario. In questo periodo di tempo è registrato un
“ritorno” ad autori che, pur contemporanei e viventi, hanno già assunto lo status,
la definizione di “classici”. Nella sua impaginazione “alfabetica”[1], il Patalogo 5/6 si concentra particolarmente
su tre drammaturghi che appartengono a questa categoria: Heiner Müller, Samuel
Beckett e Jean Genet. La loro opera e il loro rapporto con il teatro e con il
linguaggio divengono il centro delle diverse riflessioni. Radunare in un
discorso unitario e coerente gli interventi di e su questi autori non è
immediato, come invece accadeva nei precedenti numeri dell’Annuario. Le
notizie, le dichiarazioni, il corpo stesso dell’area dedicata agli autori sono
infatti disseminati all’interno di più cornici. Rispetto al Patalogo 1 e
2 il racconto è meno organico e più episodico. Non si è in presenza di un’unica
grande sezione in cui gli argomenti si susseguano linearmente: i vari luoghi in
cui si prende in considerazione il lavoro di un determinato autore sono a sé
stanti e conchiusi. In ragione di questa frammentarietà anche la presente
analisi non può che limitarsi a registrare i vari punti in cui il tema
dell’autore emerge con maggior evidenza, selezionando dai diversi materiali i
luoghi più significativi in relazione all’argomento in questione. Per una più
puntuale documentazione si rimanda, ovviamente, allo stesso Patalogo
5/6.
Al di là comunque di questa maggiore
frammentarietà degli interventi, la predominanza di questa tematica è facilmente
individuabile da alcune “spie” che il Patalogo sembra inserire per
indirizzare la lettura. Una di queste, la più evidente, consiste nel far
iniziare con la parola “autore” la scansione alfabetica degli argomenti[2]. Ed è a questo punto, nel corsivo che precede le
riflessioni di Heiner Müller, preso ad
emblema della figura del nuovo autore, che si ritrova l’unico inquadramento
generale sull’argomento. I diversi autori che hanno caratterizzato le due
stagioni sono qui infatti raggruppati: insieme a Müller sono citati Jean Genet,
Samuel Beckett, Botho Strauss, Peter Handke.
Il primo scrittore teatrale che
incontriamo è dunque Heiner Müller. La sua opera è da lui stesso spiegata in
una lunga intervista, in cui descrive la propria tecnica compositiva, esprime
le sue idee politiche e commenta il suo lavoro con uno stile lapidario e
veloce. Affermando di essere spesso frainteso, difende il suo linguaggio
dall’accusa di oscurità:
Il mio linguaggio per qualche misteriosa
ragione è considerato difficile, ma solo perché è molto semplice, diretto e
preciso. […] Basta che un concetto sia formulato con precisione, e non
riusciamo più a capire che cosa significhi, perché nessuno crede che il
significato sia proprio quello: “Non può essere così semplice, ci sarà qualcosa
dietro”. E’ così che è nata la leggenda della difficoltà. E’ la ricerca del
significato che rende complesso il linguaggio. […] In realtà io sono convinto
della primitività del mio linguaggio.[3]
Il
problema della lingua si intreccia strettamente con l’idea di teatro che Müller
intende promuovere. Quest’idea è espressa chiaramente poco più sotto:
Se sulla scena non si progetta almeno
vagamente una realtà diversa da quella da cui gli spettatori provengono e in
cui poi ritorneranno, allora il teatro per me è privo di interesse. [...]
Spendere tanti soldi solo per rappresentare le cose così come le ritroviamo per
strada, è puro parassitismo.[4]
Qui l’autore tedesco dichiara la propria poetica
teatrale, che contiene evidenti derivazioni brechtiane. Il teatro è visto come
cosa “altra” rispetto alla vita, come una pratica che susciti negli spettatori
un senso di distacco dalle abitudini quotidiane e apra nuovi orizzonti di
senso. Questa idea di teatro non può non avere ripercussioni anche sul
particolare tipo di scrittura che è tipico di Müller. Ma attraverso le sue
parole si scopre una dimensione dei testi generalmente lasciata in ombra dalle
rappresentazioni[5], la comicità, che l’autore considera un elemento
fondamentale della sua opera:
Una ragione essenziale dello scrivere è
la gioia maligna. E' la fonte di ogni comicità, la gioia di vedere che qualcosa
va storto e di essere in grado di descrivere questo processo. Credo che questo
sia un modello basilare per il teatro e per la comicità.[6]
Le brevi porzioni di intervista qui
riportate possono essere sufficienti a definire la microarea che il Patalogo
5/6 dedica all’autore tedesco. Ma un accenno alla scrittura di Müller si
ritrova anche al di fuori della sezione. Nel “Repertorio di un anno” che si
riferisce alla stagione 1982/1983 infatti è inserito uno stralcio della
recensione di Maria Grazia Gregori a Quartett, il testo di Müller
portato in scena in Italia dalla cooperativa Nuove Parole. In questo brano è
sottolineata la vitalità della parola della sua scrittura[7].
Il secondo autore che viene considerato
nel Patalogo 5/6 è Samuel Beckett, arrivato al traguardo degli ottant’anni
al culmine del successo internazionale e sempre meno incline alle apparizioni
pubbliche. Attraverso una raccolta di brani della sua corrispondenza
epistolare, il personaggio Beckett viene inquadrato nel suo rapporto con il
teatro. Ne emerge un ritratto di scrittore assolutamente disinteressato alle
pratiche sceniche, e concentrato esclusivamente sul (suo) testo:
Il teatro non mi interessa. Vado molto
di rado a vedere le opere degli altri - praticamente, soltanto quando dentro vi
recitano dei miei amici. Non mi interessa l'effetto che i miei lavori producono
sul pubblico. Mi limito a creare un oggetto. Quel che ne pensa la gente non mi
riguarda.[8]
E’ una dichiarazione di indifferenza totale: gli esiti
spettacolari, le rappresentazioni delle sue stesse opere, il gradimento del
pubblico non sembrano interessarlo assolutamente. Un’altra dichiarazione
chiarifica definitivamente il grado di estraneità di Beckett al mondo della
scena:
Non fanno per me, questi Grotowski e
questi Metodi! La migliore opera possibile, è quella in cui non ci sono attori,
solo il testo. Cerco di trovare il modo di scriverne una.[9]
In queste poche parole è implicito lo
scollamento esistente tra l’autore e il mondo del teatro. Il testo è l’unica
cosa veramente importante. Infine però, nel descrivere l’effetto che lui si
auspica scaturisca dalla rappresentazione di un suo testo, recupera almeno
parzialmente la figura dello spettatore.
Non mi preoccupo oltre misura
dell'intelligibilità. Spero che la pièce agisca sull'emozione del pubblico,
piuttosto che sul suo intelletto.[10]
A fronte del desiderio di Beckett di
eliminare l’attore dalla scena, è singolare l’entusiasmo che i suoi testi
suscitano in un interprete alla sua prima prova beckettiana, Gianni Santuccio.
Commentando infatti la sua partecipazione a Finale di partita, nella
versione italiana dell’Ater per la regia di Walter Pagliaro, l’attore esprime
la sua ammirazione per il drammaturgo.[11]
Diversamente dai primi due autori, Jean
Genet è raccontato attraverso le testimonianze di chi ha lavorato alla
rappresentazione di due sue opere, I negri e i Paraventi. Tra
maggio e giugno 1983 si susseguono infatti i due testi, che vengono messi in
scena rispettivamente da Peter Stein e Patrice Chéreau. Il regista tedesco, in
una lunga intervista, dà conto del suo lavoro ed esprime le sue opinioni sulla
scrittura di Genet. In primo luogo spiega i problemi incontrati nel passaggio
del testo dall’originale francese al tedesco.[12] Parlando dei problemi di traduzione, Stein descrive
con precisione il linguaggio di Genet, per poi concentrarsi sul testo da lui
prescelto. Prima di parlare del suo lavoro specifico di regista, si riferisce
ancora al testo:
E' nei Negri che si trova il
Genet più ispirato. Avvicinandosi all'anima africana è veramente ispirato, in
una maniera fantastica, tanto che non sono in grado di controllarlo.[13]
Sempre a proposito dei Negri, il
regista tedesco analizza la particolare lingua utilizzata da Genet:
L'intero testo è
scritto come "en travesti", ma non c'è solo questo: è una specie di
lingua della Comédie Française, ma con interferenze di frasi molto banali e
comuni. E' una lingua che vuole essere molto pomposa e cerimoniosa, ma
contemporaneamente ci sono espressioni gergali che la riportano a un livello
più basso. C'è anche la retorica, qualche volta bassa retorica, e non mancano
elementi di clownerie. [...] Questi negri non parlano la loro lingua, ma il
francese. E' questo il pretesto da cui ha voluto partire Genet: scrivere dei
testi francesi e bianchi e farli recitare da africani[14].
Un’altra chiave di
lettura della scrittura di Genet è offerta anche da François Regnault,
collaboratore di Chéreau nell’avventura dei Paraventi:
La volgarità [...] nei Paraventi
non è simbolo di non so quale triste condizione a cui il colonialismo avrebbe
ridotto gli algerini, di non so quale gusto del male con l'obiettivo assoluto,
inevitabile, ma temporaneo, di rovesciare la nostra morale del bene, e anche di
qualche tratto razziale proprio delle popolazioni del Magreb. [...] No, la
volgarità è la vita stessa che rinasce continuamente, ciò che si muove, ciò che
si sviluppa e si riproduce, e che non ha bisogno di essere giustificato.[15]
Il riferimento al lessico viene qui
utilizzato per fugare le interpretazioni “simboliche” dei testi dell’autore
francese. La presenza della volgarità non ha valore morale o fustigatorio, ma
ricalca la riflessione di Genet sul senso dell’esistenza umana.
Un secondo elemento che sembra
caratterizzare le due stagioni del Patalogo 5/6 è una rinnovata
attenzione al testo drammatico: gruppi e singoli vanno alla ricerca del testo,
come un appiglio cui ancorarsi in un momento storico che vede il teatro in
continua ridefinizione e un costante richiamo alla crisi della scena. Questa
tendenza bene si ricollega alle tematiche legate all’autore e alla scrittura. E
infatti il tratto unificante di questa edizione del Patalogo sembra
proprio la riflessione sulla scrittura teatrale.
Se da un lato vengono scelti per la rappresentazione
testi di autori contemporanei – oltre a Müller, Beckett[16] e Genet,presenti nei cartelloni italiani sono Peter
Handke, Harold Pinter, Friedrich Dürrenmatt, Eugene Ionesco e Thomas Bernhard -
dall’altro il teatro italiano va alla ricerca dei classici, delle “autorità”,
sotto i testi dei quali è più facile ripararsi dalle difficoltà. Il “repertorio
di un anno” conta nelle due stagioni 21 adattamenti di Shakespeare, 15 di
Pirandello, 13 di Goldoni, 7 di Molière e 5 di Cechov e Strindberg, oltre ad
adattamenti da autori non teatrali come Heinrich Böll, Dino Buzzati, Carlo
Collodi, Hermann Hesse, Franz Kafka, Jack Kerouac, Arthur Miller, Raymond
Queneau, Rainer Maria Rilke, Edmond Rostand, Joseph Roth, Leonardo Sciascia,
Arthur Schnitzler ed Emile Zola.
Il ritorno al testo drammatico, con cui confrontarsi e
misurarsi, è dunque un elemento di continuità che attraversa le due stagioni.
Nella struttura “alfabetica”, il Patalogo 5/6 ritorna più volte a
mettere in evidenza questa tendenza. A livello generale, parlando della
situazione dei gruppi teatrali italiani, vi si riferisce ad esempio Renata Molinari
nel suo breve saggio:
Dal nuovo montaggio, dalla partitura
gestuale del racconto, la parola esplode come frammento di testo, facendoci
sentire non la conquista di una necessità individuale ma la nostalgia
incolmabile del testo perduto.[17]
L’autrice, che svolge una delicata analisi
dell’utilizzo di testi classici da parte delle nuove formazioni teatrali, mette
in evidenza un movimento verso la “letteratura” teatrale come “via d’uscita
alla crisi della cultura spontaneista”.[18]
La riflessione sui testi classici nella stagione
esaminata è sviluppata soprattutto attraverso due autori, particolarmente
rappresentati in Italia e in Europa, Wolfgang Goethe e Heinrich von Kleist. Il
primo, di cui si celebra nel 1982 il centocinquantenario della morte, dilaga
ovunque con il Faust. L’attenzione si rivolge particolarmente alla
versione che del capolavoro goethiano offre Klaus Michael Grüber, che riduce
radicalmente il testo e mette in scena un Faust-Bernhard Minetti quasi
monologante. Sullo spettacolo, messo in scena si raccolgono le tre recensioni
di Roland H. Wiegenstein, Colette Godard e Franco Quadri. Questi tre contributi
sottolineano la particolare lettura che Grüber fa del testo, ambientandolo in
un palcoscenico vuoto e privo di segni distintivi, e dando l’assoluta
preminenza dell’azione al protagonista. Ecco Franco Quadri:
E’ chiaro che questo spazio enorme
denota un luogo della mente, dove la luce e l’ombra designano diversi stadi
temporali o livelli di conoscenza. […] E’ lui, Faust-Minetti, l’unico
esistente. La plasticità della sua parola genera i comprimari. […] E alla fine
di questo spettacolo affascinante e memorabile […] all’attore Faust non resterà
che immergersi a lenti passi […] nella tenebra della scena, concepita come il
suo inferno, ovvero come un ritorno all’informalità della creazione.[19]
A queste parole si può accostare un brano dell’articolo
di Colette Godard, che riprende lo stesso discorso:
Bernhard Minetti è più affascinante che mai. Quest’uomo al limite della notte non si lascia mai indebolire. Compare, esploratore di se stesso, nudo, spogliato di tutto quello che ha acquisito, gira in tondo, rabbioso e disperato, commovente e antipatico. Si appropria della scena, è un ipercommediante, imperiale, porta le parole e i silenzi in ogni frammento della pelle. Grüber ha trovato il suo Faust.[20]
Heinrich von Kleist è uno dei protagonisti della
stagione 1982/1983. Il Teatro di Genova gli dedica l’intera programmazione, con
la rappresentazione del Principe di Homburg, della Brocca rotta e
di Anfitrione. E anche Gabriele Lavia – cui il Patalogo dedica
una sezione dell’“Alfabeto” intitolata “Homburg principe di Lavia” - si cimenta
con il testo.
Nella sezione a lui dedicata, l’opera di Kleist è
analizzata da Gilles Deleuze e Félix Guattari. Nel saggio l’autore viene a
formare un trio con Hölderlin e Nietzsche, visti come gli alfieri e i
precursori delle istanze della modernità nella “disorganizzazione” dei piani
narrativi, nel loro sviluppo “disarmonico” degli assetti, dei soggetti, dei
personaggi, e nella “velocità” come caratteristica imprescindibile del loro
scrivere. Al trio Deleuze e Guattari oppongono una linea “ottocentesca” che
comprende invece Goethe ed Hegel, concentrati nell’unità e organicità del
soggetto e dell’opera..[21]
Anche la tendenza alla riscoperta del testo, e la propensione ad affidarsi alle parole dei classici, come si è visto, non è affrontata dal Patalogo 5/6 in modo organico. Non vi è cioè un’organizzazione ordinata e organizzata degli interventi, e di conseguenza l’impaginazione non dà luogo ad una vera e propria “area” omogenea. Tuttavia questa tematica, che si lega alla riflessione sull’autore drammatico e sulla scrittura per la scena, si ritrova in molte sezioni dell’Annuario. Raccogliendo i diversi frammenti si può individuare la rete di connessioni che li lega, e raggrupparli in una zona tematica coerente.
[1] La sezione “alfabetica”, che è preceduta e seguita dalle sezioni fisse rispettivamente della stagione 1981/1982 e 1982/1983, è intitolata “Tendenze e personaggi di due stagioni”: è presumibile dunque che sia intenzionale l’aver voluto iniziare tale sezione con un blocco dedicato all’Autore.
[2] Cfr. "A come Autore: Heiner Müller", un'intervista di Rolf Rüth e Petra Schmitz, in: il Patalogo 5/6, p. 126.
[3] Cfr. "A come Autore: Heiner Müller”, cit.
[4] Cfr. "A come Autore: Heiner Müller”, cit.
[5] Almeno in quelle che si svolgono nella Repubblica Federale Tedesca, come sembra sottolineare lo stesso Müller, che nella stessa intervista afferma di preferire gli allestimenti che dei suoi testi sono offerti nella sua Repubblica Democratica Tedesca.
[6] Cfr. "A come Autore", cit., p. 128.
[7] Questo il commento di Maria Grazia Gregori: “Certo è impossibile pensare a questo testo di Müller se non (anche) come a una metafora della società nella quale lo scrittore vive, è impossibile non riflettere sul suo amore divorante per la parola, questa parola metaforica e crudele che è quella di Quartett.” (Cfr. il Patalogo 5/6, “Repertorio di un anno”, p. 225).
[8]Cfr. "Beckett", in: il Patalogo 5/6, p. 129.
[9]Ibidem.
[10]Ibidem.
[11]Ecco le parole di Santuccio: “Mi sono sorpreso a chiedermi, addentrandomi nel clima beckettiano, se non siano i pazzi ad avere ragione. Poi ho capito che Beckett può donare emozioni coinvolgendo il pubblico nei propri stati d'animo e nella propria sfera inventiva anche se in Italia arriva con un certo ritardo rispetto ad altri paesi, così come del resto è accaduto a Pirandello. Ho cominciato allora a cedere alla forza con la quale egli idealizza cose mai esistite per poter continuare a vivere, e sono venuto nella determinazione che quello di Ionesco, non il suo, è ‘teatro dell'assurdo’.” (Cfr. il Patalogo 5/6, “Repertorio di un anno”, p. 19). Ma Beckett è molto presente nei cartelloni dei teatri italiani. Tra l’altro il 1982 è anche l’anno in cui Giorgio Strehler mette in scena al Piccolo Teatro di Milano il suo adattamento di Giorni felici. Per l’occasione il regista spiega i motivi della scelta: “Ci sono testi che amo moltissimo, come quelli di Mòliere, e che ho rappresentato poco. E’ il lavoro del teatro, con le sue scelte. Beckett l’ho sempre letto e studiato. Poi viene un momento in cui le cose si concretizzano, i vuoti si devono riempire, e l’idea che ti ronzava intorno diventa realtà”. (Cfr. il Patalogo 5/6, “Repertorio di un anno”, p. 66).
[12] “La traduzione è il modo sbagliato di avvicinarsi al significato dei testi di Genet, iperpoetici, mistici, indecifrabili. [...] E' un grosso problema, specialmente per I negri. Si creano malintesi, fraintendimenti, spesso non si capisce un modo di pensare che è invece molto chiaro e preciso: ogni parola, ogni frase viene pronunciata con uno scopo preciso, tutto è ‘dichiarato’.” (Cfr. "Il negro e l'attore", un'intervista a Peter Stein a cura di Franco Quadri, in: il Patalogo 5/6, p. 145).
[13]Cfr. "Il negro e l'attore", un'intervista a Peter Stein a cura di Franco Quadri, cit.
[14]Ibidem.
[15]Cfr. François Regnault, "Alla scoperta del comico", in: il Patalogo 5/6, p. 150.
[16] Che nel periodo considerato conta undici messinscene diverse dei suoi testi.
[17] Cfr. Renata Molinari, “Ritorno del rimosso”, in: il Patalogo 5/6, p. 171.
[18] Ibidem.
[19] Cfr. Franco Quadri, “Luoghi della mente”, in: il Patalogo 5/6, p. 144.
[20] Cfr. Colette Godard, “Ai confini del silenzio”, in: il Patalogo 5/6, p. 143.
[21] Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, “Kleist”, in: il Patalogo 5/6, pp. 157 – 159.
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