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II.
Il Patalogo 2: la stagione 1978/1979
Il ritorno
della parola a teatro dopo due decenni di esilio involontario e soprattutto la
dimensione “sonora” che caratterizza le esperienze più diverse del panorama
teatrale internazionale alla fine degli anni ’70 costituiscono l’ossatura
tematica della più importante “area” del Patalogo
2, che si riferisce alla stagione 1978/1979. La struttura dell’Annuario è di
semplice ed immediata lettura: gli interventi che trattano il tema si susseguono
linearmente, e – come anche nel caso del secondo filone, incentrato sulla
spettacolarizzazione della poesia – sono introdotti da un saggio che fornisce
un inquadramento critico ed esplicita i tratti comuni e ricorrenti della
tendenza in atto. La suddivisione degli interventi costituisce dunque un blocco
unitario e organizzato, diviso in molte sottosezioni. Il rapporto tra il mondo
della scena e l’elemento sonoro-musicale, posto al centro dell’analisi e
considerato come il tratto unificante di poetiche e pratiche teatrali del tutto
diverse viene esaminato attraverso le sue varie declinazioni. Il tema tuttavia
non compare esclusivamente all’interno della grande sezione che gli è dedicata.
Questo risulta evidente considerando il “Referendum Ubu”: in quest’edizione del
Patalogo alle categorie di voto è
aggiunta una voce nuova, il “Miglior spettacolo con musiche”. La corrispondenza
è assolutamente evidente: se il teatro dimostra di voler privilegiare l’aspetto
“sonoro”, anche la definizione delle categorie di premio ne subisce una diretta
influenza. E questa opinione è confermata anche dal fatto che tale voce
scomparirà già nel Patalogo 3, e non
verrà mai più reinserita[1].
Partendo dal
lavoro di Robert Wilson, preso come esempio paradigmatico, Franco Quadri indaga
i contorni di questo avvicinamento del teatro all’universo del suono[2]. L’evoluzione dell’artista
americano segue alcune tappe. Si parte dallo Sguardo del sordo, del 1971, prendendone in considerazione il
registro sonoro:
Il silenzio
dello Sguardo del sordo (un silenzio
con remoti echi di sottofondo, una sonata al piano o un rintocco di campana, o
magari con una lettura breve quasi fuori testo del Wilson interprete) non va
letto come risultato di una scelta estetica assoluta, ma nel senso di un preciso
dato espressivo, per mettere lo spettatore dalla parte del protagonista, che è
sordomuto[3].
Il punto di
vista del protagonista, sordomuto, è l’unico presente nella rappresentazione.
Da questa prospettiva vengono considerati tutti gli elementi presenti sulla
scena: il corpo dell’attore, le scenografie e tutto ciò che pertiene all’ambito
visuale, ma anche la dimensione sonora:
A lui il
pubblico deve arrivare idealmente a eguagliarsi, fino a condividerne l’orecchio mancante e a leggere cogli
altri sensi il suono non propriamente assente, forse subliminale, semplicemente
non dato nei termini usuali.[4].
Il
suono non è escluso dalla rappresentazione. Al contrario è “evocato” secondo le
modalità percettive del protagonista, che impediscono l’utilizzo dell’udito. E’
presente dunque, e si manifesta attraverso il ritmo generale dello spettacolo,
nella sua frammentazione in parti rigidamente definite. Il suono viene
restituito agli spettatori sia nell’asse dello spazio – la disposizione
frammentaria e composita della scena – che in quello del tempo – la scansione
ritmica delle parti. Lo sguardo del sordo
dunque si inserisce nel discorso come un primo livello dell’avvicinamento alla
sfera del suono da parte di Wilson. Seconda tappa di questo percorso è Ouverture, del ’72. Qui la presenza di
elementi sonori si sviluppa su più livelli. Il parlato “dal vivo” trova il suo pendant nelle voci e nei rumori
preregistrati, e il gioco tra i due piani influenza e determina lo svolgimento
dello spettacolo. In Ouverture
l’elemento sonoro – provenga esso dalla voce dell’attore o dagli impianti di
diffusione - è però considerato ancora soprattutto per le sue potenzialità
foniche. In questo senso ha soprattutto un valore “ludico”, funziona come
pratica di disturbo, e si apre a giochi verbali “derisori e demistificanti”[5], ai nonsense di memoria
futurista e dadaista.[6]
Dopo Ouverture, una parola dai risvolti
paradigmatici in questa discussione, “opera”, seguirà sempre (almeno fino al
1979…) i titoli degli spettacoli di Wilson, indicando con la sua presenza
l’approdo del regista ad un vero e proprio “genere” teatrale:
Dopo l’opera sorda d’inizio […], dopo l’opera - schema di Ouverture, il termine opera
accompagnerà tout-court i suoi titoli, come a sanzionare l’appagamento sognato
in un genere.[7]
Il risultato
finale di questo viaggio verso le sponde del suono è rappresentato da due
spettacoli, Death Destruction &
Detroit e Einstein on the Beach. Nel
primo preponderante è la voce, la parola, che non è però considerata nel suo
aspetto semantico primario, ma diviene portatrice di senso – ed ecco lo scarto
rispetto a Ouverture –
nell’esaltazione delle sue potenzialità sonore.[8] La parola, commista e
relazionata alla musica e svuotata del suo senso originario, concorre alla
creazione della significanza semantica dello spettacolo.
Nel secondo
spettacolo la presenza della musica condiziona l’intera struttura dell’opera,
ne diviene il “corpo essenziale”[9]. Ed è con Einstein on the Beach che Wilson arriva
ad inscrivere il suo lavoro teatrale nel genere dell’”opera”. Da questo punto
in poi immagine, parola e musica si fondono in un insieme unitario e composito,
in cui l’elemento sonoro acquisisce pari dignità rispetto all’ambito visivo e
diviene parte determinante della rappresentazione. Lo stesso Wilson parlerà del
suo lavoro come di una “partitura in cui convergono luce, suono, azione”:
Conquistata la
libertà di abbandonarsi al suono, Wilson coglie in questa scena l’essenza del
suo teatro, anche mediante l’individuazione di un genere; che è l’opera secondo Broadway, l’ambizione […]
di insediarsi al Metropolitan, ma con una ricetta alla Ziegfield Follies. Dallo
spazio dopotutto non ci arriva che il musical rivisitato.[10]
Conclusa
l’analisi della parabola di Wilson dal predominio del visivo alla centralità del
suono, il saggio si apre a raggiera per includere una serie di esperienze e di
artisti che condividono – nella diversa accezione di ciascuno - questa
attenzione all’universo sonoro. Partendo dall’esempio paradigmatico di Wilson,
Quadri arriva dunque ad indagare le diverse declinazioni in cui si manifesta
questa tendenza. Sono citati registi, autori, attori e gruppi del tutto
eterogenei, come Patrice Chéreau, Luca Ronconi, Carmelo Bene, Pier’Alli, l’Odin
Teatret, Leo de Berardinis, i Magazzini Criminali. L’attenzione alla musica, al
suono, alla voce diviene l’elemento comune che permette di unirli in un
discorso complessivo. Il lavoro di molti di loro forma il corpus di interventi che segue il saggio.
Il rapporto
con la musica dell’Odin Teatret di Eugenio Barba nel saggio è preso in
considerazione in un’ottica “evolutiva” che vede un sempre più massiccio
utilizzo di strumenti musicali nella progressione degli spettacoli[11]. Quest’analisi trova
conferma nelle affermazioni che lo stesso Barba fa poche pagine più oltre, dove
racconta il percorso compiuto alla scoperta della musica e delle sue
potenzialità espressive:
E’ con Min Fars Hus (1972) che sono entrati nel
nostro teatro i primi strumenti musicali […]. Abbiamo tentato di usarli […]
seguendo due strade particolari. La prima strada: trasformare lo strumento in
una voce, cercare di farlo parlare,
di fargli fare un discorso: controllato, lirico, pedante o sentimentale. […] La
seconda strada: teatralizzare la musica, cioè l’azione del suonare e il suo
risultato sonoro. […] Usare uno strumento musicale – non si riduce per l’attore
a emettere solo della musica. Lo strumento musicale diventa un accessorio, una
parte del suo corpo, della sua persona,
una protesi o un suo arto, un elemento teatrale estremamente importante nella
composizione visiva, cioè nella composizione delle azioni e delle reazioni
sceniche[12].
E’ qui
definito un procedimento di lavoro intorno alle potenzialità della musica, di
cui viene individuato il punto di inizio, e che culmina nell’esperienza del Milione, lo spettacolo allestito nel
1979.[13]
La solitaria
esperienza di Carmelo Bene, con il duplice risultato “musicale” di Otello e Manfred, non poteva restare fuori da una trattazione su questo
argomento. Nella progressiva perdita di tutti gli elementi scenici, teorizzata
da Bene nella sua teoria della sottrazione come antidoto alla crisi
irreversibile del teatro, soltanto la voce sopravvive e riassume in sé le
funzioni dei mezzi espressivi via via eliminati.[14] La voce, nell’Otello, si manifesta come spartito, puro
suono, orchestrazione, mescolanza di ritmi e armonie. E il gioco di richiami e
contrasti che essa instaura con gli strumenti dell’orchestra è messo in
evidenza da Jean-Paul Manganaro a proposito del Manfred, che nella sua analisi si occupa della dialettica tra
questa voce-partitura e la musica di Robert Schumann.[15]
Il suono è un
mezzo di appropriazione dello spazio parallelo ed equivalente al movimento
dell’attore. La musica serve l’attore, ne localizza possibili situazioni, ne
sottolinea il procedimento analitico, costringe e dilata il suo corpo in
rapporto allo spazio. L’attore piega il suo corpo alla musica, si suona come
strumento, si pensa come ritmo, si perde e dilaga nello spazio, si inserisce
nei minimi interstizi del suono.[16]
La dimensione
“musicale” diviene un elemento portante, un asse attorno al quale ruota
l’azione scenica complessiva. In tutti gli interventi è sempre sottolineata la
corrispondenza tra gli elementi: la voce-spartito si alterna all’orchestrato in
Carmelo Bene, lo strumento musicale diviene “voce” e la voce dell’attore si fa
strumento a sua volta nell’esperienza dell’Odin, l’attore arriva a pensarsi, a
“suonarsi” come uno strumento nel lavoro dei Magazzini Criminali. Questa
corrispondenza è ribadita infine anche da un musicista, Sylvano Bussotti,
autore delle musiche per Winnie dello
sguardo, lo spettacolo che Pier’Alli ha tratto nel corso della stagione da Giorni felici di Beckett.[17]
L’analisi qui
condotta attraverso la macroarea tematica che il Patalogo 2 dedica ai forti rapporti che il teatro instaura con
la sfera “sonoro-musicale” è necessariamente parziale. L’Annuario procede –
come si è detto – linearmente, facendo prevenire da una cornice teorico-critica
introduttiva le parole dei protagonisti di questo teatro. Il percorso di Robert
Wilson assume i contorni di una parabola esemplare, paradigmatica, che porta
gli uomini di teatro sempre più vicino alla dimensione del proprio lavoro come
“partitura”. Il ritorno della parola sulle scene – dopo anni di assenza di
volta in volta in favore del gesto, del corpo, dell’immagine – non provoca
l’azzeramento di un ventennio – gli anni ’60 e ’70 – di avanguardia e
sperimentazione. Le vie scelte dai vari artisti per riproporre la parola a
teatro – pur nella loro infinita eterogeneità – non sembrano recuperare il
teatro di parola come “teatro testuale”, anzi si spingono a ricercare una
“valenza semantica seconda” della parola stessa, inserita in un gioco continuo
di corrispondenze con la musica, che diviene l’asse portante che collega le
varie esperienze teatrali. Si vuole infine sottolineare ancora una volta che il
tema posto al centro della riflessione di questo numero del Patalogo non si esaurisce all’interno
della sezione che lo comprende, ma invade nella sua centralità anche molte
altre zone dell’Annuario.
L’excursus
sulla predominanza del sonoro come tendenza teatrale emergente è seguito
nell’impaginazione del Patalogo 2 da
una serie di interventi su un argomento ad esso affine e collegato: la
tradizione del teatro musicale italiano.[18] Attraverso una
ricostruzione storica delle produzioni di Pietro Garinei e Sandro Giovannini,
padri del genere, si ripercorrono le tappe del musical all’italiana. Il saggio
di Rita Cirio[19] mette in evidenza il
monopolio di quella che viene definita la Ditta G & G, e accenna a qualche
timido tentativo di limitarne l’esclusiva, sottolineandone le difficoltà, sia
dal punto di vista del pubblico – abituato ormai alle sonorità e
all’“ideologia” targate Garinei e Giovannini, sia da quello più meramente
economico – solamente la famosa coppia ha le possibilità finanziarie per
allestire un musical in grande stile, nel solco delle grandi produzioni d’oltre
Oceano:
La gestione
del potere [della ditta G & G, ndr] è anche più ampia dei consensi che
riceve, in più di trent’anni infatti non si è verificata alcuna alternanza al
vertice. A volte si allea con altri, ma a patto di controllare e di gestire i
risultati. Qualche altra forza, dotata di grande prestigio e di grande seguito
di masse, ha tentato in tempi recenti di costituirsi come un’alternativa.
Un’alternativa nazionale e popolare, l’unica forse in grado di spezzare
l’egemonia degli interessi della borghesia. Malgrado gli ampi consensi che le
vengono dalla base, ancora non è riuscita nell’operazione del sorpasso. […]
Solo Luigi Proietti [infatti con] il suo Gaetanaccio
musicato e diretto da lui stesso, ha fatto concorrenza nella stagione teatrale
appena trascorsa alla ripresa di Rugantino.[20]
Dopo aver
chiarificato la situazione del musical italiano, saldamente in mano ai due
autori[21], il saggio procede, in un
percorso a tappe attraverso le produzioni di G & G, ad un’analisi capillare
di questo genere teatrale. Il punto di partenza cronologico è il 1944, prima
della fine della guerra ma a fascismo ormai “smobilitato”, in cui vengono
presentate due commedie musicali, Cantachiaro
e Aggiungi un posto a tavola. Da
allora la Ditta, nei suoi appuntamenti seriali – la media è di una commedia
all’anno – veicola, nell’evoluzione dei testi e degli allestimenti, il punto di
vista della borghesia in ascesa. In ciascuna commedia viene ritratta
l’evoluzione
di usi e costumi dell’Italietta nostra […] tra liberazioni, ricostruzioni
postbelliche, Anni Santi, neorealismi, boom, recessioni, congiunture, guerre
fredde e calde, qualunquismi, opposti estremismi, soldi, sesso, coppie
familiari, contestazioni, rivoluzioni, ecc. ecc.[22]
Dopo queste
premesse, Cirio si sofferma su tipologie e valori veicolati dal musical
nostrano. E’ così indagato il tipo di donna che vestirà i panni della
protagonista[23], vista singolarmente e
nell’identikit del suo rapporto di coppia.[24] E all’interno del
microorganismo della coppia piccoloborghese si analizza l’importanza che i personaggi
principali – i coniugi, appunto – riconoscono alla politica[25], alle tematiche sociali e
al denaro, che è il vero deus ex machina
dei testi. E’ preso infine in considerazione il punto di vista che emerge nelle
commedie musicali firmate G & G rispetto ai fattori di cambiamento, i
cosiddetti “elementi sovvertitori”: tutto ciò che può sconvolgere lo status quo, basato sulle certezze del
nucleo familiare e sull’equilibrio della propria posizione sociale, è
rigettato dai personaggi del musical
all’italiana, che tendono ad un sempre rinascente sentimento di conservazione
dell’esistente.[26] Questa prospettiva chiusa
al nuovo e rassicurante viene poi messa in rapporto con le esigenze e le
aspettative degli spettatori che vi si rispecchiano:
Fin troppo
ovvio che debba scattare un meccanismo di identificazione da parte del
pubblico, portato a riconoscersi nelle situazioni rappresentate, scelte appunto
per la loro tipicità.[27]
La commedia
musicale italiana viene poi presa in considerazione in rapporto al musical di
fabbricazione americana. Alberto Arbasino coglie i punti di contatto, le
convergenze tematiche e le affinità nei meccanismi di produzione e ricezione
tra Roma e Broadway:
Non si insiste
probabilmente abbastanza sulle somiglianze sorprendenti fra il musical,
prodotto americano tipico, e il
nostro melodramma delle epoche buone. A tutti i livelli… Stessa forma, stesse
funzioni: enorme trattenimento popolare-musicale con alternanza di recitativi e
ariosi e romanze e duetti e concertati e cori, e ouvertures e interludi e
interpolazioni di balletti e immensi finali, trionfalissimi. Grossi talenti
musicali impegnati nella stesura e nell’esecuzione. Però, anche carriera
effimera, in quanto i massimi capolavori vengono consumati in un paio di
stagioni da un pubblico ingordo più di novità che di riesumazioni.[28]
Il musical
d’oltre Oceano diviene poi, all’interno della sezione dedicata al teatro
musicale, protagonista assoluto: gli spettacoli più celebri degli anni ‘70, da Grease a Jesus Christ Superstar, da A
Chorus Line a Evita, da Chicago a Sweent Todd sono ordinati cronologicamente e descritti
dettagliatamente attraverso le recensioni dello stesso Arbasino per il
“Corriere della Sera” e per “la Repubblica”, nell’arco del periodo che va dal
1971 al 1979.[29]
II.2. Lo spettacolo di poesia
Nell’anno di
Castelporziano, il grande happening
che ha radunato in Italia poeti da tutto il mondo, raccogliendo adesioni
illustri tra le quali quella del guru-beat Allen Ginsberg, il Patalogo dedica la sua seconda area tematica proprio al rapporto
tra poesia e spettacolo, o meglio indaga la tendenza della poesia a divenire
evento pubblico a fruizione collettiva, introducendo un sempre maggior numero
di elementi spettacolari. Anche in questo caso l’argomento è affrontato
dapprima con un saggio che inquadra alcune problematiche e traccia per tappe il
percorso che porta la poesia a divenire, da creazione (e consumo) individuale
che era, un vero e proprio “evento”. Successivamente il fenomeno è analizzato
attraverso le parole degli stessi protagonisti.
Oliviero Ponte
di Pino e Gianfranco Capitta[30] mettono a fuoco la
progressiva spettacolarizzazione dei testi poetici partendo dal cambiamento di
prospettiva degli stessi autori, e fanno il punto della situazione attraverso
una mappatura delle manifestazioni e dei reading
che si sono susseguiti nel corso della stagione. Il punto di partenza è
l’inedito interesse suscitato dalle composizioni poetiche nel grande pubblico.
Di questo boom sono individuate le
cause:
I poeti […],
soprattutto i più giovani, sono riusciti a cambiare radicalmente la loro
immagine pubblica e quella del loro prodotto (sia la Poesia che le poesie)
affidandosi aggressivamente ai mass-media. Per dirlo con una parola che vuol
dir tutto o quasi, facendosi spettacolo, perché è questo il modo migliore per
far riconoscere l’esistenza di un qualsiasi bisogno o esigenza.[31]
La dimensione mediatica degli eventi come Castelporziano è subito posta in primo piano. L’interesse generalizzato per l’atto poetico ha alle sue basi un radicale cambiamento di prospettiva da parte dei poeti. L’elemento spettacolare è utilizzato per uscire dal ghetto: la trasformazione dell’evento poetico in rito collettivo modifica la pratica di composizione e di fruizione poetica e mira a rendere più popolare, cioè meno élitaria e snobistica questa forma espressiva. Le tappe che prevengono e preparano questo fenomeno sono brevemente tratteggiate, fino a giungere alle soglie del 1978, l’anno della “poesia spettacolo” per eccellenza.[32] Un’anticipazione delle grandi manifestazioni come Castelporziano si ha già nel ’77, con le serate poetiche organizzate dal Beat 72 di Roma.
E’ questo il
punto di svolta fondamentale: l’assenza di “linearità” dà luogo a composizioni
circolari, scomposizioni e giochi verbali, mescolanze di accenti ritmici e
tonici, esaltazione del frammento e aperture all’improvvisazione. Il tutto
basato sulla presenza attiva del poeta, che diviene “attore” della propria
poesia, che si serve di un palco e utilizza una serie di accorgimenti scenici
per far passare il proprio messaggio. Si tratta effettivamente di “poeti in
scena”.
La poesia sonora alla fine
degli anni ’70 vive un momento di grandissima popolarità: l’editoria comincia
ad interessarsi ai poeti “nuovi”, le manifestazioni e le rassegne si susseguono
per tutta la penisola. Di esse viene fornita una suddivisione per tipologie: ci
sono le “informativo-didattiche”[34], le “monografiche”[35] e infine la “poesia di
massa o poesia pretesto per adunate”.[36]
Con questa carrellata a tratti ironica sulle varie modalità con cui si può presentare lo spettacolo di poesia, si arriva all’evento centrale della stagione, il Festival internazionale dei Poeti di Castelporziano, organizzato da Simone Carella, Ulisse Benedetti e Franco Cordelli. Castelporziano è definito, rispetto alle altre manifestazioni del genere, come
la dilatazione
massima, la sovradimensione panoramica i cui contorni sfocano nell’onirico.[37]
La raccolta di dichiarazioni che segue il saggio sopracitato delinea, nella sua varietà, i contorni del fenomeno. Attraverso le parole di poeti, performer, organizzatori, critici, esso è analizzato in tutti i suoi aspetti. Il centro del dibattito è in fondo l’essenza stessa della poesia: evento necessariamente pubblico e peculiarmente privato? Forma artistica da fruire in solitudine, analizzando le minime pieghe del testo formalmente organizzato e precostituito, oppure in una dimensione coral-collettiva, in cui importante diviene il “flusso di emozioni” e la possibilità di interagire, magari passando dal ruolo di spettatore a quello di attore e viceversa? Ecco alcune risposte. Allen Ginsberg spiega che non esistono sostanziali differenze tra un componimento scritto per una lettura privata e quello per una rappresentazione pubblica, e parla dell’utilizzo del corpo come mezzo attraverso il quale esprimere ad alta voce i propri versi. La differenza tra poesia “tradizionale”, definita “lineare” e “poesia sonora” costituisce invece il fulcro delle riflessioni di Adriano Spatola, esponente di punta della seconda, che rifiuta il testo poetico così come è comunemente inteso, e si interroga sulle potenzialità offerte dai supporti tecnologici.[38]
Ma non tutti
partecipano dell’entusiasmo dilagante: la poesia-spettacolo ha anche una
cerchia di detrattori. Il Patalogo 2,
registrando la pluralità dei punti di vista, riporta il giudizio di Cesare
Viviani sulla “nuova poesia” e sui suoi risvolti sociali:
Non mi sembra
che si possa chiedere alla poesia una funzione immediatamente sociale. […] La
poesia non ha bisogno di ritrovi pubblici. Bisogna leggerla sul libro, tranquillamente,
utilizzando misure e strumenti appropriati, che possono anche essere istintivi,
ma meglio quando l’istinto è mediato da una preparazione specifica.[39]
In queste
osservazioni la critica è rivolta più che ai creatori, ai poeti, proprio ai
fruitori, agli spettatori: la dimensione privata e individuale, contrapposta a
quella di massa, è l’elemento cardine del giudizio negativo espresso da
Viviani. Ma importante è soprattutto ciò che dice dopo: quando parla di
“preparazione specifica”, presuppone per il fruitore-lettore una cultura di
base, quindi ritorna all’élitarismo della fruizione come caratteristica
intrinseca alla poesia, cioè proprio l’assunto che le nuove ondate di poeti
combattono.
Anche Giovanni Raboni esprime una serie di perplessità. I suoi dubbi non riguardano il versante della fruizione, ma la stessa natura dei testi poetici destinati alla lettura collettiva.[40] Raboni ridimensiona il fenomeno, pone dei paletti alla spettacolarizzazione della poesia. Individua alcune forme poetiche come le sole idonee ad un utilizzo scenico, e mette in guardia dal considerarle – sull’onda della risonanza che esse assumono a livello mediale - le uniche possibili.
Riassumendo, il “poeta in scena”, e il boom delle manifestazioni, dei reading e delle rassegne di poesia verificatosi nel corso della stagione è inquadrato da un saggio che ne individua aspetti dominanti e peculiarità, per poi essere raccontato grazie alle dichiarazioni dei protagonisti. Le dichiarazioni di poetica si alternano ai giudizi critici dei detrattori. Attraverso questa pluralità di voci il Patalogo 2 descrive il fenomeno della spettacolarizzazione della poesia tra il serio e il faceto, documentandolo minuziosamente da un lato e dall’altro lasciando largo spazio alle sfumature ironiche degli autori.
[1] Vincitore del Premio Ubu
per il Miglior spettacolo con musiche è Roberto De Simone, con il suo Mistero napolitano, affermatosi dopo un
testa a testa con il Manfred secondo
Carmelo Bene.
[2] Il saggio introduttivo è
programmaticamente intitolato “L’orecchio del cieco”. Cfr. il Patalogo 2, pp. 121 – 129.
[3] Cfr.Franco Quadri,
“L’orecchio del cieco”, in: il Patalogo
2, p. 121.
[4] Proseguendo nella
trattazione, Quadri spiega in che modo la dimensione sonora sia introdotta
nello spettacolo (p. 121): “Il suono esce dalla precisione di una partitura
visiva organizzata su una successione di ritmi, per accelerazioni, stasi,
estenuanti ralenti in alternanza o anche contrapposti nella medesima scena; su
una scansione di tempi pieni e di tempi morti; su una suddivisione della scena
in diversi e molteplici strisce, limitate e non compenetrabili”.
[5] Cfr.Franco Quadri,
“L’orecchio del cieco”, cit., p. 122.
[6] Ecco uno stralcio della
descrizione dello spettacolo (p. 122): “In questo spettacolo di ventiquattr’ore
realizzato a Parigi nel ’72 il suono guadagna un suo valore plastico,
adeguandosi al principio della sovrapposizione di più piani applicati in
successione quando non simultaneamente, già riscontrato nella composizione
scenica. A un primo piano di parlato in presa diretta, che può seguire un
copione rigoroso o la libertà dell’improvvisazione su tema prestabilito o sulle
vie dell’immediato, e servirsi o no dell’amplificazione attraverso il
microfono, corrisponde infatti un contrappunto registrato che diffonde magari
le stesse tiritere, o altri commenti, o ruba stralci di conversazioni private,
quando non trasmissioni radiofoniche o rumori naturali, e imprime un sottofondo
quasi costante di musica con frequenti ripetizioni del medesimo nastro montato
in circolo.
[7] Cfr.Franco Quadri,
“L’orecchio del cieco”, cit., p. 123.
[8] “Il culmine è nel duplice
tendersi nel primo e nel quarto atto di un grido lancinante e modulato,
lungamente portato ai limiti della possibile resistenza, su una sola nota: è la
voce che diventa strumento e il suono si eleva a segno, aldilà della velocità stessa di esecuzione e dello spartito
di Alan Lloyd.”(Cfr. Cfr.Franco Quadri, “L’orecchio del cieco”, cit., pp. 123 – 124).
[9] La predominanza della
musica modifica anche lo stesso lavoro del regista: “L’invadenza delle musiche
di Philip Glass condiziona completamente i ritmi dell’azione, e non solo i
ritmi, stimolando per contraccolpo Wilson, stavolta sì retrocesso a co-autore, a lavorare se possibile
contro la musica […]. Ma possibile non è, perché la musica di Glass ingloba
tutto.” (cfr. Cfr.Franco Quadri, “L’orecchio del cieco”, cit., p. 124).
[10] Ibidem.
[11] Cfr. Cfr.Franco Quadri,
“L’orecchio del cieco”, cit., p. 125:
“Dalla dizione musicale del Ferai [L’Odin]
passa alla necessità di sottolineature strumentali; quindi con un costante
progresso che segna anche un avvicinamento ai modi del circo o all’uso delle
bande popolari, o piuttosto alle tecniche dei teatri d’oriente, trasforma i
suoi attori in altrettanti suonatori autodidatti fino al punto di elaborarsi da
soli i mezzi d’accompagnamento”.
[12] Cfr. Eugenio Barba, “Lo
strumento addormentato nel bosco”, in: il
Patalogo 2, p. 130.
[13] Ancora Barba: “Il Milione – Primo Viaggio ha un
sottotitolo: musical. Racconta le esperienze di viaggio dell’Odin attraverso
musiche e danze di diverse culture. Noi vorremmo tanto che questo spettacolo
intrattenesse, divertisse gli spettatori, come un buon musical di alta classe.”
(Cfr. Eugenio Barba, cit., p. 131).
[14] Cfr. Cfr.Franco Quadri,
“L’orecchio del cieco”, cit., p. 127:
“ Ciò che rimane è la voce […] quale filo continuo sia indiretta (soltanto la
Sua) sia affidata agli interruttori del magnetofono, […] dilatata e ridotta,
elevata a suono in un esercizio virtuosistico prestabilito però […] in tutti i
toni e i semitoni previsti da una rigida partitura… […] Carmelo Bene maneggia
l’Otello di Shakespeare come uno
spartito.” La centralità della voce nell’Otello
secondo Carmelo Bene compare anche nella sezione dedicata agli “Spettacoli
dell’anno”, grazie ad una recensione ancora di Franco Quadri: “Soppresso ogni
movimento fisico, la voce riassume in sé tutti i soprassalti vitali: una voce e
la sua eco, per una tragedia riassunta nella forma privilegiata del monologo.
Il testo si identifica allora con una precisa partitura concertistica, in cui
la voce-strumento di Carmelo Bene, emulo di Schönberg, i secchi rumori
registrati e amplificati, il piovere delle musiche di sostegno e di cesura,
assurgono a termini unici di contrasto.” (Cfr. il Patalogo 2, p. 79).
[15] Cfr. Jean-Paul Manganaro,
“Dal canto al controcanto”, in il
Patalogo 2, pp. 132 – 133: “Tecnicamente […] l’opera procede secondo un
modello binario apparentemente semplice: a ogni canto recitativo di Bene, segue
un controcanto dell’orchestra. Lo spettacolo […] non si sviluppa, né si snoda,
ma cresce, si gonfia in questo va-e-vieni dalla musica al canto di Bene, ma non
c’è dualismo: è piuttosto un far l’amore tra due strumenti che non sono fatti –
come si dice – l’uno per l’altro, ma che provando, riescono.”
.
[16] Cfr. Sandro Lombardi, “Una
voce per Babilonia”, in: il Patalogo
2, p. 134.
[17] Cfr. Sylvano Bussotti,
“Riflessione amara”, in: il Patalogo
2, p. 136: “Gli strumenti dal vivo si impongono […]. Con tradizionale, perfino
un tantinello scolastica gerarchia. Al sovrano soliloquio dell’attrice
corrisponde l’imperio dei flauti. Così come individuavo nella voce della
Bartolomei un generarsi carnale dell’azione scenica, nei flauti di Fabbriciani
ne cadrà fatalmente un riflesso geometrico, dove mio compito era individuare,
sulla persona stessa, il suo soffio vitale, dell’interprete, la curva fisica –
si dice in genere curva melodica – della voce non più astratta ma, di più,
coatta.”
[18] Questo filone tematico sarà
ripreso numerose volte nelle edizioni successive del Patalogo.
[19] Cfr. Rita Cirio, “G&G:
più di trent’anni di bel governo?”, in: il
Patalogo 2, pp. 143 – 150.
[20] Cfr. il Patalogo 2, p. 143. I due spettacoli hanno ricevuto anche un
voto per ciascuno nel Referendum Ubu, alla voce “Miglior spettacolo con
musiche”: per La commedia di Gaetanaccio
si è pronunciato Gian Antonio Cibotto, per Rugantino
Renzo Tian.
[21] In realtà Sandro Giovannini
è scomparso nel 1977, ma il nome della Compagnia non è mai stato modificato.
[22] Cfr. Rita Cirio, cit., p. 144.
[23] “Tutta-casa-figli-sesso
(solo per il marito) – ambiziosa (non per sé, ma per la carriera del marito).”
(Cfr. Rita Cirio, cit., p. 147).
[24] Che viene descritta come
“Quella tutta pranzettini, litigini, regalini, preoccupazioncine, gioiettine,
delle vignette umoristiche pubblicate sui settimanali femminili o di
Carosello.” (Cfr. Rita Cirio, cit.,
p. 147). .
[25] “G & G interpretano
l’atavica diffidenza del benpensante italiano nei confronti della politica.
Meglio essere neutrali, astenersi […]; meglio badare al piccolo interesse
personale…” (Cfr. Rita Cirio, cit.,
p. 147).
[26] Cfr. Rita Cirio, cit., p. 148: “Inquietudine ricorrente
nelle storie raccontate da Garinei e Giovannini, è un ‘qualcosa’ che tende a
turbare l’ordine e l’equilibrio costituito, e questo vale tanto per il
microcosmo della coppia che per la politica internazionale dei blocchi. Virtù
borghese è saper superare senza danni questo elemento perturbatore, facendo in
modo che tutto resti come prima.”
[27] Cfr. Rita Cirio, cit., p. 147.
[28] Cfr. Alberto Arbasino, “Il
musical dei Settanta secondo Arbasino”, in: il
Patalogo 2, p. 151.
[29] Cfr. Alberto Arbasino, cit., pp. 153 – 170. Come gustose
appendici della sezione dedicata al teatro musicale compaiono due articoli. Il
primo, di Giovanni Buttafava, racconta un (goffo) tentativo della Russia
Sovietica di piegare il musical di stampo americano a tematiche nazionaliste
(cfr. “L’opera rock sovietica”, p. 172); il secondo, di Colette Godard,
descrive il ritorno sulle scene occidentali dell’Opera di Pechino, depurata
delle sovrastrutture maoiste, e analizzata soprattutto nei suoi risvolti
musicali (cfr. “L’Opera di Pechino come musical”, p. 173).
[30] Cfr. Oliviero Ponte di Pino
e Gianfranco Capitta, “Il poeta in scena”, il
Patalogo 2, pp. 109 – 114.
[31] Cfr. Oliviero Ponte di Pino
e Gianfranco Capitta,, cit., p. 109.
[32] Cfr. Oliviero Ponte di Pino
e Gianfranco Capitta, pp. 109 – 110: “Si può partire dal Gruppo ’63, ultima
avanguardia prima dell’era glaciale. I suoi poeti, troppo “ideologici”,
“schematici”, finiscono per dividersi, ma non troppo, tra cattedra, scrivania e
un po’ di barricata. […] Poi il ’68, che come tutti sanno dura fino al ’73, o
forse fino al ’75. E’ l’epoca della clandestinità, non del silenzio, il fuoco
cova sotto la cenere. Intanto la poesia, che voleva essere anche politica, crolla
sotto il peso dei suoi errori: sono ammesse solo brevi composizioni, un paio di
versi, una decina di sillabe, rima obbligatoria, assonanze gradite. La
struttura formale è povera, ma quello che importa è il contenuto. […]. Intanto,
nel 1975, esce […] Il pubblico della
poesia, un’antologia di “nuovi” poeti della generazione dei trentenni. […]
Escono da quella antologia tutti i poeti che nella primavera del ’77 danno vita
alla lunga serie di spettacoli al Beat 72 di Roma, raggruppati sotto il titolo
di Nascita del teatro. Ogni sabato
sera un poeta diverso per sedici settimane.”
[33] Ibidem, p. 110.
[34] “Organizzate in eroica
economia, in genere lontano dai centri più tradizionalmente attivi della vita
culturale. […], per lo più letture […], orario pomeridiano per favorire
l’afflusso di giovani, discussioni-dibattiti con i poeti, magari davanti a un
bicchiere di vino.” (Cfr. Oliviero Ponte di Pino e Gianfranco Capitta, cit., p. 112).
[35] “Cantina d’avanguardia,
tema adatto a suscitare l’interesse della stampa, testi commissionati o
adattati da grandi poeti […] affidati a un gruppo di attori professionisti che
sceneggiano o leggono pamphlets in favore delle più disparate perversioni,
praticate o vagheggiate dagli autori dei testi, nostalgia per il teatro di
parola, discreto successo.” (Cfr. Oliviero Ponte di Pino e Gianfranco Capitta, cit., p. 112).
[36] “Il genere più costoso, ma
anche quello che fa più notizia. Rispetto a altri prodotti la poesia ha
vantaggi innegabili: non troppo compromessa col buisness, sufficientemente
apolitica, offre nomi di richiamo, gli artisti si accontentano spesso del
rimborso spese.” (Cfr. Oliviero Ponte di Pino e Gianfranco Capitta, cit., p. 112).
[37] Cfr. Oliviero Ponte di Pino
e Gianfranco Capitta, cit., p. 113.
[38] Ecco un brano
dell’intervento di Spatola: “La differenza più interessante tra la poesia
sonora e quella lineare è che nella poesia sonora esiste una struttura, in
quella lineare, invece, persiste un testo. E il testo è sempre più chiuso di
una struttura modificabile, libera ecc. […] Ci sono poemi sonori che senza il
medium elettronico non esistono. […] Naturalmente certi poemi dipendono dal
mezzo, per esempio certi poemi sonori, ma è meglio chiamarli fonetici, nei
quali c’è la sovrapposizione di varie piste registrate. Ma è diverso, perché
col medium elettronico si rischia di fare esclusivamente poemi di laboratorio.
Io invece amo il poema grezzo, il rapporto col pubblico, il poema spettacolo,
anzi, il poema show.” Cfr. “La poesia sonora di Julien Blaine e Adriano
Spatola, in: il Patalogo 2, p. 116.
[39] Cfr. “La giovane poesia
secondo Cesare Viviani”, in: il Patalogo
2, p. 117.
[40] Ecco un brano del suo
commento all’esperienza di Castelporziano: “Da un punto di vista per così dire
intrinseco, il discorso si fa più difficile: non ogni tipo di poesia si presta
a una spettacolarizzazione di questo genere. Infatti sono sempre gli stessi
poeti e lo stesso tipo di poesia a reggere, non perché siano meglio di altri,
ma perché hanno certe caratteristiche, anche di oralità e spettacolarità,
implicite. […] In realtà non erano esattamente letture, erano spettacoli di
vario tipo il cui pretesto era la poesia. Era più una messinscena del poeta, o
addirittura di un controstampo del fare poesia. Lo ritengo legittimo e mi
sembra piuttosto interessante, anche se alla prova dei fatti abbastanza
discutibile.” (Cfr. Giovanni Raboni, “Sull’offerta-domanda di poesia”, in: il Patalogo 2, p. 118).
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