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VIII. Ricorrenze e ritorni:
un approccio intertestuale
La precedente analisi ha
preso in considerazione alcuni singoli numeri del Patalogo, che segnano l'evoluzione dell'Annuario nel corso degli
anni e nei quali - soprattutto - si è ravvisata una più spiccata tendenza alla
raccolta dei materiali attorno a nuclei, zone, aree tematiche al fine di
fornire un "racconto" della stagione teatrale basato su criteri che abbiamo
definito drammaturgici. Si è ravvisata nell'analisi una grande varietà di
elementi, dallo spazio all'attore, dal contesto socio-istituzionale alle nuove
forme di scrittura, dalla riflessione sugli ambiti peculiari dell'intervento
teatrale al confronto fra i metodi del lavoro di regia...
L'analisi si è svolta
considerando ciascuna edizione dell'Annuario come opera individuale e
conchiusa, con l'obiettivo di fornire un'immagine della pluralità degli
approcci al mondo della scena attuati dagli autori nei diversi volumi e un
saggio delle tendenze emergenti nell'arco di un ventennio di teatro. Ma questa
visione "sincronica", che privilegia le connessioni interne e si concentra sul
singolo Patalogo non deve trarre in
inganno. Ciascuno dei temi affrontati qui analiticamente non è esclusivo e
peculiare di quel numero. Al contrario le diverse aree tematiche selezionate
all'interno di ciascun Patalogo preso
in esame si ritrovano, "ritornano" molto spesso a occupare le pagine degli
altri numeri dell'Annuario. Attraverso questi "ritorni" si sviluppa una sorta
di collegamento tra le diverse annate, in cui gli stessi argomenti vengono
aggiornati e integrati sulla base delle evoluzioni della scena italiana e
internazionale. Il collegamento tematico si articola in una struttura "a vasi
comunicanti", in cui il Patalogo,
nelle sue progressive edizioni, funziona come un romanzo a puntate. E il
paragone con le produzioni seriali - per quanto evidentemente azzardato - può
forse servire a inquadrare ancora una volta l'Annuario nella sua dimensione
peculiare, cioè quella narrativa. Il racconto della stagione, o più precisamente
la sua "drammaturgia", viene così a porsi lungo un asse cronologico che collega
tra loro i diversi "snodi", in un gioco di rimando continuo che restituisce un
commento testimoniale al teatro di un intero ventennio.
Si scelgono in
questa fase di confronto "intertestuale" alcune zone messe in evidenza dalla
presente analisi per evidenziare la costanza del loro "ritornare", cioè del
loro essere al centro delle riflessioni che formano il corpus dei ventidue numeri dell'Annuario.
Un primo
elemento ricorrente riguarda senza dubbio la figura e il lavoro del regista. In
questo caso più che di ritorni o anticipazioni è opportuno parlare di un blocco
ben definito di annate, cioè tutto il periodo che va dalla fine degli anni '70
alla fine degli '80. I primi dieci numeri del Patalogo mettono in evidenza soprattutto la politica del regista.
In questo senso la riflessione sul lavoro di regia oltrepassa gli steccati
delle sezioni, e più che uno snodo specificamente riferibile ad un preciso
volume si può parlare di un'area vasta e generalizzata di interesse per questa
specifica figura - è il periodo del grande teatro di regia - che pervade molti
degli interventi e dei contributi raccolti. Anche quando infatti viene studiato
un altro settore del mondo teatrale, il riferimento al lavoro di regia è sempre
presente, come può testimoniare, per fare solo un esempio, la lunga intervista
a Gae Aulenti a proposito del Laboratorio di Prato, inserita nel Patalogo 1: è evidente e messa in
risalto la corrispondenza tra il lavoro dell'architetto/scenografa e le scelte
registiche di Luca Ronconi. Il regista dunque viene un po' considerato il
principio ordinatore dell'intero spettacolo. Questa tendenza a privilegiare il
discorso sulla regia è diffusa in tutti i numeri del Patalogo di quel decennio, comprese quelle che forniscono
semplicemente i dati, come il "Repertorio di un anno", dove i principali
inserti si riferiscono in maggioranza a quelli spettacoli in cui più forte è
l'impatto registico. Con ciò non si vuole affermare che altri aspetti della
vita teatrale siano assenti o trascurati, ma semplicemente registrare una
prospettiva che appare dominante. Del resto questo interesse non è scomparso
nemmeno in seguito, come è dimostrato, per fare solo un altro esempio,
dall'analisi del lavoro di tre grandi registi come Lepage, Stein e Wilson, che
occupa una parte del Patalogo 15[1].
Centrale nel corpus dei Pataloghi è la riflessione sul lavoro dell'attore, che si ritrova
in moltissimi luoghi anche non specificamente ad essa dedicati, all'interno
delle moltissime recensioni raccolte, nelle dichiarazioni di autori e registi,
nei contributi teorici e critici. Ma numerose sono le sezioni che all'attore si
riferiscono direttamente. Il Patalogo
1 analizza il ritorno del "teatro d'attore" che, in rivalità con il "teatro di
regia", concentra tutta l'attenzione sulla figura del grande capocomico, su
misura del quale è confezionato il testo. Si tratta di un fenomeno che
coinvolge prevalentemente personaggi maschili: sono infatti citati Vittorio Gassman,
Luigi Proietti, Carmelo Bene, Carlo Cecchi. Nel Patalogo 2, trasponendo al femminile il titolo di un famoso libro
di Jean Cocteau, Mes Monstres sacrés,
si hanno "Le mostre sacre": Elena De Angeli riprende il discorso sull'attore
attraverso un excursus sulle caratteristiche della "Grandattrice", riunendo
nomi del calibro di Sarah Ferrati, Lilla Brignone, Paola Borboni, Pupella
Maggio.[2] Le loro "confessioni" - il
racconto della loro vita sulle scene - seguono il saggio.[3] "Al femminile" è un'altra
sezione dedicata, nello stesso numero, al lavoro di alcune giovani attrici: in
un discorso complessivo vengono raccolte le esperienze di Vita Accardi,
Rossella Or, Terra Di Benedetto, Lucia Vasilicò e del "Gruppo Maddalena",
formato esclusivamente da donne.[4] Sempre nel Patalogo 2, Gianfranco Capitta riprende
il tema dell'attore "solista", affrontato nel primo volume da Elena De Angeli,
attraverso l'analisi degli one-man-show di scena in quella stagione al Beat 72
di Roma.[5] Lo "one-woman-show", per
così dire, è trattato nel Patalogo 8,
che raccoglie la testimonianza di cinque giovani attrici ciascuna protagonista
assoluta negli incontri che si susseguono al Teatro delle Arti di Roma: Marion
D'Amburgo, Rosa di Lucia, Manuela Kustermann, Margaret Mazzantini e Marinella
Manicardi.[6] Un'altra celebre attrice,
Jeanne Moreau, è protagonista di una lunga intervista nel Patalogo 10. A David Warrilow è dedicato lo spazio riservato
all'attore nel volume successivo[7], in cui il mondo del teatro
è affrontato da tutte le prospettive.
Il problema della formazione dell'attore è
centrale, all'interno del Patalogo
14, nelle riflessioni di Franco Quadri a proposito della neonata Ecole des
Maîtres.[8]
Un'attualizzazione
del tema del "teatro d'attore" è compiuta da Oliviero Ponte di Pino nel Patalogo 15. Nel suo lungo saggio è
indagato il boom dei nuovi comici,
che riscuotono successo dovunque con i loro recital solistici. Prima di
affrontare ciascun singolo protagonista si analizzano le cause di questo
successo: ancora una volta appare determinante il mezzo televisivo, come
selettore delle preferenze del pubblico, e si considerano le caratteristiche
della nuova comicità italiana, mettendone in evidenza il "radicamento
regionale". Tra i comici trattati diffusamente ci sono Roberto Benigni, Paolo
Rossi, Alessandro Bergonzoni, Lella Costa, Sabina Guzzanti, Davide Riondino e
Beppe Grillo.[9] Ed è sempre grazie ad
Oliviero Ponte di Pino che la figura dell'attore viene analizzata nelle sue
evoluzioni, di pari passo con l'affermarsi delle nuove tecnologie e dei nuovi
modi di comunicare: nel Patalogo 18,
con il saggio intitolato "L'attore nell'epoca della sua riproducibilità
tecnica", la natura stessa del lavoro dell'attore viene colta nel suo
mutamento:
La sensazione
è che oggi, qualunque cosa sia un attore, la sua stessa essenza stia cambiando.
L'attacco viene [...] da due versanti: da un lato la realizzabilità di una
Supermarionetta elettronica; dall'altro la trasformazione del rapporto con il
pubblico, un rapporto che le nuove tecnologie della comunicazione hanno
profondamente mutato.[10]
Seguono le
"conversazioni" con alcuni interpreti che costituiscono degli esempi di
quest'evoluzione della recitazione. Il territorio del corpo e il rapporto tra
l'attore teatrale e il mondo della body art è messo in risalto da Sandro
Lombardi;[11] Romeo Castellucci racconta
la sua esplorazione dei confini e dei limiti dell'essenza dell'attore;[12] la voce come elemento
fondamentale della propria presenza scenica è l'argomento trattato da Moni
Ovadia, che si definisce un "folksinger che fa teatro";[13] il teatro-narrazione e il
teatro-autobiografia sono sviscerati rispettivamente da Marco Baliani[14] e Marco Paolini[15].
Il lavoro
dell'attore, nei suoi condizionamenti paralleli al mutare delle scene, occupa
infine un grande spazio all'interno del saggio-cornice del Patalogo 19, dove Cristina Ventrucci e Paolo Ruffini analizzano e
descrivono l'ondata di nuovi gruppi teatrali.[16].
Un'altra
figura acquista sempre più peso nel susseguirsi delle varie edizioni, quella
dell'autore teatrale, del drammaturgo. Già nel Patalogo 5/6 essa assume un certo rilievo, con un'intervista ad un
"simbolo" della drammaturgia contemporanea come Heiner Müller ad introdurre
quello che si è definito l'"alfabeto della stagione".
Nel Patalogo 8, che si riferisce alla
stagione 1984/1985, il tema della scrittura viene ripreso non più in termini
individuali, ma sulla base di un nuovo interesse generalizzato del teatro
internazionale per la parola scritta. Nell'introduzione alla sezione, a cura di
Oliviero Ponte di Pino e intitolata "G/Il Ginnasio del drammaturgo", questa
tendenza è chiaramente messa in evidenza:
Dopo due
decenni all'insegna del corpo e dello sguardo, durante i quali autore dello
spettacolo era soprattutto il regista (o il collettivo), riemerge in queste
stagioni la funzione trainante della parola. [...] E' significativo [...]
l'emergere nei contesti più diversi di nuove figure di drammaturghi. [...] Altro
segnale: l'attenzione dei gruppi di ricerca alla parola e alla pratica della
scrittura. [...] Non mancano, tra le molte novità, alcune curiose "riscoperte" di
autori e opere certamente non nuovi in assoluto, ma poco frequentati in Italia.
[...] A sostenere e diffondere questo tipo di testi è, nella quasi totalità dei
casi, una ben precisa generazione, che per comodità di può definire di
trentenni, impegnata sia sul versante registico [...] che su quello
interpretativo. Una nuova generazione che proprio in questo tipo di scrittura e
nelle sue problematiche sta trovando uno specchio, e insieme il terreno di una
formazione che non punta solo sulla distanza dei classici o sull'immediata
espressione di sé e delle proprie inquietudini, ma preferisce piuttosto
cercarsi nelle pieghe della drammaturgia del suo tempo.[17]
Ma è soprattutto dalla fine degli anni '80
che il drammaturgo e più in generale la scrittura drammatica trova sempre
maggiore spazio nelle diverse sezioni dei vari volumi del Patalogo. Il numero 11, che fotografa secondo tutte le angolazioni
la stagione 1987/1988, mette in primo piano il punto di vista dell'autore. A
parlare di scrittura in relazione al mondo della scena è ancora Heiner Müller.[18] Segue una lunga
conversazione con Enzo Moscato, in cui l'autore fissa gli elementi
caratteristici della sua drammaturgia.[19]. Dopo questi due interventi
una raccolta di recensioni e dichiarazioni sottolinea il nuovo emergere del
dialetto come lingua viva e vitale.[20]
Il tema della
drammaturgia come nuova frontiera della ricerca teatrale, come si è visto,
occupa alcune delle riflessioni sullo stato della sperimentazione raccolte nel Patalogo 15.[21] Ma è dal numero 17 che
l'argomento viene trattato quasi senza soluzione di continuità nei successivi
volumi dell'Annuario. In questo numero il problema della lingua e quello
parallelo della scrittura sono trattati in modo analitico: la sezione
intitolata "L'Italia delle drammaturgie" lo affronta da molteplici punti di
vista: Renata Molinari indaga il frastagliato universo delle lingue teatrali
che attraversano l'Italia,[22] Elena De Angeli si occupa
dello stile di Antonio Tarantino, autore emergente del panorama italiano,[23] Enzo Moscato racconta la
gestazione del suo Embargos.[24] Anche l'anno successivo gli
autori - questa volta i già noti e consacrati - sono al centro di una sezione,
definita "Gli ultimi". Nell'introduzione si legge:
Mentre la
nuova drammaturgia non smette di dimostrare la sua vitalità [...] continuano a
offrirci i loro contributi, e magari anche a stupirci, anche i maggiori autori
di questo scorcio d'epoca. La stagione 1994/1995 è stata illuminata da un ricco
campionario di "opere (provvisoriamente) ultime" di grandi scrittori viventi,
da Pinter a Miller, da Albee a Handke, e di riscoperte postume di maestri da
poco scomparsi, quali Genet e Copi.[25]
Nel Patalogo del ventennale, come si è
accennato, la drammaturgia occupa un posto di primo piano nello sviscerare la
tendenza verso un teatro sempre più connotato dalla violenza e dal sangue.
Infine il numero successivo, il 21, dedica una delle sue sezioni alfabetiche ad
un autore giovane come l'irlandese Martin McDonagh.[26]
L'attenzione al teatro internazionale è un'altra costante del Patalogo. Il confronto tra Italia ed
estero si ritrova sin dal primo numero. Qui anche i festival teatrali non sono
suddivisi tra nazionali e non, come poi sempre in seguito: viene fornita la
panoramica delle maggiori manifestazioni in tutto il mondo, da Satarcangelo di
Romagna ad Avignone, da Spoleto a Belgrado. Le produzioni estere di maggior
interesse hanno poi una sezione loro dedicata, che mese per mese indaga gli
avvenimenti internazionali della stagione 1977/'78.[27] Nello stesso Patalogo 1 alcuni eventi stranieri sono
analizzati capillarmente da Franco Quadri nel suo saggio sul ritorno al
"realismo",[28] e confluiscono nell'ampia
riflessione sullo spazio teatrale.[29] Ma il riferimento al teatro
straniero ricorre in quasi tutti i volumi del Patalogo, attraverso l'analisi del lavoro di alcuni maestri e
grazie alla riflessione su alcuni spettacoli-evento. Si citano alcuni esempi.
Nel secondo numero, all'interno della riflessione sulla predominanza
dell'elemento sonoro - come si è detto - acquista un'importanza paradigmatica
il lavoro di Robert Wilson: in questa stessa sezione sono menzionati Richard
Foreman, il Living Theatre, l'Odin Teatret, Klaus Michael Grüber, Meredith
Monk. Grande spazio è dedicato, nel Patalogo
3, agli stranieri di passaggio in Italia, come ancora Robert Wilson, Richard
Foreman, Meredith Monk e lo Squat Theatre, ma anche Taduesz Kantor e Gilles
Aillaud.[30] Il Faust di Goethe per la regia di Klaus Michael Grüber e
l'interpretazione di Bernhard Minetti è diffusamente raccontato nel Patalogo 5/6,[31] Nello stesso numero due
sezioni dell'"alfabeto" sono dedicate rispettivamente al lavoro di Peter Stein
e Patrice Chéreau su Genet e a The CIVIL
warS di Robert Wilson.[32] Il Patalogo 7 si occupa di tre celebri messinscene di opere di
Anton Cechov: Il giardino dei ciliegi
diretto da Manfred Karge e Matthias Langhoff, Tre sorelle secondo Peter Stein e Sulla strada maestra per la regia di Klaus Michael Grüber.
Un'intera sezione dedicata agli stranieri in Italia ritorna nel Patalogo 9.[33] Peter Sellars, astro
nascente della regia internazionale, compare con una lunga intervista nel Patalogo 10.[34] E si potrebbe continuare
per tutti gli altri numeri dell'Annuario.
Lo sguardo eclettico sul teatro straniero è uno degli elementi che
caratterizzano il Patalogo nel suo
tentativo di uscire dal particolarismo provinciale della situazione italiana.
Il confronto continuo mette in evidenza le tendenze emergenti, allargando il
panorama oltre i confini nazionali. In questo modo è possibile rinvenire
parallelismi, corrispondenze, analogie nella diversità, come si è cercato di
dimostrare anche in questa sede a proposito della massiccia presenza di
elementi violenti nel teatro anglosassone come in quello italiano, analizzata
nel Patalogo 20.[35] Ci si limita qui a citare
gli episodi in cui il teatro straniero diviene uno degli assi centrali in cui
si distribuiscono gli interventi. E' il caso del Patalogo 12, in cui un lunghissimo speciale è dedicato al teatro
dell'Unione sovietica in un momento storico di grande fermento. Il discorso
teatrale va di pari passo con un'analisi del nuovo corso introdotto da
Gorbaciov, grazie a cui autori e testi banditi dalle scene vengono nuovamente
rappresentati. Il teatro sovietico viene sviscerato attraverso una riflessione
sul lavoro dei maggiori registi, come Lev Dodin, Anatolij Vasil'ev, Jurij
Ljubimov, Eimuntas Nekrosius. Anche il
Patalogo 17 dedica una lunga sezione al teatro russo, visto questa volta
nella cornice europea di Parigi.[36] Soprattutto attraverso
l'analisi del lavoro di Lev Dodin, definito "il regista dell'anno",[37] viene indagato l'universo
teatrale russo in una cornice anomala come quella parigina, e quindi
"decontestualizzato". Sempre all'interno del Patalogo 17 un altro evento dall'estero è ampiamente commentato: si
tratta del grande successo internazionale di Angels in America, la scabrosa pièce dell'americano Tony Kushner
che ha oltrepassato l'Oceano per divenire lo spettacolo dell'anno anche in
Germania.[38] Infine va menzionata la
grande attenzione che il Patalogo 21
rivolge ad alcuni registi stranieri. Nell'"alfabeto" della stagione trovano
spazio l'analisi del lavoro di Thomas Ostermeier alla Baracke di Berlino,[39] di Eimuntas Nekrosius per
la sua versione di Amleto, e di
Christoph Marthaler, di cui è Franco Quadri ricostruisce il percorso artistico[40].
Il tema dello
spazio teatrale, in primo piano nel Patalogo
1, ha numerose ricorrenze nei
successivi. Già il Patalogo 4 tocca
di taglio l'argomento, proponendo una serie di spettacoli itineranti, fuori e
dentro il contesto urbano.[41] Il tema ritorna in primo
piano con il Patalogo 9, aprendo la
distribuzione alfabetica delle sezioni. Gianni Manzella, nel suo saggio sulle
"architetture teatrali", esplora i nuovi progetti di costruzione e restauro di
molti edifici teatrali italiani,[42] nel clima di fermento
propositivo che ha caratterizzato i primi anni '80, in cui si assiste a un
ritorno ai luoghi istituzionali, e di conseguenza fervono le proposte di
recupero e di innovazione. Nell'anno successivo lo stesso Manzella riprende il
discorso interrotto e lo aggiorna mettendo in risalto i molti progetti lasciati
a metà tra lungaggini burocratiche e mancanze di fondi.[43] In pieni anni '90 il
problema del luogo preposto al teatro è affrontato ampiamente da Renata
Molinari, che svolge nel suo lungo saggio un excursus analitico
sull'utilizzazione dello spazio da parte dei nuovi gruppi teatrali. Le diverse
realtà regionali in cui tali gruppi si collocano sono esaminate in relazione al
diverso uso dei luoghi.[44] Ancora Manzella, a più di
dieci anni di distanza, attualizza nel Patalogo
21 la situazione dell'architettura teatrale alla fine del millennio, quando
molte delle opere intraprese dieci anni prima sono finalmente realizzate.[45]
Un'altra
tematica che ha trasversalmente attraversato tutta la storia del Patalogo è il rapporto che corre tra il
teatro - inteso come comunità di artisti - da una parte, e le istituzioni, in
particolare lo Stato, e più in generale la società dall'altra. Questo rapporto,
spesso travagliato, viene costantemente analizzato nel corso delle varie
stagioni. Nomine, finanziamenti, censura, ma anche rapporto con il pubblico,
diffusione delle notizie da parte degli organi di informazione sono tutti
elementi che il Patalogo ha messo in
evidenza con continuità e rigore, pur abbandonandosi alcune volte a una certa
dose di ironia.[46] Al di là di tutte le
singole occorrenze, si può qui prendere in considerazione, come paradigma della
centralità di questo tema, il Patalogo
9, particolarmente attento a individuare il contesto in cui si trova ad operare
il teatro italiano. La stagione 1985/1986 viene raccontata secondo molteplici
punti di vista, ma preminente è la prospettiva che privilegia il panorama
sociale, politico e culturale in cui l'attività teatrale si iscrive.
Nell'"alfabeto della stagione" alla lettera C si trova infatti pubblicata la
Circolare ministeriale che regola l'attività di prosa in Italia. Il motivo -
polemico - della pubblicazione è spiegato nell'introduzione che precede il
testo:
Nel Patalogo 7 Ugo Volli, presentando il
progetto di legge per il teatro firmato dall'allora Ministro del Turismo e
dello Spettacolo Lelio Lagorio, scriveva che la sua approvazione avrebbe
incontrato notevoli difficoltà. "Un'operazione molto difficile da realizzare,
almeno in via legislativa", commentava Volli. Per aggiungere: "C'è, però,
un'altra strada: quella dei compromessi fra le componenti teatrali,
naturalmente sulla base dei rapporti politici e economici delle forze, senza un
dibattito pubblico, senza responsabilità esplicita delle scelte. E' la via
della circolare ministeriale, quella che da anni sostiene e organizza un
'teatro' di regime".[47]
A due anni da
questo intervento, come era prevedibile, la legge ancora non esiste, e il Patalogo sceglie di pubblicare il
testo della circolare, per tenere viva la discussione sul tema. Ma sul rapporto
tra teatro e istituzione sono fondate anche altre due sezioni dell'alfabeto. La
prima analizza il difficilissimo insediamento di Ugo Gregoretti alla direzione
artistica del Teatro Stabile di Torino, contestato dal pubblico e dalla
politica locale[48]. La seconda indaga un'altra
sfera di influenza dello Stato: la censura. Sotto il titolo di "Vietato" sono
raccolti alcuni spettacoli nel migliore dei casi dichiarati inadatti ai minorenni,
nel peggiore impediti dall'andare in scena, come il clamoroso episodio di L'immondizia, la città e la morte di
Rainer Werner Fassbinder,[49] la cui rappresentazione in
Germania fu bloccata per più di dieci volte.[50] Anche i mass-media, e la
loro lettura dei fenomeni teatrali, vengono nello stesso volume affrontati
attraverso un esempio esemplare: la montatura del "caso Magazzini Criminali",
colpevoli secondo gran parte della stampa italiana di aver macellato un cavallo
in scena durante la rappresentazione del loro Genet a Tangeri al festival di Santarcangelo. Ferdinando Taviani
ricostruisce minuziosamente come l'episodio si gonfi fino a divenire una
"notizia" scostandosi sempre di più dall'avvenimento reale e prestando il
fianco a molte mistificazioni.[51]
Il Patalogo 9 dedica poi una buona parte del suo spazio a molti
fenomeni contigui al teatro: la tendenza alla spettacolarizzazione del reale
viene analizzata da una parte attraverso un esame degli elementi teatrali
sempre più presenti nelle sfilate di moda, che si servono di nomi noti del
mondo della scena per curare gli allestimenti, e dall'altra mettendo in
evidenza i prestiti chiesti al teatro - in termini di volti, di parole, di
immagini - da parte del mondo pubblicitario[52].
Il discorso
sul ciclico ritorno dei nuclei di riflessione cui si rivolge il Patalogo non può che concludersi con
un riferimento alle tendenze, come indicatori delle direzioni scelte di volta
in volta dal mondo teatrale. Trattandosi di un elemento connaturato,
sostanziale dell'Annuario, risulta difficile darne conto nella sua interezza
senza incorrere nel pericolo di essere frammentari e imprecisi. Le tendenze che
hanno contraddistinto l'evoluzione del teatro italiano e internazionale nel
corso degli anni si ritrovano continuamente sottolineate nei volumi del Patalogo. Si tratti della contaminazione
tra teatro e tecnologie, dell'interesse dimostrato in un dato periodo per la
parola e il testo scritto, della ricerca di un teatro che si appoggi alla forza
suggestiva della poesia, del tentativo di far prevalere un aspetto su un altro
- la recitazione sulla regia, il lavoro collettivo sull'individuale,
l'innovazione sulla tradizione, il gesto sul linguaggio, il suono sull'immagine
-, o ancora dell'esplorazione di nuove possibilità del teatro, del recupero di
tecniche antiche o di nuove direzioni della sperimentazione, il Patalogo, nell'arco dei suoi
vent'anni di storia, come un sensibile sismografo ha registrato l'insorgere e
il declino di queste tendenze, le ha contestualizzate, interrelate e sviscerate
analiticamente.
La fitta rete
di corrispondenze, rimandi, ritorni, anticipazioni che il Patalogo produce nel suo corpus
non possono ovviamente essere citati e considerati per esteso. Moltissimi
dunque sono i filoni di riflessione necessariamente esclusi da questo capitolo
conclusivo. Gli esempi riportati possono fornire comunque un saggio della forte
"intertestualità" che caratterizza questo strumento-racconto in evoluzione
continua e parallela al mutare delle scene.
[1] E di cui ci si è occupati
anche qui: cfr. parte seconda, capitolo V, paragrafo V.2.
[2] Cfr. Elena De Angeli, "Le
mostre sacre", in: il Patalogo 2, pp.
57 - 62.
[3] Cfr. "Confessioni delle
signore del palcoscenico", in: il
Patalogo 2, pp. 63 - 65.
[4] Cfr. Monica Gazzo, "L'anno
della donna", in: il Patalogo 2, pp.
72 - 73.
[5] Gianfranco Capitta, "... e
gli uomini soli", in: il Patalogo 2,
pp. 73 - 74. Sullo one man show cfr. anche il
Patalogo 3, "O/One-man-show" (pp. 156 - 159), dove è descritto il lavoro di
Ingrid Caven, Laurie Anderson, Bob Carroll, Farid Chopel, Norma Jean Deak,
Stuart Sherman, Norman Taffel, Winston Tong.
[6] Cfr. Giuseppe Bartolucci,
"S/Star. Dive, divine, divette", in: il
Patalogo 8, p. 163.
[7] Cfr. "Un attore: David
Warrilow. Il rigore e l'emozione", una conversazione con David Warrilow a cura
di Alain Girault, in: il Patalogo 11,
pp. 200 - 206.
[8] Cfr. Franco Quadri, "L'Ecole des Maîtres. Un bilancio", in: il Patalogo 14, pp. 303 - 305. Una riflessione sulla pedagogia
dell'attore è sviluppata già nel Patalogo
3, dove Roberto Agostini traccia una mappa delle nuove scuole e dei nuovi corsi
di teatro (cfr. Roberto Agostini, "P/Professionalità", p. 160).
[9] Cfr. Oliviero Ponte di
Pino, "Non ci resta che ridere. L'onda lunga dei comici avanza", in: il Patalogo 15, pp. 283 - 291.
[10] Cfr. Oliviero Ponte di
Pino, "L'attore nell'epoca della sua riproducibilità tecnica", in: il Patalogo 18, pp. 147 - 163.
[11] Ibidem, pp. 151 - 152.
[12] Ibidem, pp. 153 - 154.
[13] Ibidem, pp. 155 - 157.
[14] Ibidem, pp. 158 - 160.
[15] Ibidem, pp. 160 - 163.
[16] Cfr. Cristina Ventrucci e
Paolo Ruffini, "I gruppi 90. Mappa degli ultimi teatri", in: il Patalogo 19, pp. 200 - 230.
[17] Cfr. "G/Il Ginnasio del
drammaturgo", in: il Patalogo 8, p.
124.
[18] Cfr. "Un autore: Heiner Müller. L'innocenza della scrittura", in: il
Patalogo 11, p. 162.
[19] Cfr. "Un autore: Enzo
Moscato. I topi di Napoli", in: il
Patalogo 11, p. 170.
[20] Cfr. "La questione della
lingua. La reinvenzione del dialetto", in: il
Patalogo 11, p. 176.
[21] Cfr. parte seconda,
capitolo V, paragrafo V.1.
[22] Cfr. Renata Molinari, "Le
lingue del teatro", in: il Patalogo
17, p. 141.
[23] Cfr. "Il vangelo sul
marciapiede: un ritorno alle origini tramite il degrado metropolitano. Il caso
Tarantino secondo Elena De Angeli", in: il
Patalogo 17, p. 179.
[24] Cfr. Enzo Moscato "Embargos. Note per una soggettiva,
sbrindellata, metafisica del canto", in: il
Patalogo 17, p. 179.
[25] Cfr. "Gli ultimi", in: il Patalogo 18, p. 189.
[26] Cfr. I/Irlanda. Con Martin
McDonagh, autore dell'anno, rinasce un teatro", in: il Patalogo 21, p. 201.
[27] Cfr. "Gli avvenimenti
internazionali", in: il Patalogo 1,
pp. 229 - 236.
[28] Cfr. Franco Quadri,
"Naturale, nuovo naturale, iperrealista, reale...", in: il Patalogo 1, pp. 295 - 316.
[29] E' il caso, come si è
visto, di Winterreise di Klaus
Michael Grüber e di Pig, Child, Fire!
dello Squat Theatre (Cfr. il presente lavoro, parte seconda, capitolo primo,
paragrafo I.1.1.).
[30] Cfr. il Patalogo 3: Roberto Agostini, "Lo straniero che passa", pp. 87 - 88; Fabio Mauri, "Nel labirinto di
Foreman", pp. 89 - 90; Brunella Eruli, "La ferita di Kantor", pp. 90 - 91.
[31] Cfr. "F/Faust '82", in: il Patalogo 5/6, pp. 142 - 144.
[32] Cfr. "G/Genet", in: il Patalogo 5/6, pp. 144 - 154 e
"O/Olympic Games", pp. 164 - 165.
[33] Cfr. "Gli stranieri in
Italia", in: il Patalogo 9, pp. 126 -
135.
[34] Cfr. "L'enfant prodige
della regia made in Usa", un'intervista a Peter Sellars a cura di Michael
Merschmeier, in: il Patalogo 10, pp.
172 - 177.
[35] Cfr. parte seconda,
capitolo VII. Il tema, centrale nel Patalogo
20, è introdotto qualche anno prima, nel numero riferito alla stagione
1992/1993, in cui si ritrova una sezione intitolata "Crudeltà 90" (cfr. il Patalogo 16, pp. 234 - 238).
[36]Cfr. "La saison russe à Paris", in: il
Patalogo 17, pp. 183 - 207.
[37] Cfr. "Le traiettorie di un
teatro ideale. Lev Dodin è il regista dell'anno", in: il Patalogo 17, pp. 189 - 197.
[38] Cfr. "Angels in America
& Everywhere", in: il Patalogo
17, pp. 254 - 278.
[39] Cfr. Cornelia Niedermeier,
"La Baracke: nasce una realtà teatrale"; in: il Patalogo 21, pp. 182 184.
[40] Cfr. Franco Quadri,
"M/Christoph Marthaler. Un regista per gli anni '90", in: il Patalogo 21, pp. 212 - 216.
[41] Cfr. "T/Torpedone come
Teatro", in: il Patalogo 4, p. 248.
[42] Cfr. Gianni Manzella,
"A/Architetture teatrali", in: il
Patalogo 9, p. 165.
[43] Cfr. Gianni Manzella, "Il
teatro di Penelope. Architetture Teatrali Due", in: il Patalogo 10, p. 149.
[44] Cfr. Renata Molinari,
"Luoghi e spazi del teatro", in: il
Patalogo 18, p. 125.
[45] Cfr. Gianni Manzella,
"A/Architettura '98", in: il Patalogo
21, p. 178.
[46] Sul tema moltissimi sono i
riferimenti nei diversi volumi dell'Annuario. Si citano qui i più ampi:
Gianfranco Capitta, "Gli assessori d'assalto", in: il Patalogo 3, p. 80; Ugo Volli, "Una legge per tutte le stagioni",
in: il Patalogo 7, p. 186; Gian Mario
Feletti, "La Sezione Autonoma per il Credito Teatrale", in: il Patalogo 7, p. 188; Ettore Capriolo,
"Gli instabili", in: il Patalogo 10,
p. 145; Oliviero Ponte di Pino, "Le tribolazioni di un direttore di teatro",
in: il Patalogo 12, p. 187; Oliviero
Ponte di Pino, "Quel meraviglioso '89. Appunti per la messinscena di un Amleto cinico e estremista", in: il Patalogo 13, p. 215; Oliviero Ponte
di Pino, "Casi d'Italia", in: il Patalogo
16, p. 245; Oliviero Ponte di Pino, "La politica del teatro. Teoria e pratica",
in: il Patalogo 20, p. 98;
"P/Poltrone", in: il Patalogo 21, p.
221.
[47] Cfr. "C/Circolari", in: il Patalogo 9, p. 180. Per l'intervento
di Volli cfr. Ugo Volli, "Una legge per tutte le stagioni", in: il Patalogo 7, p. 186.
[48] Cfr. "S/Stabile è bello",
in: il Patalogo 9, p. 239.
[49] Il testo è stato poi
tradotto e pubblicato in Italia con il titolo: I rifiuti, la città e la morte. (Cfr. Rainer Werner Fassbinder,
traduzione di Roberto Menin, Ubulibri, Milano 1992.
[50] Cfr. "V/Vietato", in: il Patalogo 9, p. 246.
[51] Cfr. Ferdinando Taviani,
"Macello ovvero La mossa del cavallo. Come i media creano uno scandalo", in: il Patalogo 9, p. 217.
[52] Su questi argomenti del Patalogo 9 cfr. anche l'Allegato 1.
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