|
|
|
vii.
il patalogo 20: la stagione 1996/1997
L'edizione del
ventennale si presenta particolarmente ricca di spunti di riflessione. La
struttura dell'Annuario procede per tappe, che evidenziano ciascuna un
particolare aspetto caratteristico della stagione. A conclusione poi, il Patalogo 20 raccoglie una
"metariflessione" articolata sul percorso compiuto nei vent'anni, cui
si è già precedentemente accennato.[1] Ma molte sono le sezioni
"speciali" dedicate a temi specifici. Tra esse, una è particolarmente
significativa di una tendenza emergente sia in patria che all’estero: lo
sviluppo di drammaturgie ed esiti scenici strettamente connessi alla dimensione
della crudeltà, del sangue, della carne umiliata ed esibita. E’ automatico e immediato
il riferimento al Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud, che infatti è
riecheggiato sin dal sottotitolo della sezione[2]: “Una scena dionisiaca e
feroce dopo i cent’anni di Artaud”. Il filo rosso che congiunge le diverse
esperienze raccolte è la comune volontà di portare la scena ad un livello quasi
“mitico” e archetipico di ferocia. Ma anche l’esibizione del morbo,
dell’atrocità della guerra, l’allusione (metaforica e non) a un potere sempre
più efficiente e disumano. Questa unità di partenza si declina poi, ovviamente,
nei più disparati modi, a seconda delle diverse concezioni artistiche dei
gruppi e dei singoli. Ma l’obiettivo sembra essere in tutte queste esperienze
mostrare un corpo “disumanizzato”, o “più che umano”, sempre in contatto con la
sfera del dolore e della morte.
Il Premio Ubu
per lo Spettacolo dell’anno nel 1997 è conferito a larga maggioranza[3] al Giulio Cesare che la Societas Raffaello Sanzio ha tratto dall’opera
di Shakespeare e degli storici latini. Le riflessioni del gruppo cesenate
introducono gli interventi della sezione dedicata alla Crudeltà. Romeo
Castellucci spiega la sua lettura del testo shakespeariano come “rituale”
arcaico del potere:
Nel Giulio Cesare si coglie l'operazione
buia, sotterranea, acefala del potere, dove tutto converge e tutto congiura
verso una morte che è densa di tratti primitivi ritualistici. E' il dramma
dell'uccisione rituale del Re, così com'è descritta dalla più classica
letteratura antropologica.[4]
La chiave
antropologica ha il sopravvento: gli elementi di una carnalità ancestrale, di
una forza brutale delle parole sono fatti emergere attraverso strumenti
tecnologici di immediato impatto emotivo sugli spettatori:
Ci si è dotati
di apparecchi che possano visualizzare non più il corpo, ma addirittura la
carne delle parole. C'è un endoscopio che l'attore si inserisce in una narice e
che permette di vedere il viaggio a ritroso della voce fino alla soglia delle
corde vocali. Una proiezione centrale permetterà la visione della gola da cui
esce la voce: il boccascena diventa una bocca e lascia vedere sul suo fondo le
corde vocali, parmettendoci di arrivare a una letteralità che diventa
vertigine. L'immagine vista realizza infatti la totale coincidenza fra la
parola e la sua visione (la visione della sua origine carnale) e produce uno
sbandamento perché non si sa più bene qual è la parte che prevale: se la
lettera detta, o la veduta della lettera.[5]
Attraverso una
trasfigurazione “elettronica” del corpo dell’attore recitante si ottiene il
riavvicinamento delle parole al proprio significato primordiale, in cui la loro
violenza è espressione di energia e di vita. Questo riavvicinamento muta
l’essenza percettiva stessa delle parole e le fa divenire “carne”: in questo
senso è giustificato parlare di “carne delle parole”.
L’attore come
“strumento”, la voce e la parola intese nel loro significato pulsionale e
primordiale stanno al centro di un’esperienza senza dubbio diversa da quella
della Societas Raffaello Sanzio, ma che in un discorso sulle potenzialità
fisiche di esprimere una forza cieca vi si può in questa sede accostare: si
tratta del lavoro di Motus, il gruppo romagnolo che nella stagione 1996/1997 ha
iniziato una serie di studi sull’Orlando
furioso di Ariosto:[6]
Pensiamo agli
attori come “macchine sonore” innanzitutto, amplificati, elettronizzati,
sonorizzati, […] pensiamo alla “prevalenza dell’urlo”, alla vocalità che sta
aldilà delle parole, […] pensiamo a una vocalità estrema che gratta le corde
vocali, che fa accapponare la pelle, pensiamo alla voce che parte dal basso
ventre… e poi sale sale al cervello acuta tagliente, pensiamo a una voce-lama
cromata…[7]
Un orizzonte
di morte, cimiteriale ed infantile ad un tempo, è quello che caratterizza un
altro dei gruppi romagnoli emergenti, Fanny & Alexander. La loro poetica si
snoda sempre attorno ai due poli antitetici dell’adolescenza e della fine, in
un gioco continuo di morte e rinascita, che coinvolge l’universo della violenza
inquadrandola però in una .dimensione onirica.[8]
Il terreno
della violenza, sia essa strumento di denuncia, forza espressiva e simbolo
allegorico, o manifestazione di una fisicità malata e martoriata che può
condurre a scenari apocalittici o a viatici di purificazione è il tratto
unificante di drammaturgie distanti sia geograficamente che esteticamente.
L’avvento della “crudeltà”, con i suoi echi artaudiani, permette di
considerarle, fatte salve le diversità specifiche, in un discorso unitario e
omogeneo.
Enzo Moscato
nel suo Lingua, Carne, soffio compie
una contaminazione tra citazioni artaudiane e frammenti in napoletano. La
vicinanza al visionario teorico francese si compie nei presupposti di tutta la
sua operazione linguistica:
Il peso e la
presenza di Antonin Artaud nel mio teatro, nel mio atteggiamento spirituale e
pratico verso il teatro, non hanno bisogno di commenti. Gli ibridi-contaminati
alfabeti di teatro che, dalla crudeltà, dalla malattia, dall'esagerazione -
come forme naturali di vita, d'espressione - ho balbettato finora, traendoli
dalla lezione di Artaud, sono credo, dentro gli occhi e gli orecchi di chiunque
abbia potuto, per ventura, essere presente a un mio spettacolo: verifica in
carne, sangue, umori, sudori, tremori, di ciò che penso debba essere la
scrittura: sabbia, sabbia mobile, su cui scrivere di continuo, parole di
continuo cancellate[9].
“Carne,
sangue, umori, sudori, tremori”: queste sono le linee guida della drammaturgia
di Moscato. Ma nello specifico del suo ultimo lavoro prende corpo soprattutto
la dimensione del morbo, dell’infezione, del contagio:
Tra gli
attributi, anzi, tra gli accidenti, di questi ibridi alfabeti, esposti di
continuo, sulla scena alla cancellazione, alla effrazione, alla
de-territorializzazione, del più spinto immaginario, l'attenzione, stavolta, mi
si è focalizzata intorno allo spazio della peste, dell'infezione, dello
scoppio, virulento e metafisico, del male, sul crollo degli ordini cosmici e
umani precedenti, sulla formazione fulminante di quelli nuovi, come rinascenti,
a loro volta, dalla cenere bollente e immaterica dell'Apocalisse. [10]
Una
bestialità, un’oscenità della lingua si ritrova come punto forte anche della
scrittura di Mariangela Gualtieri. Una primitività aggressiva del linguaggio
contraddistingue l’operazione drammaturgica da lei svolta per Nei leoni e nei lupi, lo spettacolo
presentato dal Teatro Valdoca nel corso della stagione:
Ogni attore ha
sintassi propria. Dentro alla quale sta imprigionato e dalla quale comunica per
intensità, per stupore, per schianti improvvisi che subito si richiudono.
Lingua comune è quella bestiale dei corpi, delle bastonate, del rito osceno,
del riso. Ciò che essi pronunciano è dentro la babele terrestre, lingua dal
senso sfinito, suoni che preparano, come rampa di lancio, qualche rado verso da
scagliare frontalmente.[11]
Sono descritte
le necessità primarie, i desideri fondamentali che si esprimono nella loro
corporeità primitiva all’interno della rappresentazione. E’ un emergere
incontrollato delle pulsioni allo stato primordiale, che conduce l’attore ad
una dimensione di arcaica e incontrollata ferinità animalesca.[12]
La violenza,
la sopraffazione, la crudeltà sono elementi ricorrenti in territorio
anglosassone. Questi temi si ritrovano nella scrittura di Harold Pinter, che
recupera una pièce composta quarant’anni prima, La serra, individuando nella contemporaneità della fine del
millennio gli elementi di sopraffazione, di totalitarismo e atrocità veicolati
dal suo dramma, che diviene dunque tragicamente attuale:
Il mondo ha
raggiunto La serra. Vi si parla di un
regime totalitario, cioè un pazzo che è un assassino e ci sono molte persone
chiamate pazienti, ma che sono prigionieri politici e noi del mondo fingiamo
che non esistano più. Da quando ho scritto la commedia, le torture sono
divenute sistematiche in tutti i paesi, anche nei cosiddetti paesi democratici,
anche in Europa. [...] Il potere è diventato terribile.[13]
Oltre alla
scrittura pinteriana, ormai “classica”, in Gran Bretagna negli ultimi anni ’90
sboccia una nuova generazione di drammaturghi che, per la loro predisposizione
alla violenza in scena, sono definiti “New Angry Men”. Il leit-motiv che
collega tutti questi nuovi autori, da Sarah Kane a Mark Ravenhill, da Martin
Crimp a Philip Ridley - è un moto di ribellione verso la società che si palesa
nell’addensare una grande dose di atrocità nelle proprie pièce. Il critico
Michael Billington collega questa tendenza alla critica situazione sociale che
ha caratterizzato il Regno Unito durante il ventennio di ininterrotto governo
thacheriano, e analizza gli elementi comuni alle diverse scritture:
Sospetto che
in parte questo fenomeno sia legato alla peculiarità della situazione politica
inglese. [...] Questi nuovi drammaturghi provengono da una cultura comune.
Condividono anche alcune opinioni: il rifiuto morale della società del
guadagno, la fascinazione per il linguaggio, la preoccupazione per la violenza,
la convinzione che non c'è niente che il teatro non possa mostrare.[14]
Il caso
esemplare di Blasted il testo di
Sarah Kane che per i suoi contenuti cruenti ha suscitato l’indignazione dei
benpensanti inglesi dopo il suo
allestimento al Royal Court Theatre nel 1995, ha mobilitato in favore della
giovane autrice i maggiori intellettuali del Regno Unito. Edward Bond difende
il dramma affermando che i suoi elementi di violenza sono ravvisabili in
qualsiasi grande opera drammatica del passato. Anche un altro testo
incriminato, Shopping & Fucking
di Mark Ravenhill è al centro di una appassionata apologia ancora da parte di
Michael Billington.[15]
Il nuovo
teatro inglese[16] viene visto come il frutto di
un’indignazione che si fa ribellione nella pagina e sulle scene, con
l’obiettivo di scuotere con un linguaggio verbale e gestuale scioccante
l’indifferenza degli spettatori.
Violenza,
morte, morbo, carne, sangue sono elementi che ritornano anche nell’ultima parte
della sezione, occupata da un’ampia ricognizione sul mondo della “nuova”
performance. Francesca Alfano Miglietti, nel suo “Progetto di territori
corporali”, raduna una schiera di performer e artisti visivi che piegano il
proprio corpo ad alterazioni, mutilazioni e metamorfosi inseguendo il proprio
codice espressivo.[17]
L’umiliazione,
la malattia, la diversità,[18] l’alterazione sono i tratti
comuni a questi artisti. Questi elementi si definiscono, come si è detto,
attraverso il particolare uso che essi fanno del loro corpo in scena: “un corpo
come struttura manipolabile pronta a ricevere al proprio interno innesti
tecnologici che possono operare, agire, evolversi autonomamente, sostituendosi
a organi destinati al decadimento fisiologico”.[19] Per ciascuno dei performer
è tratteggiato un breve profilo artistico. Tagliarsi, sanguinare in scena,
utilizzare pratiche sado-maso, crearsi delle stimmate artificiali attraverso
corone di aghi sulla pelle sono tutti elementi di una tecnica che mira a
esprimere e a mostrare la sofferenza attraverso l’immediatezza del corpo
esibito. Franco B., Marcel.li Antunez Roca, Ron Athey, ClareAnnMatz, ciascuno
seguendo il proprio percorso, cercano di “portare fuori” il proprio corpo,
considerato come territorio di dolore e di vita, di morte e di rinascita.[20]
Un’esperienza
parzialmente diversa, che si inserisce nella sfera dell’arte visiva ma che vede
comunque una manipolazione del corpo attraverso la tecnologia elettronica è
infine quella di Giancarlo Cauteruccio, impegnato con il suo gruppo Krypton nel
loro Corpo sterminato.[21]
La differenza,
l’emarginazione, l’esilio, la lontananza: queste sono le parole che uniscono
idealmente le diverse esperienze che formano la sezione del Patalogo 20 intitolata “Nomadi”. In essa
confluiscono idee diverse di teatro, dal “caso” dei “barboni” di Pippo Delbono
alle varie forme di teatro-narrazione, dal lavoro con i detenuti svolto da
Armando Punzo con la sua Compagnia della Fortezza alla lingua vernacola dei sobborghi
palermitani nella drammaturgia di Franco Scaldati… Questi – ed altri –
“teatri”, riuniti in un’area tematica omogenea, si collegano tra loro per
l’attenzione in tutti presente verso l’“altro”. Si tratta in tutti i casi di
una “drammaturgia della differenza”, che viene da ciascun artista e da ciascun
gruppo declinata secondo i propri canoni estetici. Il denominatore comune di
queste esperienze non è però in nessun caso il “teatro-terapia”, o il
“teatro-recupero”: l’obiettivo finale è sempre lo spettacolo. A livello
generale, ancora, questa sezione è caratterizzata dal “cambio di prospettiva”,
si tratta cioè di “teatro in movimento”: la mobilità può essere quella dello
sguardo, che cambiando ottica riesce a considerare l’alterità come normalità,
oppure quella prettamente fisica dell’emigrante, o ancora quella che attua un
rovescimento totale della percezione e della visione delle cose... Questa
mobilità è sottolineata anche dal titolo, che implica un insieme di realtà in
costante “movimento”.
L’emarginazione
e l’alterità, in ciascuna delle esperienze radunate in questa sezione, si
presentano in forme diverse. Possono ad esempio caratterizzare la formazione
della stessa compagnia. E’ il caso di Pippo Delbono, che ha formato il suo
gruppo di lavoro mescolando gli attori che già lavoravano con lui ad altri
attori, incontrati tra la strada e
l’ospedale: sono i “barboni” che danno il titolo al suo spettacolo, appunto Barboni[22]. Ma Pippo più che porre la
questione in termini di “normalità”/“diversità” parla di due tipi di
“diversità”: quella che contraddistingue la sua personale storia e quella
propria di persone come Bobò, il sordomuto microcefalo che lo stesso Delbono ha
fatto uscire dall’Ospedale Psichiatrico di Aversa dopo quarant’anni di degenza,
o come Mr. Puma, “rocker” da strada, o ancora come Armando Cozzuto, “barbone”
poliomelitico. Storie di sofferenze individuali si incontrano, interagiscono,
si fondono in un’unità che si esprime attraverso il teatro, che abbatte i
confini che lo separano dalla vita reale. Attraverso la direzione registica di
Pippo i frammenti di “vita vissuta” si compongono in un disegno unitario:
questo è il segreto di Barboni.[23]
La Compagnia
della Fortezza si avvicina al mondo dell’emarginazione sia a livello di
formazione del gruppo di attori (tutti detenuti del carcere di Volterra) sia a
quello delle condizioni di lavoro (il recinto dello stesso carcere). In queste
condizioni, il regista della Compagnia, Armando Punzo, allestisce nella
stagione ‘96/’97 I negri di Jean
Genet, una scelta non casuale, come lui stesso afferma:
"Una
compagnia di negri recita per un pubblico di bianchi". Quando ho chiuso il
testo dopo averlo letto per la prima volta ho pensato: i Negri sono loro. Un
pensiero così semplice e allo stesso tempo così inquietante. [...] Abbiamo
lavorato privilegiando questa condizione di fondo rispetto alla vicenda
raccontata nel testo. Ci siamo chiesti, come suggerito dallo stesso Genet, cosa
significa essere Negri e, soprattutto, come ci si sente a essere Negri.[24]
Più
che sul testo in sé, qui l’operazione verte su una condizione esistenziale: la
“negritudine”. Cioè, ancora una volta, l’emarginazione della differenza. Genet
mette in luce nel suo testo esattamente questa condizione di esclusione: Punzo
accoglie il suggerimento, e lavora ad una drammaturgia che, se si discosta
dall’originale nella lettera, ne incarna perfettamente il senso.[25]
Un altro
approccio ai territori della differenza, dell’emarginazione, dell’“anormalità”
in senso esteso è caratterizzato dalla scelta dei temi da portare in scena. Su
questo versante si possono collocare tre esperienze diverse, ma che hanno un
forte punto di contatto proprio nella selezione delle tematiche. La prima è
rappresentata dalla messinscena di un testo di Antonio Tarantino, Lustrini, ad opera di Cherif. In questo
caso è il testo, la storia prescelta, a portare l’emarginazione all’interno del
teatro. la sofferenza dei due protagonisti, Lustrini e Cavagna, barboni che
vivono per strada nel bresciano, è restituita in modo graffiante ed ironico,
pur mantenendo alta la poesia dell’amicizia particolare che li lega. La
dimensione narrativa di Tarantino, che nel Vespro
della Beata Vergine e nella Passione
secondo Giovanni aveva già affrontato i territori del disagio e del dolore,
coglie gli aspetti grotteschi della vita per strada, e con atteggiamento
divertito li restituisce in un misto di comicità e di tenerezza. Cherif
racconta così i due personaggi:
Lustrini è una delirante e oppiacea miscela di mostri
d'amore e di morte, di una comicità irriverente e sarcastica irresistibile. E'
vile, e allo stesso tempo insondabile, l'inferno quotidiano di questo amore
minuto e portatile nei labirinti delle strade.[26]
Ancora la
scrittura è il mezzo per raggiungere i luoghi dell’emarginazione nell’allestimento
che Roberto Guicciardini compie della Locanda
invisibile di Franco Scaldati: nel testo sono “raccontati” i rioni della
vecchia Palermo, descritti nel loro degrado totale ma anche con un senso di
onirica nostalgia per il passato. L’autore conferisce alla parola un valore
quasi magico, di riscoperta della memoria come antidoto alla disgregazione del
tessuto sociale della sua città. La sua ricerca sembra seguire la strada
pasoliniana del recupero di una vitalità e di un’umanità in via di estinzione.[27]
Anche Thierry Salmon, nel suo lungo lavoro sulla Pentesilea di Kleist, o meglio nel suo studio approfondito sul popolo delle Amazzoni, che della diversità fece la propria bandiera, si accosta al mondo del “diverso” a partire da uno spunto tematico. Il mito delle Amazzoni è restituito dall’immaginario individuale di ciascuno dei protagonisti di questo percorso, e questi contributi personali si trasformano in una “scrittura collettiva”. In questo modo prende forma l’essenza di un popolo affascinante e “differente”. Il percorso sulle tracce delle Amazzoni, che si dispiega in tre tappe tra Palermo, Bruxelles e Pontedera, è raccontato da Renata Molinari:
“Simbologie
personali e collettive che si nominano attraverso il mito delle Amazzoni, o
meglio le mitologie attorno alle Amazzoni: un immaginario collettivo che
attraverso le avventure del tempo, prima ancora che nelle forme dell'arte,
accompagna esplorazioni e conquiste, avventure nell'ignoto e sogni di
radicamento. L'immaginario e i racconti, cui l'arte dà forma, su un popolo di
donne, un popolo "separato", un popolo senza padri [...]: il mistero
e il fascino di una comunità minacciosa nella sua dichiarazione di
autosufficienza, inquietante nella sua forza, seducente nella sua bellezza. Un
popolo di creature che accentuano il mistero della differenza mutilando il
segno stesso di tale differenza”.[28]
L’estraneità,
la non appartenenza, l’alterità si possono individuare anche attraverso il
costituirsi di un linguaggio. E proprio il linguaggio collega tra sé due
artisti diversi come Marco Paolini e Marco Baliani.
Il primo, nel
suo Milione, tratta il problema
dell’emigrazione. E lo fa dando voce a chi sta “fuori”, ai “foresti”, alla
gente arrivata in una terra - il
Veneto, con la sua aristocratica capitale Venezia – che non è la sua, e dove si
sente rifiutato perché non partecipa dell’élite provinciale dei “nostrani”,
degli autoctoni. La lingua di Paolini è il risultato di un’operazione di collage, che molti confondono con il
dialetto veneto o veneziano. In essa si innestano le più svariate cadenze, da
quella del meridionale immigrato a quella del lavavetri extracomunitario che
tenta di integrarsi, a quella ancora delle zone rurali che scimmiotta il
“parlar fino” delle città. Con questa operazione linguistica l’artista trevigiano
dà voce all’inesauribile schiera dei “foresti”.[29]
Il movimento,
la migrazione sono gli elementi cardine dell’esperienza di Marco Baliani in Migranti, la prima tappa del suo
progetto “I porti del Mediterraneo”. Anche in questa esperienza fondamentale appare
la costituzione di un linguaggio “franco”, formato dalle diverse realtà
culturali che si scontrano nella necessità della migrazione. Baliani insiste su
questo tema:
Un ensemble
teatrale, in un'idea di teatro epico e corale, assomiglia davvero a un equipaggio
marino e la capacità di creare un dialetto è l'insieme di gesti, relazioni,
istinti ed esercizi, tecniche, che vanno a poco a poco a formare un comune
sentire, un sapere condiviso da ognuno sul percorso, sui modi di attuarlo, sul
senso etico di ciò che si va a realizzare. [...] Un linguaggio che è tale solo
a patto di rispettare le differenze di cui ognuno è portatore, comprese le
difficoltà di intendersi nella varie lingue, i gesti diversi con cui nelle
varie culture ci si esprime.[30]
Un duplice
“itinerario” conclude la sezione dei “Nomadi”. Da una parte infatti sta
l’esperienza del gruppo italiano Laminarie, nel loro viaggio nella realtà
desolante della Bosnia di Monstar, dove hanno portato il loro Poema della forza. Dai loro appunti di
viaggio è testimoniato il valore di questa esperienza a metà tra le macerie
della guerra e una grande voglia di ricostruire e di tornare a vivere. Un
viaggio invece dalla Bosnia all’Italia è quello di una comunità Rom
perseguitata in patria, che dà vita allo spettacolo allestito al Link di
Bologna da Loredana Putignani. La regista racconta il grande senso di
appartenenza di questa piccola e sfortunata comunità, da sempre “in viaggio”.[31]
Riassumendo,
si può affermare che ciascuno di questi artisti e gruppi sceglie un diverso
approccio ai terreni della sofferenza e dell’alterità. Dall’emarginazione
sociale a quella etnica, dall’orgogliosa rivendicazione della propria
differenza al sentimento crudele dell’esclusione, la “diversità” entra nel
teatro, ne diviene il fulcro, la materia su cui fondare una drammaturgia,
riuscendo a stare sempre all’interno della rappresentazione artistica e senza
mai sfociare nel tanto discusso “teatro sociale”.
[1] Cfr. Capitolo 1, "Il Patalogo visto dagli autori".
[2] Intitolata per l’appunto “Chiamiamolo
Teatro della Crudeltà”.
[3] Il ballottaggio tra i 56
votanti ha visto uno scarto di 10 voti tra il primo (21 voti) e il secondo
classificato, Macbeth Horror Suite di
Carmelo Bene (11 voti).
[4] Cfr. Romeo Castellucci,
"Nel Giulio Cesare della Societas
Raffaello Sanzio la carne delle parole", in: il Patalogo 20, p. 135.
[5] Ibidem, p. 136.
[6] Che culmineranno poi nella
realizzazione definitiva, intitolata O.F.
ovvero Orlando Furioso impunemente eseguito da Motus, che ha debuttato al
festival “Teatri 90” Milano l’anno successivo.
[7] Cfr. “Pensieri dei Motus
per un Orlando Furioso inseguendo su
disco la meccanica del desiderio”, in: il
Patalogo 20, p. 152.
[8] Cfr. un brano del
“Commentario estratto dalla 100 parti della vita immaginaria di Fanny &
Alexander”: “Mentre giaceva tranquillamente nel suo lettino accarezzando il
ricciolo d'oro, F&A sentì che i soliti grilli con cui amava trastullarsi lo
gratificavano di piccole croci color sangue. Finché egli non trovò cilicio più
atto, costumò, con invenzione non più udita, di conservarsi la delizia di tali
morsi. Tornavano all'affettuosa madre, la Fata, ogni settimana le camicie tutte
sanguigne...” (Cfr. il Patalogo 20,
p. 151).
[9] Cfr. Enzo Moscato, "Lingua, Carne, Soffio. Tragitto-epidemia
per Antonin Artaud", in: il Patalogo
20, p. 138.
[10] Cfr. Enzo Moscato, "Lingua, Carne, Soffio. Tragitto-epidemia
per Antonin Artaud", cit., p.
138. Enrico Fiore, nella sua recensione, vede Lingua, Carne, Soffio come un’estremizzazione “infetta” delle
tematiche care a Moscato: un trionfo del “male” con poteri di rinnovamento e
catarsi: “Adesso siamo al barocco appestato. E insomma, se è vero che il
concetto di lingua come peste (un concetto agganciato all'ipotesi che proprio e
solo dalla contaminazione e dalla corruzione si possa far scaturire il nuovo)
informa da sempre il teatro di Moscato, è anche vero che Lingua, Carne, Soffio costituisce [...] il più duro, crudele,
raggelante, estremo e radicale dei suoi allestimenti.” (Cfr. il Patalogo 20, p. 138).
[11] Cfr. Mariangela Gualtieri,
"Nei leoni e nei lupi: la lingua
bestiale dei corpi, delle bastonate, del rito osceno, del riso", in: il Patalogo 20, p. 139.
[12] Ancora Mariangela
Gualtieri: “Nei leoni e nei lupi è il
titolo di questo spettacolo pagano, proteso verso un segreto d'animalità vitale
e a volte nascosto in ciascuno di noi. Regna quindi, col principio della
reazione diretta, il gioco dei contrari nell'emergere di esigenze primordiali:
la fame, la solitudine, il senso della morte, la frenesia sessuale come
violenza subita e come voglia, in una successione che raggiunge la tragedia per
dissolverla nella sfrenatezza da una comica oscenità quando si trasmette da una
all'altra l'ansia di masturbarsi con un bastone.” (Cfr. il Patalogo 20, p. 140).
[13] Cfr. Harold Pinter,
"L'autore, la violenza e La serra",
in: il Patalogo 20, p. 140.
[14] Cfr. Michael Billington,
"Un fenomeno legato a una repressione inglese", in: il Patalogo 20, p. 142.
[15] Il critico inglese difende
così il lavoro di Ravenhill: “Il suo testo è chiaramente il lavoro di uno scrittore
preoccupato per la trasformazione dei rapporti sessuali in transazioni
commerciali e per la tristezza e la disperazione di una società capitalista in
cui, secondo le parole di uno dei personaggi, ‘il denaro è civiltà’. [...]
Questi personaggi sono tutti vittime di una società che ha trasformato il sesso
in un bene di consumo e che considera il denato più importante della vita
umana. [...] E' anche affascinante il modo in cui usa il mangiare come simbolo
della stupidità dei consumi: il suo testo termina con i personaggi che si
imboccano l'un l'altro proprio come Blasted
finisce con l'eroina che mette pane e salsiccia nella bocca del giornalista
umiliato.” (Cfr. Michael Billington, "Da Shopping and Fucking a Mojo",
in: il Patalogo 20, p. 144).
[16] Così è intitolato anche un
volume della Ubulibri in cui sono raccolti Blasted
di Sarah Kane, Shopping & Fucking
di Mark Ravenhill, Mojo di Jez
Butterworth, Attentati alla vita di lei
di Martin Crimp e Il Killer Disney di Philip Ridley (cfr. Nuovo teatro inglese, Ubulibri, Milano
1997).
[17] La curatrice riassume così
il senso della manifestazione: “Un progetto di territori corporali, una
sperimentazione biologica, politica, teorica, un corpo mostrato nel passaggio
dalla coercizione alla mutazione, la necessità della presenza nell'estrema
possibilità del limite, una presenza che diventa discontinuità, caos, libertà,
pazzia, spazio e tempo alterati. […] Una grande torsione che sperimenta altri
canali espressivi, congegni di comunicazione che superano le concettualizzazioni
astratte del linguaggio razionale per riaffermare e reinventare i linguaggi
umiliati, repressi, oppressi, i linguaggi della malattia, del caos, della
follia, della discontinuità, i linguaggi dell'alterazione.” (Cfr. "Corpi e
anticorpi. Il teatro tra performance e arti visive. Progetto di territori
corporali di Francesca Alfano Miglietti", in: il Patalogo 20, p. 146).
[18] E in questi elementi, di
cui è cosparsa tutta la sezione, si ravvisa una vicinanza all’altra grande
macroarea tematica, quella dedicata alle varie “diversità” che entrano a far
parte dell’universo teatrale (vedi il paragrafo successivo, “Il teatro della
differenza”).
[19] Cfr. "Corpi e
anticorpi. Il teatro tra performance e arti visive. Progetto di territori
corporali di Francesca Alfano Miglietti”, cit.,
p. 147.
[20] Si citano qui, a titolo
esemplificativo, le dichiarazioni di Franco B., uno dei performer che ha
partecipato alla manifestazione: “Il mio sangue è il mio corpo. [...] Il cancro
è sangue. Quando lo sento, mi dà un senso di libertà, specialmente il fatto che
sia il mio sangue. Non lavoro con il sangue animale, o qualsiasi altro sangue,
perché non potrei avere relazioni con esso. Inoltre la gente ha vergogna dei
propri fluidi corporali. Sono spaventati dai loro rifiuti, pensano che siano
cose molto private, che quel che c’è nel corpo deve rimanere nel corpo. [...]
Questo è il mio corpo: io lo apro e lo voglio portare fuori. Il taglio diventa
una metafora”. (Cfr. "Franco B. Mamma
I can't sing pan 4", in: il
Patalogo 20, pp. 147 – 148).
[21] “Corpo sterminato è un lavoro nel quale il corpo viene innestato
dalla luce delle fibre ottiche, dove il corpo inerte viene trafitto dal laser
come conduttore di un'architettura immateriale, come metafora della rete
telematica che inevitabilmente lo espande in territori sterminati, nei luoghi
delle contaminazioni che da esso stesso scaturiscono”. (Cfr. Giancarlo
Cauteruccio, "Krypton. Corpo
sterminato", in: il Patalogo
20, p. 149).
[22] Lo spettacolo ha debuttato
a Napoli il 15 marzo 1997, e si è aggiudicato il Premio Ubu Speciale “per una
ricerca condotta ai confini tra arte e vita” (cfr. il Patalogo 20, p. 93).
[23] Così è descritta
quest’esperienza dalle stesse parole di Pippo Delbono: “Il nostro è uno strano
zoo di artisti all'estremo, il mio un teatro senza scenografia, costruito sulla
persona [...]. Ai miei nuovi amici che non sono mai saliti su un palcoscenico
faccio vedere i miei attori randagi che evocano altre situazioni di altra gente
randagia. Scocca inevitabile la scintilla e il gioco, e il piacere di
raccontarsi inventando nuovi ritmi, nuove poetiche, nuove storie, dolorose ma
anche divertenti, di gente randagia.” (Cfr. Pippo Delbono, “Sergio, Bobò, Mr.
Puma, Armando… Pepe e io”, in: il
Patalogo 20, p 175).
Barboni è anche il titolo del libro
pubblicato da Ubulibri nel 1999, dove attraverso il racconto di Pippo e le
immagini degli spettacoli è possibile formarsi un’idea del percorso di questo
artista (Cfr. Alessandra Rossi Ghiglione (a cura di), Barboni. Il teatro di Pippo Delbono, con interventi di Pippo
Delbono, Pepe Robledo, Oliviero Ponte di Pino, introduzione di Franco Quadri,
fotografie di Guido Harari, Ubulibri, Milano 1999).
[24]Cfr. Armando Punzo,
"Perché I negri", in: il Patalogo 20, p. 178.
[25] Questa sintonia tra il
testo originale di Genet e il lavoro di Armando Punzo con i suoi attori è
nitidamente raccontato nella recensione di Brigitte Salino per “Le Monde”: “Il
teatro [...] non è lontano dalla prigione: dei muri grigio sporchi, uno spazio
per l'azione che non supera i quindici metri quadrati. Sono in venti in questo
spazio. Venti che girano intorno come nelle loro ore d'aria, contando i passi
per concentrarsi prima dello spettacolo. [...] I detenuti non recitano I negri, ma li disossano in un'ora di
crudeltà, che raggiunge a tratti quella sognata da Antonin Artaud. Mischiando
al testo genettiano degli estratti del Trattato
sull'antropomorfia criminale di
Lombroso, ironizzando sulla loro "negritudine" sociale, si
impossessano di certe battute della pièce - sull'amore, il delitto, l'odio -
lavorandole corporalmente con un impegno fisico viscerale, da cui scatta la
verità dei Negri: ‘Fate dunque della
poesia, dato che è il solo campo che ci è consentito d'approfondire’.” (Cfr. il Patalogo 20, p. 179).
[26] Cfr. Cherif, "Due
angeli sconfitti", in: il Patalogo
20, p. 178.
[27] Così Scaldati descrive il
suo lavoro: “Io canto la poesia dei quartieri, in una sorta di reinvenzione
continua della storia e della cultura dei rioni che vanno sparendo. [...] E' un
percorso che rispecchia la malinconia di chi vive in una città che tende a
disconoscere la propria identità per inventarsene una nuova, totalmente falsa.”
(Cfr. il Patalogo 20, p. 184).
[28] Cfr. Renata Molinari,
"Progetto Amazzone. Cancro al seno, realtà e mito tra scienza e teatro,
Palermo 19 - 24 novembre 1996", in: il
Patalogo 20, p. 184.
[29] “Essere nostrani è un bel vantaggio,
ammettetelo. Condividere lingua terra storia ha un suo fascino esclusivo. Io
scrivo in lingue foreste, lingue affini anche se non uguali a quelle dei padri.
Uso queste lingue per raccontare storie di questa terra, terra di confini e
vicinanze, di diffidenza e generosità, di buisness e d'ignoranza grossa. Terra
di gente presuntuosa che vorrebbe distinguere il mondo tra nostrani e foresti,
i nostrani tutti dentro e i foresti fuori, partendo dal presupposto che il
peggiore dei nostrani è meglio del migliore dei foresti. Io non scrivo per
loro. Mi rivolgo, anzi, a chi fa più fatica a capire le parole di questo
dialetto, mi rivolgo alla loro intelligenza. Il milione è un ponte tra nostrani e foresti, uomini che non si
riconoscono per la patria d'origine, ma per quella d'adozione, per quella a cui
hanno deciso di dedicare i loro sforzi, il loro lavoro.” (Cfr. Marco Paolini,
"Nota d'autore", in: il
Patalogo 20, p. 182).
[30] Cfr. Marco Baliani,
"Migranti persi nel Mediterraneo con Baliani", in: il Patalogo 20, p. 185.
[31] Loredana Putignani descrive
la coesione di questa piccola comunità: “ Questo gruppo è una microsocietà
considerata marginale, ma che porta in sé una forte - e oggi rara - identità,
anche se carica di conflitti. In questa forte identità c'è la possibilità che
il gesto, la parola, possano essere portatori di una tradizione, di un'origine,
riconquistata attraverso la resa consapevole dell'atto e del linguaggio di una
terra che è sempre terra di viaggio e di confine.” (Cfr. Loredana Putignani,
"Rom Stalker", in: il Patalogo
20, p. 187).
|
|
|