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V. Il Patalogo 15: la stagione 1991/1992
V.1. Ricerca addio?
Il Patalogo 15 propone un unico, grande "speciale". E
si tratta ancora di un'inchiesta, curata da Renata Molinari e Oliviero Ponte di
Pino. Il dibattito, cui sono invitati a partecipare i maggiori esponenti del
teatro italiano, si incentra sul concetto di "ricerca", molto
utilizzato nei decenni precedenti per indicare un teatro che si pone come
obiettivo la sperimentazione individuando nuovi percorsi, e promuovendo una
riforma della macchina scenica sclerotizzata nelle forme della tradizione. Agli
inizi degli anni '90 è ancora possibile parlare di teatro di ricerca? Questo è
l'interrogativo principale, che dà luogo ad un'altra serie di domande
correlate:
La ricerca
teatrale in Italia è morta? Questo fenomeno riguarda solo il nostro paese o si
manifesta, con ovvie differenze, anche nel contesto internazionale? Si è
semplicemente esaurito un ciclo, oppure qualcuno ha, per così dire, commesso un
assassinio? O invece la ricerca è solo diventata meno individuabile? Oppure, a
voler essere ancora più radicali, non è mai esistita? Come ti collochi in
questa dimensione e come vivi l’attuale, problematico momento? E quali sono le
prospettive per il futuro?[1]
Questo
quesito, nella sua formulazione in parte provocatoria, si presta alle
considerazioni più disparate. Ma leggendo tra le righe, le varie risposte si
possono accorpare secondo alcune linee di tendenza che emergono costanti
all’interno dei diversi punti di vista. In primo luogo si riscontra da parte di
alcuni degli interpellati un senso di fastidio - probabilmente previsto dagli
stessi promotori dell’inchiesta - per i quesiti, che sembrano essere
considerati alla stregua di inutili sovrastrutture poco attinenti al mondo del
teatro e alle sue evoluzioni. Tra coloro che hanno optato per un “Non è questo
il punto” un po’ snobistico ecco Elio De Capitani che, nel suo intervento,
rivendica la condizione di “crisi” come elemento peculiare della stessa natura
del teatro, sempre in bilico tra la sopravvivenza e la scomparsa. In questo
senso egli rifiuta di definire i nascenti anni ’90 come l’inizio della fine
della ricerca teatrale. La morte del teatro – sempre in agguato – non è che lo
stimolo a continuare.[2]
Più decisa e
polemica la risposta di Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, che non celano
dietro la gentilezza il loro intento polemico[3]: la critica del duo si
rivolge a quello che viene visto come un eccessivo dogmatismo nella
categorizzazione delle forme del teatro. Da cui deriva una presa di posizione a
difesa della propria soggettività artistica fuori dalle etichette.
Andrea Taddei
si oppone ad un’idea di ricerca teatrale “assistita” e sovvenzionata, e muove
alle tesi proposte l’accusa di essere eminentemente teoriche, non fondate sul
reale lavoro degli artisti:
La
"Ricerca", come attitudine, è indipendente da settori e da manovre
amministrative, si è fatta in tempi e in luoghi in cui la Pubblica Assistenza
non esisteva, si è fatta dopo e si continuerà a fare [...]. Mi pare che la
parola in questione sia più sulla bocca di critici e studiosi che su quella
degli attori; un artista, se lavora onestamente, lo fa senza barriere di
terminologia.[4]
Questo
intervento introduce un altro punto ricorrente. Il parere di molti interpellati
infatti è che ormai una netta divisione tra “tradizione” da una parte e
“ricerca”, “sperimentazione” dall’altra non sia più attuale. Questo il senso
dell’intervento del Centro Servizi e Spettacoli di Udine, che invoca il
superamento di una dicotomia, tutta italiana, tra le forme più “avanzate” di
teatro e le zone invece dove si annida la conservazione. Da qui l’auspicio a
considerare queste categorie non più attuali ma nel loro significato storico,
sperando nel loro superamento e nella successiva riunificazione in un unico
ambito, il teatro stesso. Il gruppo udinese spinge verso un aggiornamento delle
categorie di giudizio, anche in vista del cambiamento di aspettative da parte
degli spettatori.[5]
Della
necessità di appianare una così netta e radicale divisione tra i due mondi del
teatro italiano, che si guardano a vicenda con sospetto e disprezzo, parla
anche Sandro Lombardi, attore storico di uno dei gruppi più “sperimentali”
degli anni ’80, quello dei Magazzini:
C'è stato un
momento in cui molti hanno creduto che il mondo si potesse facilmente dividere
manicheisticamente in due: di qua il bene di là il male, di qua la ricerca di
là la tradizione, di qua il nuovo di là il vecchio, di qua l'avanguardia di là
la routine... Ma come tutti gli schemi, anche questo andava stretto alla realtà
delle cose e a un certo momento abbiamo sentito la necessità di scegliere tra
l'elaborazione di nuovi schemi, contrapposizioni, schieramenti, strategie,
frontiere; e l'abbandono di ogni schema...[6]
In queste
parole si scorge la necessità di ridefinire il campo di intervento, di
eliminare steccati che ormai vanno “stretti alla realtà delle cose”. E’ insomma
una proposta di azzeramento delle esperienze precedenti – custodite però
gelosamente nel vissuto e nella memoria, come dice lo stesso Lombardi in un altro
passo del suo intervento – per ricominciare di nuovo secondo altri schemi.
L’esaurimento
di una fase storica e il conseguente desiderio di indirizzare la ricerca
teatrale verso percorsi nuovi, senza reclinare nella riproposta di esperienze
importanti, ma concluse, stanno al centro dell’intervento di un altro artista
nato e cresciuto in una dimensione di alta “sperimentazione”, Giorgio Barberio
Corsetti. A suo parere è nella rifondazione e nella ridefinizione dei campi
d’intervento che può nascere una ricerca “nuova” e vitale.[7] Questo anche in
considerazione di una mutata situazione sociale e istituzionale, che tende ad
allontanare gli spettatori dal teatro sperimentale.[8] Il mancato radicamento
delle esperienze sperimentali degli anni ’70 e ’80 suggerisce a Corsetti di
reperire nuove forme, nuovi canali e nuovi spazi per “ricercare” diversamente
il teatro.
Mario Martone
si dichiara convinto che la sperimentazione teatrale non possa scomparire, e
individua proprio nella “ricerca” di nuove vie il fondamento di qualsiasi forma
d’arte. Ma concorda nell’affermare che si è verificato un superamento delle
forme con cui la ricerca teatrale si è manifestata negli anni addietro:
Si è esaurita
la corrente artistica del nuovo teatro, così come si era definita tra la fine
degli anni Sessanta e l'inizio degli Ottanta: il teatro immagine, il teatro
concettuale, la postavanguardia, il terzo teatro...[9]
Giancarlo
Cauteruccio, pur convenendo sul fatto che la ricerca teatrale in Italia sia ad
un punto cruciale, ad un passo dalla scomparsa e bisognosa di ridefinizione,
d’altro canto ravvisa i pericoli di uno slittamento del teatro sperimentale
verso forme più tradizionali, che implicherebbe un abbandono del percorso
compiuto nel decennio precedente e un ripiegamento “di convenienza” verso
pratiche sceniche “accademiche”. Il fondatore di Krypton, gruppo fortemente
legato alle esperienze di teatro “visuale” che hanno attraversato gli anni ’80,
rifiuta quello che lui percepisce come un “ritorno all’indietro”.[10]
Nanni Garella
infine analizza la situazione del teatro italiano partendo dai luoghi fisici,
dagli stessi edifici teatrali. E individua in essi una stagnazione, una
fossilizzazione, una sclerosi della scena, che si coniuga ad un abbandono delle
sale da parte degli spettatori.[11]
Un’altra serie
di interventi si focalizza sul vuoto istituzionale come causa principale della
crisi del teatro di ricerca. La critica della politica culturale statale si
lega alla richiesta di un maggior impegno, anche - ma non solo - sul versante
finanziario.[12] Renato Borsoni sottolinea
l’inadeguatezza del contesto culturale in cui è inserito il teatro italiano, e
punta il dito contro l’indifferenza dello Stato, chiedendo finanziamenti
adeguati alle esigenze della sperimentazione.[13]
Gigi
Dall’Aglio parte dall’analisi sconsolata della realtà per sottolineare come,
per uscire dall’impasse, le
istituzioni dovrebbero abbandonare la logica del facile consenso e rischiare in
prima persona.[14]
La mancanza di
un punto di riferimento istituzionale è evidenziata anche dal j’accuse di Pippo Di Marca, che invoca
un cambio di mentalità, e l’apertura di spazi e risorse per una ricerca libera
dalle greppie di una visione del teatro in termini di mero consenso e
botteghino:
Non c’è nessun
quadro istituzionale. […] Perché invece dei palliativi di qualche concessione o
di qualche timida “parvenza” di laboratorio […], non si riducono i pesi e i
condizionamenti da aziende private commerciali ai quali sono sottoposti i
gruppi della Ricerca? O, meglio ancora, perché non si creano, come in altri
paesi in cui il sistema teatrale è più evoluto, strutture pubbliche per la
Ricerca affidate agli artisti? Perché non si trasformano tanti inutili
carrozzoni di teatri Stabili in veri Spazi per la Ricerca?[15]
Un ultimo gruppo di interpellati si occupa invece
dei nuovi possibili territori in cui incanalare la sperimentazione. E uno
soprattutto viene messo in particolare evidenza dall’intervento di Angelo
Savelli, che vede nella drammaturgia il nuovo orizzonte della ricerca:
In ultima
analisi io credo che il laboratorio del nuovo si stia spostando dalla Scena
(luogo ormai usurato dai continui capovolgimenti e stravolgimenti, esaltato e
negato in tutte le combinazioni) verso la Scrittura, dove, grazie a
drammaturghi come Scaldati e Moscato [...] si aprono adesso più concrete
possibilità di sperimentare nuovi modelli di rappresentazione. [...] Oggi è
nella scrittura che si è istallata la ricerca della contemporaneità ed è
proprio da qui che la ricerca teatrale deve ripartire[16].
Una risposta a
queste affermazioni viene proprio da uno degli autori citati da Savelli, Franco
Scaldati, che illustra la sua accezione del termine “ricerca”, riferendosi alle
proprie pratiche espressive[17].
Tre percorsi
esemplari sono riassunti nelle recensioni critiche e nelle dichiarazioni dei
protagonisti della "mini-sezione" intitolata "Dall'estero".
Più che di un’area tematica omogenea si tratta in realtà della
cristallizzazione sulla pagina di alcuni momenti di grande teatro. Gli
spettacoli considerati non sono infatti affini e collegabili, non presentano
particolari elementi comuni, tranne quello – importante - di essere stati,
nella diversità dell’elaborazione di ciascuno, dei grandi eventi. Il lavoro
degli stessi creatori - Robert Lepage, Robert Wilson e Peter Stein – non offre
alcun elemento a una ricerca di elementi unitari. La selezione del Patalogo si riferisce esclusivamente
alle diverse messinscene che ognuno dei tre registi ha portato in giro per
l’Europa nel corso della stagione. L’attenzione è rivolta a quello spettacolo particolare, come
evento memorabile, caratterizzante l’intero anno teatrale e perciò degno di
essere fissato per sempre sulla carta. E’ un altro dei modi scelti dal Patalogo per raccontare il teatro di una
stagione: attraverso i commenti degli stessi artisti e le recensioni critiche
offre un’articolata testimonianza di tre grandi spettacoli.
Nell’analisi
di questi spettacoli - La Trilogie des
Dragons, Poligraphe e Les aiguilles et l'opium per Lepage, Doctor Faustus Lights the Lights per
Wilson e lo shakespeariano Julius Caesar per
Stein – al centro sta la figura del regista come organizzatore della scena e
sorta di "deus ex machina" dello spettacolo.
Attraverso
questa raccolta di materiali vengono evidenziati gli elementi portanti di
ciascuna rappresentazione, nelle loro relazioni con l’estetica del regista che
l’ha concepita ed allestita.
Nel caso di
Lepage, la caratteristica maggiormente posta in risalto è la dimensione da
grande opera, da kolossal, presente – in modo diverso di volta in volta - in
tutti gli spettacoli portati in giro per l’Europa da questo giovane regista
canadese nel momento della sua consacrazione tra i grandi della scena di fine
millennio. Il continuo intreccio di piani narrrativi, spazi e tempi che
caratterizza la Trilogie des Dragons
emerge dalla selezione di interventi offerta dal Patalogo 15.[19]
Franco Quadri
mette in evidenza la fitta trama di connessioni che determina anche il secondo
spettacolo del regista canadese, Polygraphe:
Lo spettacolo
[...] racconta stavolta un poliziesco sui generis, la vicenda in flashback di
un delitto che si sovrappone a un precedente delitto per cui l'attuale
protagonista [...] è sospettato e su cui si sta girando un film dove rimarrà
vittima per violenza la protagonista femminile.[20]
La
sovrapposizione di diversi piani narrativi compare infine in altra forma anche
nel monologo di Les aiguiles et l'opium
- di cui Lepage è oltre che interprete autore, scenografo, e creatore delle
luci – per come ci è raccontato dal critico francese Jean St-Hilaire[21], che mette poi in evidenza
come l’ampiezza delle dimensioni, sia sul piano spaziale che su quello
temporale, contraddistingua anche il disegno della storia.[22]
Il discorso su
Doctor Faustus Lights the Lights è
incentrato sul lavoro compiuto dal regista insieme al suo gruppo di attori -
tutti provenienti dall'ex Germania Est - sul testo di Gertrude Stein, una sorta
di parodia "mefistofelica" del capolavoro goethiano dalla scrittura
altisonante e ritmata. L’intervento registico sul testo, che ne amplifica e
perfeziona le potenzialità, è descritto creando una corrispondenza tra le
tortuosità testuali e l'impianto scenico.[23]
Ma è
soprattutto l'effetto ottenuto dall'incontro tra un testo dalla particolare
struttura "formulare", il lavoro di Wilson alla composizione delle
scene e la recitazione degli attori, digiuni di pronuncia inglese, che rende
memorabile lo spettacolo.[24]
Del testo di
Gertrude Stein parla infine anche lo stesso Wilson, di cui è riportato un lungo
brano da un intervento in occasione della prima di Doctor Faustus Lights the Lights a Berlino. Il regista catalizza la
sua attenzione sull'interpretazione degli attori (tutti giovanissimi), e
esprime il suo apprezzamento per il lavoro da essi svolto su un testo di così
difficile approccio:
Uno dei motivi
di fascino risiede nell'ascolto del teatro inglese detto con strani accenti
tedeschi: è una cosa bellissima, una specie di musica che io non saprei
esprimere. [...] E' un testo difficile da dire, non bisogna caricarlo di troppa
forza; occorre conservare le sonorità delle parole nella propria testa e
lasciarle risuonare, per poterne sentire il suono, ciascuno a suo modo.[25]
Nelle
descrizioni del Giulio Cesare di
Shakespeare secondo Peter Stein - con cui il regista esordisce nel 1992 alla
direzione artistica del Salzburger Festival - emergono soprattutto gli elementi
di analisi "politica" della realtà. Sono infatti le scene di massa a
colpire maggiormente i critici, che le descrivono come metafore della costante
inclinazione dell’uomo a essere in ogni epoca affascinato e sedotto dal potere:
anche nel momento in cui è in atto una lotta di liberazione, infatti, un nuovo
potere è in agguato, pronto a sostituirsi al precedente, detronizzandolo in
nome della libertà. Questo è il filo comune che lega le diverse recensioni allo
spettacolo, nelle quali viene messa in risalto l'abilità con cui il regista
contrappone alle grandi figure individuali del dramma shakespeariano
l'indistinto della folla, tragicamente manipolata dagli stessi individui che
affermano di volerla affrancare, attraverso l'omicidio di Giulio Cesare, dal
giogo della tirannia.[26]
La guerra
fratricida è il risultato finale di un movimento sociale che ha come obiettivo
la rivoluzione e la democrazia. Stein si dimostra il maestro che è nel far
affiorare questo fenomeno di manipolazione delle masse popolari. [27] La scelta registica di far
vestire alla folla abiti indistintamente "moderni" e proletari
colloca questa condizione di asservimento - inconsapevole - al potere e alla
sua forza di persuasione in una dimensione astorica che bene può richiamare
l'attualità. [28]
Lo stesso
Peter Stein, in un'intervista di cui il
Patalogo riporta ampi stralci, fa riferimento alla sua scelta di
caratterizzare in chiave "moderna", contemporanea, il coro della
folla:
All'inizio di Giulio Cesare sembra di stare in un
paese d'oggi, con la presenza degli operai. L'immagine delle masse è legata a
quello che abbiamo visto negli ultimi anni.[29]
Gli spettacoli
allestiti da tre maestri sono prescelti, all’interno del Patalogo 15, per dare un saggio del teatro che si svolge fuori dai
confini nazionali. Di ciascuna di queste rappresentazioni viene ricostruito il
tratto dominante, l’elemento che più la contraddistingue: dei tre spettacoli di
Lepage è sottolineata la grandiosità del disegno complessivo dell’opera; nel
caso di Wilson è messa in evidenza la sinergia tra il testo prescelto, la
direzione registica e l’interpretazione degli attori; nella versione del Giulio Cesare shakespeariano curata da
Peter Stein emerge come determinante la volontà di potere dell’uomo e la
conseguente manipolazione delle masse per ottenerlo, viste in un’ottica
contemporanea. Il racconto sui tre spettacoli si polarizza attorno a queste
chiavi di lettura, attraverso le parole degli stessi registi e una scelta di
contributi critici.
[2] “Da quando faccio teatro mi
trovo davanti, più o meno travestita, la stessa domanda fanfarona sul teatro e
le sue condizioni di salute. Mi risulta che il teatro sia in costante crisi da
cento e più anni. Forse da secoli. E’ il momento di rendersi conto che la crisi
e la morte sono la condizione permanente del teatro, quasi uno statuto
costitutivo, non meritano l’enfasi imbalsamata dell’attualità rilanciata ogni
tre mesi”. (Ibidem, p. 268).
[3] “E' fin dal nostro inizio
che ci vengono rivolte domande di questo tipo. Noi speriamo che considerarle
ancora una volta permetta finalmente a chi le formula la necessaria riflessione
dei danni che ha provocato e che ancora può provocare. Il teatro non è
l'applicazione di una ricetta, è la consapevolezza di cosa si sta facendo, è la
manifestazione di un pensiero che ha necessità di trovare la propria
espressione mediante quel segno, giusto e comunicativo”. (Ibidem, p. 275).
[4] Ibidem, p. 279.
[5] “Quello della ricerca e
sperimentazione è un fenomeno che solo in Italia ha trovato uno spessore e una
caratterizzazione tali da configurarne un vero e proprio settore teatrale. […]
In nessun altro paese europeo la ricerca ha saputo (o dovuto, per
l’impermeabilità del sistema) creare una sorta di specializzazione parallela,
che ha condizionato un’intera generazione, non solo in senso anagrafico, ma
anche culturale e di costume. […] Per un largo periodo questa vicenda ha quindi
proposto la coesistenza di due modelli, che nemmeno superficialmente si
assomigliavano, ma che anzi vedevano quello della ricerca antitetico a quello
che potremmo definire convenzionale. […] Entrambi oggi […] sono categorie
storiche invece che culturali, che non testimoniano più l’una in alternativa
all’altra, non più sistemi culturali contrapposti ed escludenti”. (Ibidem, p. 265).
[6] Ibidem, p. 271.
[7] “La ricerca non è morta né
in Italia né altrove. Probabilmente si deve ricominciare da capo. […] Un
contesto che aveva favorito la nascita e la proliferazione delle esperienze
teatrali, di ricerca, dell’attività culturale in generale è definitivamente
scomparso negli anni ’80. […] Scena, attori, pubblico: si deve iniziare di
nuovo, senza dare per scontato nessuno di questi termini, rifondandoli e
spostandoli, mettendo in moto ogni strategia per la conquista di un territorio
devastato”. (Ibidem, p. 264).
[8] “Se una forte spinta della
ricerca c’è stata, è mancata la possibilità di un radicamento, spazi, teatri,
luoghi dove agire, tramandare l’esperienza, creare un’abitudine, uno scambio
che facesse crescere il rapporto con un pubblico numeroso che per lungo tempo
ha seguito il lavoro e che tende ora a essere sempre più indifferenziato. Se il
pubblico ora è più indifferenziato e indifferente, meno curioso, è perché non
si identifica, non partecipa, semplicemente va a vedere, e spesso non sa cosa
vedere”. (Ibidem, p.
264).
[9] Ibidem, p. 273.
[10] “Credo che non si possa
parlare di morte del teatro di ricerca, ma piuttosto di confusione. Certo la
crisi che ha investito il teatro ufficiale non ha risparmiato la ricerca, la
quale, anzi, è diventata capro espiatorio di una situazione generale
gravissima. [...] Molte compagnie della ricerca, costrette da un lato, sedotte
dall'altro, hanno attuato svolte estetiche repentine, distruggendo quella
grande energia degli anni Ottanta basata principalmente su un teatro di
immagini, di ritmo, di fisicità dell'attore-performer, in favore di quegli
elementi meglio definibili come tradizionali (la parola, quindi il testo,
spesso d'autore riconosciuto anche se rivisitato, il lavoro sull'attore con
tecniche molto vicine all'accademia)”. (Ibidem, p. 270).
[11] Ibidem, p. 270.
[12] Questo argomento – come
vedremo – occuperà un’intera sezione del Patalogo
17, che indaga i rapporti, a volte difficili, tra teatro e istituzioni.
[13] “Il teatro di questa fine
millennio […] ha estremo bisogno di regolamentazione, di punti di riferimento
collettivi, di riconoscimento da parte della società organizzata […]. Uno stato
moderno dovrebbe consentire al teatro di radicarsi omogeneamente su tutto il
territorio per iniziative delle istituzioni pubbliche decentrate; di organizzare
le sue scuole di formazione; di costruirsi – o di ricostruire – i luoghi si
spettacolo e di lavoro… Per fare ciò occorrono […] risorse”. (Ibidem, p. 265).
[14] “Il cosiddetto teatro di
ricerca non c’è più. […] La ricerca è esistita, eccome. Anzi […] potrei accusare
gli addetti ai lavori dell’informazione teatrale di non essere stati mai
abbastanza lungimiranti nel definire il campo della ricerca e di aver definito
come tale solo quella più esplicita e relativa soprattutto agli elementi dello
spettacolo […] e di aver ignorato […] gli elementi della ricerca strutturale
più profonda, basata sulle forme della relazione totale col pubblico. […] Oggi
è ancora possibile la ricerca. Ma occorrono grandi strutture per poterla
sviluppare. […] Per fare la ricerca bisogna rischiare. E non mi si venga a fare
della retorica sulla parola “rischio”. Sto parlando di finanze”. (Ibidem, pp. 266 – 267).
[15] Ibidem, p. 269.
[16] Ibidem, p. 276.
[17] “Per me la parola
"ricerca" indica, meglio di qualunque altra, la qualità del mio
lavoro teatrale. Ricercare, per me, significa fare teatro. La scrittura è
essenzialmente l'atto di ricerca di una necessità della scrittura. Per
scrittura intendo soprattutto scrittura scenica, la pratica di tradurre
concretamente una tensione poetica in evento comunicabile, in fatto teatrale.”
(Ibidem, p. 277).
[18] Anche il campo della nuova
scrittura teatrale avrà particolare risalto nei successivi numeri del Patalogo. In particolare ad essa è
dedicata un’ampia sezione nel Patalogo
17, dal titolo “L’Italia delle drammaturgie”.
[19] Si veda la recensione di
Irving Wardle per il “Times”: “Se anche il Festival Internazionale di Teatro di
Londra non avesse presentato nient'altro, si sarebbe comunque guadagnato la sua
rinomanza grazie al mirabile spettacolo del Téâtre Repère di Québec. La Trilogia dei Dragoni, la cui azione
occupa settant'anni e si svolge in sette epoche diverse, recitata in inglese,
francese e cinese è, infatti, un festival in se stessa: un'esplorazione del
tempo e dello spazio canadese che demolisce trionfalmente l'idea di una
dipendenza culturale dall'Europa o dagli Stati Uniti.” (Cfr. il Patalogo 15, p. 252). L’assimilazione
di materiali eterogenei, e la complessa articolazione è sottolineata da Franco
Quadri: “La struttura è quella del romanzo fiume, la saga familiare, depurata
dalla cornice spettacolare dei film del genere, che attraversa tre generazioni.
[...] La preoccupazione di documentare, caratteristica di Lepage quanto quella
di trasfigurare, suggerisce di incamerare tutto ciò che può essere assimilabile:
ed ecco fare capitolino un personaggio nato a Hiroshima, o Mao che fa la
ginnastica mentre una suora missionaria tesse l'elogio della bicicletta.” (Cfr.
il Patalogo 15,, p. 254).
[20]Cfr. il Patalogo 15, p. 254.
[21] “Ancora una volta [Lepage]
insegue il vecchio sogno di un teatro totale: citazioni di film e di dischi
impreziosiscono il racconto. Gioca anche con gli oggetti proiettati da dietro
sullo schermo, ricorre alla fotografia, alla pittura, al disegno eseguito in
diretta. [...] La messinscena si apparenta al montaggio cinematografico con i
suoi continui passaggi da un luogo all'altro e in particolare con i suoi
flashback.” (Cfr. il Patalogo 15, p.
255).
[22] “Luglio 1989, un quebecois
fa una cura di disintossicazione amorosa in un hotel di Parigi, già noto per la
sua clientela esistenzialista. Due artisti che egli idolatra, lo scrittore e
cineasta Jean Cocteau e il jazzista Miles Davis, l'aiutano ad anestetizzare il
suo male. In sogno evoca un paio di settimane del '49, in cui il primo
soggiorna a New York e il secondo conquista con la sua tromba Parigi e Juliette
Greco. [...] Tutto ciò abbraccia un grande arco di tempo e di spazio. Un piede
in Europa, l'altro in America, Lepage soppesa le sue affinità culturali.” (Cfr.
il Patalogo 15,, p. 255).
[23] Cfr. Si veda la recensione
di Franco Quadri: “Il testo è costruito su un moltiplicarsi infinito di giochi
di parole mono o bisillabiche, dove cambiando magari una sola consonante si
fanno saltellare gli stessi suoni da un verso all'altro, come i ritornelli di
un incantato scioglilingua. [...] Al labirinto della pagina Wilson risponde
declinando i corpi secondo il ferreo alfabeto gestuale dei suoi esemplari
spettacoli astratti, consumati in un gioco di linee, tra luce e controluce.”
(Cfr. il Patalogo 15, p. 256).
[24] Si riporta la citazione di
Gianfranco Capitta sull’argomento: “L'apparente insensata vaghezza della
scrittura di Gertrude Stein e l'invenzione continua e rigorosa di Wilson
contagiano i giovani attori, spesso irresistibili, con il loro inglese che la
recente acquisizione rende comprensibile anche a chi si limiti a possedere un
vago basic.” (Cfr. il Patalogo 15, p.
257). Anche Renato Palazzi compie un’analisi delle corrispondenze tra
costruzione del testo e impianto spettacolare, rimarcando la felicità dell’esito
finale, dovuta anche all’interpretazione degli attori: “A Bob Wilson il
tracciato narrativo ideato da Stein non pare interessare più di tanto: il
libretto [...] è infatti soprattutto una traccia eminentemente poetica, di cui
balzano in primo piano - più che i passaggi della costruzione drammaturgica -
le specifiche qualità della scrittura, una scrittura tutta
"avanguardistica" e alquanto labirintica, fatta di assonanze,
ripetizioni, cortocircuiti sonori, giochi di parole, ritmi punteggiati da
improvvise rotture che non rimandano ad altro che a se stesse, una ricerca
intrinsecamente musicale. [...] E' infatti davvero molto affascinante [...] la
chiave interpretativa a cui approdano attraverso una sorta di azzeramento
semantico o di congelamento del significato specifico delle singole battute,
incapsulate in una scansione atona, senza coloriture, distaccata e quasi
rigorosamente impersonale, caricata di una specie di ironico
"straniamento" naturale.” (Cfr. il
Patalogo 15, p. 257).
[25]Ibidem,
p. 258.
[26] Franco Quadri sottolinea
quest'aspetto di coralità drammatica: “ Clamorosamente Stein mette a nudo le
arti furenti e gli effetti micidiali della manipolazione sulle masse e con
grande intelligenza li esemplifica direttamente con l'uso di effetti captatori
nei riguardi del pubblico. Come monito finale il proletariato sarà suddiviso
nei due eserciti fratricidi a duellare con identiche uniformi.”(Cfr. il Patalogo 15, p. 260).
[27] L'istintualità ingenua che
porta il popolo ad essere ingannato e circuito è al centro della riflessione di
Maria Grazia Gregori: “I popolani irrompono dalle aperture laterali e dall'alto
delle logge, pronti a gridare il loro entusiasmo, in un turbinio istintuale che
li rende simili a tifosi che applaudono all'entrata nello stadio dei loro eroi,
atleti di uno sport che ha come ricompensa il potere”. (Cfr. il Patalogo 15, p. 261).
[28] Gianfranco Capitta mette in
risalto questo aspetto del Giulio Cesare
come dramma della contemporaneità: “Stein dispiega la tragedia di Shakespeare
lasciando trasparire in filigrana l'odierna tragedia del potere in una società
governata per bande, i rapporti di forza e quelli di classe, la partecipazione
e il peso del singolo nella politica, insomma il problema fondamentale della
democrazia. [...] Le parole del poeta inglese prendono corpo e vita in
personaggi che solo ammantano di panni curiali contemporanei abiti borghesi,
mentre le masse [...] hanno abiti grigi e blu di foggia operaia, e fasce rosse
sulla fronte e berretti da fabbrica in cui a seconda dei momenti si possono
individuare Tien Am Men come la Danzica dei cantieri Lenin”. (Cfr. il Patalogo 15, p. 260).
[29] Cfr. il Patalogo 15, p. 261.
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