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PIPPO DELBONO 1997 (INTERVISTA)
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Frammenti da una conversazione con Pippo Delbono
a cura di Oliviero Ponte di Pino

Pubblicato originariamente sul catalogo della Biennale Teatro 1999, in occasione del debutto dello spettacolo Her Bijit alle Corderie dell’Arsenale, 26 agosto 1999.
 

Quello di Pippo Delbono è un teatro fatto di viaggi, di incontri, di emozioni. Ama le diversità, i margini, e ama metterli al centro della scena in quello che hanno di più vulnerabile e di più vero. Il presupposto implicito è che lì, in quella fragilità e in quell’emozione, si trovi anche la verità di tutti noi.

È un teatro che non ha risposte, ma si costruisce su una serie di domande. Ci trovi dentro, insieme, il Buddha e Che Guevara: perché si porta dentro le proprie contraddizioni e le usa per crescere, per costruire un suo percorso, per ampliare il proprio orizzonte.

All’origine di questi spettacoli c’è una sete di realtà – la realtà delle persone. Ci sono la passione e la morte, il dolore, l’ingiustizia ma anche una felicità piena – la pienezza di esistere. Poi ci sono le frasi che Pippo legge qua e là e trascrive. Ci sono le canzonette che ronzano nella testa a lui e a Pepe. Ci sono i gesti che nascono nelle improvvisazioni e che finiscono anche quelli nei quaderni di Pippo. C’è sempre la consapevolezza che ogni gesto, ogni frase può diventare banale e retorica – e però esistono anche gesti e frasi che continuano a portarsi dentro un’ambiguità e una bellezza che il corpo dell’attore, sulla scena, può ritrovare. Così la bellezza risuona, a volte, dentro e oltre ogni retorica.

Dal nucleo originario, il duo costituito da Pepe e Pippo per il loro primo spettacolo, Il tempo degli assassini, la compagnia si è via via allargata. Ora con loro lavorano, vivono e viaggiano una dozzina di persone – alcune molto particolari. A partire da Barboni in scena ci sono Bobò, il microcefalo sordomuto che per decenni è rimasto chiuso nel manicomio di Aversa; Mister Puma, rock star ipercinetica e incontrollabile; Armando, che non può usare le gambe. Per Guerra alla tribù si sono aggiunti Nelson, un barbone magrissimo che dormiva sui marciapiedi di Napoli; e Gianluca, il ragazzo down. Anche gli altri attori, quelli che definiresti "normali" (Lucia, Fausto, Gustavo, il clown Simone, Elena, Marina, Mario, Tomaso, il musicista Pietrino), alla fine viene da sospettare che non siano poi così normali. Forse perché ciascuno di loro porta con sé la diversità che caratterizza ogni attore, o forse la differenza irriducibile di ogni essere umano.

Con queste domande e contraddizioni, con queste frasi e canzoni, con queste persone, Pippo costruisce i suoi spettacoli. Provoca, osserva, aspetta, crea il vuoto, lascia che accada qualcosa, sceglie, si fida dell’ispirazione e dell’intuito, diffida di se stesso, monta i vari pezzi e numeri, ci ripensa, smonta tutto e ricomincia. Alla fine, quando arriva il momento di andare in scena, entra nel gioco anche lui, con i suoi gesti di sciamano e la sua autoironia.

In fondo, sembra dirci Pippo, non siamo così importanti. Nessuno di noi lo è, nulla lo è davvero, meno che meno quell’attività frivola e volatile che si chiama teatro. Eppure in ciascuno di noi, e anche in quello strano rito collettivo, nella stralunata cerimonia che lui e i suoi compagni d’avventura officiano con fede e coraggio, c’è qualcosa che va al di là di noi. Perché in ogni frammento di dolore e di gioia, sembrano aggiungere Pippo e la sua tribù, si nasconde un mistero. Lì a volte può nascere persino la bellezza.

È un percorso strano, quello che porta verso la bellezza: segue una regola ma è ispirato dal caso, cerca un centro ma esplora i margini, si impone un metodo ma fiorisce nel caos, procede per accumulo ma nasce dal vuoto. Quelli che seguono sono alcuni appunti di una conversazione tra me e Pippo Delbono, su alcuni dei pensieri che l’hanno accompagnato nel viaggio verso Venezia.

È così che Pippo racconta alcuni nodi ed episodi del suo recente lavoro.

(o.p.d.p.)
 

Ho incontrato diverse persone, in varie situazioni. La mia idea era di trovare qualcuno che avesse voglia di fare questa esperienza, non volevo gente che veniva giusto perché c’erano un po’ di soldi. Molti se ne sono andati via subito, il primo giorno.

Nella cosa che faremo a Venezia parteciperanno diversi extracomunitari, dodici-tredici, oltre alla mia compagnia e ad alcuni allievi che hanno seguito il lavoro. Non abbiamo più tempo per fare seminari, e quindi chiediamo ai nostri allievi una apertura totale: possono dare una mano, e magari alla fine anche fare un lavoro da attori.

Questi extracomunitari hanno anche altri lavori, ma comunque hanno dimostrato un interesse, la voglia di partecipare a questa esperienza. Li ho incontrati dopo una serie di contatti con organizzazioni che si occupano di extracomunitari, è girata la voce e sono arrivati. Ho fatto incontri anche in altri luoghi: in Liguria di recente li ho incontrati in un dormitorio; a Gibellina abbiamo visto dei tunisini, in due onde. I primi li abbiamo incontrati fermandoli per la strada, anche se non era il metodo giusto.

Ho fatto tanti tentativi, abbiamo sbagliato anche molti colpi. Non è che arrivi in un posto e si presentano trenta extracomunitari entusiasti del lavoro di Pippo Delbono. Del resto non è che quando vai a teatro tra il pubblico vedi tanti extracomunitari... La realtà è che da parte loro non c’è nessun interesse ad andare a vedere il teatro o quello che succede nell’arte italiana. La loro dimensione è essenzialmente quella di fare dei soldi, tirar su più soldi possibile. Che poi li facciano vendendo collanine o facendo teatro, a loro va bene.

Noi abbiamo già avuto extracomunitari nella compagnia. Pepe è stato senza permesso di soggiorno per vari anni, eravamo illegali già alla base. Era un casino ottenere quei permessi, ogni volta era come entrare in un lager. Questo incontro con gli extracomunitari è probabilmente nell’interesse di un teatro che si allarghi alla gente, alla diversità, a quello che è il mondo.

Adesso da noi sta vivendo un ragazzo senegalese che ha interesse per il teatro. Ha fatto l’attore, ha preso dei treni e delle macchine per venire a vedere i nostri spettacoli mi ha detto che gli piace moltissimo il nostro lavoro, che gli ricorda l’Africa. Io non faccio provini, gli ho solo detto che se alla fine entrerà nello spettacolo prenderà dei soldi, altrimenti seguirà solo questa esperienza, e lui mi ha detto che gli va benissimo. A questo punto non mi interessa più se sarà un bravo attore o no, lo diventerà, però mi sembra una persona che ha voglia di essere in questa esperienza per una sua necessità. Alla fine, se resta solo lui – al di là di quello che sarà lo spettacolo di Venezia – mi va già bene: la mia compagnia può allargarsi, ma non possiamo certo inglobare venti extracomunitari.

Quando lavoriamo a uno spettacolo, per un po’ sto a osservare. Guardo, scrivo. Non voglio subito tirar somme. Nella mia compagnia ci sono dei segni forti, delle persone forti.

Il viaggio è sempre una dimensione forte. Di recente ho fatto un viaggio importante, in Israele. Gerusalemme l’ho sentita così vicina, mi sembrava uno spettacolo continuo, un continuo passaggio di contraddizioni. In quegli ebrei c’è un’intelligenza mischiata a un dolore molto intenso. È un punto di partenza. Tra le tante immagini che ho preso in quel viaggio, mi ha colpito molto il viso di una donna che ho visto al Museo dell’Olocausto. Era il volto di una kapò, una donna bellissima,con occhi stupendi, un viso fiero. È stata presa quando sono arrivati gli americani: c’erano tutte queste donne, queste kapò, quindi naziste, e sono state prese. In quel volto c’era tutto insieme: il terrore, come si è potuti arrivare a una cosa del genere, il senso di colpa, l’orgoglio... Quell’immagine mi ha colpito più delle foto di atrocità a "Her Bijit" è un saluto curdo, me lo ha spiegato un signore quando sono andato a fare alcuni incontri con i curdi a Badolato. Vuoi dire "che tu possa vivere per sempre"; Quando i curdi andavano a vivere lontano dalla loro terra, molto spesso non tornavano più, perché venivano presi o perché non potevano più tornare. Mi sembra un saluto molto aperto, "Her Bijit".

Lo spettacolo sarà un viaggio itinerante, dislocato in vari spazi, con un numero di spettatori abbastanza limitato. Abbiamo preso in considerazione vari luoghi, ma l’unico possibile era proprio l’Arsenale, dove però c’è anche la mostra della Biennale. Avevamo due alternative: coprire tutte le opere d’arte, e sarebbe stato un peccato; oppure farle entrare nello spettacolo. In mostra ci sono alcune opere che ho sentito abbastanza vicine: c’è un mondo di profughi, c’è un immaginario povero... Alcune cose invece le escludiamo, perché non c’entrano. Il pubblico dovrebbe vivere lo spettacolo come un rituale, essere dentro un’esperienza – non può improvvisamente vedere cose che non c’entrano.

Uso testi che possono parlare di certe cose ma lasciando aperte delle strade. Il Che diceva: "Senti come un’offesa a te ogni offesa fatta a un essere umano in qualunque parte del mondo"; Mi sembra un punto di vista importante per capire perché tanta gente ha dato la vita. Poi c’è un’altra frase del Buddha, che dice in sostanza: "Noi non chiediamo pietà, chiediamo di conquistare la nostra libertà". È un processo spirituale, che però sembra riferito anche a tutto quello che succede oggi.

C’è una parte di me che quando vede certe realtà, userebbe la violenza. E però c’è un’altra parte che invece si rende conto che alla base di questo c’è l’ignoranza – un non sapere. Perché comunque l’uomo è un Buddha: anche se in tante persone fai fatica a riconoscerlo, c’è. Dentro di sé l’uomo esiste tutto. Anche in guerra, c’è la luce e c’è anche il terrore. E io mi sento attratto da questo. C’è anche nella foto di quella donna: è terribile, è crudele, ma è anche dolce. È un po’ quello che diceva Primo Levi, ne I sommersi e i salvati: dentro i campi di concentramento ci sono anche delle altre cose, delle altre parole. C’è un diario meno famoso di quello di Anna Frank, quello di Etty Hillesum. Nonostante tutto, diceva, nonostante il filo spinato, aveva riscoperto il valore di vedere il cielo, la bellezza del cielo, il blu tra le grate. All’interno di quel campo Etty Hillesum aveva vissuto un’esperienza di crescita. Questo non vuoi certo dire essere delle vittime, chiedere: "Allora fateci del male". Non si tratta di porgere l’altra guancia.

All’inizio affrontando uno spettacolo come questo siamo sempre piuttosto retorici, buoni. Poi succede un po’ come è successo negli incontri con gli extracomunitari, con dei tipi che chiamavamo "i selvaggi" e che avevamo incontrato per strada. Il loro capo mi aveva fatto delle mosse tra il body building e la breakdance, muovendo tutte le costole. lo come al solito avevo scritto tutto e non avevo detto niente. Il giorno dopo mi arriva con altri due ancora più grossi di lui, dicendo che questi le costole le muovevano ancora meglio, bastava che fossero remunerati. Gli ho risposto che non me ne fregava niente delle loro costole, che non siamo un circo e che comunque a teatro preferisco la gente fragile, la gente che fa piangere. E quello mi ha risposto che loro per soldi piangono benissimo. A quel punto era una situazione da rissa. Li ho cacciati via, mi sono detto: "Ma guarda che teste!". Però questo è vitale, l’esperienza non è solo di un tipo. È successo anche l’altro giorno a Spotorno, con un altro gruppo di extracomunitari. C’eravamo io, Pepe e Gustavo, ci siamo seduti e gli ho fatto una domanda semplicissima: gli ho chiesto di un’ingiustizia che avevano subito. Uno di loro, un marocchino, ha riferito questo episodio. Dopo la morte del re del Marocco, è salito al trono suo figlio, che a 36 anni non era ancora sposato. Per spiegarmi quello che secondo lui era un atto d’ingiustizia e di violenza che ha subito, mi ha detto che una signora del posto, ligure, aveva commentato: "Sarà stato un orecchione". Lui ha sentito questa frase come un’offesa terribile. Lì c’eravamo noi tre, che non siamo certo il prototipo del macho, e l’atteggiamento di quel ragazzo mi è sembrato orribile, e così è nata una discussione. È venuta fuori la loro intolleranza rispetto alle scelte personali, e rispetto alla donna: rivendicavano totalmente il fatto che una donna è sotto il marito. Il discorso aveva tutta una sua logica, una sua coerenza, perché erano ragazzi intelligenti. La donna, dicevano, deve sempre dire sì quando l’uomo vuol fare l’amore, l’uomo no, assolutamente, perché il suo ruolo è quello. A sua volta il figlio è sotto la mamma, che a sua volta è sotto il marito, che a sua volta è succube di sua mamma. Così alla fine la padrona è la donna.

Questo per dire che ci sono tante cose, che c’è razzismo dentro al razzismo. Loro si lamentano che qui la gente li tratta da extracomunitari, però loro hanno una forma di razzismo verso altre cose, altre dimensioni. Da loro i pederasti vengono uccisi e gli vengono tagliate le mani, e giustificano in una maniera molto lucida la decisione di uccidere. Così a un certo punto io mi perdo, e mi vien voglia di andare in qualcosa di più sacro, che mi racconti la storia del mondo e dell’uomo. Dagli inizi. Perché non mi basta una dimensione politica, sociale. Anche una figura come il Che... Per esempio Benigno, uno che era con il Che e poi si è distaccato, racconta delle cose atroci: se veniva scoperto uno che aveva preso del pane dallo zaino del compagno, veniva ucciso. Dal Che. È terribile. Nell’orizzonte di sentire come propria ogni offesa fatta a qualunque essere umano in qualunque parte del mondo, è una grossa contraddizione.

In Inghilterra c’è un gruppo che ha avuto molto successo quest’anno al Festival di Edimburgo. Lavorano con gli handicappati, gente senza braccia o senza gambe e hanno fatto uno spettacolo molto comico. La gente rideva moltissimo, continuamente. A me, senza aver visto lo spettacolo, è sembrato terribile. Mi sembra già terribile il comico, anche quando gli attori stanno bene... Picasso non ti fa ridere, puoi "anche" ridere. Un brano musicale non ti fa ridere, l’arte in generale non fa ridere, fa "anche" ridere. Il teatro invece spesso deve far ridere, ma questo secondo me è terribile. Ridere non è una manifestazione di felicità: ridi per isteria, ridi perché sei pieno di brufoli, ridi perché una cosa ti terrorizza. Ridere e gioia sono due cose che non vanno mica insieme.

Penso che l’arte sia questione di non mettere una sola cosa. L’arte è fatta di contraddizioni, di contrasti. Non c’è una sola cosa, altrimenti non si farebbe gli artisti. Si farebbe i politici, per esempio.

(agosto 1999)

copyright Oliviero Ponte di Pino 1999, 2000


 
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